L’alchimista della Val Tidone

Alchimista della Val Tidone

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Acacio Rovinati, da tutti conosciuto come l’alchimista della Val Tidone, si sollevò dal letto nel tardo pomeriggio, la testa gli scoppiava come dopo la peggiore delle sbornie e qualsiasi movimento facesse gli procurava dolore, come se fosse intrappolato in qualche racconto breve scritto da un malvagio scrittore.

Era nervoso, si condusse a forza sino al soggiorno e dal cassetto della scrivania tirò fuori una bottiglia di Scotch Whisky, riempì un bicchiere e ricominciò subito a bere. Si abbandonò sulla sedia dietro al tavolo e appoggiato allo schienale iniziò a domandarsi come fosse potuto accadere proprio a lui. Aveva fantasticato più di una volta di dover affrontare la morte per mano di qualche marito geloso, ma mai avrebbe immaginato di essere licenziato per aver sedotto la figlia di un generale dell’esercito.

Suonarono alla porta.

“Avanti, è aperto” urlò lui dal soggiorno.

Pur confuso per i postumi della sbornia riuscì a distinguere chiaramente i passi pesanti del visitatore che si avvicinava, poi alzò lo sguardo verso la porta e la vide.

Era la signora Elvira Birondisi, la padrona di casa, un’orrenda vecchia, mai stata moglie, inacidita e inesorabile.

“Siete indietro con l’affitto Rovinati, già di due settimane. Non penserete di farla franca senza pagare vero?”

Acacio non sapeva cosa rispondere, per un attimo, come si era già proposto di fare in passato, pensò di sedurre l’orribile arpia, ma, guardandola in faccia per alcuni secondi, abbandonò l’idea turbato dall’incredibile bruttezza di quella figura.

La Birondisi indossava un’improbabile abito di stoffa a tinta unita color carta da zucchero, la linea del busto aderente metteva in risalto i fianchi sfatti e abbondanti, il soprabito elegante e le piume di struzzo le davano un tono grottesco.

“Cosa succede Rovinati? Il gatto Vi ha mangiato la lingua? Esigo di avere ciò che mi spetta, come intendete giustificare il Vostro imbarazzante ritardo?”

Sembrava che la donna non avesse fatto alcun caso al volto sconvolto di Acacio che alla fine, dopo un lungo silenzio, replicò:

“Signora Elvira, dovrete perdonarmi, questo mese ho avuto alcune impreviste difficoltà, ma salderò il mio debito quanto prima, è mia ferma intenzione farlo” disse barcollando nel tentativo di alzarsi dalla sedia.

“L’unica Vostra fermezza consiste nell’abusare dell’alcol. Guardate come Vi siete ridotto, fate ribrezzo. O Vi decidete a pagarmi entro la settimana o Vi sbatterò fuori!”

Lui non poteva confessare quale fosse la reale causa dell’improvviso dissesto finanziario, cercò allora, ma senza successo, di imbonire la padrona di casa millantando una serie di poco credibili spese straordinarie cui era stato costretto.

“Non credo ad una sola delle stupidaggini che mi avete raccontato. Siete solo un pagliaccio. Dovreste ambire ad un più rispettabile decoro. Ma, evidentemente, non avete alcuna cognizione dei vostri limiti e siete solo un vecchio ubriacone.”

La signora Birondisi se ne andò senza lasciare il tempo per una qualunque replica, che comunque Acacio non era più in grado di elaborare. La visita di quella vecchia malvagia aveva aggiunto altro sale alla ferita. Doveva in qualche modo far fronte ai debiti che aveva accumulato, doveva trovarsi in fretta un nuovo lavoro, altrimenti si sarebbe trovato in mezzo ad una strada.

Andò al cesso e vomitò. Poi si fece un bagno caldo nel tentativo di ritemprarsi. Servì a poco.

Asciugatosi indossò biancheria e abiti puliti. Desiderava distrarsi dai suoi problemi, ma il whisky era finito. Si preparò la pipa seduto alla sua scrivania. Rimase seduto a meditare per diversi minuti lisciandosi la lunga barba grigia, poi sentì il bisogno di bere e decise di uscire.

Un po’ d’aria fresca e la brezza della sera gli avrebbero fatto bene, pensò. Si incamminò lungo la via principale del suo paese, la ridente cittadina di Borgonovo Val Tidone. Dopo un centinaio di metri entrò nella locanda Il Gatto Nero, una bettola di provincia dove gli facevano ancora credito e dove era solito ubriacarsi in compagnia di altri disperati ai margini della società: barboni, prostitute, fannulloni senza un fisso lavoro.

Tutti gli abituali avventori di quella taverna lo conoscevano: per via dei suoi vestiti stravaganti e del parlar forbito. Non poteva certo passare inosservato.

Appena fu arrivato, la signorina Marianna, vedendogli il volto solcato dalle occhiaie, gli si fece incontro interessandosi per la sua salute, una parentesi di umanità che gli offrì conforto.

“O mio Dio, cosa Vi è successo signor Acacio, avete un aspetto terribile” disse premurosa la figlia dell’oste.

Marianna era giovane e graziosa, dai lunghi capelli nero corvino e il corpo ben fatto. Non somigliava per nulla al padre, un omone enorme, più simile ad una scimmia gigantesca che ad un essere umano. I maligni sparlavano alle sue spalle sostenendo che il vero padre della bella ragazza fosse un altro.

“Andateci piano con quella roba” finse di lamentarsi Acacio, mentre la giovane donna gli riempiva un piatto di pisarei fumanti e profumati.

“Chi Vi ha ridotto in questo modo?” si interessò uno dei vecchi ubriaconi seduti al tavolo vicino.

Lui non rispose, iniziando a mangiare in silenzio.

L’oste era intento a mescere il vino ed anche Rovinati, che non desiderava altro, ebbe la sua dose. Non era un gran che bere, ma in quello stato faceva pure poca differenza. La figlia continuava intanto ad occuparsi dei clienti servendo la cena a chi l’aveva ordinata. Era brava, ormai in età da marito e con numerosi pretendenti.

Lo stesso Acacio non era rimasto insensibile alle grazie dell’attraente Marianna, ma la mole poderosa del padre, vero o presunto che fosse, lo aveva sempre indotto a miti consigli, e anche da ubriaco non aveva mai osato insidiarla.

I minuti passavano veloci al Gatto Nero e il Rovinati se ne stava seduto in un angolo con il fiasco di vino aperto e la pipa in bocca: beveva, fumava, si grattava la barba e pensava alle sue disgrazie, dando di tanto in tanto un occhiata furtiva alle gambe della figlia dell’oste, che lo ricambiava con sguardi ingenui ed innocenti.

Verso la mezzanotte una donna si sedette al suo tavolo. Si faceva chiamare Romualda e praticava il mestiere più antico del mondo.

