L’abominevole donna ricoperta di peli

Abominevole donna

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L’automobile, una Ford Kuga grigia 4×4 vecchio modello, si fermò all’ingresso della piazza di Vicobarone, proprio sotto l’insegna dell’agriturismo Piacenza.

“Da qui possiamo vedere bene l’ingresso del bar” disse Giada, una giovane bionda bella e malvagia, stappando una bottiglia di gutturnio frizzante di media qualità.

“Sei sicura che sia una buona idea?” le chiese Samantha, la sua compagna, una pantera senegalese color cioccolato e con due gambe da urlo.

“Certamente, nessuno rapina mai questi pidocchiosi bar sperduti sulle colline piacentine. Ma è sabato sera e i vecchi pensionati che lo frequentano non hanno fatto altro che bere per tutto il giorno. Ora le casse sono piene e aspettano solo di essere svuotate nelle nostre borse”

“E se il proprietario cercasse di reagire? I villici di campagna sono spesso armati sino ai denti. A mio fratello che ruba gasolio dalle cisterne dei contadini gli hanno già sparato addosso un paio di volte.”

“Il sabato sera è di turno una ragazza inerme. L’unico grilletto che abbia mai toccato lo tiene in mezzo alle gambe” concluse Giada con una risata perversa e buttando giù una gollata di gutturnio direttamente dalla bottiglia.

Le due giovani rapinatrici si infilarono allora delle calze di nailon sulla testa, scesero dall’auto, presero i fucili adagiati sui sedili posteriori e fecero irruzione nel bar.

“Tutti fermi, luridissimi vermi! Questa è una rapina!” urlò Giada per prima, sparando una fucilata contro le vetrate del bancone, per far capire che non stava scherzando.

“Tirate fuori i soldi brutti figli di puttana!” aggiunse Samantha colpendo in piena faccia con il calcio del fucile uno dei vecchi ubriaconi seduti vicino all’ingresso, facendolo crollare a terra svenuto con le labbra spaccate, due denti rotti e la bocca sanguinante.

Il bar fu avvolto da un silenzio surreale, anche la barista di turno, che avrebbe voluto urlare, era paralizzata dalla paura e incapace quasi di respirare.

“Coraggio bastardi, mettete tutti i soldi dentro al sacco nero della spazzatura e nessuno si farà male” ordinò Giada, mentre Samantha passava davanti agli avventori terrorizzati con il sacco nero spalancato.

Gli ubriaconi e gli altri clienti occasionali di quel caldo sabato di mezza estate obbedirono senza fare storie, erano troppo spaventati oppure troppo sbronzi per tentare una qualsiasi reazione.

In pochi minuti le giovani bandite avevano svuotato le tasche dei clienti e la cassa del bar.

“Ora ci serve un ostaggio!” gridò Giada, poi si girò verso la porta e indicò un uomo grasso, seduto vicino al vecchio svenuto: “Tu, ciccione di merda, alzati in piedi e vieni con noi!”

Il ciccione si chiamava Cosimo Truffaldino, era un agente di commercio in disgrazia e aveva una cinquantina di primavere mal vissute e mal portate sulle spalle. Da qualche anno viveva di espedienti e piccole truffe.

“Muovi il culo grassone” lo aggredì Samantha colpendolo con la canna del fucile sulla testa per farlo alzare.

Cosimo Truffaldino, in stato di ebrezza avanzata, cercò faticosamente di alzarsi.

“Se qualcuno di voi stronzi, si azzarda a chiamare i carabinieri prima che siano passati sessanta minuti, vi giuro che ammazzo il ciccione!” spiegò Giada urlando come una pazza.

“E ricordate che noi facciamo sul serio” aggiunse Samantha sparando una fucilata sullo schermo di una slot machine, che esplose fragorosamente schizzando fuori fiamme e scintille.

Poi le due donne si allontanarono trascinandosi dietro un sacco pieno di soldi ed un ciccione barcollante. Arrivate alla Kuga costrinsero Cosimo a inginocchiarsi, lo imbavagliarono con del nastro adesivo legandogli anche le mani dietro la schiena. Lo obbligarono ad entrare nel portabagagli e a quel punto gli legarono anche le caviglie. Dopo essere salite a bordo anche loro, si tolsero le calze di nailon dalla testa e partirono sgommando verso Castel San Giovanni.

