Infermiera sadica

 

“Dio… sto crepando… sto morendo… dannazione sto morendo…”

“Cazzo dai, calmati ragazzo… non è poi così grave, puoi farcela…”

Il colpo alla farmacia di Pianello era andato male.

In fila alla cassa, con il volto coperto da una mascherina chirurgica per il covid19, avevano trovato un carabiniere in borghese.

Appena Cuore di Pietra aveva cominciato a minacciare la farmacista con una pistola, il militare aveva estratto una Beretta 92 sparandogli a bruciapelo.

Ne era seguita una colluttazione. Il carabiniere era stato tramortito ma ormai la rapina era andata in fumo. Gamba di Ferro si era allora caricato sulle spalle il suo compare ferito e insieme si erano dati alla fuga.

Cuore di Pietra adesso piangeva dilaniato dal dolore, tutto insanguinato, contorcendosi sui sedili posteriore della Alfa Romeo Giulietta che avevano rubato il giorno prima.

“Fa male, ma maledettamente male, e sto per morire…”

“Non fare lo stronzo, hai una brutta ferita del cazzo, ma non morirai”

Cuore di Pietra continuava a piangere disperato: “sono tutto pieno di sangue, me la sto facendo sotto dalla paura… ho freddo… sto per tirare le cuoia io lo so… maledizione, sono fottuto… porca troia…”

“Non sapevo ti fossi laureato in medicina, da quando sei un fottuto dottore del cazzo? Allora sei un dottore? Rispondimi brutto figlio di puttana: tu sei per caso un dottore?

“No!!, non sono un dottore… ma non serve una laurea per capire che sto crepando dissanguato come una scrofa sgozzata…”

“Smettila di fare illazioni, non hai idea di cosa stai parlando. Adesso calmati e ascoltami bene: ora andremo da Labbra di Cuoio, è un’amica e mi deve un paio di favori, vedrai che lei ti metterà a posto e te la caverai, fidati di me.”

“Oh Cristo, ma Labbra di Cuoio è una fottuta veterinaria, che cazzo vuoi che ne capisca di ferite d’arma da fuoco… o no… o no… sono morto, sono già morto…”

“Basta! Cosa pretendi che faccia, non posso mica portarti al pronto soccorso cazzo. Labbra di Cuoio ti toglierà la pallottola dalla pancia e ti rimetterà in sesto, sarà questione di minuti e tra qualche settimana ci ricorderemo di questa brutta avventura ridendoci sopra. Non morirai cazzo, andrà tutto benone, Labbra di Cuoio ti rimetterà in forma, devi credermi”

Cuore di Pietra non rispose, era svenuto.

Gamba di Ferro guidò veloce lungo la statale 412 della Val Tidone, poi tagliò per i campi sino ad arrivare a Bilegno e lì si fermò davanti alla villetta di Labbra di Cuoio. Scese dalla macchina, si caricò sulle spalle il ferito e lo portò in casa.

Labbra di Cuoio non la prese bene. Si stava gustando un calice di passito di Malvasia guardando una delle sue serie televisive preferite, e l’intrusione di quei due deficienti, di cui uno ferito e sanguinante non era nei suoi programmi per quella notte.

“Ti prego mi devi aiutare” implorò Gamba di Ferro, “ho bisogno che operi il mio amico qui, e dopo andremo via senza darti altre noie.

“Ti risulta che io sia un chirurgo brutto coglione?” disse Labbra di Cuoio incrociando le braccia profondamente infastidita.

“Beh, no, è chiaro, ma si tratta solo di togliere un proiettile dalle budella di un cristiano, sono sicuro che sei più che qualificata per questo”

“Se decidessi di aiutarti, e francamente non vedo proprio per quale motivo dovrei farlo, ma se per qualche imprevedibile ragione accettassi di aiutarti, cosa ci guadagno?”

“Beh, ecco…. Insomma… a soldi non siamo messi molto bene al momento… e quindi…”

“Ti sembro forse una che ha bisogno di soldi faccia di merda? Non lo vedi dove vivo? Non vedi come mi vesto? E i gioielli che porto?” disse lei, mostrandogli il grosso diamante che portava al dito.

Gamba di Ferro era in imbarazzo, non sapeva cosa dire.

“Prendi il tuo amico, spoglialo e sdraialo sul tavolo in cucina” ordinò lei.

Gamba di Ferro eseguì.

Labbra di Cuoio si avvicinò al bandito svenuto sul tavolo per esaminarne il corpo e la ferita.

“Cercherò di operarlo, se ci riesco, mi ripagherai come al solito”

Gamba di Ferro iniziò a sudare freddo, “è proprio necessario? Non si potrebbe trovare una soluzione alternativa? Non è che voglia tirarmi indietro, però sai… dopo quello che è successo l’ultima volta, adesso io… ecco… sì, insomma… non credo di sentirmi pronto”

“Cosa stai cercando di dirmi, forse non ti è piaciuto?” chiese lei, mentre stava scartando un bisturi sterile monouso.

“Beh… non esattamente, non direi che non mi è piaciuto… è solo che…è solo che non sono dell’umore più adatto, non vorrei che poi le cose non andassero nel modo giusto…”

“Stai dicendo un sacco di cazzate” lo interruppe lei, “in ogni caso, e mi sembra anche più giusto, sarà il tuo amico con la pancia bucata a darmi quello che voglio”

Labbra di Cuoio cominciò ad operare Cuore di Pietra, e dopo aver estratto la pallottola con delle pinze chirurgiche prese a cucire la ferita. Gamba di Ferro sembrò sollevato, “mi sembra più che ragionevole” chiosò.

“Bene, allora siamo d’accordo, qui ho quasi finito, dopo che avrò terminato il bendaggio portalo nella camera degli ospiti e mettilo a letto. Ha perso molto sangue e dovrà riposarsi per qualche giorno, mi prenderò cura io di lui.”

Gamba di Ferro eseguì senza fiatare, e dopo aver finito se ne andò alla svelta.

Passarono pochi giorni e Cuore di Pietra si sentiva già meglio. Le amorevoli cure della sua infermiera privata erano un toccasana.

Lei decise allora che era giunto il momento di rivendicare la propria ricompensa.

“Allora giovane, raccontami, perché ti chiamano Cuore di Pietra?”

Lui sorrise orgoglioso: “Perché sono uno spietato bastardo senza scrupoli e insensibile”

“Non si direbbe, guardandoti in faccia” disse lei, poco convinta.

“E tu? Perché ti fai chiamare Labbra di Cuoio?”

“Sei proprio sicuro di volerlo scoprire?”

“Certamente, mi sono sempre chiesto perché una così bella signora avesse un così sinistro nomignolo”

“Ho avuto qualche problema con la giustizia in passato, per colpa del mio ex marito”

“Non sapevo fossi divorziata”

“Non lo sono infatti. Sono vedova”

“Mi spiace, come è successo?”

Lei sorrise in modo strano, i suoi occhi si dilatarono.

“Tu fai troppe domande giovane, perché non parliamo di te invece: a parte prendere pallottole nella pancia, cosa fai nella vita, abitualmente?