“Salve Bambolo” disse, “Volete fare quattro salti? Mi sembrate un po’ giù di corda, ma io saprei bene come farvi risollevare” continuò con tono ammiccante.

“Mi spiace tesoro, non ho più un soldo, la sorte oggi mi è avversa” rispose triste Acacio.

“Oh, poverino, come mi dispiace” aggiunse lei senza troppa convinzione, accendendosi una sigaretta.

Mostrava più dei suoi anni, le labbra erano carnose e ricoperte da uno spesso strato di rossetto, i fianchi e il petto ben forniti. Sapeva come fare il suo lavoro, ed in passato il Rovinati aveva con soddisfazione fruito dei suoi servizi. Non era un gran che bella, ma si capiva che ci metteva impegno, e questo a lui era piaciuto. Gli piaceva sempre quando una donna ci metteva passione, quale che fosse il motivo per cui decideva di darsi: per noia o per capriccio, per denaro o per amore.

“Al massimo posso offrirti un calice di barbera” biascicò Acacio.

“Be’ piuttosto che niente, meglio il vino, amico sincero e generoso” sorrise lei.

Bevvero insieme augurandosi fortuna l’un l’altra e si fece notte fonda. L’osteria andava svuotandosi e ciascuno degli avventori tornava alle sue miserie. Anche Acacio salutò Romualda, l’oste e i pochi clienti rimasti. Malfermo sulle gambe rincasò barcollante. Una decente dormita, ragionò con un lampo di residua lucidità, gli avrebbe certamente giovato, e l’indomani poteva ancora pianificare il da farsi per aggiustare i pasticci nei quali si era venuto a trovare.

Si svegliò tardi, quasi a mezzodì. Andò in bagno ed espletò le incombenze del caso, vomitò un po’ di sangue. Aveva fame.  In cucina aprì la credenza e si fece un grappino, tanto per cominciare.

Si accorse di non essere solo, dei colpi sordi provenivano dal soggiorno, come se qualcuno stesse bussando sui vetri delle finestre. La faccenda gli parve strana, perché il suo appartamento era al secondo piano e non aveva balconi. Si avvicinò silenzioso attraversando il corridoio, i colpi sul vetro non calavano di intensità. Iniziò a sudare freddo e a preoccuparsi, sbirciò nel soggiorno dallo stipite della porta, per non essere visto.

Imprecò per la rabbia quando realizzò che si trattava solo di uno stupido gatto, entrato chissà quando e da chissà dove, probabilmente durante la notte. Nel tentativo di acchiappare la dannata bestiaccia rimediò pure dei graffi profondi sulle braccia, ma alla fine il detestabile felino sgattaiolò fuori dalla porta d’ingresso. Acacio la chiuse e tornò in cucina per un secondo grappino.

Consumò un pasto semplice e solitario riflettendo sulle possibili opzioni a sua disposizione. Non poteva espatriare perché gli mancava il denaro necessario, emigrare era dunque impensabile e del resto non avrebbe avuto alcun senso, l’Europa era sconvolta da una nuova guerra, e lasciare il paese era diventato complicato. C’era comunque il problema dei debiti e dell’affitto. Concluse quindi che gli servivano dei soldi, molti e in fretta. Si immaginò di rapinare una banca o di rubare in casa di qualche ricca signora, di quelle che aveva corteggiato nel passato. Tuttavia valutò che l’impresa fosse troppo rischiosa e lo esponesse inoltre al pericolo di essere arrestato.

Aprì le finestre del suo studio, facendo entrare l’aria fresca della primavera, auspicando di trovare una soluzione. Si sentì un po’ meglio, ma nessuna buona idea parve attraversargli il cervello. Si abbandonò sulla sua poltrona, le ferite provocate dai graffi del fottuto gattaccio bruciavano, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Rimase a lungo seduto, rimuginando sul proprio destino e senza toccare bicchiere per diverse ore. Osservava le persone passeggiare lungo la via sotto casa e ne provava ribrezzo: la gente non gli piaceva, nemmeno gli animali gli piacevano, forse soltanto le piante gli andavano a genio, ma nemmeno di questo era sicuro. Aveva sempre guardato con simpatia agli uomini del passato, e pensava che la modernità non facesse al caso suo. Era nato nell’epoca sbagliata e i suoi guai derivano forse da questo dispetto comminatogli dal fato, cinico e baro.

Quando il sole fu tramontato e le stelle si alzarono alte nel cielo, tutte le luci si spensero per via dell’oscuramento, e Acacio accese la lampada da tavolo che teneva sulla sua scrivania. Poi si alzò per chiudere le finestre.

Il gran buio fuori dalla casa pesava, copriva ogni cosa e lui cominciò ad avere brutti presentimenti.

Proprio in quel momento tre uomini vestiti di nero entrarono nel portone del suo palazzo e salirono svelti le scale. Alcuni secondi dopo, mentre Acacio Rovinati era ancora assorto nei suoi pensieri, un frastuono improvviso lo fece sobbalzare. Si alzò spaventato ed uscì dal soggiorno per dirigersi verso l’ingresso, da dove aveva sentito provenire il rumore. Giunto in anticamera notò che la porta dell’appartamento era socchiusa. Gli sembrò un indizio sinistro. Trattenne il respiro ma non successe nulla, intorno a lui ora c’era solo silenzio. La luce in anticamera si accese quando premette l’interruttore. Vide che la porta d’ingresso era stata forzata e un brivido gli attraversò la schiena. Ispezionò con cautela la cucina, ma non vi era nessuno. Senza sentirsi per questo sollevato si diresse nuovamente in soggiorno, guadagnò la scrivania per afferrare il tagliacarte, ma fu pietrificato da delle parole che lo fecero paralizzare.

“Buona sera Rovinati, fossi in voi lascerei stare quell’oggetto contundente, potreste anche farvi male” disse una voce calma e impostata.

Acacio si voltò e rimase sorpreso. Sprofondato nella poltrona collocata nell’angolo dello studio tra la libreria e la finestra, con le braccia mollemente adagiate sui braccioli, sedeva un ragazzo. Vestito sobriamente in nero indossava la divisa della milizia fascista, portava un paio di baffi tagliati corti per sembrare più vecchio, ma era sulla trentina, con due profondi occhi scuri e la carnagione bianca.

“Chi siete?” chiese il Rovinati confuso, mentre altri due tipacci con le facce orrende apparvero sulla porta, bloccando l’unica via di fuga.

“Sono il capitano Renzo Mattei dell’OVRA, la polizia segreta, e sono venuto a prendervi.”

Acacio si lasciò cadere incredulo e senza fiato sulla sedia della scrivania, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi terrorizzato, restando in silenzio per alcuni secondi. Mille pensieri si affollarono nella sua mente in quel momento terribile. Cosa poteva volere da lui la polizia politica del regime? Erano venuti ad arrestarlo? Cosa diavolo aveva combinato per finire in un simile guaio? Possibile che il generale a cui aveva sedotto la figlia fosse a tal punto incarognito da non accontentarsi di averlo fatto licenziare?

