La diciottenne seduce il Professore

Cosimo Santini, il professore, non era poi così santo. Certo, la città pensava di sì. Lo chiamavano “il chierico senza tonaca” per come andava in giro, sempre curvo sotto il peso della sua cartella di pelle marrone, che aveva visto più pioggia e polvere che giorni di gloria. Era un uomo di mezza età con la schiena piegata da libri troppo pesanti e il collo rigido per i troppi anni passati a guardare il cielo come se stesse cercando Dio o una scusa per mollare tutto. Ma non era un santo. No, non del tutto. Aveva un passato. E i santi non hanno passati, o almeno, non si fanno mai beccare a pensarci.

Il professor Santini viveva da solo in un appartamento che puzzava di muffa, in cima a un edificio che era già vecchio quando Garibaldi era ancora vivo. La porta cigolava come un cane ferito, e dentro c’era solo l’essenziale: una sedia, un tavolo, una branda più dura delle sue idee sul peccato e un Crocifisso appeso sopra una parete spelacchiata. Aveva una routine che seguiva con precisione quasi militare. Si svegliava alle sei, beveva un caffè nero come l’inchiostro e amaro come la sua visione della vita, e poi usciva per andare a scuola. Lì, spiegava i versi di Orazio e Virgilio a ragazzi che non gliene fregava un accidente. Tornava a casa la sera, recitava le preghiere come un automa, e si addormentava con il libro dei salmi aperto sul petto.

Ma c’era qualcosa di storto in lui, qualcosa che lo teneva sveglio nel cuore della notte. Quando il mondo dormiva e la sua città di pietra taceva, lui si trovava a fissare il soffitto, sudato e in ansia, come se un demone invisibile lo stesse tormentando. Magari era il ricordo di sua moglie morta troppo presto, o il fatto che gli anni migliori li aveva sprecati a insegnare grammatica latina a ragazzi che preferivano tirarsi palle di carta in testa. O magari era semplicemente che si sentiva vivo solo quando soffriva.

Poi arrivò Violetta.

Violetta era come un’esplosione in un vicolo buio. Una di quelle ragazze che nascono sapendo di essere belle e passano la vita a usarlo come un’arma. I suoi capelli scendevano come onde scure e i suoi occhi sembravano due lame affilate pronte a squarciare chiunque si mettesse sulla sua strada. Si muoveva con una sicurezza che non era affatto naturale per i suoi diciotto anni, come se ogni passo fosse una dichiarazione di guerra al mondo intero.

Era la figlia di un mercante di stoffe che aveva più soldi che buon senso. Uno di quei tipi che pregano la domenica mattina e tradiscono la moglie il lunedì sera. Quando Violetta non passava il tempo a litigare con suo padre o a provocare i ragazzi del quartiere, si annoiava. E per una ragazza come lei, l’ozio era pericoloso. La noia la spingeva a cercare guai, e li trovava sempre.

Il padre, stanco dei suoi capricci, aveva deciso che era tempo di darle qualcosa da fare. E quale miglior modo di distrarla se non con delle lezioni private? Così aveva chiesto al parroco chi fosse il miglior insegnante in città. La risposta era stata immediata: Cosimo Santini

Quando Violetta arrivò alla porta del professore per la prima volta, lui era già preparato a riceverla. Indossava il suo abito migliore – che comunque sembrava uscito da un cassonetto – e aveva lucidato le lenti dei suoi occhiali rotondi finché non sembravano due specchi. Ma quando aprì la porta e la vide, qualcosa in lui si spezzò. Lei era tutto quello che aveva cercato di evitare per tutta la vita: il peccato incarnato.

Indossava un vestito leggero che sembrava fatto apposta per metterlo a disagio. Quando si sedette alla sua scrivania, accavallando le gambe con una grazia che sapeva di veleno, Santini capì che queste lezioni non sarebbero state come tutte le altre.

“Allora, professore,” disse lei con un sorriso che sembrava un coltello. “Da dove cominciamo?”