“Sono un fuorilegge, un killer”

“Con quella faccia?”

“Certo, perché? Cosa non va con la mia faccia?”

“Non sembra la faccia di un assassino”

“E come dovrebbe essere la faccia di un assassino? Per come vanno oggi le cose, un killer può nascondersi dietro la faccia di chiunque”

“Devo dire che su questo hai proprio ragione” convenne la donna, esibendo un sorriso crudele.

“Ora bevi questo, ti farà bene” aggiunse, porgendogli un calice pieno di uno strano liquido effervescente.

Cuore di Pietra bevve tutto senza fare obiezioni. Si fidava della bella e misteriosa veterinaria che per curarlo si era fatta infermiera.

La stanza intorno a lui però iniziò a girare, una strana sensazione di torpore si impadronì del suo corpo già debilitato, vide la donna indossare dei guanti di lattice e poi perse i sensi.

Lei lo aveva sedato ed era pronta a prendersi ciò che voleva.

Quando Cuore di Pietra riprese i sensi non era più sdraiato nel letto della camera degli ospiti. Ora si trovava in uno scantinato, nudo come un verme, in piedi, piegato in avanti, con testa e braccia infilate in una gogna medioevale di legno vecchia di secoli, ormai più dura del ferro, e dalla quale non vi era modo di liberarsi.

Davanti a lui poteva scorgere distintamente due figure: sulla destra, appoggiato su di una mezza colonna greca, vi era un busto in marmo a dimensioni naturali di Iosif Stalin; sulla sinistra c’era Labbra di Cuoio con indosso un camice da infermiera che lo fissava in modo oscuro. In quel momento gli sembrò particolarmente grossa e nerboruta, un donnone dalla mole minacciosa. Dietro di loro, appesa alla parete come fosse un prezioso arazzo, vi era una gigantesca bandiera rossa dell’Unione Sovietica.

“Bene bene, ora vedremo se sei veramente un duro, come il tuo ridicolo nomignolo suggerirebbe, o se invece, più probabilmente, sei solo il solito patetico sbruffoncello che si sente forte maneggiando pistole di piccolo calibro” disse lei avvicinandosi lentamente.

“Liberami subito, non hai nessun diritto si tenermi intrappolato in questa gogna di merda, chi cazzo credi di essere?” protestò lui.

Labbra di Cuoio lo colpì con uno schiaffo energico.

“Non voglio illuderti giovane, qui sotto saremo molto felici, io e la mia amica Charlene” disse mostrandogli il grosso coltellaccio militare che teneva nella mano sinistra, “ma per te saranno dolori e sofferenze. Quindi se vuoi uscirne vivo cerca di essere collaborativo e non rompermi i coglioni. Sono stata abbastanza chiara?”

Cuore di Pietra osservò esterrefatto, prima il grosso coltello, poi la faccia crudele di quel mostro di donna.  In un attimo comprese due terrificanti verità. La prima era che si trovava imprigionato senza scampo e in grossi guai. La seconda era che la sua carceriera, Labbra di Cuoio, era pericolosamente pazza.

Il coltellaccio, oltre che grosso era anche molto affilato. Lui lo capì immediatamente, quando lei inizio a radergli a secco i capelli. Lei lo sapeva maneggiare discretamente bene, ma la cute era delicata e si tagliò in più punti. Poteva sentire rivoli di sangue colargli lungo la fronte e sulla faccia e di lato sul collo. Era una sensazione spaventosa e si sentì il cuore trafitto da una saetta d’orrore. Tuttavia cercò di restare immobile, e soprattutto non disse nulla. Pensò soltanto che forse sarebbe stato meglio morire dissanguato con una pallottola nelle budella qualche giorno prima, piuttosto che sottoporsi alle torture di quel demonio.

“Ora che ti ho rasato per bene i capelli sei veramente tutto nudo e indifeso, che ne dici?”

“I capelli ricresceranno” azzardò lui, con una vaga intonazione di sfida.

“Questo è vero, ma quello che ti taglierò dopo non ricrescerà”

“Cosa? Cosa hai detto? Non dirai sul serio vero? Non puoi farlo, ti prego, non lo fare, non ti ho fatto nulla di male, ti prego…”

“Beh che fai? Inizi già a piagnucolare come una scolaretta? Non abbiamo nemmeno iniziato e hai già perso tutta la tua dignità? Sei proprio una mezza sega…”

Cuore di Pietra non rispose. Il suo orgoglio era ferito, come la sua testa. Ma era il panico a farsi largo nella sua mente mentre si chiedeva cosa lei avrebbe tentato di amputargli. Poi la vide allontanarsi e per qualche secondo si sentì meglio.

La donna si avvicinò ad una sedia dove erano piegati i vestiti insanguinati di Cuore di Pietra e dai pantaloni avvizziti tirò fuori il portafogli e cominciò ad esaminarne il contenuto.

“Vediamo cosa possiamo scoprire sul nostro giovane qui” disse aprendo la carta d’identità, “hai già passato i quaranta a quel che dice questo documento, ne dimostri di più però, invecchi in fretta a quanto pare”

“Ho avuto una vita intensa”

“Certo, dite tutti così appena vi spuntano i primi capelli grigi e…ma…ma… e questo? E questo che cazzo è!?” urlò brandendo nella mano una tessera di plastica.

Il volto della donna si fece cinereo, il cipiglio si rabbuiò. Andò verso di lui con passo rapido, sembrava furente. Cuore di Pietra cercò di sottrarsi ma era immobilizzato nella gogna e non poteva sfuggirle. In un attimo fu sopra di lui con la faccia rubiconda per l’ira, i tendini del collo in rilievo ed una grossa vena che le pulsava nel centro della fronte.

“Brutta burba figlio di puttana, vuoi dirmi che cazzo è questa?” lo aggredì mettendogli sotto al naso la tessera del PD che aveva trovato nel suo portafogli.

“Ma come… perché ti arrabbi? Pensavo che anche tu fossi di sinistra…”

Lei lo colpì al volto, con un pugno questa volta, un gancio destro, duro come una sassata.

“Chiudi quella fogna, luridissima burba!” gli urlò in faccia, “non ho nulla da spartire con voi traditori globalisti al soldo dell’usura cosmopolita e apolide”

“Non capisco cosa vuoi dire?” disse lui confuso

“Non capisci?” chiese lei, e lo colpì con un sinistro micidiale, fratturandogli il setto nasale.

Cuore di Pietra gemette per il dolore, e cominciò a sanguinare anche dal naso rotto.

“ll PD è il partito delle banche” spiegò lei, “Il PD tutela sempre e solo gli interessi della grande finanza disprezzando i ceti medi, la piccola impresa e i lavoratori delle fabbriche, i precari e i disoccupati. Il PD è il partito che tutela l’interesse transnazionale, apolide e cosmopolita della massoneria globalista che mira a dominare il mondo, in modo che vinca sempre e solo il libero mercato ed il nuovo ordine mondiale. il PD è il nemico principale del popolo e dei lavoratori. Non c’è nulla di più distante dagli interessi del lavoratore delle politiche del PD. Al lavoratore non gliene importa un cazzo che ci sia il matrimonio omosessuale. Al lavoratore interessa avere un salario dignitoso, la sanità garantita, la possibilità di farsi una famiglia e mandare i figli a scuola. Il PD e le sinistre arcobaleniche hanno tradito quelli che un tempo erano i diritti sociali per i quali combatteva il Partito Comunista di Stalin e Togliatti.”