La macchina sfrecciava silenziosa a fari spenti lungo la strada illuminata dalle stelle, lasciandosi alle spalle rigogliosi vigneti ordinati in geometrici filari e regolari campi di girasole.

Arrivati all’altezza di Ganaghello, Giada condusse la Kuga lungo una strada sterrata sino ad un vecchio casale in mezzo alla campagna, dove si fermarono, facendo sparire la macchina dentro un fienile e nascondendola agli occhi del modo.

“Prendiamo l’Alfa Romeo e tagliamo la corda” suggerì Samantha.

“E del ciccione cosa ne facciamo?” chiese Giada, mentre qualcosa di sinistro sembrò balenarle tra gli occhi color castagno.

“Lo carichiamo sull’Alfa, e quando arriviamo sulle colline di Bologna lo seppelliamo vivo da qualche parte” suggerì la pantera nera, “non lo troveranno mai” concluse con una specie di ghigno crudele.

“Vuoi aspettare di arrivare a Bologna per divertiti un po’ con lui?” chiese Giada maliziosa.

“Vuoi scherzare? Prima prendiamo l’autostrada e ci allontaniamo da qui meglio è. Tra meno di mezzora ci saranno posti di blocco ovunque.”

“Appunto gattina mia, tra poco le strade saranno bollenti. Noi invece ci nascondiamo qui per un paio di settimane, e quando le acque si saranno calmate andiamo a goderci la refurtiva.”

“Ma ci verranno a cercare” obiettò Samantha.

“Qui non ci troveranno, non possono mica perquisire tutte le case della valle. Faranno dei posti di blocco, qualche giro in elicottero e cazzate del genere, tra un paio di settimane nessuno parlerà più di questa rapina e del ciccione rapito, di cui scommetto non interessa un cazzo a nessuno. Cominciamo a interrogarlo piuttosto, per assicurarci che sia solo un ubriacone di merda.”

Le due donne scaraventarono Cosimo Truffaldino giù dalla macchina, e tirandolo per i capelli ingrigiti lo trascinarono in cantina facendolo sobbalzare lungo i vecchi gradini in mattoni che portavano nel sottosuolo. Cosimo gemette per il dolore ogni volta che qualche osso sbatteva sui rigidi laterizi e per la sofferenza lancinante al cuoio capelluto che lentamente si lacerava sotto al suo peso, mentre le crudeli malandrine lo strattonavano senza pietà giù per le scale.

Quando furono arrivate nello scantinato maleodorante di muffa, aceto e vino andato a male lo assicurarono ad una vecchia sedia di legno legandolo per bene con delle vecchie corde nautiche abbandonate.

“Allora merdone, cerca di essere collaborativo se non vuoi che ti ammazziamo subito” disse Giada schiaffeggiandogli la faccia grassoccia.

“Rispondi alle mie domande con un gesto della testa, solamente sì oppure no, tutto chiaro?”

Cosimo annui con il capo.

“Molto bene merdone, vedo che non sei del tutto stronzo. Allora dimmi, sei sposato?”

Cosimo scosse il capo in segno di diniego.

“Hai una compagna?”

Cosimo scosse nuovamente il capo

“Figli?”

Cosimo fece nuovamente cenno di no.

Un agghiacciante e torbido sguardo di trionfo si materializzò sul volto grazioso e letale di Giada.

“Cosa ti avevo detto? Il cicciobomba qui non se lo fila nessuno, forse anche al bar che abbiamo svaligiato nemmeno lo conoscono”

“Non resta che appurarlo” convenne Samantha

“Palla di merda, sei un avventore abituale del bar dove ti abbiamo rapito?”

Cosimo questa volta annuì, ma stava mentendo, era entrato la prima volta in quel bar il giorno stesso e solo perché la sua automobile, finita la benzina, lo aveva lasciato a piedi.

“Questo complica le cose” commentò Samantha vagamente preoccupata.

“Per nulla” la tranquillizzò subito la compagna bionda, “scommetto che è solo un sociopatico ubriacone di cui nessuno sentirà la mancanza”.

