Racconto horror per pigiama party

 

Pigiama party Horror

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Quel pomeriggio di inizio estate faceva molto caldo, Edda e Rino si erano incontrati per passare qualche ora insieme, mangiare un gelato, tenersi per mano.

Ma tutto ciò era per Edda di una noia micidiale, lei preferiva vivere emozioni forti, leggere libri di avventure o guardare film pulp.

Così decise di coinvolgere Rino in un’ardimentosa e proibitissima azione.

Voleva organizzate un pigiama party a tema horror nella cantina del nonno, quella proibita dove nessuno poteva entrare, quella con il pozzo della morte.

Quando lo disse a Rino, egli ebbe paura. A tutti i bambini in tutta la valle avevano raccontato macabre storie di crudeli esecuzioni, di gente spinta dentro al pozzo pieno di lame nella cantina dell’antico palazzo medioevale.

Il vecchio Maldracini lo aveva comperato un quarto di secolo prima, ma il pozzo con le lame stava dentro a quella cantina da almeno cinquecento anni.

“Ho rubato la chiave per entrare nella cantina del nonno, se mi ami, questa notte verrai con me. Ci saranno anche Matilda, Gilda e Franchino”

Rino era terrorizzato, ma ad Edda non sapeva dire di no. Lei lo dominava totalmente.

“D’accordo, dimmi a che ora dobbiamo incontrarci”

“A mezzanotte” disse lei, poi gli sorrise raggiante, lo baciò sulle labbra e se ne andò.

Rino rimase imbambolato per alcuni minuti, confuso e felice. Era la prima volta che Edda lo baciava. Tornò a casa euforico, non vedeva l’ora che arrivasse la mezzanotte, e per qualche ora si dimenticò della cantina proibita.

Vittorio Maldracini si affacciò al balcone del suo ufficio, da dove poteva dominare tutte le sue terre. Aveva occhi di ghiaccio e folti baffi argentati e aveva fatto fortuna vendendo vino Gutturnio in tutto il mondo.

Si accese la pipa meditando sul futuro. Aveva messo in piedi un impero partendo dal nulla, ma la vita non gli aveva fatto sconti: era rimasto vedovo a cinquant’anni e, soprattutto, il suo unico figlio era un coglione.

Si chiamava Umberto, ed era così stupido che non avrebbe potuto condurre nemmeno un’edicola, figurarsi una megaditta come la Vinicola Maldracini. L’avrebbe portata al fallimento in pochi anni se mai un giorno fosse stato chiamato a guidarla.

Era un vero deficiente, lo sapevano tutti, ma era anche il suo unico erede e quindi senza dubbio un buon partito. E così Vittorio Maldracini era riuscito a trovare al figlio una brava moglie, istruita, capace ed intelligente. In futuro avrebbe affidato a lei le redini della sua azienda, o ancora meglio, se fosse vissuto abbastanza, direttamente alla nipote Edda.

Edda aveva già compiuto diciassette anni, aveva lo stesso carattere di nonno Vittorio e per fortuna non era scema come papà Umberto. Portava lunghi capelli biondi raccolti in due grosse trecce, andava bene a scuola, era un tipo sportivo, amava correre e le piaceva comandare.

Esercitava la sua influenza tanto sulle amiche quanto sul suo fidanzatino Rino. Poteva far di lui ciò che voleva, e le piaceva anche approfittarne, lasciando trapelare una latente devianza verso il sadismo.

A mezzanotte il cielo era terso ed una luna giallognola e pustolosa galleggiava nel buio, quando i cinque giovani in infradito e vestiti con colorati pigiami giunsero davanti all’ingresso della cantina proibita. Ci erano arrivati attraversando il giardino silenziosi, protetti dalle tenebre.

La porta per accedere alla cantina si presentava davanti a loro misteriosa ed inquietante, come una raccapricciante bocca di teschio spalancata, con grosse ante in ferro arrugginito chiuse tra le fauci scheletriche.