Ci furono alcuni secondi di silenzio.

“Ora hai capito schifoso liberasta?” lo incalzò lei squarciando il silenzio, e brandendo nuovamente il coltellaccio con la mano sinistra.

Cuore di Pietra non sapeva cosa dire, in fondo della politica non gli importava niente, non andava a votare da almeno vent’anni e aveva fatto la tessera del PD solamente per poter ottenere più facilmente il reddito di cittadinanza, o almeno così aveva creduto. Mai avrebbe pensato di rischiare la vita per questo.

Labbra di Cuoio cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro passandosi il coltello da una mano all’altra in modo isterico. Sembrava una belva in gabbia, un filo di bava bianca le fuoriusciva da un angolo della bocca.

Lui la osservava atterrito, aspettandosi il peggio da un momento all’altro.

All’improvviso lei si quietò, sul volto le apparve un’espressione rilassata e vagamente assente, sembrava quasi che fosse precipitata in uno stato catatonico. Rimase così, immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto e il coltellaccio stretto nella mano sinistra per un periodo che lui percepì come infinito.

Alla fine la donna si riprese, si riavviò i capelli e sculettando platealmente attraversò tutto lo scantinato sino a raggiungere una polverosa libreria stipata di vecchi libri ed antichi cimeli di epoca sovietica. Armeggiò con quelle strane anticaglie per diverso tempo. Cuore di Pietra non poteva vederla perché la libreria si trovava dietro la gogna, ma sentiva strani rumori come di oggetti di legno e ferro che venivano spostati.

Quando tornò da lui non aveva più il coltellaccio. Ora teneva tra le mani un grosso ed inquietante manufatto di ebano scuro. Cuore di Pietra non comprese subito che cosa fosse, ma poi, dopo un’analisi più attenta realizzò che si trattava della riproduzione in scala ridotta di una grottesca ghigliottina.

“Ti piace?” chiese lei, accartocciando la faccia in un ghigno osceno tra il sadico ed il sarcastico.

“E’ troppo piccola per infilarci una testa” osservò lui.

“Sei perspicace giovane. Ma la tua brutta testa di cazzo non mi interessa. Nella mia collezione di arti ci sono solo piedi, dita e mani. Comunque non temere, sentirai solo un momento di dolore. Sarà forte non lo nego, ma breve. Poi sarà tutto finito, cerca di concentrarti su questo pensiero.”

“No!” implorò lui. “Ti prego… qualsiasi cosa tu abbia in mente discutiamone, ti scongiuro… per amor di Dio…”

Lei sollevò la ghigliottina agganciandola alla gogna medievale, proprio in corrispondenza della sua mano destra, di modo che l’arto restasse immobilizzato nel collare del marchingegno in ebano.

“No!” gridò. “Ti supplico non lo fare, farò tutto quello che vuoi! Sarò il tuo servo, sono pronto a tutto ma non tagliarmi la mano, ti prego… Ti supplico!”

“Andrà tutto bene” assicurò lei, “non è la prima volta che lo faccio, puoi credermi.”

Dopo essersi assicurata che la ghigliottina non potesse più muoversi, stringendola forte alla gogna con delle cinghie ben strette, andò nuovamente ad armeggiare vicino alla libreria, tornando poi con un cannello a gas propano.

“Questo servirà per cauterizzare il moncherino” gli spiegò sorridendo compiaciuta.

Cuore di Pietra era disperato, sudava freddo e cercava inutilmente di liberarsi agitandosi con tutte le sue forze, ma senza ottenere altro risultato che escoriarsi la pelle del collo e delle braccia in prossimità dei polsi.

“Ancora un minutino e sarà tutto pronto giovane” promise lei, mentre svitava il tappo ad una bottiglia d’olio d’oliva extravergine, con il quale avrebbe lubrificato i due montanti tra i quali scorreva la lama d’acciaio a forma di trapezio e rinforzata con un peso metallico per aumentarne la massa.

“Giovane, lo sapevi che cadendo da un’altezza di circa 2,25 metri, la lama di una ghigliottina a dimensioni reali raggiunge la velocità di 24 km/h quando si abbatte sul collo del condannato?”

“Oh ti prego, ti supplico no, non farlo, per amor del cielo chiedimi qualsiasi cosa vuoi e io la farò, dammi una possibilità non ti deluderò lasciami fare il tuo schiavo e vedrai come sono bravo… vedrai… vedrai…”

“E lo sapevi che dopo la decapitazione la testa mozzata resta cosciente per almeno trenta secondi? Lo hanno dimostrato, con degli esperimenti e poi ci sono anche molte testimonianze…”

“Oh ti prego non farmi male ti prego non tagliarmi la mano, ti supplico…”

Una luce perversa le balenò attraverso gli occhi malvagi mentre rimuoveva il fermo azionando la ghigliottina.

La lama scese sibilando e si conficco nel braccio di Cuore di Pietra, appena dopo il polso. Il dolore esplose incontrollabile. Un getto di sangue scuro spruzzò la faccia della donna ed il camice bianco da infermiera. Si sentì la lama cigolare contro le ossa del polso quando lei cercò di disincagliarla: si era inceppata senza terminare il lavoro.

Lui osservò incredulo la sadica infermiera armeggiare con l’attrezzo, per un momento incrociò il suo folle sguardo, e vide con chiarezza il volto della pazzia.

Istintivamente ritrasse l’arto ferito ma si rese conto che stava spostando il braccio ma non la mano: riusciva solo ad ampliare lo squarcio dilatando la ferita ed amplificando il dolore.

Lei terminò allora l’operazione passando il braccio da parte a parte con il coltellaccio, segando via la mano dal polso. Quando cadde sul pavimento della cantina un suono flaccido risuonò nella stanza.

Cuore di Pietra aveva la testa intrappolata nella gogna, ma poteva vedere la sua mano abbandonata sul selciato, con le dita che ancora si muovevano in deboli spasmi.

Il braccio mozzato invece era libero, senza più la mano lo aveva sfilato dalla gogna e lo muoveva senza senso in ogni direzione spruzzando ovunque fiotti di sangue. E intanto piangeva ed urlava.

Ed urlò ancora più forte quando lei, dopo avergli afferrato l’arto amputato, investì la ferita sanguinante con la fiamma viva del cannello a gas.

Salirono fumo nell’aria, e puzzo di bruciato e le urla disperate di Cuore di Pietra.

Prima che lei avesse terminato lui era già svenuto, privato delle forze, della dignità e della mano destra.

“Da oggi non sei più un cuore di pietra. Tutti ti chiameranno mano di legno” disse ridacchiando l’infermiera sadica, mentre aggiungeva un nuovo pezzo alla sua collezione di arti amputati dentro al congelatore a pozzetto.