“Ce lo facciamo come gli altri?” chiese allora la panterona nera, mentre le si dilatavano le pupille per l’eccitazione.

“Ottima idea” chiosò Giada, appoggiando il piede destro sul petto di Cosimo Truffaldino. Poi spinse facendo leva con la gamba e rovesciando all’indietro la sedia su cui lui era legato, e facendolo cadere all’indietro.

Cosimo poteva vedere la mostruosità dei volti delle due ragazze, così belli e così terribili, contratti in agghiaccianti sorrisini perversi.

“Pensi che serva spogliarlo?” domandò Samantha picchiettando col tacco del suo scarpone militare sul ventre molle e sovrappeso di Cosimo.

“Non credo sia necessario” valutò Giada, intenta a sfilarsi gli stivali da cow-girl rivestiti in pelle di serpente.

Samantha invece tirò fuori un coltello a serramanico che teneva nascosto in una tasca dei Jeans neri attillati. Poi si inginocchiò vicino alla testa dell’uomo e con perizia degna di un chirurgo iniziò a tagliare e rimuovere il nastro adesivo che gli avvolgeva la bocca.

“Ti suggeriamo di non urlare” disse Giada ridacchiando, “se non vuoi ritrovarti la gola squartata con quel coltello”.

Cosimo annuì terrorizzato, non riusciva a capire quali malvage intenzioni avessero quelle due diaboliche e super sexy fuorilegge.

Samantha indossava una T-shirt maculata di colore verde militare che le metteva in risalto il seno generoso, Giada indossava pratici pantaloncini di jeans e una camicetta scollata sul davanti che lasciava poco spazio alla fantasia.

“Lasciatemi andare” osò protestare Cosimo, appena gli fu possibile parlare.

“Chiudi quella fogna!” lo redarguì Samantha, cominciando a picchiarlo sugli stinchi con il manico del coltello. I colpi non erano particolarmente forti, ma molto precisi e dolorosi.

Le ragazze ridevano divertite, nonostante la violenza dei colpi e la sofferenza inferta allo sventurato. Lui ne era agghiacciato ed iniziò a piangere in silenzio trattenendo i gemiti per paura di ulteriori conseguenze.

“Basta Ti prego smettila” implorò infine, quando il dolore era divenuto insopportabile.

“Ti abbiamo detto di stare zitto” disse Giada mettendogli il piede nudo e sudato sulla faccia, “leccami i piedi piuttosto, ciccione di merda”

Cosimo obbedì. Il piede di Giada, per quanto ben fatto e ben curato, puzzava in modo terribile dopo un’afosa giornata d’estate chiuso dentro lo stivale di serpente.

Ma Cosimo era un pervertito feticista dei piedi e si eccitò immediatamente, dandosi da fare con la lingua con impegno e dedizione.

Samantha notò la sua perversione e cominciò a ridere di gusto.

“Abbiamo trovato un altro schiavetto, è proprio un peccato doverlo eliminare” commentò Giada, spingendo le dita del piede smaltate di rosso dentro la bocca di Cosimo.

Samantha recuperò un’altra vecchia sedia, la dispose vicino al corpaccione obeso dell’ostaggio e vi sedette sopra, quindi si tolse le scarpe militari che indossava.

“Sei proprio uno schifoso grassone” valutò ad alta voce, ridendo ed umiliando il prigioniero.

Il piede di Giada era quasi per intero dentro la bocca di Cosimo, e le conseguenti difficoltà respiratorie lo stavano soffocando.

“Questo cicciobomba feticista mi fa veramente schifo” disse Samantha.

“E’ proprio uno stronzo” valutò Giada spingendo il piede ancora più in profondità nella gola dell’uomo.

Samantha allora si tolse i pantaloni mostrando a Cosimo le sue bellissime gambe. Giada gli sfilò il piede dalla bocca  e lasciò spazio alla sua amica, che tornata a sedere sulla sedia appoggiò i piedi neri sulla faccia dell’agente di commercio.

Il prigioniero iniziò a leccare anche la pianta dei piedi della panterona, ma si accorse con orrore che vi era qualcosa di strano, insolito e disgustoso.

I piedi della bandita di colore erano ricoperti di ispidi peli neri ripugnanti, sopra e sotto, e non da meno lo erano le caviglie e buona parte delle gambe.