“Avanti, seguitemi” ordinò Edda, dopo aver aperto il lucchetto che serrava il catenaccio.

Le pesanti ante in ferro si aprirono cigolando, quel tanto che bastava ai corpi esili e pieni di vita dei cinque adolescenti per sgattaiolare all’interno dell’edificio, poi Edda le richiuse dietro di sé provocando un sinistro frastuono.

“Accendi la torcia elettrica” ordinò.

Franchino eseguì il comando ed un debole fascio di luce cominciò a scandagliare l’oscurità dalla quale erano rimasti avvolti.

L’ambiente nel quale si erano introdotti apparve ai loro occhi come lugubre e greve. Era una specie di lungo e largo corridoio sormontato da un basso soffitto a volta in mattoni. Dal centro del soffitto, nella parte centrale della cantina, pendevano come arti mozzati delle grosse pancette arrotolate, coppe piacentine e salami. Non vi erano finestre ma soltanto delle strette feritoie che davano sul cortile del palazzo ed erano schermate dall’interno con dei vecchi paraluce di legno consumati dall’umidità. Lungo le pareti laterali erano accatastate a stagionare migliaia di pregiate bottiglie di vino Gutturnio.

Verso la fine della cantina, qualche metro prima del muro di fondo, si apriva lo spaventoso e famigerato pozzo delle lame.

“Dobbiamo trovare l’interruttore della luce” suggerì Gilda, avendo notato alcune vecchie lampadine penzolare lungo le pareti tra i cumuli di bottiglie.

“Buona idea” condivise Franchino, illuminando i muri vicino all’ingresso alla spasmodica ricerca di un quadro elettrico.

“Eccolo!” disse esultante Edda, appena il fascio di luce passò sopra ad un vecchio interruttore.

“Accendi la luce” ordinò a Rino.

Il ragazzo si avvicinò esitante all’interruttore e dopo qualche attimo di incertezza premette il pulsante.

Una flebile luce rischiarò il tetro ambiente attorno ai ragazzi. Anche se era stata illuminata, una sorta di sinistra sensazione di malessere si poteva percepire per tutta la lunghezza di quella dannata cantina.

“Quello cos’è!?” indicò Matilda, puntando il dito verso un punto della stanza in mezzo a due cataste di bottiglie. Era sconvolta, ed un afflato di autentico ribrezzo le sfigurò la faccia in un’espressione di genuino terrore.

“Che schifo!” urlò Gilda.

“Veramente disgustoso” aggiunse Franchino puntando la torcia in quel punto nel tentativo di illuminarlo meglio.

Vi era una gabbia arrugginita per l’allevamento dei conigli. La maggior parte degli scompartimenti erano vuoti, ma in due di essi vi erano intrappolati tre nauseanti ratti neri grossi come gatti. Uno stava chiuso da solo, gli altri due assieme. Quello solo sembrava mansueto. Nell’altro scompartimento un ratto si muoveva nervosamente dando segni di evidente aggressività, mentre il secondo giaceva morto con la pancia sventrata.

Appena Franchino si avvicinò per ispezionare meglio le gabbie, il ratto aggressivo cercò di saltargli addosso, ma fu fermato dalla rete metallica alla quale si aggrappò emettendo degli orribili squittii.

Franchino si ritrasse istintivamente.

“Mi viene da vomitare, fanno ribrezzo” disse Gilda tenendosi una mano sullo stomaco

“Mio Dio, ma chi cazzo ce li ha messi dentro la gabbia?” chiese Matilda.

“Soltanto mio Nonno ha le chiavi di questa cantina. Ma quello fissato con i ratti è senza dubbio mio padre, ne parla in continuazione” disse Edda, mentre osservava affascinata le ripugnanti creature.

Franchino proseguì oltre e si avvicinò con prudenza al pozzo delle lame.

L’apertura del pozzo era sigillata da una grata in ferro ribaltabile. Si presentava di forma circolare e di diametro piuttosto modesto. Una persona ci sarebbe passata a fatica.