“Cosa volete?” fu l’unica cosa che riuscì a dire, con la voce tremante.

“Ve l’ho appena detto Rovinati, siamo venuti a prendervi” replicò il giovane senza scomporsi, con la bocca piegata in un ghigno crudele.

“Perché? Io non ho fatto niente” protestò timidamente Acacio.

“Questi sono gli ordini che ho ricevuto” disse il giovane con indifferenza.

“Ho il diritto di sapere per quale ragione volete arrestarmi. Non so nemmeno di cosa sono accusato.”

“Le questioni che ignorate sono infinite mio caro Rovinati, diciamo pure che non sapete proprio nulla. Ma non dovete agitarvi, non siamo qui per arrestarvi, altrimenti lo avremmo già fatto.”

Acacio era ora ancora più confuso, volevano portarlo via, ma senza arrestarlo, forse che quel giovane si stesse prendendo gioco di lui?

“Se mi rifiutassi di venire con Voi?” chiese allora, cercando di darsi coraggio.

“Non potete rifiutarvi” fu la laconica risposta.

“Dite che non mi state arrestando, ma non posso rifiutarmi di venire con Voi. Se non è un arresto dunque, Voi come lo chiamate?” obiettò Acacio.

“Lo chiamiamo accompagnamento coatto, mi stupisco che non lo sappiate” disse il capitano con tono sarcastico.

“E di grazia, potrei sapere dove volete portarmi e per quale ragione?”

“Siete stato scelto” iniziò a spiegare il capitano, “perché a Roma pensano di potervi utilizzare come informatore.”

“A Roma si stanno grossolanamente sbagliando, non sono per nulla portato alla delazione, trovo sia un’attività ignobile” si lamentò Acacio, offeso.

“Temo abbiate equivocato il significato di informatore. Sono richieste le Vostre competenze per contribuire allo nostro sforzo bellico” disse Mattei sorridendo in modo ironico.

Acacio si irrigidì, gli veniva prospettato qualcosa di assolutamente inaspettato.

“Ma io sono solo un vecchio, come posso essere utile allo sforzo bellico?” domandò dopo l’iniziale esitazione.

“Sappiamo tutto Rovinati. La nostra organizzazione tutto deve sapere e conoscere, così vanno le cose di questi tempi e non esiste modo per sfuggire questo destino. Voi non siete un semplice vecchio. C’è anche dell’altro… ”

Acacio non sapeva cosa dire, si sentiva intimidito, vulnerabile, non capiva a cosa Mattei si stesse riferendo e rimase in silenzio.

“Si tratta delle Vostre competenze nel campo della filosofia e della storia di quella dottrina nota con il nome di alchimia. Secondo le nostre informazioni siete tra i massimi esperti del Regno in questa materia” concluse il giovane ufficiale dell’OVRA.

Rovinati sorrise, era onorato da tanta considerazione, ma allo stesso tempo si preoccupò anche più di prima. Come era possibile che la polizia segreta si interessasse all’alchimia? Per quale ragione erano a conoscenza dei suoi studi su questa antica disciplina? E soprattutto come intendevano servirsene?  Tutte queste domande si affastellarono nella sua mente sconvolta come sacchi di sabbia lungo l’argine di un fiume in piena. Cercò di guadagnare tempo, per riflettere.

“Io non so nulla di utile in merito all’arte alchemica, ho solo letto qualche vecchio libro e nulla di più” cercò di sminuirsi. In realtà aveva dedicato alla materia gran parte della propria vita. Aveva anche pubblicato, usando uno pseudonimo, molti articoli su riviste come Atanor o Ignis prima che venissero soppresse[1], e che evidentemente non erano sfuggiti all’attenzione dei pignoli funzionari dell’OVRA.

“La vostra falsa modestia è in questo caso fuori luogo Rovinati, nell’ambiente sanno tutti della Vostra passione per questioni esoteriche, occultismo, alchimia e altro ciarpame annesso e connesso. Personalmente non nutro alcuna fiducia in questo genere di ricerche, retaggio di superstizioni medioevali o prodotto di ridicole congetture oscurantiste, ma io ho dei superiori e devo eseguire degli ordini. Diciamo che qualcuno ai piani alti ritiene che questo tipo di immondizia possa avere una qualche utilità.”

Acacio non disse nulla, osservò Mattei senza commentare, scrutando a lungo quel volto dai lineamenti fanciulleschi, così almeno gli sembravano nella penombra dello studio, scarsamente illuminato dalla lampada collocata sulla sua scrivania. Fece un profondo sospiro poi disse ispirato: “Secondo l’insegnamento dei loro predecessori, gli alchimisti di oggi devono ricordare che solo uomini dal cuore puro e dalle intenzioni elevate possono dedicarsi a questa antichissima disciplina. Continuo a dubitare che le informazioni di cui dispongo possano servirvi.”

“Concordo intimamente con quanto mi dite Rovinati, ma a Roma hanno una opinione differente e la mia missione è solo quella di portarvi sino alla capitale.”

Acacio scosse il capo con disappunto sfidando il suo giovane interlocutore: “Se mi rifiutassi di collaborare potreste fallire la Vostra missione dunque. Una prospettiva che forse non avete adeguatamente considerato.”

“Se credete che il marito tradito possa evirandosi dare la giusta punizione alla moglie infedele, allora potete anche immaginare di non assecondare la mia volontà. Ma diciamo che non credo siate così stupido. In fondo non avete scelta. Con le buone o con le cattive, Voi verrete via con me.”

“Parliamo della mia ricompensa allora, voglio sperare non Vi aspettiate che io accetti senza un’adeguata remunerazione.”

“Posso garantirvi la massima soddisfazione sotto questo profilo” annui Mattei allungandogli una busta.

“E’ solo un anticipo una tantum, in contanti ed esentasse. Servire la Patria può essere un affare assai soddisfacente” disse il fascista, con fare compiaciuto.

Acacio impiegò diversi secondi per contare il denaro contenuto nella busta, corrispondeva ad almeno tre mensilità del suo vecchio lavoro. Con quei denari avrebbe tenuto tranquilla la Birondisi. Forse poteva anche cavarsela a buon mercato, imbrogliando qualche alto gerarca con storie misteriose su antiche civiltà e oscuri presagi. Forse tutta quella storia non sarebbe stata poi tanto pericolosa, pensò prendendo coraggio.

“E quando dovremmo partire?” domandò ingenuamente.

“Prepari le valige Rovinati, una macchina è già qui sotto che ci sta aspettando” rispose il capitano Mattei con un ghigno soddisfatto che gli illuminò il volto.