“Cosa ti succede panzone, non ti piacciono i miei piedi?”

Cosimo osò muovere la testa in segno di diniego e, cosa ancor peggiore, smise di leccare.

“Brutto stronzo, continua a leccare” ordinò Samantha fulminandolo con uno sguardo torbido e omicida.

Cosimo tergiversò, mentre una nuova terribile percezione tattile gli riempì il cuore di sgomento: i peli della ragazza da sotto i piedi neri si stavano allungando circondandogli tutta la faccia, penetrando come anguille dentro la bocca e le narici.

Completamente sopraffatto dal panico Cosimo chiuse gli occhi dicendo a sé stesso che non poteva essere vero, probabilmente era solo una sensazione passeggera dovuta a quella situazione traumatizzante.

Quando riaprì gli occhi poté per qualche secondo osservare peli grossi come corde e lunghi come liane fuoriuscire dall’intero corpo della panterona avvolgendolo in un disgustoso bozzolo di peluria nauseante.

Un attimo dopo tutta la testa e buona parte del grasso addome dell’uomo erano ricoperti dai mostruosi peli della spregevole ragazza.

Cosimo cercò inutilmente di gridare ma i velli avevano già raggiunto i polmoni e lo stomaco, e le diaboliche risate fragorose delle due crudeli megere furono l’ultima cosa che riuscì ad udire, prima di morire soffocato dall’abominevole donna ricoperta di peli.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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La professoressa sadica

 

Giovanni Ligas arrivò a scuola particolarmente provato.

Il giorno prima ci aveva dato dentro in modo pesante con i suoi compagni di sbronza abituali: Mario Bonaldi e Germano il Capitano. Il Gutturnio era passato a fiumi dalle bottiglie alle loro fauci fameliche.

Alla prima ora avevano lezione d’inglese. La professoressa Mary Zambon entrò in classe vestita in modo diverso. Non indossava il solito kilt scozzese da vecchia babbiona noiosa. No, quel giorno aveva addosso una conturbante tuta nera aderente in latex e calzava stivali in pelle con tacco 12. Aveva anche cambiato pettinatura optando per un caschetto sexy alla Valentina di Guido Crepax. Il rossetto scarlatto e le pupille stranamente dilatate le conferivano un’aria vagamente perversa.

“Bonaldi, Ligas e Germano, subito in presidenza!” sibilò la professoressa di inglese con voce severa.

I tre giovani piombarono nel panico, avviandosi in preda all’agitazione verso gli uffici della preside.

“Mi viene da vomitare” piagnucolò Ligas.

“Cosa cazzo abbiamo combinato questa volta?” si lamentò Bonaldi intercalando con un paio di bestemmioni.

Il Capitano iniziò a pregare, dopo essere impallidito sino a diventare bianco come il latte appena munto.

Quando arrivarono davanti alla presidenza trovarono la porta aperta, ma l’ufficio era vuoto e della preside nemmeno l’ombra.

“Entrate!” gracchiò la Gina, una orribile bidella obesa dai modi scorbutici.

I tre obbedirono, continuando ad interrogarsi sottovoce sulle ragioni della misteriosa convocazione.

Dopo circa dieci minuti di penosa attesa, nella stanza entrò la professoressa Zambon sui nuovi stivali in pelle tacco 12, chiudendosi la porta alle spalle e serrando la serratura con due mandate. Poi prese la chiave e la nascose tra i seni, divenuti anch’essi insolitamente prosperosi e sodi e con due grossi capezzoli turgidi mal celati sotto il latex aderente.

“Spogliatevi” disse la professoressa andandosi a sedere sulla scrivania della preside, proprio davanti a loro.

“Cosa?”

“Come?”

“Dice sul serio?”

I giovani studenti erano basiti ed increduli: era la prima volta che sentivano la Zambon parlare in italiano.

“Siete sordi oltre che stupidi? Vi ho ordinato di togliervi i vestiti!”

Sempre più disorientati i tre obbedirono, sino a restare in mutande.

La prof si avvicinò per passarli in rassegna.

“Toglietevi le mutande mezze seghe!”