Franchino provò ad illuminare l’interno del pozzo, ma il buco scuro e profondo sembrava non avere il fondo. Nel punto più basso raggiunto dal fascio di luce della torcia, si vedevano luccicare le prime lame che come artigli spuntavano dalle pareti.

Un indefinibile e disgustoso puzzo di morte esalava dalle viscere della terra in cui il canale sembrava immergersi senza fine.

“E adesso cosa facciamo? Questo posto mette i brividi” osservò Matilda.

“Hai ragione, dovremmo andarcene, ho paura anch’io” disse Gilda

Franchino lasciò cadere 50 centesimi nel centro del pozzo.

Non si udì nessun rumore, la moneta fu inghiottita dall’oscurità.

“Non andremo da nessuna parte sino all’alba” sentenziò Edda.

Poi appoggiò il suo zaino sul pavimento in pietra e cominciò a tirare fuori gli oggetti che aveva preparato per l’occasione: una stuoia arrotolata, 5 candele rosse di grosso diametro, un accendino, un cavatappi, bicchieri di carta, cartine per sigarette, tabacco, e due grammi di marijuana.

Distese la stuoia poco distante dal pozzo e vi sedette sopra invitando gli altri a raggiungerla. L’enorme ratto aggressivo continuava ad agitarsi dentro la gabbia muovendo la lunga coda schifosa.

Rino fu il primo a sedersi, poi arrivarono anche Franchino, Gilda e Matilda, la più carina delle tre ragazze.

Erano tutti in pigiama, giovani e belli, e con le candele spente vicino ai piedi scalzi.

“Lo sapevate che la provincia di Piacenza è la più infestata d’Italia?” disse Edda, mentre stappava una bottiglia di Gutturnio presa dalla catasta più vicina.

“Infestata da cosa? Dai topi?” chiese Matilda indicando i ratti nella gabbia.

“No cretina, sto parlano di spiriti e fantasmi”

“Edda ha ragione” convenne Franchino, “ogni castello ha il suo fantasma su queste colline, e nel piacentino di castelli ce ne sono tanti”

“Ma tu cosa ne sai?” disse Gilda ridacchiando.

“Il più famoso è il Conte Pier Maria Scotti” spiegò Edda, mentre versava da bere a tutti.

“Fu pugnalato a morte nel 1514 vicino al castello di Agazzano. Il suo cadavere fu gettato nel fossato senza essere sepolto e non fu più ritrovato. Nelle notti di luna piena, molti testimoni nel corso dei secoli, raccontano di aver visto il suo fantasma vestito di nero aggirarsi intorno al maniero brandendo una spada e terrorizzando i presenti”

Tra i giovani scese il silenzio, Edda aveva catturato la loro attenzione.

“Un altro fantasma famoso è quello di Rosania. Si racconta che la sventurata sia stata murata viva dentro una stanza segreta del castello di Gropparello dal marito geloso. Aveva scoperto che lei se la faceva con un cortigiano di nome Lancillotto e la sua vendetta è stata spietata. Le testimonianze ci dicono che da più di ottocento anni, nelle notti tempestose, è possibile udire strazianti urla femminili provenire dai sotterranei del castello.”

“Queste storie mettono paura” disse Matilda buttando giù una sorsata di vino e stringendosi al petto le ginocchia.

Tutti sghignazzarono.

Poi uno strano e terribile rumore, come di qualcosa che gratta sul legno e che sembrava provenire dalle profondità del pozzo, ridusse i ragazzi al silenzio.

“Avete sentito tutti?” domandò Gilda sbiancando.

Gli altri annuirono

“Veniva dal pozzo o mi sbaglio?” chiese Matilda.

“Mi è sembrato proprio che venisse da lì” confermò Franchino

I ragazzi restarono nuovamente in silenzio, ma si poteva soltanto avvertire lo zampettare ributtante del ratto nero che si agitava nella gabbia.