Acacio si recò meccanicamente nelle propria camera da letto e rassegnato raccolse i pochi effetti personali che gli permisero di portar via. Scrisse sotto dettatura due lettere per spiegare le ragioni della sua improvvisa partenza: una per la governante e una per la signora Birondisi. Fu costretto a lasciare quasi tutti i soldi che poco prima gli erano stati consegnati, in quel modo avrebbe pagato gli arretrati e anticipato i prossimi mesi dell’affitto. Gli fu fatto scrivere che si stava trasferendo a Roma per svolgere una consulenza presso il Ministero della Cultura Popolare. Così avrebbe iniziato la sua nuova attività sotto copertura. Con qualche telefonata e cartolina, avrebbe in seguito avvisato i pochi amici.

Era buio da parecchio tempo, quando il capitano Mattei, gli sgherri ai suoi ordini e Rovinati uscirono silenziosamente dal palazzo. Una volta in strada montarono a bordo di una Fiat Balilla nera dell’OVRA, parcheggiata davanti al portone d’ingresso. Il tipaccio più alto sedette al posto di guida. Mattei senza manifestare alcuna emozione sedette davanti, cinicamente distaccato. Acacio e l’altro agente salirono dietro. Nessuno parlò. La macchina  partì e si diresse lentamente verso la stazione di Piacenza. I fari erano coperti con le mascherine per via dell’oscuramento e il viaggio richiese più tempo di quanto il lui si aspettasse.

Durante tutto il tragitto non fece altro che pensare a questa nuova e inaspettata svolta nella sua vita. In fin dei conti poteva anche essere considerato un colpo di fortuna, un modo come un altro per mettere insieme i denari di cui aveva bisogno per pagare i suoi debiti. La città eterna inoltre era bellissima, nel tempo libero non avrebbe certo corso il rischio di annoiarsi.

Quando finalmente arrivarono a destinazione, giusto in tempo per prendere l’ultimo treno notturno per Roma, Acacio cercò di raccogliere qualche nuova informazione.

“Chi dovrò incontrare di tanto importante da dover fare tutto così di corsa e all’improvviso?”

Mattei si fece scuro in volto. Sembrava disturbato dalla domanda.

“Lo scoprirete domani, che fretta avete?” disse con voce contrita.

Acacio percepì nell’atteggiamento di Mattei qualcosa di strano, per un attimo pensò che potesse addirittura essere invidia. Ma sapeva che non poteva avere senso. Tuttavia era curioso e provò ancora a stuzzicare il giovane ufficiale.

“Cosa succede? Avete paura che io possa cambiare idea e cercare di scappare durante la notte?”

“No” rispose il capitano con freddezza, “non avete scelta. Dovete venire a Roma, perché il Duce vuole vedervi.”

L’alchimista della Val Tidone Acacio Rovinati rimase di sasso. La guerra era iniziata da tre giorni, la polizia segreta lo aveva preso in custodia per condurlo a Roma con accompagnamento coatto, e Mussolini in persona voleva incontrarlo. In quel momento gli tornarono alla mente le parole di Papa Pio XII: “Nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra.” E la guerra di Acacio con la vita e con i suoi guai era appena cominciata.


[1] Atanor è una storica casa editrice italiana specializzata in esoterismo. Nella prima meta del Novecento, la casa editrice diede alle stampe le riviste Atanòr e Ignis, considerate le più note rassegne del secolo passato dedicate agli studi tradizionali e iniziatici.

Chiusa nel 1926 a seguito delle leggi contro la Massoneria, le edizioni Atanòr riaprirono dopo il 1945.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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La strage di Calendasco

Gli amanti di Calendasco

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Fulgenzio ed Alice furono massacrati una sera di mezza estate in quella che è passata alle cronache come la strage di Calendasco. Si erano conosciuti sin dall’infanzia perché lei, figlia di poveri braccianti agricoli, viveva in una miseranda casa attigua alla dimora padronale dove viveva Fulgenzio, in quel di Calendasco, un borgo piacentino abitato in quel tempo da poco meno di quattromila anime. E nel cortile della grande cascina i figli dei ricchi padroni e quelli dei miseri contadini potevano mischiarsi. I primi senza eccezione curati e ben vestiti, i secondi spesso trasandati e sempre con umili indumenti, ma nell’innocenza della loro fanciullezza, quelle non erano ancora barriere che potessero separare gli uni da gli altri. Con il sopraggiungere dell’adolescenza e gli iniziali rudimenti dell’educazione, i due giovani avevano imparato presto che, secondo gli usi del tempo, le proprie vite erano destinate a non doversi mai più incrociare. E per quanto la giovinetta fosse ben certa e consapevole di non poter anelar nemmeno in sogno alla compagnia del bel Fulgenzio, quest’ultimo, sin da allora di indole ribelle, non si rassegnava affatto a dover seguire i costumi, le regole e le consuetudini dell’epoca.

A dispetto delle aspettative del vecchio padre, che per il suo unico figlio maschio progettava un futuro a fianco di qualche fanciulla ricca e di buona famiglia, Fulgenzio si innamorò, contro ogni ragionevole previsione, proprio di quella umile e povera contadinella.

Da prima i due iniziarono con lo scambiarsi degli sguardi diversi da quelli che erano stati abituali durante i giochi dell’infanzia, poi anche il modo di parlare tra loro divenne diverso, nelle forme, ma soprattutto nei contenuti. Infine, una sera di fine estate all’inizio degli anni trenta, Fulgenzio si decise a prendere l’iniziativa, si appartò con la ragazza in un angolo buio della cascina, e dopo essersi dichiarato la baciò sulla bocca.

Lei arrossì per l’emozione, senza fiatare si aggrappò al collo del bel Fulgenzio e ne corrispose le attenzioni, incurante delle conseguenze. Per entrambi era quello il primo bacio, e segnò l’inizio di una storia d’amore appassionata e travolgente, che gli avrebbe legati a lungo contro ogni avversità.

E le tribolazioni per i giovani innamorati iniziarono subito. Per timore di dar scandalo si incontravano di nascosto, in qualche capanno in aperta campagna, o in altri luoghi lontani da occhi indiscreti. Il loro amore clandestino e segreto ebbe però vita breve, qualcuno un giorno li vide insieme e in un lampo la loro relazione divenne di pubblico dominio sino a giungere alle orecchie del vecchio padre di Fulgenzio.

Il genitore la prese molto male ed impazzì di rabbia. Mandò a chiamare il padre della ragazza e gli intimò di tener in casa la figlia scostumata, minacciando le più radicali rappresaglie se non fosse stato ubbidito. Quindi, dopo averlo convocato al suo cospetto, affrontò il figlio con le più scorbutiche intenzioni.

“Come hai osato gettare ombra sul rango della tua famiglia? Non sai tu che con quella pezzente non hai nulla da spartire né oggi né mai ne avrai in futuro?”  lo interrogò con il volto irrigidito dall’irritazione, con cipiglio minaccioso e con occhi severi, di quelli che non ammettono repliche.