Bonaldi eseguì l’ordine già mezzo barzotto. Ligas non oppose resistenza, ma si vergognava e aveva freddo e gli veniva da vomitare sempre più forte. Il Capitano rimase immobile impietrito, diventando rosso come il sangue.

La Zambon non si scompose, si avvicinò al Capitano e lo colpì con un gancio sinistro in pieno stomaco.

“E’ meglio che te le togli da solo quelle luride mutande, fin tanto che sei in grado di farlo usando le tue mani.”

Sopraffatto dalla paura, dalla vergogna e dall’umiliazione, anche il Capitano eseguì gli ordini, ed ora i tre adolescenti erano nudi come vermi davanti alla loro sadica professoressa d’inglese.

“Siete tre patetici stronzi, ed avete anche il cazzo piccolo” sentenziò ridacchiando la Zambon.

Ligas iniziò a piangere in silenzio, il Capitano, umiliatissimo, iniziò a tremare colpito da un attacco di epilessia, Bonaldi scorreggiò rumorosamente in segno di protesta.

“Sei un porco, un pervertito!” lo redarguì immediatamente la Zambon, e per far capire che non stava scherzando aprì la sua vecchia borsa di cartone dalla quale tirò fuori uno sfollagente della polizia. Si avvicinò per bene al Bonaldi e lo colpì sul ginocchio destro con forza inaudita. Il poveraccio crollò a terra bestemmiando con la rotula fratturata.

Poi, mentre lui si dimenava sul pavimento tenendosi in mano il ginocchio gonfio e dal colore bluastro, iniziò a prenderlo a calci intimandogli di mettersi sdraiato supino.

Bonaldi cercò di opporre una timida resistenza, ma le punte rinforzate con placche in titanio degli stivali in pelle tacco 12 della Zambon lo convinsero velocemente ad assecondare i desideri della sadica professoressa.

Quando fu perfettamente sdraiato ed immobile, la Zambon cominciò a calpestarlo camminandogli sopra il petto, la pancia ed i genitali.

Bonaldi sulle prime cercò stoicamente di non urlare, ma poi, quando uno dei tacchi 12 gli infilzarono il pene come uno spiedino tirò un grido che squarciò l’aria e fece tremare le pareti: poi svenne.

“Questa pratica BDSM si chiama trampling” spiegò la Zambon con fare professorale, avvicinandosi minacciosa a Ligas e al Capitano.

“Ma quel pippaiolo del vostro compagno non ha saputo resistere nemmeno pochi secondi” disse afferrando il Capitano per le palle.

“Pensi di poter fare di meglio?”

Il Capitano annuì terrorizzato

“Allora inginocchiati immediatamente!”

Lui obbedì trattenendo il fiato per la paura.

La malvagia professoressa armeggiò nuovamente nella sua borsa e ne tirò fuori un gigantesco fallo in silicone e di color cioccolata.

“Fammi vedere come succhi i cazzi frocetto!”

Il volto del Capitano si rigò di lacrime, poi con le mani tremolanti afferrò il fallo di silicone e se lo mise in bocca simulando maldestramente un’atroce fellatio.

La Zambon lo guardò con disprezzo, poi si rivolse al Ligas: “porgimi le tue mani schifose” gli ordinò, mentre dalla borsa estraeva una bacchetta di legno di Rattan.

Ligas offrì i palmi delle mani.

La Zambon scosse il capo in segno di diniego: “I dorsi” disse contraendo le labbra in un ghigno crudele.

Ligas girò le mani lentamente e tremando, lei cominciò a bacchettarlo con durezza.

Lui iniziò a singhiozzare mentre le mani si gonfiavano ed i dorsi presero a sanguinare.

“Questa punizione corporale si chiama caning” lo informò la Zambon, colpendo sempre più energicamente.

“Basta, la prego… basta” implorò Ligas contorcendosi per il dolore.

La professoressa ignorò le sue suppliche, gli girò dietro le spalle, e dopo avergli rifilato una fucilata nel culo con la punta rinforzata in titanio dello stivale tacco 12 della gamba destra, iniziò a bacchettarlo sulla schiena.

Non contenta, la sadica professoressa d’inglese prese ad alternare le vergate a dei feroci schiaffoni sulla faccia.