Lui si schiarì la gola, cercando di ignorare il fatto che il cuore gli batteva troppo forte. “Inizieremo con il latino. È la base di ogni cultura.”

“Ah, il latino,” disse lei, lasciandosi andare sulla sedia. “Una lingua morta per una mente viva. Interessante.”

Cosimo si strinse nelle spalle e cominciò a spiegare, ma ogni parola usciva più faticosamente della precedente. Violetta lo fissava come se volesse divorarlo, e non in senso figurato. Ogni tanto si sporgeva troppo vicino, fingendo di voler vedere meglio il libro. Oppure lasciava cadere la penna sul pavimento e si chinava a raccoglierla, troppo lentamente, lasciando che il silenzio riempisse la stanza come una tensione elettrica.

Quando la lezione finì, Santini si sentiva svuotato, come se avesse combattuto una battaglia e perso.

“Allora, professore,” disse lei mentre si infilava il cappotto, “ci vediamo domani?”

Lui annuì, troppo stanco per rispondere. Quando Violetta uscì, Cosimo chiuse la porta e si lasciò cadere sulla sedia. Prese il Crocifisso che teneva sulla scrivania e lo strinse forte, come se fosse un’ancora. “Dio mio,” mormorò. “Perché mi hai mandato questa prova?”

Ma Dio non rispose. O forse lo fece, e Cosimo Santini non era abbastanza santo per sentirlo.

Le notti successive furono peggiori delle prime. Ogni lezione era una danza, un duello tra lui e Violetta. Lei sorrideva e scherzava, trovando sempre nuovi modi per metterlo a disagio. Lui cercava di mantenere la sua compostezza, ma ogni giorno sentiva la sua resistenza indebolirsi. Non era solo la bellezza di Violetta a tormentarlo, ma la sua mente. Era brillante, sarcastica, crudele. Era come una versione più giovane di tutte le cose che aveva cercato di evitare per tutta la vita.

E così, giorno dopo giorno, Cosimo Santini si ritrovò a combattere contro qualcosa che non poteva vincere. Violetta era il caos, e lui era solo un uomo. Un uomo che, nel profondo, desiderava ancora sentire il sangue correre caldo nelle vene, anche se non voleva ammetterlo.

Ma non sapeva che Violetta non era lì solo per imparare. Lei aveva un piano, e lui ne faceva parte.

Le lezioni divennero un appuntamento fisso, un rituale quasi sacro. Ma non c’era nulla di sacro in quello che succedeva nella testa di Cosimo ogni volta che Violetta varcava la porta del suo studio. Lei si presentava sempre in ritardo, con quel sorriso che sembrava dire “Non ho bisogno di scusarmi.” E ogni volta aveva addosso qualcosa di peggio: un vestito troppo corto, una camicetta che lasciava intravedere più pelle di quanto fosse necessario, o una gonna che sembrava aver litigato con le sue gambe e perso.

Lui non diceva mai niente. Non era il tipo che affrontava le cose a voce alta. No, Cosimo Santini era uno di quelli che ingoiavano tutto, come un vecchio ubriacone con il suo bicchiere di whisky. Ma ogni volta che lei si sedeva davanti a lui e cominciava a giocherellare con una penna o a sistemarsi i capelli, sentiva la gola chiudersi e il sangue andargli alla testa.

“Allora, professore,” disse lei un pomeriggio, “oggi mi insegnerà qualcosa di interessante o dobbiamo continuare con le solite noiose declinazioni?”

Cosimo si sistemò gli occhiali e fece finta di non aver sentito il tono provocatorio. “Il latino non è mai noioso,” rispose. “È la lingua delle radici, delle origini.”

“Ah, le origini,” disse Violetta, piegando la testa di lato come una bambina curiosa. “Le mie origini non le vedo certo nel latino. Piuttosto nel caos.”

Cosimo Santini si fermò, le dita rigide sulla pagina del libro. Non c’era una risposta a quel genere di commento. Violetta non cercava risposte. Cercava reazioni. E lui gliele stava dando, anche senza volerlo.