“Padre, io amo quella giovane e la prenderò in sposa, mi rammarico che la cosa Vi sia sgradita, ma questo è il mio intendimento” rispose il giovane Fulgenzio arrossendo per l’emozione, ma dando prova di insospettabile fermezza e sfrontatezza, dinnanzi all’uomo che lo aveva sino a quel giorno considerato come una delle tante proprietà, delle quali poteva disporre a piacimento e senza render conto delle proprie decisioni.

“Maleducato!” esclamò il padre, indietreggiando due passi, tutto imbruttito per l’indignazione, e piantandogli in faccia due occhi inquisitori lo ammonì: “Sei senza creanza, e dunque è così che ora ti rivolgi al padre tuo? Ma stai ben certo che senza il mio consenso nessuna di queste tue malsane intemperanze potrai condurre a compimento. Faresti meglio a mettere giudizio in fretta o queste tue spalle da mascalzone conosceranno le carezze che ti sarai così maldestramente meritate!”

“Padre, io non temo la vostra ira e nemmeno le vostre punizioni” disse il giovane sommessamente, sapendo bene che rischiava di essere sonoramente legnato.

“Sono pronto a sopportare ogni violenza o privazione” proseguì sfidando l’autorità paterna, “ma nulla potrà dividermi dalla mia amata, e il mio destino sarà di unirmi a lei, che Voi lo vogliate oppure no!”

“Questo è troppo figlio sciagurato!” replicò il vecchio schiumando rabbia, “sapevo della tua indole ribelle, che si manifestò sin dall’infanzia, ma giungere a tanta irriverenza ed insolenza non è cosa che si possa lasciar passare come una qualunque marachella. Ora io mi pento di averti fatto parte delle antiche prerogative del nostro casato. Mi chiedo con terrore se un animo così indisciplinato ed un indole tanto poco rispettosa delle tradizioni, potranno mai consentirti di tener fede agli obblighi che il portare il tuo cognome comporta! Non voglio più vederti sino a quando non avrai riconsiderato i tuoi propositi.”

Il vecchio sembrava una belva in gabbia e si muoveva inquieto davanti lo scrittoio dello studio dove aveva ricevuto l’ingrato figlio. Ormai aveva deciso di allontanarlo, e così gli urlò indicando l’uscio con impeto furente: “Ora lasciami col mio dolore ed esci da questa casa!”

Fulgenzio, che era rimasto immobile col capo chino, rassegnato ad ascoltare in silenzio la rampogna del genitore irato, fu sulle prime colto alla sprovvista, non avendo preventivato di poter essere cacciato di casa. Ma dopo l’iniziale sbalordimento si riprese, e ostentando un orgoglio anche eccessivo, uscì da dove era venuto, e da quel giorno non fece più ritorno alla casa paterna né si riconciliò più con il burbero padre.

Nei suoi intendimenti Fulgenzio desiderava trasferirsi a Milano con la sua amata Alice. Ma quando lo venne a sapere Sandrino, un giovane attivista del locale partito comunista, fu l’inizio della fine.

Anche Sandrino amava Alice, e non poteva sopportare che lei gli preferisse un ricco, un borghese, un nemico del popolo.

Il giovane comunista aggredì la coppia appartata nelle campagne, ed assassinò Fulgenzio fracassandogli la testa a sassate. Alice cercò di impedirlo, con il solo risultato di beccarsi una coltellata nella pancia.

Fulgenzio ed Alice morirono assassinati nella strage di Calendasco, una sera di mezza estate.

Il duplice omicidio fu derubricato a delitto politico e Sandrino beneficiò dell’amnistia Togliatti, senza fare nemmeno un giorno di carcere.

 

 

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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Comunisti assassini

Il Palazzotto di Vicobarone

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Dai campi e dai poggi tutto intorno saliva un fresco odore di erba appena tagliata, mentre il sole della sera illuminava i sentieri e le mulattiere che si arrampicavano come edera su per le colline. Il palazzotto si ergeva austero ai piedi della scalinata che portava alla chiesa del borgo, e dominava il paesaggio. Era il secondo edificio per importanza, secondo solo al castello, che se ne stava abbarbicato sulla cima più alta, appoggiato alla chiesa.

Alice, Faustino e la sua famiglia, si erano da mesi stabiliti nel piccolo villaggio sui colli piacentini, avevano preso possesso delle stalle del palazzotto. Per non destare sospetti si erano presentati ai diffidenti abitanti del piccolo paese come i nuovi custodi, incaricati di rimettere in ordine l’edificio abbandonato e i campi incolti distribuiti lì intorno.

Per gli abitanti del piccolo borgo di confine tra oltre Po pavese e piacentino, l’arrivo di quei forestieri era stato un evento sin dal primo giorno. Ma anche alla metà di quel mese di giugno del 1940, con l’estate ormai alle porte e dopo quasi sei mesi dal loro arrivo, ogni movimento era attentamente monitorato da occhi instancabili e orecchie sempre all’erta.

Mentre il cielo si colorava di sangue, e le ultime ore di luce lasciavano lentamente il posto al buio della notte, la piazzetta del villaggio si andava animando. Le donne, dopo aver accudito le faccende di casa, scalze e vestite di cenci, con i capelli unti e arruffati, si incontravano davanti agli usci delle casupole. Alcune stendevano i panni, altre rammendavano, altre ancora spidocchiavano i figli. Tutte cicalavano delle più disparate questioni: chi del tempo, chi dei raccolti, chi sparlava di chi era assente o doveva ancora arrivare, chi diceva male di chi era appena andato via.

Gruppi di bambini chiassosi, si rincorrevano giocando nella piazza, seminudi e ricoperti di fango. Si lanciavano sassi, cacciavano lucertole, saltavano fossi. Le madri gli stavano dietro urlano improperi dall’alba al tramonto.

Alice, dopo una giornata nei campi, risaliva la strada sterrata che portava alla piazza, stanca e preoccupata, perché da molto tempo non riceveva notizie da Fulgenzio, sin dal giorno che si erano salutati davanti alla casa di Faustino a Milano. Camminava affaticata dal duro lavoro, e con il cuore gonfio d’angoscia, nella speranza di poter scoprire qualche notizia, magari appena giunta al villaggio con i giornali della sera, oppure per bocca di qualche mercante che era stato in città, raccogliendo testimonianze di prima mano.

Alice era una giovane donna timorata di Dio, istruita ed intelligente.

Aveva già saputo dello sfondamento dei tedeschi sul fronte occidentale. La capitolazione della Francia era data per certa un po’ da tutti, si trattava solo di capire quando questo sarebbe avvenuto. Un simile inatteso precipitare degli eventi le aveva dato ulteriore motivo di apprensione. Si chiedeva se Fulgenzio fosse mai arrivato a Parigi, oppure se avesse trovato scampo altrove. Si domandava con orrore cosa sarebbe accaduto se lo avessero arrestato i tedeschi. Aveva sentito raccontare cose orribili a proposito della gestapo, la polizia politica del Reich. Recitava un rosario tutte le sere, confidando nell’aiuto della Madonna e di Dio per superare quella terribile prova.