Dopo alcuni minuti di indicibile sofferenze, le listate iniziarono a diminuire di numero, lasciando posto ai soli schiaffoni.

Ligas iniziò allora ad udire delle voci lontane che lo chiamavano, insieme a confuse risate di scherno.

Le voci si fecero sempre più forti e vicine, le risate divennero quasi fragorose, ed infine uno schiaffone più forte dei precedenti lo riportò sulla terra costringendolo a svegliarsi.

La professoressa Zambon era in piedi davanti a lui, con il suo consueto kilt scozzese da vecchia e noiosa babbiona e lo guardava sgomenta. Senza aggiungere una parola gli allungò il compito in classe corretto.

Era solo un incubo, pensò Ligas sollevato, assicurandosi che i dorsi delle mani fossero perfettamente sani. Poi afferrò il compito e lo guardò, ripiombando nella più cupa disperazione: aveva preso un altro 4.

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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La professoressa sadica

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La Padrona nazista

La padrona

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L’esploratore fascistissimo Rodolfo Navigato giaceva sul divano di casa completamente ubriaco. I suoi capelli color grigio acciaio brillavano sotto il sole di un caldo pomeriggio d’estate nell’anno del Signore 1946. Nella nuova Repubblica Italiana e democratica per Navigato non ci sarebbe stato spazio. I tempi in cui aveva conteso al leggendario Giuseppe Tucci le prime pagine dei giornali erano passati.

Ormai poteva vivere solo di ricordi e di rimpianti, esiliato nella sua dimora sperduta sulle colline piacentine, in quel di Pecorara.

“Brutti bastardi figli di puttana!” farfugliò cercando di sollevarsi per raggiungere il bagno e vomitare.

I suoi strali non erano rivolti alle potenze plutocratiche che avevano vinto la guerra, né ai sovietici che avevano occupato mezza Europa, e neppure ai partigiani comunisti che avevano stuprato e rapato zero la sua unica figlia facendola impazzire. No, a provocare l’ira di Rodolfo erano i ricordi di una donna, un ufficiale delle SS, la spietata Ilsa Von Forsher, il più grande amore della sua vita.

Dopo aver vomitato copiosamente, Navigato si trascinò a fatica sino alla vecchia dispensa dove trovò ancora un fiasco di vino rosso. Era l’ultima bottiglia e ci si attaccò a garganella. Prima che Navigato svenisse nuovamente stordito dalla sbornia, il ricordo di Ilsa gli passò davanti agli occhi come fosse stato al cinematografo. “Puttana!” biascicò mentre il suo corpo privo di sensi crollava sul pavimento.

Lui e Ilsa si erano conosciuti nel 1938 a bordo della nave tedesca Schwabenland, partita da Amburgo il 17 dicembre per una missione esplorativa in Antartide. Navigato era stato aggregato alla spedizione su richiesta del Duce e in qualità di esperto, avendo già partecipato nel 1926 alla trasvolata del Polo Nord a bordo del dirigibile Norge al comando di Umberto Nobile.

Ilsa invece faceva parte di un gruppo di scienziati delle SS ed era a capo di una missione segreta della Ahnenerbe, finalizzata ad individuare un passaggio di collegamento al centro della terra cava, come ipotizzato dall’americano John Cleves Symmes già nel 1881. La missione segreta di Ilsa e dei suoi uomini era sconosciuta al resto dell’equipaggio, compreso il comandante della nave, il capitano Alfred Ritscher.

La giovane Ilsa era di una bellezza giunonica, secondo i più rigidi canoni ariani: alta, robusta, bionda, con gli occhi azzurri ed un seno enorme. Aveva quattro lauree e parlava fluentemente cinque lingue, tra cui l’Italiano. Era anche di portamento altero ed oltre alla sua missione nascondeva un altro segreto, di natura molto più intima, e che gli avrebbe permesso di sedurre e soggiogare totalmente alla propria volontà il labile e lascivo Rodolfo. Anch’egli, infatti, nascondeva un terribile ed imbarazzante segreto che avrebbe preferito tenere nascosto, ma che la diabolica Ilsa riuscì a scoprire pochi giorni dopo che la Schwabenland aveva preso il largo.