“Legga questa frase,” disse infine, spingendo il libro verso di lei.

Violetta prese il libro e si sporse in avanti, tanto che Cosimo non poté fare a meno di notare il modo in cui la camicetta si tendeva sul suo petto. Era come un colpo basso, e lei lo sapeva. Gli occhi gli caddero sulla pagina per salvarsi, ma le parole latine non offrivano rifugio.

“‘Amor vincit omnia,’” lesse lei lentamente, calcando sulle parole. “L’amore vince tutto. Davvero, professore? Anche lei ci crede?”

“È una citazione,” rispose lui, cercando di mantenere un tono neutro. “Virgilio.”

“Ma è vero?” insistette lei, appoggiando il mento sulla mano e fissandolo con quegli occhi che sembravano sapere troppo. “L’amore vince davvero tutto?”

“Non siamo qui per discutere di filosofia,” disse lui, spegnendo la conversazione con la stessa facilità con cui avrebbe spento una candela.

Ma Violetta non si arrendeva mai. Era come una gatta che gioca con il topo. Quando si accorgeva che Cosimo Santini stava riuscendo a sfuggirle, trovava sempre un nuovo modo per prenderlo alla sprovvista.

Un giorno, si presentò con un abito così stretto che sembrava disegnato direttamente sulla sua pelle. Si mise a leggere un testo, ma continuava a sbagliare le parole.

“Professore, non riesco a concentrarmi,” disse, portando una mano alla fronte in un gesto teatrale.

“Perché non riesce?” chiese lui, sospirando.

“Fa troppo caldo qui dentro,” rispose lei, sventolandosi con il quaderno. “Non trova anche lei?”

“No,” rispose lui rapidamente, troppo rapidamente.

Lei rise, una risata morbida, quasi musicale. Poi, senza preavviso, si alzò e si tolse il cardigan, rimanendo in una camicetta che sembrava fatta di carta velina. “Ecco, molto meglio,” disse, tornando a sedersi.

Cosimo si voltò verso la finestra, cercando di distrarsi con il panorama, ma fuori c’era solo la piazza deserta e un gatto randagio che dormiva sotto una panchina. Quando tornò a guardarla, Violetta stava giocherellando con la sua penna, facendola ruotare tra le dita.

“Professore,” disse con tono innocente, “posso farle una domanda personale?”

“Preferirei di no,” rispose lui, ma lei continuò comunque.

“Lei è mai stato innamorato?”

Cosimo Santini sentì il cuore fermarsi per un istante. Non sapeva cosa rispondere. “Non è rilevante,” disse infine.

“Ma è vero,” insistette lei, appoggiandosi alla scrivania con le mani. “È mai successo che… l’amore vincesse tutto?”

“Questa è una lezione di latino,” rispose lui, cercando di chiudere la discussione.

“Ah, certo,” disse Violetta, alzandosi e camminando verso lo scaffale dei libri. “Ma il latino è pieno d’amore, no? Catullo, Ovidio… non sono forse loro a parlare di passione?”

“Torni a sedersi,” disse Cosimo, ma la sua voce tremava.

Violetta prese un libro dallo scaffale e lo aprì a caso. “Catullo,” lesse. “‘Vivamus, mea Lesbia, atque amemus.’ Viviamo, mia Lesbia, e amiamo.” Si voltò verso di lui con un sorriso. “Era un bel tipo, Catullo, vero? Deciso. Sapeva quello che voleva.”

“Le consiglio di tornare alla sua sedia,” disse Cosimo, ma non c’era più autorità nella sua voce.

Lei tornò a sedersi, ma solo per provocarlo ancora. Durante tutta la lezione continuò a lanciargli occhiate, a sporgersi troppo, a giocherellare con i capelli. E quando finalmente se ne andò, Santini si ritrovò a fissare la porta chiusa come un uomo che ha appena visto passare un uragano e si chiede come sia ancora in piedi.