Quando arrivò sulla piazza, già cento occhi erano su di lei: le altre donne del villaggio la scrutavano, per loro era come una straniera.

Alice si era presentata come la sorella di Faustino, ma non erano poche quelle che in paese avevano avanzato il sospetto che non fosse la sua vera identità. Pettegolezzi rimasti latenti, ma mai dissipati del tutto, nonostante la giovane conducesse una vita irreprensibile totalmente dedicata al lavoro e alla fede. Partecipava a tutte le funzioni religiose del villaggio e si offriva sempre volontaria per tutte le opere di assistenza organizzate dalla parrocchia. Il suo stile di vita più simile a quello di una santa piuttosto che di una contadina, non era comunque bastato a superare la diffidenza degli abitanti del posto.

Entrò nella drogheria posta al centro della piazza, superando i tre scalini consunti dal tempo. Una megera dall’aspetto tremendo, con grosse labbra prominenti, il naso adunco e gli occhi stralunati, serviva alcune vecchie signore da dietro il bancone.

“La gente ha sempre paura” disse ad una delle sue clienti mentre Alice entrava nel negozio, “della fame, della malattia, della grandine, e adesso ci mancava pure la guerra.”

“La fame e la grandine ci portano la miseria, ma la guerra e la malattia ci portano via i figli” rispose una delle vecchie.

“I figli… i figli… di che vi lamentate Voi, che ne avete messi al mondo quindici?” disse la droghiera incartando la spesa in una busta, “credete a me, la miseria ne porta via più della guerra, perché arriva ovunque e non finisce mai. Guardate noi ad esempio, abbiamo della terra, ma non rende più nulla. Il vino che mio marito produce dalla vigna, se lo comprassimo al mercato ci costerebbe due volte di meno.”

“Dite bene, c’è la crisi, ne parlano tutti, e con la guerra va anche peggio, che ci daranno la tessera, guerra più miseria e stiamo tutti fregati” disse ancora la vecchia.

“E non è quello il peggio” si intromise un’altra signora, “la cosa più terribile sono le sciagure, che capitano tutte assieme ed una si porta dietro l’altra: la crisi porta la guerra che porta l’alluvione che porta la fame. E per noi povera gente non resta che affidarci alla Madonna, sperando che ci protegga almeno dal diavolo.”

Alice ascoltava quelle donne senza guardarle, teneva gli occhi fissi sul pavimento, un po’ per la sua indole umile, un po’ perché percepiva la diffidenza di quelle persone. I primi tempi ne aveva anche sofferto, ma in quel momento aveva altri pensieri per la testa. Voleva conoscere gli sviluppi della situazione bellica in Francia, sperava di ottenere qualche informazione che le consentisse di avere notizie sul destino di Fulgenzio.

E le novità che riuscì a scoprire scorrendo i titoli dei giornali in vendita le misero i brividi: Parigi era stata occupata. Le cadde l’occhio su di un pezzo del Popolo d’Italia, il quotidiano fondato da Mussolini. Nella colonna centrale il secondo articoletto titolava: “L’ingresso dei tedeschi a Parigi”. Alice iniziò a leggerlo con il cuore in gola. “Sulla cronaca dell’ingresso delle truppe di Hitler a Parigi si hanno finora pochi particolari. Alle 8 una colonna di carri armati e di fanteria motorizzata ha fatto il suo ingresso ufficiale a Parigi sulla quale volteggiavano vari stormì dell’Aviazione germanica. Le strade erano deserte. Tutti i negozi erano chiusi. Chiuse erano quasi tutte le finestre.

La sua lettura fu interrotta dalla voce stridula della terribile megera titolare del negozio: “Se vuoi leggere il giornale, signorina, ci vorrebbe prima che lo pagassi. Non siamo mica un ente di beneficenza noi. E nemmeno il dopolavoro del fascio. Se vuoi il giornale, mi dai 40 centesimi.”

Alice arrossì per la vergogna, era venuta apposta per comperare un giornale, stava solo guardando per scegliere quale prendere. Il Corriere della Sera era già andato esaurito quel giorno, così, senza dire una parola, tirò fuori di tasca il denaro e pagò. Si mise il giornale sotto braccio e uscì frettolosamente dalla drogheria, mentre le vecchie iniziavano già a riempire l’aria con odiosi commenti, senza nascondere la soddisfazione di aver finalmente colto in fallo la contadinella di pianura.

Lei tornava a passo svelto verso il palazzotto, i rurali rientravano nel borgo provenendo dalla campagna circostante. Si vedevano arrivare stanchi e cenciosi, affamati e piegati in avanti, avvezzi a quella postura per l’abitudine di lavorar la terra, assuefatti ad una vita di soggezione e servitù.

Alice notò che la gran parte si andava ammassando davanti alla locanda del paese, dinanzi alla scalinata che portava alla chiesa. Pian piano, uno ad uno, scomparivano dentro la stamberga. Pensando che vi si tenesse un qualche gran avvenimento, anche Alice si mise in fila per entrare.

“Presto, fate in fretta” diceva un giovane con al petto le insegne del partito fascista, “il podestà ha da fare delle comunicazioni alla cittadinanza, avanti, affrettatevi, prendete posto.”

“Ma io ho fame, ho lavorato tutto il giorno” protestò un rurale con la faccia color del cuoio, pochi capelli già colorati di grigio, la schiena gobba e le mani rovinate dalla fatica.

“Mangerete più tardi, dopo il discorso del podestà” disse il giovane con le insegne fasciste in tono sbrigativo, dando per scontato che il contadino gli avrebbe ubbidito. Il contadino eseguì il comando, e si mise in fila borbottando volgarità irriferibili.

Quando Alice entrò nella locanda si andò ad accovacciare in un angolo, sperando di passare inosservata. Nella trattoria erano adunati una cinquantina di straccioni, ammassati uno vicino all’altro, con gli occhi sottomessi e rassegnati. Le facce erano contorte, deformate dalla fame e dalle malattie. Una puzza intensa di letame e panni sporchi si sprigionava dal gruppo, inquinando l’aria.

Il podestà stava in piedi in fondo alla locanda, indossava la divisa della milizia e teneva le mani ai fianchi gonfiando il petto. Era un uomo di mezza età con i capelli tagliati corti. Sul volto un’espressione fiera non bastava a celare l’aria stupida. Occhi vuoti e senz’anima galleggiavano su di una faccia di cera.