“Coraggio, sarà stata solo una suggestione, non può esserci nulla di vivo in fondo a quel pozzo” cercò di rassicurali Edda, mentre accendeva le candele intorno a loro.

“Sono proprio necessarie le candele accese?” domando Gilda, sempre più pallida, “mi mettono angoscia”

“Servono a creare la giusta atmosfera per il nostro pigiama party gotico” spiegò Edda.

“Allora dove eravamo rimasti?”

“Ci stavi raccontando dello spirito inquieto di Rosania” disse Franchino.

Edda sogghignò osservando i volti cinerei delle ragazze: “Cosa succede? Avete paura?”

La guardarono incredule.

“Tu non ne hai?” chiese Gilda, buttando giù la sua dose di Gutturnio.

“Io non ho paura di niente.”

“Sta bene” disse Matilda con tono di sfida, allora vai a dare un occhio a quel pozzo, visto che sei tanto coraggiosa, mettici dentro un braccio.”

Gli altri ammutolirono, mentre Edda, per nulla preoccupata, si avvicinò al pozzo con lentezza teatrale, vi si inginocchiò davanti e ancora più lentamente infilò la mano e tutto il braccio destro tra le maglie della grata sino quasi a toccarla con la testa.

“Così può andare bene?” chiese sorniona, sapendo di aver vinto la prova.

I ragazzi applaudirono, Gilda e Rino la incoraggiarono: “Brava… sì… che dura… così… brava…”

All’improvviso però, il volto di Edda si fece serio, poi scuro, poi una smorfia di sofferenza le imbruttì la faccia e lei cacciò un pauroso urlo di dolore.

Cercò di tirare fuori il braccio dal pozzo, ma sembrava che qualcosa lo stesse trattenendo.

“Aiuto… mi fa male… aiutatemi… vi prego!” urlava Edda.

Gilda, ormai bianca come un cencio urlò a sua volta e cominciò a piangere, Matilda, terrorizzata, strillava tirandosi i capelli, Rino era paralizzato dal panico. Soltanto Franchino, poco prima intento a preparare un paio di spinelli con cartine, tabacco e marijuana, accennò una minima reazione cercando di scappare verso l’uscita della cantina.

“Siete dei cacasotto” gridò Edda, tirando fuori il braccio dal pozzo e rimettendosi in piedi. “Era solo uno scherzo, ci siete cascati tutti” disse sghignazzando.

“Sei una stronza, sono quasi morta di paura” protestò Matilda

“Non era divertente” piagnucolò Gilda, ancora scossa.

Franchino fece finta di nulla, e tornò a sedere riprendendo a rollare le canne.

“Raccontaci un’altra storia di spiriti e fantasmi piacentini” propose Rino, per darsi un tono, e per dissimulare la paura e nascondere la figuraccia che aveva appena fatto.

“Con piacere, ne conosco ancora, in onore del nostro pigiama party horror” disse Edda tornando a sedere.

Rino la guardò camminare a piedi nudi sulle pietre del pavimento estasiato con occhio rapito e cuore innamorato.

“Allora la sapete la storia del cuoco Giuseppe?”

“E chi cazzo è il cuoco Giuseppe?” domandò Franchino.

“Era il cuoco del Castello di Rivalta, circa trecento anni fa. Secondo la leggenda fu ucciso per vendetta dal maggiordomo a cui aveva scopato la moglie. E così da allora, sino ai giorni nostri, certe notti dentro al castello si sentono terrificanti rumori provenire dalle cucine: suoni di coltelli, pentole e carne pestata.”

Edda non terminò di pronunciare le parole “carne pestata” che un nuovo inquietante strepitio come di catene trascinate uscì fuori dal pozzo terrorizzando tutti quanti.

Il frastuono anche questa volta fu breve, poi di nuovo calma.

I giovani si guardarono impauriti, persino sulla fronte di Edda si era formata una scintillante pellicola di freddo sudore.