Quella notte, non riuscì a dormire. I suoi pensieri erano un groviglio di rimpianti, desideri e sensi di colpa. Perché si lasciava coinvolgere? Perché non riusciva a respingerla come avrebbe dovuto? Si alzò dal letto e andò a inginocchiarsi davanti al Crocifisso, ma le preghiere non avevano più il potere di calmarlo.

Violetta continuava a spingerlo sempre più in là, e lui sapeva che, prima o poi, qualcosa si sarebbe rotto. Eppure, non riusciva a fermarla. E forse, nel profondo, non voleva farlo. Forse voleva vedere fino a dove sarebbe arrivata. E fino a dove sarebbe caduto lui.

C’era qualcosa di strano nell’aria quella sera. Non era né freddo né caldo, solo un limbo di umidità che ti si appiccicava addosso come un peccato. Santini aveva passato l’intera giornata cercando di concentrarsi sul lavoro, sulle sue lezioni, sul Crocifisso appeso sopra la scrivania. Ma niente aveva funzionato. Violetta continuava a occupare ogni angolo della sua mente, come un’ombra che non se ne va.

Quando bussò alla porta, lui era già in piedi, con i pugni stretti e la mascella serrata. Non sapeva perché fosse così agitato, ma sapeva che qualcosa sarebbe successo. E quando aprì la porta e vide Violetta, capì che non c’era via di fuga.

Lei indossava un abito nero aderente, semplice ma devastante. Non c’era trucco sul suo viso, solo la sicurezza di chi sa di non averne bisogno. Entrò senza aspettare un invito, portandosi dietro il profumo dolciastro di qualche fiore che Cosimo non riuscì a identificare.

“Buonasera, professore,” disse con quel tono basso e morbido che ormai conosceva troppo bene.

Cosimo si schiarì la gola e chiuse la porta dietro di lei. “È… puntuale.”

“Stasera sono stata brava,” rispose, lanciandogli uno sguardo che sembrava una sfida.

Lei si sedette alla scrivania come sempre, ma qualcosa nei suoi movimenti era diverso. Non c’era la solita teatralità, quella leggerezza che usava per stuzzicarlo. No, questa volta era calma, metodica.

“Che studiamo oggi?” chiese, appoggiando il mento sulla mano.

Santini aprì un libro senza nemmeno guardare la copertina. “Abbiamo ancora molto da fare sulle traduzioni.”

“Traduzioni,” ripeté lei, come se la parola fosse un concetto alieno. “Sempre così serio, professore. Non le capita mai di… improvvisare?”

Lui si fermò. Le mani gli tremavano appena, ma abbastanza perché lei se ne accorgesse. Violetta si alzò, lentamente, e si avvicinò alla finestra. Si mise a guardare fuori, ma Cosimo sapeva che non le importava nulla del panorama.

“Lei vive sempre così, professore? Rigoroso, metodico. Mai una deviazione, mai un passo falso?”

“Non vedo il motivo di fare passi falsi,” rispose lui, con un tono che voleva essere fermo ma suonava solo stanco.

Lei si voltò, e il suo sorriso era un’arma affilata. “Forse non ha mai trovato il motivo giusto.”

Il silenzio che seguì era pesante, come se la stanza stessa trattenesse il respiro. Violetta tornò a sedersi, ma questa volta lo fece accanto a lui, non di fronte. Santini si irrigidì, sentendo la sua vicinanza.

“Professore,” disse, piegandosi leggermente verso di lui. “Lei mi piace.”

Quelle parole colpirono Cosimo come un pugno allo stomaco. ” Violetta,” iniziò, ma lei lo interruppe.

“Non mi fraintenda,” disse, e c’era una strana sincerità nella sua voce. “Lei mi piace davvero. È diverso. Gli altri… beh, sono prevedibili. Ma lei… lei è un enigma.”

“Non so di cosa stia parlando,” disse lui, ma la sua voce tremava.

Lei rise, una risata bassa e calda che sembrava fatta per metterlo a disagio. Poi allungò una mano e la posò sul suo braccio. “Non deve essere così rigido, professore. Non con me.”

Santini si alzò di scatto, come se il contatto bruciasse. “Credo che questa lezione sia finita.”