Poi si fece una doccia per lavarsi via il sangue, si asciugò i capelli e stappò una bottiglia di Ortrugo Frizzante della sua marca preferita.

Concluse la giornata sprofondata sul divano a guardare la sua serie TV preferita e bevendo vino.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Infermiera sadica

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L’abominevole donna ricoperta di peli

Abominevole donna

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L’automobile, una Ford Kuga grigia 4×4 vecchio modello, si fermò all’ingresso della piazza di Vicobarone, proprio sotto l’insegna dell’agriturismo Piacenza.

“Da qui possiamo vedere bene l’ingresso del bar” disse Giada, una giovane bionda bella e malvagia, stappando una bottiglia di gutturnio frizzante di media qualità.

“Sei sicura che sia una buona idea?” le chiese Samantha, la sua compagna, una pantera senegalese color cioccolato e con due gambe da urlo.

“Certamente, nessuno rapina mai questi pidocchiosi bar sperduti sulle colline piacentine. Ma è sabato sera e i vecchi pensionati che lo frequentano non hanno fatto altro che bere per tutto il giorno. Ora le casse sono piene e aspettano solo di essere svuotate nelle nostre borse”

“E se il proprietario cercasse di reagire? I villici di campagna sono spesso armati sino ai denti. A mio fratello che ruba gasolio dalle cisterne dei contadini gli hanno già sparato addosso un paio di volte.”

“Il sabato sera è di turno una ragazza inerme. L’unico grilletto che abbia mai toccato lo tiene in mezzo alle gambe” concluse Giada con una risata perversa e buttando giù una gollata di gutturnio direttamente dalla bottiglia.

Le due giovani rapinatrici si infilarono allora delle calze di nailon sulla testa, scesero dall’auto, presero i fucili adagiati sui sedili posteriori e fecero irruzione nel bar.

“Tutti fermi, luridissimi vermi! Questa è una rapina!” urlò Giada per prima, sparando una fucilata contro le vetrate del bancone, per far capire che non stava scherzando.

“Tirate fuori i soldi brutti figli di puttana!” aggiunse Samantha colpendo in piena faccia con il calcio del fucile uno dei vecchi ubriaconi seduti vicino all’ingresso, facendolo crollare a terra svenuto con le labbra spaccate, due denti rotti e la bocca sanguinante.

Il bar fu avvolto da un silenzio surreale, anche la barista di turno, che avrebbe voluto urlare, era paralizzata dalla paura e incapace quasi di respirare.

“Coraggio bastardi, mettete tutti i soldi dentro al sacco nero della spazzatura e nessuno si farà male” ordinò Giada, mentre Samantha passava davanti agli avventori terrorizzati con il sacco nero spalancato.

Gli ubriaconi e gli altri clienti occasionali di quel caldo sabato di mezza estate obbedirono senza fare storie, erano troppo spaventati oppure troppo sbronzi per tentare una qualsiasi reazione.

In pochi minuti le giovani bandite avevano svuotato le tasche dei clienti e la cassa del bar.

“Ora ci serve un ostaggio!” gridò Giada, poi si girò verso la porta e indicò un uomo grasso, seduto vicino al vecchio svenuto: “Tu, ciccione di merda, alzati in piedi e vieni con noi!”

Il ciccione si chiamava Cosimo Truffaldino, era un agente di commercio in disgrazia e aveva una cinquantina di primavere mal vissute e mal portate sulle spalle. Da qualche anno viveva di espedienti e piccole truffe.

“Muovi il culo grassone” lo aggredì Samantha colpendolo con la canna del fucile sulla testa per farlo alzare.

Cosimo Truffaldino, in stato di ebrezza avanzata, cercò faticosamente di alzarsi.

“Se qualcuno di voi stronzi, si azzarda a chiamare i carabinieri prima che siano passati sessanta minuti, vi giuro che ammazzo il ciccione!” spiegò Giada urlando come una pazza.

“E ricordate che noi facciamo sul serio” aggiunse Samantha sparando una fucilata sullo schermo di una slot machine, che esplose fragorosamente schizzando fuori fiamme e scintille.

Poi le due donne si allontanarono trascinandosi dietro un sacco pieno di soldi ed un ciccione barcollante. Arrivate alla Kuga costrinsero Cosimo a inginocchiarsi, lo imbavagliarono con del nastro adesivo legandogli anche le mani dietro la schiena. Lo obbligarono ad entrare nel portabagagli e a quel punto gli legarono anche le caviglie. Dopo essere salite a bordo anche loro, si tolsero le calze di nailon dalla testa e partirono sgommando verso Castel San Giovanni.

La macchina sfrecciava silenziosa a fari spenti lungo la strada illuminata dalle stelle, lasciandosi alle spalle rigogliosi vigneti ordinati in geometrici filari e regolari campi di girasole.

Arrivati all’altezza di Ganaghello, Giada condusse la Kuga lungo una strada sterrata sino ad un vecchio casale in mezzo alla campagna, dove si fermarono, facendo sparire la macchina dentro un fienile e nascondendola agli occhi del modo.

“Prendiamo l’Alfa Romeo e tagliamo la corda” suggerì Samantha.

“E del ciccione cosa ne facciamo?” chiese Giada, mentre qualcosa di sinistro sembrò balenarle tra gli occhi color castagno.

“Lo carichiamo sull’Alfa, e quando arriviamo sulle colline di Bologna lo seppelliamo vivo da qualche parte” suggerì la pantera nera, “non lo troveranno mai” concluse con una specie di ghigno crudele.

“Vuoi aspettare di arrivare a Bologna per divertiti un po’ con lui?” chiese Giada maliziosa.

“Vuoi scherzare? Prima prendiamo l’autostrada e ci allontaniamo da qui meglio è. Tra meno di mezzora ci saranno posti di blocco ovunque.”

“Appunto gattina mia, tra poco le strade saranno bollenti. Noi invece ci nascondiamo qui per un paio di settimane, e quando le acque si saranno calmate andiamo a goderci la refurtiva.”

“Ma ci verranno a cercare” obiettò Samantha.

“Qui non ci troveranno, non possono mica perquisire tutte le case della valle. Faranno dei posti di blocco, qualche giro in elicottero e cazzate del genere, tra un paio di settimane nessuno parlerà più di questa rapina e del ciccione rapito, di cui scommetto non interessa un cazzo a nessuno. Cominciamo a interrogarlo piuttosto, per assicurarci che sia solo un ubriacone di merda.”

Le due donne scaraventarono Cosimo Truffaldino giù dalla macchina, e tirandolo per i capelli ingrigiti lo trascinarono in cantina facendolo sobbalzare lungo i vecchi gradini in mattoni che portavano nel sottosuolo. Cosimo gemette per il dolore ogni volta che qualche osso sbatteva sui rigidi laterizi e per la sofferenza lancinante al cuoio capelluto che lentamente si lacerava sotto al suo peso, mentre le crudeli malandrine lo strattonavano senza pietà giù per le scale.

Quando furono arrivate nello scantinato maleodorante di muffa, aceto e vino andato a male lo assicurarono ad una vecchia sedia di legno legandolo per bene con delle vecchie corde nautiche abbandonate.