“Non è che per caso c’è qualche fantasma anche in questo palazzo?” chiese Matilda, ridacchiando in modo isterico.

Il volto di Edda si adombrò, mentre tutti gli sguardi erano su di lei.

“Qualcosa si racconta…” ammise infine, dopo un prolungato silenzio.

“È successo durante la guerra… C’era una banda di partigiani comunisti qui in Val Tidone. Pare che il capo fosse una carogna e che abbia fatto passare brutti momenti ai nazi e ai loro alleati fascisti. Nell’inverno del 1944 il suo gruppo è stato sgominato e lui è stato catturato vivo.”

“E lo hanno portato qui?” chiese Gilda pallida, stringendo la mano a Matilda.

“Esatto, lo hanno interrogato per alcuni giorni proprio in questa cantina e non stiamo parlando di interrogatori con una lampada sulla faccia e le mani legate dietro la schiena. No signori, si sono scomodati dall’alto comando nazi per mandare dei professionisti della tortura e farlo cantare”

“Ed il partigiano ha confessato?” domandò Franchino mentre finiva di preparare il primo spinello.

“Se ha parlato, oppure si è portato all’inferno i suoi segreti non te lo so proprio dire” disse Edda versandosi altro vino nel bicchiere.

“Quello che so, è che il partigiano non è uscito vivo da questa cantina e che alla fine lo hanno spinto giù nel pozzo della morte.”

Gilda e Matilda erano ancora più spaventate

“Forse, adesso vuole uscire dal pozzo per vendicarsi” ipotizzò Franchino, abbassando gli occhi sulle forme del seno di Matilda, ben evidenziate dal pigiama aderente.

“Adesso vi faccio vedere io qualcosa di veramente spaventoso” disse Edda alzandosi in piedi.

Rino, seduto sulla stuoia, la guardava con occhi devoti, desideroso di compiacerla, come se lei fosse la sua dea.

Lei si guardò attorno con fare annoiato, poi piantò lo sguardo in faccia a Rino. Era in piedi davanti a lui e lo sovrastava fisicamente e psicologicamente.

“Ascoltami bene” cominciò a spiegare appoggiandogli un piede sul ginocchio, “adesso voglio che tu faccia fuori quello schifoso ratto nero che continua ad agitarsi nella gabbia.”

“Cosa? E come posso riuscirci?” domandò Rino incredulo, senza togliere gli occhi dal piede di Edda.

“È facile, la vedi quella tanica da dieci litri, mezza piena di gasolio agricolo nell’angolo vicino all’ingresso?”

Rino annuì, iniziando ad eccitarsi mentre lei spostava il piede dal ginocchio sopra la coscia.

“Farai una bella doccia di gasolio al ratto, e poi gli darai fuoco con l’accendino.”

“Che schifo!” protestò Matilda.

“Almeno smetterà di agitarsi e squittire” convenne invece Franchino, accendendo uno degli spinelli che aveva appena terminato di preparare.

Rino si alzò, incapace di disobbedire ad un ordine di Edda.

Dopo aver recuperato la tanica di gasolio ne aprì il tappo, e con due colpi secchi lanciò un paio di getti addosso al ratto. La bestia reagì con furore, tentando di attaccarlo, ma le strette maglie della gabbia erano una prigione invalicabile. Vi si aggrappò mordendo le sbarre e squittendo in modo atroce.

Poi Rino, dopo aver riposto la tanica di gasolio a distanza di sicurezza, si accostò nuovamente alla gabbia con l’accendino acceso nella mano destra. Quando fu abbastanza vicino passò la fiamma sopra una delle zampe del ratto aggrappate alle maglie di metallo.

La creatura si trasformò in una palla di fuoco, iniziò a lanciarsi con veemenza da un lato all’altro della gabbia nel disperato tentativo di fuggire, emettendo raccapriccianti squittii di rabbia e dolore. La forza del ratto era tale che, complice anche il calore del fuoco, le maglie di ferro si piegarono in più punti e Rino dovette indietreggiare spaventato, temendo che riuscisse a sfondarle.