Violetta non si mosse. Lo guardava dal basso, con quegli occhi che sembravano scavargli dentro. Poi, lentamente, si alzò anche lei e si avvicinò.

“Perché ha così tanta paura di me?” chiese.

“Non ho paura,” rispose lui, ma la voce era un sussurro.

“Allora dimostriamolo,” disse lei.

E prima che potesse dire qualcosa, lei lo baciò.

Fu un bacio breve, ma travolgente. Cosimo rimase immobile, incapace di reagire, mentre ogni fibra del suo essere gridava di fermarsi e andare via. Ma non lo fece. Quando Violetta si allontanò, lui rimase lì, con il respiro corto e gli occhi chiusi.

“Non è così terribile, vero?” disse lei, sorridendo.

“Non deve farlo mai più,” disse lui, ma c’era poca convinzione nella sua voce.

“Perché no?” chiese, avvicinandosi di nuovo.

“Perché… non è giusto.”

“Giusto,” ripeté lei, come se fosse una parola senza significato. “Chi decide cos’è giusto, professore?”

Questa volta, fu lui a baciarla.

Era una resa, totale e inevitabile. Tutte le barriere, le regole, le preghiere, si sgretolarono in un istante. Per la prima volta in anni, Cosimo sentì il fuoco che aveva cercato di soffocare per tutta la vita.

E quando tutto finì, quando il mondo tornò a essere silenzioso e immobile, lui si sedette sul bordo della sedia, con il viso tra le mani. Violetta lo guardava, sorridendo ancora, come se avesse appena vinto una partita.

“Non deve sentirsi in colpa,” disse, allungando una mano per accarezzargli la schiena.

“Se ne vada,” disse lui, senza guardarla.

Lei rise di nuovo, quella risata che ormai gli faceva male più di un colpo di frusta. “Come vuole, professore.”

E se ne andò, lasciandolo solo con il suo silenzio e il peso di ciò che aveva fatto. Ma anche con qualcosa di peggiore: il desiderio di rifarlo.

Santini si alzò la mattina dopo con una testa pesante e un nodo nello stomaco. La luce del giorno filtrava dalla finestra, impietosa, svelando il disordine del suo piccolo studio: la sedia rovesciata, i libri sparsi a terra, il Crocifisso storto sulla parete. Tutto sembrava fuori posto, come lui. Non c’era preghiera che potesse sistemare quel casino. Non c’era redenzione in vista.

Passò la mattinata a girare nervosamente per la stanza, accendendo e spegnendo la lampada sulla scrivania, sfogliando un libro che non leggeva davvero, sorseggiando un caffè ormai freddo. Ogni tanto, guardava verso la porta, aspettandosi che Violetta entrasse come sempre, con quel sorriso che gli scavava dentro e quei modi che lo facevano sentire un uomo e una bestia allo stesso tempo.

Ma lei non arrivò.

A mezzogiorno, incapace di sopportare il silenzio, uscì di casa. Il sole picchiava forte sulla città, rendendo l’aria densa e appiccicosa. Cosimo camminava con il passo incerto di un uomo che non sapeva dove stesse andando, le mani infilate nelle tasche e lo sguardo perso.

Finì davanti a un caffè all’aperto, uno di quei posti dove la gente si sedeva per guardare il mondo passare, parlando di niente con voci troppo alte. Si sedette a un tavolo d’angolo, cercando di tenersi lontano dagli sguardi curiosi. Ordinò un bicchiere d’acqua e si mise a fissare il vuoto.

Ed è lì che la vide.

Violetta era seduta dall’altra parte del caffè, con una ragazza che non riconosceva. Ridevano, con i capelli che brillavano al sole e le mani che gesticolavano animate. Violetta aveva l’aria di chi aveva appena vinto la lotteria, con quel sorriso luminoso e lo sguardo pieno di soddisfazione.

Cosimo avrebbe dovuto andarsene. Avrebbe dovuto alzarsi, pagare l’acqua che non aveva nemmeno toccato, e tornare a casa a pregare per un perdono che sapeva di non meritare. Ma non lo fece.