“Allora merdone, cerca di essere collaborativo se non vuoi che ti ammazziamo subito” disse Giada schiaffeggiandogli la faccia grassoccia.

“Rispondi alle mie domande con un gesto della testa, solamente sì oppure no, tutto chiaro?”

Cosimo annui con il capo.

“Molto bene merdone, vedo che non sei del tutto stronzo. Allora dimmi, sei sposato?”

Cosimo scosse il capo in segno di diniego.

“Hai una compagna?”

Cosimo scosse nuovamente il capo

“Figli?”

Cosimo fece nuovamente cenno di no.

Un agghiacciante e torbido sguardo di trionfo si materializzò sul volto grazioso e letale di Giada.

“Cosa ti avevo detto? Il cicciobomba qui non se lo fila nessuno, forse anche al bar che abbiamo svaligiato nemmeno lo conoscono”

“Non resta che appurarlo” convenne Samantha

“Palla di merda, sei un avventore abituale del bar dove ti abbiamo rapito?”

Cosimo questa volta annuì, ma stava mentendo, era entrato la prima volta in quel bar il giorno stesso e solo perché la sua automobile, finita la benzina, lo aveva lasciato a piedi.

“Questo complica le cose” commentò Samantha vagamente preoccupata.

“Per nulla” la tranquillizzò subito la compagna bionda, “scommetto che è solo un sociopatico ubriacone di cui nessuno sentirà la mancanza”.

“Ce lo facciamo come gli altri?” chiese allora la panterona nera, mentre le si dilatavano le pupille per l’eccitazione.

“Ottima idea” chiosò Giada, appoggiando il piede destro sul petto di Cosimo Truffaldino. Poi spinse facendo leva con la gamba e rovesciando all’indietro la sedia su cui lui era legato, e facendolo cadere all’indietro.

Cosimo poteva vedere la mostruosità dei volti delle due ragazze, così belli e così terribili, contratti in agghiaccianti sorrisini perversi.

“Pensi che serva spogliarlo?” domandò Samantha picchiettando col tacco del suo scarpone militare sul ventre molle e sovrappeso di Cosimo.

“Non credo sia necessario” valutò Giada, intenta a sfilarsi gli stivali da cow-girl rivestiti in pelle di serpente.

Samantha invece tirò fuori un coltello a serramanico che teneva nascosto in una tasca dei Jeans neri attillati. Poi si inginocchiò vicino alla testa dell’uomo e con perizia degna di un chirurgo iniziò a tagliare e rimuovere il nastro adesivo che gli avvolgeva la bocca.

“Ti suggeriamo di non urlare” disse Giada ridacchiando, “se non vuoi ritrovarti la gola squartata con quel coltello”.

Cosimo annuì terrorizzato, non riusciva a capire quali malvage intenzioni avessero quelle due diaboliche e super sexy fuorilegge.

Samantha indossava una T-shirt maculata di colore verde militare che le metteva in risalto il seno generoso, Giada indossava pratici pantaloncini di jeans e una camicetta scollata sul davanti che lasciava poco spazio alla fantasia.

“Lasciatemi andare” osò protestare Cosimo, appena gli fu possibile parlare.

“Chiudi quella fogna!” lo redarguì Samantha, cominciando a picchiarlo sugli stinchi con il manico del coltello. I colpi non erano particolarmente forti, ma molto precisi e dolorosi.

Le ragazze ridevano divertite, nonostante la violenza dei colpi e la sofferenza inferta allo sventurato. Lui ne era agghiacciato ed iniziò a piangere in silenzio trattenendo i gemiti per paura di ulteriori conseguenze.

“Basta Ti prego smettila” implorò infine, quando il dolore era divenuto insopportabile.

“Ti abbiamo detto di stare zitto” disse Giada mettendogli il piede nudo e sudato sulla faccia, “leccami i piedi piuttosto, ciccione di merda”

Cosimo obbedì. Il piede di Giada, per quanto ben fatto e ben curato, puzzava in modo terribile dopo un’afosa giornata d’estate chiuso dentro lo stivale di serpente.

Ma Cosimo era un pervertito feticista dei piedi e si eccitò immediatamente, dandosi da fare con la lingua con impegno e dedizione.

Samantha notò la sua perversione e cominciò a ridere di gusto.

“Abbiamo trovato un altro schiavetto, è proprio un peccato doverlo eliminare” commentò Giada, spingendo le dita del piede smaltate di rosso dentro la bocca di Cosimo.

Samantha recuperò un’altra vecchia sedia, la dispose vicino al corpaccione obeso dell’ostaggio e vi sedette sopra, quindi si tolse le scarpe militari che indossava.

“Sei proprio uno schifoso grassone” valutò ad alta voce, ridendo ed umiliando il prigioniero.

Il piede di Giada era quasi per intero dentro la bocca di Cosimo, e le conseguenti difficoltà respiratorie lo stavano soffocando.

“Questo cicciobomba feticista mi fa veramente schifo” disse Samantha.

“E’ proprio uno stronzo” valutò Giada spingendo il piede ancora più in profondità nella gola dell’uomo.

Samantha allora si tolse i pantaloni mostrando a Cosimo le sue bellissime gambe. Giada gli sfilò il piede dalla bocca  e lasciò spazio alla sua amica, che tornata a sedere sulla sedia appoggiò i piedi neri sulla faccia dell’agente di commercio.

Il prigioniero iniziò a leccare anche la pianta dei piedi della panterona, ma si accorse con orrore che vi era qualcosa di strano, insolito e disgustoso.

I piedi della bandita di colore erano ricoperti di ispidi peli neri ripugnanti, sopra e sotto, e non da meno lo erano le caviglie e buona parte delle gambe.

“Cosa ti succede panzone, non ti piacciono i miei piedi?”

Cosimo osò muovere la testa in segno di diniego e, cosa ancor peggiore, smise di leccare.

“Brutto stronzo, continua a leccare” ordinò Samantha fulminandolo con uno sguardo torbido e omicida.

Cosimo tergiversò, mentre una nuova terribile percezione tattile gli riempì il cuore di sgomento: i peli della ragazza da sotto i piedi neri si stavano allungando circondandogli tutta la faccia, penetrando come anguille dentro la bocca e le narici.

Completamente sopraffatto dal panico Cosimo chiuse gli occhi dicendo a sé stesso che non poteva essere vero, probabilmente era solo una sensazione passeggera dovuta a quella situazione traumatizzante.

Quando riaprì gli occhi poté per qualche secondo osservare peli grossi come corde e lunghi come liane fuoriuscire dall’intero corpo della panterona avvolgendolo in un disgustoso bozzolo di peluria nauseante.

Un attimo dopo tutta la testa e buona parte del grasso addome dell’uomo erano ricoperti dai mostruosi peli della spregevole ragazza.