Era una fredda notte stellata quando Ilsa e Rodolfo si incontrarono casualmente sul ponte della nave. Nonostante la temperatura rigida avevano entrambi sentito l’esigenza di prendere un po’ d’aria fresca. Ne nacque una piacevole conversazione sui prodigi della tecnica e sulle conquiste che le nuove scoperte avrebbero reso possibile nei successivi decenni. Rodolfo era rimasto immediatamente affascinato dalle incredibili conoscenze e competenze tecnico-scientifiche della donna, ma soprattutto si sentiva incredibilmente attratto da quel corpo statuario e dalle sue forme esuberanti, a stento nascoste e contenute dalla divisa d’ordinanza.

Lei si accorse subito delle attenzioni dell’esploratore italiano, e decise di invitarlo nella propria cabina per approfondirne la conoscenza.

“Mi piacciono gli stalloni italiani” disse la donna iniziando a spogliarsi.

“Adoro le donne del Reich” disse lui, calandosi i pantaloni.

Da sotto i mutandoni, si scorgeva il suo sesso barzotto e Ilsa lo provocò passandogli una mano tra i capelli: “cosa sai fare stallone italiano, per adorare una donna del Reich?”

Rodolfo Navigato arrossì, abbassò lo sguardo e fissando i piedi nudi della donna sussurrò: “sono un’insaziabile succhiatore di alluci”

Un ghigno crudele si dipinse sul volto della donna, senza aggiungere parola colpì Rodolfo con uno schiaffo furibondo, tanto che le sue gigantesche mammelle ondeggiarono come un mare in tempesta.

Il volto offeso di Rodolfo arrossì ancora di più, per la vergogna, per l’umiliazione e per l’eccitazione. Il suo arnese spuntava ora dai mutandoni, turgido e pronto per l’uso.

Ilsa colpì nuovamente l’esploratore italiano con forza ancora maggiore, ed il suo volto crudele era ora una maschera beffarda e sadica: “inginocchiati e adora i mie piedi, schiavo italiano!”

Rodolfo obbedì. Si piegò sulle ginocchia mettendosi a quattro zampe come un cane, e poi iniziò a baciare, leccare e succhiare i piedi di Ilsa. L’umiliazione dell’uomo cresceva con il passare dei minuti, così come la sua eccitazione, mentre la diabolica nazista abusava di lui con insulti irriferibili e frustandolo sulla schiena e sulle terga con la cinghia in pelle della sua divisa.

Ilsa continuò a seviziare Rodolfo in questo modo per quasi mezzora, poi quando capì che lui non avrebbe potuto resistere ancora per molto gli ordinò di alzarsi, lo legò ad una sedia e lo imbavagliò.

“Aspettami qui, stallone italiano” gli disse ridacchiando. Poi indossò una vestaglia di flanella ed uscì dalla cabina.

Rodolfo cercò di liberarsi, ma le corde usate dalla donna per legarlo erano troppo strette ed ogni suo sforzo fu vano.

Dopo cinque minuti la donna rientrò nella cabina accompagnata da un giovane ed orrendo marinaio tedesco. I due si spogliarono ed iniziarono ad accoppiarsi selvaggiamente.

Rodolfo fu costretto ad assistere la splendida Ilsa con il suo magnifico seno ed i suoi sensualissimi piedi, mentre l’atroce marinaio la possedeva in ogni posizione. Questa nuova e più crudele umiliazione subita da Rodolfo accese la passione della sadica Ilsa, che guardandolo negli occhi mortificati urlò dal piacere raggiungendo un intenso orgasmo.

Nelle notti successive e per tutta la durata della spedizione, Rodolfo fu spesso convocato nella cabina della donna e costretto a subire le medesime sevizie. Ogni volta la bella nazista si accoppiava con un marinaio differente e si inventava nuove umiliazioni da infliggere al suo schiavo italiano.

Quando la Schwabenland tornò in Germania, Rodolfo si era totalmente innamorato di Ilsa Von Forsher. Avrebbe desiderato seguirla ovunque e continuare a leccare i piedi della sua padrona sino alla fine dei suoi giorni. Ma quando scesero dalla nave lei lo salutò e con un sorriso sarcastico gli disse addio.

Non si videro mai più, ma per tutta la vita Rodolfo Navigato non smise mai di amare la sua padrona nazista.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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