Si alzò, invece, e si avvicinò al loro tavolo, senza sapere esattamente perché. Le gambe lo portarono come se avessero una volontà propria. Si fermò a pochi passi da loro, abbastanza vicino da sentire cosa stavano dicendo, ma abbastanza lontano da non essere notato.

“Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero,” disse l’altra ragazza, ridendo.

“Ti avevo detto che avrei vinto,” rispose Violetta, con quel tono malizioso che Santini conosceva fin troppo bene.

“Ma… il professore? Seriamente? Voglio dire, è così… noioso.”

Violetta rise, una risata breve e tagliente. “Proprio per questo. Era una sfida. Non potevo lasciarmela sfuggire.”

L’altra ragazza si inclinò verso di lei, abbassando la voce. “E allora? Com’è stato? Com’è andata?”

Cosimo sentì il mondo crollargli in testa. Restò immobile, come un uomo che guarda un treno venirgli addosso e non riesce a muoversi.

“Facile,” disse Violetta, con un gesto disinvolto della mano. “Gli uomini come lui sono i più prevedibili. Una piccola dose di attenzione, qualche parola dolce, e sono tuoi.”

L’altra ragazza scoppiò a ridere. “Quindi, hai vinto la scommessa. Che cosa avevamo detto? Una cena al ristorante più costoso della città?”

“Esatto,” rispose Violetta, alzando il bicchiere come per brindare. “E tu paghi.”

Santini avvampò di vergogna. Era come se ogni parola fosse una lama che lo colpiva al cuore, tagliando via strati di dignità e lasciandolo a nudo, ferito e vulnerabile. Non era solo la rabbia o l’umiliazione a consumarlo. Era la realizzazione che era stato usato, manipolato, ridotto a un giocattolo per il divertimento di una ragazza troppo giovane e troppo crudele.

Fece un passo indietro, quasi inciampando, e si voltò. Non poteva affrontarla. Non lì, non in quel momento. Uscì dal caffè, camminando veloce per le strade, con il sole che lo bruciava e i pensieri che lo divoravano.

Quando arrivò a casa, si lasciò cadere sulla sedia e fissò il Crocifisso sulla parete. “Dio mio,” mormorò, la voce rotta, “come ho potuto essere così cieco?”

Ma non c’era risposta.

Non quella sera, almeno.

Cosimo passò la notte a pensare. E più pensava, più la rabbia cresceva. Non solo verso Violetta, ma verso se stesso, per aver permesso che accadesse. Per aver abbassato la guardia, per essersi lasciato ingannare da un sorriso e da un paio di occhi che promettevano mondi che non avrebbero mai consegnato.

E allora prese una decisione. Non poteva lasciarla vincere. Non così facilmente.

La vendetta, pensò, è una lezione che anche i più giovani possono imparare. E lui era ancora un insegnante, dopotutto.

Cosimo Santini si svegliò il giorno dopo con una chiarezza che non sentiva da anni. Non c’erano più tremori nelle mani, né ombre nella mente. Era strano sentirsi così lucido dopo giorni di tormento, ma quella mattina il dolore si era trasformato in una cosa diversa, una lama affilata che non vedeva l’ora di usare.

La scommessa, il tradimento, quella risata sprezzante: tutto si era sedimentato dentro di lui come veleno. E come ogni veleno, aveva bisogno di trovare una via d’uscita. Violetta aveva vinto la sua piccola partita, ma non sapeva ancora che il gioco era appena cominciato.

Cosimo passò l’intera mattina a prepararsi. Ogni gesto era calcolato, ogni pensiero preciso come un colpo di scalpello su un blocco di marmo. Il suo appartamento era pieno di vecchi libri e manoscritti, una collezione accumulata negli anni con la pazienza di un monaco. E fu proprio lì, in quella pila di testi dimenticati, che trovò ciò che cercava: un antico manoscritto dalla copertina consunta, il cui contenuto era vago e facilmente interpretabile.