Cosimo cercò inutilmente di gridare ma i velli avevano già raggiunto i polmoni e lo stomaco, e le diaboliche risate fragorose delle due crudeli megere furono l’ultima cosa che riuscì ad udire, prima di morire soffocato dall’abominevole donna ricoperta di peli.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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La bambola perfetta

La bambola perfetta

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Gino Manosvelta iniziò a fantasticare su quel genere di cose sin da quando era adolescente. A quei tempi, mentre i suoi coetanei si masturbavano con i giornalini porno, Gino si eccitava guardando i manichini sui cataloghi di biancheria intima di terz’ordine. Anche le Barbie e altre bamboline sexy accendevano la sua passione. A trent’anni era già sessualmente deviato, gli piacevano molto le ragazzine delle scuole superiori e non aveva rapporti normali con le donne da almeno un decennio: era anche brutto e facilmente gli puzzavano i piedi.

La sua vita ebbe una svolta il giorno in cui navigando su internet capitò per caso su realdoll.com

Scoprì in questo modo che dal 1996 la Abyss Creations produceva e vendeva in tutto il mondo le bambole per usi sessuali più realistiche mai costruite. Ideate dallo scultore Matthew McMullen e realizzate grazie alle più avanzate tecnologie sviluppate dall’industria degli effetti speciali hollywoodiana, le Real Dolls erano munite di endoscheletro in PVC per simulare tutte le posizioni di un vero corpo umano, ed il rivestimento in silicone riproduceva anche al tatto le fattezze di una vera donna.

Gino avrebbe voluto ordinare una Real Doll personalizzata scegliendo secondo il proprio gusto il tipo di corpo, il viso, i capelli ed il colore degli occhi. Tuttavia valutato il costo della bambola preferì desistere. Oltre a tutto il resto era anche piuttosto spilorcio e giudicò il prezzo troppo esoso per le sue tasche.

Quella stessa sera decise di mangiarci sopra e si recò nella sua pizzeria preferita. Era un locale nel piacentino, frequentato da una clientela giovanile. Le scuole erano finite da poco, faceva caldo e le ragazzine indossavano gonne corte e camicette attillate e sprizzavano ormoni mettendo in mostra gambe depilate, ombelichi tirati a lucido e capezzoli turgidi sotto le stoffe fini.

Alla seconda birra Gino era già su di giri, ma non riusciva a togliersi dalla testa le bambole americane che aveva visto su internet.

Al tavolo affianco era seduto un tizio strano, tutto vestito di nero, con la pelle scura, gli occhiali da sole ed un ghigno ancestrale stampato sul volto.

“Potrei risolvere i tuoi problemi” disse con voce baritonale, alzando un calice di vino Malvasia in segno benaugurale.

“Dici a me?” domandò lui stupito, non si aspettava che quel tipo strambo gli rivolgesse parola.

“Conosco un artigiano, dalle parti di Nibbiano, che costruisce incredibili bambole in silicone a prezzi modici.”

“Ehi! Tu come fai a sapere che mi interessano questo genere di cose? Chi diavolo sei?”

“Un amico!” rispose quello, esibendo un sorriso mefistofelico.

Gino spalancò gli occhi scettico, senza parlare, avvertendo nell’aria un fastidioso e pungente odore di zolfo.

“Non devi fare altro che telefonare a questo numero e descrivere il tipo di bambola che vuoi” disse offrendogli un volantino pubblicitario.

Gino lo afferrò avidamente e cominciò a leggere: “Realizziamo Bambole Perfette, create su misura, personalizzate e accessoriate con parti anatomiche che sembrano vere, soddisfatti o rimborsati!”

Sul volantino erano anche riprodotte le fotografie di alcune ragazze nude, e lui faticò a comprendere se si trattasse di modelle in carne ed ossa oppure, come promettevano gli slogan pubblicitari, di bambole in silicone straordinariamente realistiche.

Continuò ad osservare il volantino con sguardo rapito per parecchio tempo. Quando alla fine rialzò la testa, l’uomo vestito di nero era scomparso.

Non riuscì a dormire per tutta la notte, e nemmeno quella successiva, e quella dopo ancora. Passata un’intera settimana insonne sognando ad occhi aperti di mettere le mani su una di quelle Bambole Perfette, alla fine cedette alla tentazione e decise di assecondare il desiderio di averne una tutta per sé.

Il laboratorio dove venivano costruite le Bambole Perfette era dentro lo scantinato di un vecchio casale fatiscente sulle colline di Nibbiano. Il magazziniere ecuadoregno che la impacchettò prima di spedirla si fece delle grasse risate, chiedendosi quale tipo di pazzia avesse ottenebrato la mente del maniaco che aveva commissionato quella cosa grottesca. Si chiamava Esmeralda, aveva le sembianze di una sedicenne nigeriana, con la pelle nera e due tette enormi, ma gli occhi erano blu cobalto ed i capelli erano biondo platino. Aveva anche un culo da urlo. Era vestita da cameriera ed era la Bambola Perfetta ordinata da Gino Manosvelta.

Il giorno in cui gli fu finalmente recapitata a casa, fu il più bello della sua vita.

Per prima cosa la mise a sedere sul divano in soggiorno, le accarezzò i capelli sintetici, le ficcò in mano un bicchiere e lo riempì di vino rosso di media qualità, poi cominciò a parlarle.

“E’ molto che Ti aspettavo, anzi da sempre, da tutta la vita” disse accendendosi una sigaretta.

“Ho sempre desiderato avere una ragazza come te, Dio mio Esmeralda, sei bellissima.”

Lei rimase immobile con il bicchiere in mano pieno di vino rosso di media qualità, fissando nel vuoto.

“Sai cosa mi piacerebbe farti dolcezza?”

Esmeralda non rispose.

“Mi piacerebbe metterti una catena al collo, frustarti la schiena con la mia cintura e poi prenderti da dietro, in modo selvaggio.”

La bambola non disse nulla.

Gino iniziò ad eccitarsi, buttò via la sigaretta, si alzò e si versò un bicchiere colmo di vino rosso, lo trangugiò ed andò a sedersi accanto ad Esmeralda.

“Sei la mia schiava negra” le sussurrò ad un orecchio, poi le afferrò la testa con violenza e la baciò sulla bocca.

La bocca di Esmeralda era morbida e le labbra profumavano di fragola.

Gino iniziò a spogliarla. Lei lasciò fare. Lui le piegò le braccia e poi le gambe sino a metterla nella posizione che preferiva. Il vino rosso di Esmeralda uscì dal bicchiere e si rovesciò sul pavimento.

Gino tirò fuori il suo arnese nodoso dalle mutande e la penetrò.

Durò un paio di minuti al massimo, ma fu l’orgasmo più intenso e lungo che lui avesse mai provato. Pensò che nessun’altro avesse mai goduto tanto prima di lui.

Gino stava con Esmeralda già da tre settimane ed era per lui una relazione molto piacevole.

Di giorno la teneva nuda incatenata in cantina, a quattro zampe dentro una cuccia per cani che aveva costruito apposta per lei. La sera la vestiva da cameriera e la metteva in ginocchio accanto alla sua poltrona, con un vassoio tra le mani sul quale appoggiava il posacenere ed una bottiglia di vino. Mentre guardava la televisione fumava e beveva con lei accanto, tutto il tempo in ginocchio sul pavimento e con il vassoio in mano. Qualche volta, se era di buon umore, le accarezzava la testa come avrebbe fatto con un pastore tedesco. Altre volte le legava i polsi al tavolo della cucina e le frustava la schiena dopo averla imbavagliata. La notte se la portava a letto, la spogliava e ci faceva sesso in tutte le posizioni del kamasutra.