“Cittadini, Camice nere, Uomini e donne del borgo e della valle… ascoltate…” cominciò il suo comizio con aria enfatica, “un altro giorno di importanza storica mondiale volge al termine, mentre le eroiche truppe dell’asse avanzano vittoriose su tutti i fronti…”

La gente ascoltava senza interesse, le vittorie conseguite dal regime avevano raramente portato concreti benefici ai lavoratori di quelle valli, ed essi si erano assuefatti al proselitismo dei funzionari di partito, che iniziavano ormai a perdere di mordente, incapaci di dare risposte concrete ai loro veri problemi.

Anche Alice, ascoltando la bolsa retorica del podestà, rimase indifferente. Per la testa le passarono come al cinematografo le immagini della propaganda: le battaglie del grano e di “quota 90”, la creazione dell’Impero, la guerra di Spagna e l’annessione dell’Albania. Tutti i successi del fascismo le sembrarono indigesti, il prezzo da pagare troppo alto, ora che la sua stessa libertà era in gioco, adesso che aveva sul collo il fiato della polizia segreta, uno dei più efficaci strumenti per la ricerca e la repressione dei dissidenti politici. Inoltre era stata costretta a separarsi dall’amato Fulgenzio, e questo era per lei il sacrificio più grande e più difficile da accettare.

“La rivoluzione rurale ha conseguito i suoi obiettivi su tutta la linea” continuò con enfasi esagerata il podestà, “permettendo all’Italia del Littorio il progresso materiale e spirituale, salvando il paese dal pericolo comunista…”

A quelle nuove parole il volto di Alice si irrigidì. La sua mente semplice ed ingenua non riusciva ad immaginare Fulgenzio e gli altri compagni del partito clandestino come un pericolo. Ai suoi occhi erano tutte brave persone, forse con idee bizzarre, ma in fin dei conti incapaci di far del male a una mosca. Davvero non riusciva a spiegarsi per quale ragione il Governo si accanisse tanto contro di loro.

Comunisti assassini! Essi sono subdoli fuorilegge” disse in quel momento il podestà roteando il pugno chiuso con aria bellicosa, “si riuniscono di notte, nelle fogne delle città, per tramare contro lo Stato, sputando sulla croce e vendendo l’anima al demonio pur di raggiungere i loro fini criminali.”

Udendo quelle spaventose rivelazioni, Alice ebbe paura. Non aveva mai partecipato alle riunioni segrete del partito, ma conosceva le idee anticlericali e atee di Fulgenzio. Il sospetto che i comunisti potessero veramente commettere omicidi o sputare sulla croce o vendere l’anima al diavolo si impadronì dei suoi pensieri dandole i brividi. Aveva tanto pregato per il suo amato, affinché egli ritrovasse la fede. Ora cominciava a temere che le sventure da cui erano stati colpiti, fossero correlate con questi riti satanici. Forse lui aveva veramente venduto l’anima, ed era per questo che si era allontanato da lei, considerò per un momento. Poi cercò di allontanare quel brutto pensiero dalla mente, e continuò ad ascoltare il discorso del podestà sino alla fine.

Quando la gente cominciò a rialzarsi dal pavimento per tornare alle proprie abitazioni, anche Alice si avviò mestamente verso il palazzotto. Il podestà fu subito attorniato dai notabili locali del partito: i volti di questi uomini erano euforici, il crollo della Francia aveva alimentato in loro effimere speranze ed esagerate aspettative. Avevano cercato di trasmettere queste emozioni ai rurali forzatamente convocati ad ascoltare il comizio del podestà, ma in questo non avevano ottenuto grande riscontro. Tutto ciò avrebbe dovuto indurli a riflettere, ma non quella sera. La voglia di festeggiare era troppo grande, il desiderio di esorcizzare il demone di una guerra, che poteva ancora essere lunga e dolorosa, troppo intenso.

Il podestà ordinò da bere per tutti e rimase alla locanda fino a tardi, a parlamentare con i suoi seguaci circa i destini dell’Italia nel mondo di domani. Verso la mezzanotte le loro voci si erano fatte stridule, erano stonate, avvinazzate, rallentate sino a perdere il fiato, e accompagnate dai gesti grotteschi caratteristici della gente ubriaca.

Alice era da tempo tornata alle stalle dove aveva preso dimora insieme a Faustino e la sua famiglia. Le quattro mura dove abitavano avevano l’aspetto di un porcile. Per entrarvi bisognava piegarsi, le finestre erano piccole e la poca luce che lasciavano filtrare durante il giorno era del tutto assente la notte. Al lume di due grosse candele, a fatica si potevano scorgere i pagliericci sui quali dormivano gli sventurati. Una puzza tremenda saturava l’ambiente malsano. Una capra ruminava in un angolo un po’ di paglia sudicia. Un tavolaccio unto, alcune sedie spagliate ed una panchetta di legno appoggiata al camino costituivano il restante mobilio, povero ed essenziale.

I figli di Faustino giacevano addormentanti sul pagliericcio. Erano tre: due maschi e una femminuccia. Il più grande non aveva ancora compiuto i dieci anni, la più piccola aveva circa venti mesi di vita. I piedi dei due bambini più grandicelli erano gonfi, pieni di cicatrici e sporchi di terra. Non possedevano scarpe e con la bella stagione riuscivano almeno a sottrarsi ai tormenti del freddo.

“Voglio tornare a Milano” disse Alice rivolgendosi a Faustino, “devo parlare con don Celestino, credo possa aiutarmi a trovare Fulgenzio.”

In cielo brillava uno specchio di luna, i grilli cantavano pieni di energia nella notte stellata. Faustino guardò Alice allibito e le labbra gli si piegarono in una smorfia.

“Se torni a Milano ti arresteranno, non posso permettere che tu corra questo rischio, ho promesso a Fulgenzio di proteggerti” disse con voce agitata, mentre prendeva un fazzoletto con la lentezza dei vecchi, per asciugarsi la fronte imperlata dal caldo.

“Devo andare” rispose Alice. I suoi occhi erano rossi e tormentati. “Non posso restare qui a nascondermi, non abbiamo più avuto alcuna notizia, e mi sembra di impazzire. Non mi importa di correre dei rischi. Devo riuscire a scoprire dove si trova.”

“Come pensi che don Celestino possa aiutarti? E’ solo un povero prete, cosa vuoi che ne sappia dei rifugiati politici in Francia?”

“Le vie del Signore sono infinite, sono certa che in qualche modo mi aiuterà.”

Faustino non replicò e anche lei rimase in silenzio. Certi silenzi possono essere piacevoli, a volte, ma quello sembrava di morte.

“Conviene aspettare che sia finita la guerra” disse Fulvia, la moglie di Faustino, rompendo la quiete.

“Non sembra che manchi molto ormai. Quando tutto sarà finito sarà più facile” aggiunse sorridendo.