Lo prese, lo sfogliò distrattamente per assicurarsi che fosse abbastanza convincente, poi si sedette alla scrivania con carta e penna. Quella che scrisse non era una lezione di latino, ma una storia. Una storia crudele, beffarda, e con un messaggio che avrebbe colpito Violetta dove faceva più male.

Quando ebbe finito, rise tra sé e sé. Era una risata bassa, ruvida, come il rumore di un motore che si accende dopo anni di ruggine.

La sera, Santini si presentò alla casa di Violetta con il manoscritto avvolto in un panno di velluto nero. La servitù lo fece entrare senza battere ciglio, abituata alla sua presenza. La famiglia era riunita nel grande salone per una cena formale, con ospiti importanti e un’aria di finta eleganza che lo disgustava.

Quando entrò, Violetta era lì, radiosa come sempre, ma questa volta con un sorriso che sembrava più amaro. Forse pensava che lui fosse venuto per affrontarla, per supplicarla, per implorare un qualche tipo di perdono. Ma Cosimo non era quel tipo di uomo. Non più.

“Professore!” esclamò Violetta, alzandosi dalla sedia. “Che sorpresa! Non mi aspettavo di vederla qui stasera.”

“Un dono,” disse lui, stringendo il pacco di velluto tra le mani. “Per lei e la sua famiglia. Un manoscritto antico. Una piccola curiosità letteraria che penso troverete… interessante.”

Gli occhi di Violetta si strinsero, sospettosi, ma il fascino della sua voce e il mistero del pacco bastarono a dissipare ogni dubbio. “Un manoscritto? Ma che gentilezza, professore. La prego, si unisca a noi.”

Santini scosse la testa. “No, devo andare. Ho altre… faccende.”

E con un sorriso freddo, se ne andò, lasciando il pacco sul tavolo come un regalo avvelenato.

Più tardi quella sera, quando la cena era finita e gli ospiti erano nel pieno della conversazione, Violetta prese il manoscritto e lo mostrò con orgoglio. “Il mio professore di latino mi ha portato questo,” disse con tono altezzoso. “Un testo antico. Forse una vecchia storia. Leggiamolo insieme, potrebbe essere divertente.”

Gli altri risero e applaudirono, già eccitati all’idea di un po’ di intrattenimento. Violetta aprì il manoscritto e cominciò a leggere.

La storia parlava di un giovane principe ingenuo e di una donna astuta e manipolatrice. Lei lo aveva sedotto per gioco, promettendogli amore e dedizione, solo per rivelare poi che tutto era stato uno scherzo crudele. Ma la storia non finiva lì. Il principe, umiliato e ridicolizzato, si vendicava in modo tanto spietato quanto efficace, svelando i segreti più oscuri e imbarazzanti della donna davanti a tutta la corte.

Man mano che Violetta leggeva, le parole cominciarono a rallentare. La risata della stanza si spense, sostituita da un silenzio teso. Era chiaro a tutti che quella non era solo una storia. Era un attacco diretto, un’allegoria trasparente. Ogni frase, ogni descrizione, alludevano a lei, alla giovane Violetta.

“Chi ha scritto questa porcheria?” esclamò il padre della ragazza, rompendo il silenzio.

Violetta lasciò cadere il manoscritto sul tavolo, il viso rosso di rabbia e vergogna. Sapeva benissimo chi l’aveva scritto. E sapeva anche che non poteva fare nulla.

Cosimo, intanto, era tornato al suo appartamento. Si sedette alla sua scrivania, con un bicchiere di vino rosso, un Gutturnio Superiore dei Colli Piacentini, davanti a sé, e guardò il Crocifisso appeso alla parete.

“Non era proprio cristiano, lo so,” mormorò, alzando il bicchiere in un brindisi silenzioso. “Ma certe lezioni non si imparano in chiesa.”

E per la prima volta in mesi, il professor Santini si sentì in pace. Non un santo, certo. Ma nemmeno un uomo da prendere in giro.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com


Scopri di più da Racconti Brevi

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Lascia un commento