Gino Manosvelta era felice, a suo modo amava Esmeralda e la sua vita di coppia era perfetta. Sino a quella sera del ventisettesimo giorno che stavano assieme.

Era una domenica, e tornato dopo un pomeriggio allo stadio, Gino scese in cantina per prendere Esmeralda, ma con sua grande sorpresa non la trovò come l’aveva lasciata.

Lei non stava più a quattro zampe e non aveva più la catena al collo. Era seduta sopra il tettuccio della cuccia con le sue belle gambe nere di silicone elegantemente accavallate.

“Che razza di scherzi sono questi!” protestò ad alta voce Gino.

Esmeralda aveva lo sguardo fisso nel vuoto, come sempre.

“Come cazzo hai fatto a liberarti?” balbettò lui, avvicinandosi alla bambola per ispezionarla.

“Brutta puttana!” le urlò.

Lei non reagì, restò lì come se nulla fosse, con le gambe accavallate.

“Ti sei tolta la catena dal collo? Hai osato fare questo stupida troia?”

Esmeralda non rispose.

Gino era fuori di sé e la colpì con uno schiaffo. Lei cadde a terra con un tonfo sordo, ammortizzato dal silicone di cui era fatta.

“Me la pagherai dannata sgualdrina” la minacciò, poi afferrò una scopa e cominciò a percuoterla colpendola con il manico di legno sulla faccia, sul petto, sugli stinchi, le diede anche due calci nel culo, poi quando fu stanco trascinò una vecchia sedia impagliata davanti a lei e ci si sedette sopra osservandola.

“Prova a liberarti ancora, e la prossima volta Ti faccio a pezzi sporca negra!”

La bambola rimase tutto il tempo in silenzio, nuda, picchiata e gettata nella polvere, sul pavimento lurido della cantina di Gino Manosvelta.

Per evitare altre sorprese, decise di ammanettare i polsi di Esmeralda dietro la schiena, e di chiudere la catena che le aveva messo al collo con un grosso lucchetto. Poi la mise in ginocchio dentro alla cuccia per cani.

“Ora voglio proprio vedere se riesci ancora a liberarti” disse con tono di sfida, prima di andarsene.

Quella notte Gino dormì da solo, lasciando la bambola di silicone ammanettata ed incatenata in cantina.

Il giorno dopo, tornato presto dal lavoro, andò subito a vedere come stava Esmeralda, e per poco non gli prese un infarto.

Lei era senza manette, senza catene, seduta sul pavimento con le gambe divaricate in una posizione oscena. Persino il suo volto sembrava diverso, ed ora una specie di sorriso sciocco le conferiva un’espressione sarcastica, vagamente crudele.

“Lo hai fatto di nuovo” disse lui con voce tremante.

“Lo hai voluto tu, non dire che non ti avevo avvisato.”

Esmeralda si limitò a guardarlo, come sempre senza reagire.

Gino la portò in camera sua, la sdraiò sul letto a pancia in giù e le legò mani e piedi con delle corde alle gambe del letto. Andò in cucina, prese una bottiglia di vodka dalla dispensa e tornò in camera.

Guardò la bambola legata a quel modo, aprì l’armadio dove teneva una mazza da baseball, afferrò la mazza e cominciò a picchiarla. La picchiò sulla testa e sulla schiena, con violenza. Ad ogni mazzata sentiva il rumore inquietante del silicone sbattuto. Quando fu stanco le si sdraiò sopra e la prese contro natura.

Appena tutto fu finito la lasciò legata al letto, le si sedette accanto e cominciò a bere a canna dalla bottiglia di vodka.

Ad ogni sorsata le dava uno schiaffo sul culo, oppure le tirava i capelli o la prendeva a pugni all’altezza dei fianchi, insultandola.

Lei rimase immobile con lo sguardo perso nel vuoto e quel nuovo ghigno malvagio disegnato sul volto.

Quando Gino fu completamente ubriaco, finita la vodka, si sdraiò accanto ad Esmeralda e si addormentò.

Si svegliò dilaniato da un dolore lancinante dalle parti del pene. Non poteva muoversi: le sue braccia e le sue gambe erano ora legate al letto, al posto di Esmeralda.

Lei gli stava in piedi davanti con un coltellaccio da macellaio in una mano e ciò che restava del suo nodoso membro sanguinante nell’altra. E stava ridendo, in modo sadico.

Gino cominciò ad urlare per il dolore e a gridare:

“Cosa mi hai fatto maledetta troia? O no… non ci posso credere… mi hai tagliato il cazzo…”

E intanto urlava, urlava come un ossesso e il sangue zampillava fuori dai genitali amputati come fosse una fontana.

“Dannata negra bastarda… cosa hai fatto… cosa hai fatto?!?”

Gino urlava e gridava mentre lei continuava a ridere, e ridendo buttò il suo cazzo fuori dalla finestra.

“Prova a picchiarmi adesso” disse Esmeralda smettendo di ridere.

“Cosa? Ma tu… tu parli…”

“Non riesci a picchiarmi ora che ti ho evirato? Ti mancano le forze oppure il coraggio?”

“Cosa?”

“Ti piacevano le mie gambe, ed il mio corpo, ammettilo porco!”

“Si… Si… certo che adoravo il tuo corpo, ma tu mi hai tagliato il cazzo, dannata troia schifosa… come faccio adesso? Sto per morire sto morendo brutta puttana lo capisci questo? Aiutami… devo andare in ospedale… aiutami…”

Esmeralda si protese sopra di lui e gli mollò un ceffone in piena faccia, facendo dondolare le grosse mammelle di silicone.

“Non andrai da nessuna parte”

“Lasciami andare in ospedale ti prego… slegami, devo tamponare l’emorragia o Dio… sto per morire lo sento, sto per morire…”

Gino cominciò a piangere, poi la stanza iniziò a girare intorno a lui. Vide Esmeralda che si rivestiva poi svenne. Lei gli slegò i polsi e le caviglie, gli mise il coltello che aveva usato per evirarlo tra le mani, poi gli sedette accanto.

Il cadavere di Gino Manosvelta fu trovato dai carabinieri della stazione di Borgonovo Val Tidone. Accanto al corpo dissanguato dell’uomo fu trovata anche una bambola di silicone.

La bambola era vestita da cameriera, sedeva con le gambe accavallate sul bordo del letto e le labbra erano contratte in una smorfia cattiva, beffarda ed inquietante.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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La Padrona nazista

La padrona

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L’esploratore fascistissimo Rodolfo Navigato giaceva sul divano di casa completamente ubriaco. I suoi capelli color grigio acciaio brillavano sotto il sole di un caldo pomeriggio d’estate nell’anno del Signore 1946. Nella nuova Repubblica Italiana e democratica per Navigato non ci sarebbe stato spazio. I tempi in cui aveva conteso al leggendario Giuseppe Tucci le prime pagine dei giornali erano passati.