Fulvia aveva un bel sorriso, le sue labbra erano rosse e piene, e rendevano piacevole un volto già indurito da una vita di stenti e miseria, nonostante non avesse ancora trent’anni. Indossava abiti umili, una camicetta un tempo bianca, ma ormai divenuta grigia e lisa, con le falde che cadevano su di una sbiadita gonna consunta dal tempo.

“Non posso più aspettare” commentò Alice, “non avrei dovuto lasciarlo partire da solo. Ma posso ancora rimediare, scoprire dove si trova e cercare di raggiungerlo.”

“Tutto questo non ha senso” protestò Faustino, “il nostro compito è di rimanere qui, in attesa della rivoluzione.”

“E cosa ci sarà di diverso da adesso con la rivoluzione?” chiese Alice dubbiosa.

“Ci sarà l’abolizione della proprietà privata della terra.”

“E chi dovrebbe farla la rivoluzione? Tu? Fulgenzio? Oppure gli altri vostri compagni che sono stati tutti arrestati o sono fuggiti all’estero o al massimo si nascondono come noi, come fossimo dei delinquenti?”

“La rivoluzione la faremo noi poveri” disse Faustino con voce grave. Indossava vestiti logori e trasandati che gli davano un aspetto melanconico, ma la sua passione era sincera, la sua speranza in una emancipazione delle classi popolari genuina.

“Per i poveri ci sono i sussidi e le mense statali, a cosa servirebbe abolire la proprietà privata della terra? I contadini continuerebbero a fare i contadini, come ora. Cosa cambierebbe?” domandò Alice, poco convinta dalle argomentazioni di Faustino.

“Con la rivoluzione e l’abolizione della proprietà privata sarà possibile salvare il popolo dall’ingordigia della proprietà. E’ lì che si nasconde il demonio.”

“L’unica salvezza dal demonio è nella fede e nella chiesa. Come possiamo fidarci della rivoluzione, se con la proprietà vuole abolire anche la religione?”

“Con la rivoluzione e la redenzione del popolo, non ci sarà più necessità della religione. Lo Stato provvederà ad ogni bisogno” sentenziò Faustino.

“Lo Stato? Non è forse quanto già avviene oggi? Non è forse nel nome dello Stato che si va in guerra? Che si arrestano i dissidenti? Che si perseguitano gli oppositori?” esclamò Alice con tono accorato.

“Io credo che la Vostra rivoluzione non porterà a nulla di buono” continuò lei, perlustrando la faccia di Faustino con fare cortese, ma deciso.

“Modificheranno le parole, si professeranno idee diverse forse, ma alla fine non cambierà nulla. Si affermerà una nuova dittatura che si servirà di ogni mezzo, compreso il terrore, per distruggere ogni dissidenza e impedire la libertà di pensiero. Come avviene in Russia. Vogliono distruggere la chiesa e perseguitare le religioni perché hanno paura di chi vuol continuare a pensare con la propria testa.”

Faustino abbassò il capo, la sua faccia aveva assunto il colore del mogano lucidato, i suoi occhi piccoli si chiusero e le labbra si serrarono in una smorfia di disappunto. Uno smorto refolo di aria calda e umida penetrò nel tugurio attraverso la porta aperta, e il frinire dei grilli si fece assordante per alcuni secondi.

“Come puoi giudicarci in questo modo?” domandò infine riaprendo gli occhi e guardando Alice con rassegnazione, come se già sapesse che non avrebbe ottenuto una risposta soddisfacente.

“Io non giudico, mi limito a constatare. Il paradiso in terra che andate predicando, il Socialismo Sovietico, non è diverso dalle altre dittature. La Germania ha aggredito la Polonia, ma la Russia sovietica non ha fatto la stessa cosa? La Germania ha invaso la Norvegia, la Danimarca e l’Olanda, così come Stalin ha attaccato la Finlandia. Se i dissidenti politici sono perseguitati in Italia come in Germania, lo stesso avviene in Unione Sovietica. Ci sono tanti comunisti assassini quanti ve ne sono tra i fascisti. Tutto ciò per cui dite di combattere è marciò almeno quanto i regimi che vi proponete di rovesciare. Io comunque non vi giudico e non mi interessa cosa pensate o volete fare. A me interessa solo ritrovare Fulgenzio, sposarlo e mettere al modo dei figli, come ogni buon cristiano dovrebbe fare. Non ho altre pretese dalla vita, e voglio fare tutto quanto mi è possibile per realizzare le mie modeste ambizioni.”

Alice disse tutto d’un fiato. Più volte in passato aveva provato il desiderio di condividere quei pensieri con Fulgenzio, ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo. Lui le avrebbe liquidate come idee reazionarie e avrebbero finito con il litigare. Di cosa avrebbe detto o pensato Faustino invece non le importava quasi nulla, e così aveva trovato la forza di vuotare il sacco.

“Non puoi cercare di fermarla” si intromise Fulvia nella conversazione. Sino a quel momento era rimasta ad ascoltare senza dire nulla. A quel punto valutò opportuno dare il proprio sostegno e un po’ di solidarietà femminile ad Alice: “Deve seguire il suo destino, non abbiamo alcun diritto di impedirglielo.”

“Se la catturano anche noi saremo in pericolo, ci arresteranno tutti, dobbiamo considerare anche questo aspetto” osservò Faustino con malcelato fastidio.

Alice arrossì. Non aveva ponderato le conseguenze che il suo comportamento poteva avere sugli altri. Era determinata a ritrovare Fulgenzio, ma non voleva certo esporre Faustino e la sua famiglia ad ulteriori pericoli.

“Cerchiamo di essere ragionevoli” disse ancora Fulvia, “la polizia ha cose più urgenti di cui occuparsi. Milano è una grande città e nessuno si accorgerà dell’arrivo di Alice, né della sua partenza. Vuole solo parlare con don Celestino, per quale ragione al mondo dovrebbe essere arrestata? Per quanto ne sappiamo le autorità non hanno nemmeno una sua fotografia, non sappiamo nemmeno se è veramente ricercata.”

Faustino sembrava ancora titubante, ma non osò contraddire la moglie. Si limitò ad annuire, e poi rivolgendosi ad Alice concluse: “Sta bene, se però non sarai di ritorno entro due giorni, abbandoneremo questo villaggio e ci sposteremo altrove, anche se non so ancora dove. Ma su… via… ha ragione Fulvia, andrai solo a parlare con un prete, perché mai dovrebbero arrestarti?”

Alice si sentì un poco sollevata, ora che entrambi si erano convinti a lasciarla partire. Preparò le poche cose che avrebbe portato in viaggio l’indomani e si coricò sul lurido pagliericcio, tra la capretta e i bambini.

Faticava però a prendere sonno, si sentiva come se anche il suo cuore fosse avvolto dal buio, e il silenzio le trasmetteva una specie di dolore sordo che avrebbe certamente impedito l’accesso ai sogni. Così pensò a lungo alla guerra, all’amore e alla morte, e solo a notte fonda riuscì ad addormentarsi.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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