Ormai poteva vivere solo di ricordi e di rimpianti, esiliato nella sua dimora sperduta sulle colline piacentine, in quel di Pecorara.

“Brutti bastardi figli di puttana!” farfugliò cercando di sollevarsi per raggiungere il bagno e vomitare.

I suoi strali non erano rivolti alle potenze plutocratiche che avevano vinto la guerra, né ai sovietici che avevano occupato mezza Europa, e neppure ai partigiani comunisti che avevano stuprato e rapato zero la sua unica figlia facendola impazzire. No, a provocare l’ira di Rodolfo erano i ricordi di una donna, un ufficiale delle SS, la spietata Ilsa Von Forsher, il più grande amore della sua vita.

Dopo aver vomitato copiosamente, Navigato si trascinò a fatica sino alla vecchia dispensa dove trovò ancora un fiasco di vino rosso. Era l’ultima bottiglia e ci si attaccò a garganella. Prima che Navigato svenisse nuovamente stordito dalla sbornia, il ricordo di Ilsa gli passò davanti agli occhi come fosse stato al cinematografo. “Puttana!” biascicò mentre il suo corpo privo di sensi crollava sul pavimento.

Lui e Ilsa si erano conosciuti nel 1938 a bordo della nave tedesca Schwabenland, partita da Amburgo il 17 dicembre per una missione esplorativa in Antartide. Navigato era stato aggregato alla spedizione su richiesta del Duce e in qualità di esperto, avendo già partecipato nel 1926 alla trasvolata del Polo Nord a bordo del dirigibile Norge al comando di Umberto Nobile.

Ilsa invece faceva parte di un gruppo di scienziati delle SS ed era a capo di una missione segreta della Ahnenerbe, finalizzata ad individuare un passaggio di collegamento al centro della terra cava, come ipotizzato dall’americano John Cleves Symmes già nel 1881. La missione segreta di Ilsa e dei suoi uomini era sconosciuta al resto dell’equipaggio, compreso il comandante della nave, il capitano Alfred Ritscher.

La giovane Ilsa era di una bellezza giunonica, secondo i più rigidi canoni ariani: alta, robusta, bionda, con gli occhi azzurri ed un seno enorme. Aveva quattro lauree e parlava fluentemente cinque lingue, tra cui l’Italiano. Era anche di portamento altero ed oltre alla sua missione nascondeva un altro segreto, di natura molto più intima, e che gli avrebbe permesso di sedurre e soggiogare totalmente alla propria volontà il labile e lascivo Rodolfo. Anch’egli, infatti, nascondeva un terribile ed imbarazzante segreto che avrebbe preferito tenere nascosto, ma che la diabolica Ilsa riuscì a scoprire pochi giorni dopo che la Schwabenland aveva preso il largo.

Era una fredda notte stellata quando Ilsa e Rodolfo si incontrarono casualmente sul ponte della nave. Nonostante la temperatura rigida avevano entrambi sentito l’esigenza di prendere un po’ d’aria fresca. Ne nacque una piacevole conversazione sui prodigi della tecnica e sulle conquiste che le nuove scoperte avrebbero reso possibile nei successivi decenni. Rodolfo era rimasto immediatamente affascinato dalle incredibili conoscenze e competenze tecnico-scientifiche della donna, ma soprattutto si sentiva incredibilmente attratto da quel corpo statuario e dalle sue forme esuberanti, a stento nascoste e contenute dalla divisa d’ordinanza.

Lei si accorse subito delle attenzioni dell’esploratore italiano, e decise di invitarlo nella propria cabina per approfondirne la conoscenza.

“Mi piacciono gli stalloni italiani” disse la donna iniziando a spogliarsi.

“Adoro le donne del Reich” disse lui, calandosi i pantaloni.

Da sotto i mutandoni, si scorgeva il suo sesso barzotto e Ilsa lo provocò passandogli una mano tra i capelli: “cosa sai fare stallone italiano, per adorare una donna del Reich?”

Rodolfo Navigato arrossì, abbassò lo sguardo e fissando i piedi nudi della donna sussurrò: “sono un’insaziabile succhiatore di alluci”

Un ghigno crudele si dipinse sul volto della donna, senza aggiungere parola colpì Rodolfo con uno schiaffo furibondo, tanto che le sue gigantesche mammelle ondeggiarono come un mare in tempesta.

Il volto offeso di Rodolfo arrossì ancora di più, per la vergogna, per l’umiliazione e per l’eccitazione. Il suo arnese spuntava ora dai mutandoni, turgido e pronto per l’uso.

Ilsa colpì nuovamente l’esploratore italiano con forza ancora maggiore, ed il suo volto crudele era ora una maschera beffarda e sadica: “inginocchiati e adora i mie piedi, schiavo italiano!”

Rodolfo obbedì. Si piegò sulle ginocchia mettendosi a quattro zampe come un cane, e poi iniziò a baciare, leccare e succhiare i piedi di Ilsa. L’umiliazione dell’uomo cresceva con il passare dei minuti, così come la sua eccitazione, mentre la diabolica nazista abusava di lui con insulti irriferibili e frustandolo sulla schiena e sulle terga con la cinghia in pelle della sua divisa.

Ilsa continuò a seviziare Rodolfo in questo modo per quasi mezzora, poi quando capì che lui non avrebbe potuto resistere ancora per molto gli ordinò di alzarsi, lo legò ad una sedia e lo imbavagliò.

“Aspettami qui, stallone italiano” gli disse ridacchiando. Poi indossò una vestaglia di flanella ed uscì dalla cabina.

Rodolfo cercò di liberarsi, ma le corde usate dalla donna per legarlo erano troppo strette ed ogni suo sforzo fu vano.

Dopo cinque minuti la donna rientrò nella cabina accompagnata da un giovane ed orrendo marinaio tedesco. I due si spogliarono ed iniziarono ad accoppiarsi selvaggiamente.

Rodolfo fu costretto ad assistere la splendida Ilsa con il suo magnifico seno ed i suoi sensualissimi piedi, mentre l’atroce marinaio la possedeva in ogni posizione. Questa nuova e più crudele umiliazione subita da Rodolfo accese la passione della sadica Ilsa, che guardandolo negli occhi mortificati urlò dal piacere raggiungendo un intenso orgasmo.

Nelle notti successive e per tutta la durata della spedizione, Rodolfo fu spesso convocato nella cabina della donna e costretto a subire le medesime sevizie. Ogni volta la bella nazista si accoppiava con un marinaio differente e si inventava nuove umiliazioni da infliggere al suo schiavo italiano.

Quando la Schwabenland tornò in Germania, Rodolfo si era totalmente innamorato di Ilsa Von Forsher. Avrebbe desiderato seguirla ovunque e continuare a leccare i piedi della sua padrona sino alla fine dei suoi giorni. Ma quando scesero dalla nave lei lo salutò e con un sorriso sarcastico gli disse addio.

Non si videro mai più, ma per tutta la vita Rodolfo Navigato non smise mai di amare la sua padrona nazista.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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