Una disgustosa puzza di carne bruciata si diffuse per tutta la cantina.

Gilda si era coperta gli occhi per non assistere alla scena, mentre Franchino continuò a fumare, le sue attenzioni erano tutte rivolte al fondoschièna di Matilda, involontariamente offerto ai suoi occhi mentre lei, piegata sulle ginocchia, vomitava in un angolo.

Alla fine il grosso ratto nero si adagiò agonizzante al centro della gabbia. Il muso era contratto e la bocca, dalla quale fuoriuscivano gli affilati incisivi, era semiaperta e contorta in una smorfia feroce. Gli occhi pieni di odio e cattiveria fissavano Rino in modo spaventoso.

Edda guardò l’intera esecuzione affascinata dalle fiamme e dall’efferata mattanza.

Poi, senza provare il minimo rimorso, prese una seconda bottiglia di Gutturnio, la stappò e nuovamente riempì i bicchieri per tutti.

Rino tornò a sedere vicino a lei profondamente turbato.

Gilda e Matilda, particolarmente sconvolte, cercarono di riprendersi bevendo vino, mentre Franchino era già mezzo partito per gli effetti della marijuana.

Fu allora che si sentirono nuovamente agghiaccianti rumori, come di unghie che grattano sul legno, provenire da dentro il pozzo. Tra i ragazzi calò nuovamente un glaciale silenzio.

Questa volta il rumore si protrasse per alcuni interminabili secondi, e lo sentirono tutti: difficile sostenere che si trattasse di una semplice suggestione.

“Voglio tornare a casa” urlò Gilda tra le lacrime.

“Oh, Gesù… Che cazzo era quel rumore, lo avete sentito tutti vero? Veniva dal pozzo!” gridò Matilda.

Franchino ora rideva senza senso con lo sguardo perso nel vuoto e le pupille dilatate, come se il suo cervello fosse partito per un viaggio lontano da lì.

Edda prese in mano la situazione.

“Rino, prendi la torcia e seguimi, andiamo a vedere cosa succede in quel dannato pozzo”

Rino eseguì, ma tremava e se la stava facendo sotto.

Prima che potessero raggiungere l’apertura della cavità i rumori erano cessati. Edda esaminò con la torcia elettrica le profondità del canale senza vedere altro che qualche lama scintillante spuntare dalle pareti.

“Non si vede un cazzo di niente qui dentro” informò il gruppo.

“E i rumori? Si sentono ancora i rumori?” indagò Matilda.

“No, non si sente più nulla, a parte una gran puzza di merda in decomposizione, sembra il cesso del diavolo.”

“Guarda, qui c’era una porta” osservò Rino indicando il muro in fondo alla cantina.

“Hai ragione e sembra che sia stata murata di recente” intuì Edda ispezionando la malta ancora fresca tra i mattoni”

Rino si avvicinò incuriosito per osservare meglio la porta murata. Franchino continuava a ridacchiare completamente estraniato, mentre Gilda e Matilda tremavano terrorizzate in disparte.

“Lo senti anche tu?” domandò Edda avvicinando l’orecchio ai mattoni.

Rino si appoggiò letteralmente alla parete per poi ritrarsi subito dopo spaventato.

“Santo Cielo… i rumori del pozzo… vengono da lì dietro.”

“Proprio così. Coraggio datti da fare e cerca di aprire un buco in questo muro”

Rino impallidì impaurito.

“Allora? Cosa stai aspettando?”

“Potrebbe essere pericoloso, e poi… se ci scoprono?”

“Non fare il fifone, e non farmi incazzare. Voglio che apri un passaggio in quella porta murata e tu lo farai.”

Lo sguardo infervorato ed il tono perentorio non ammettevano repliche.

Rino raccolse un grosso chiodo arrugginito abbandonato sul pavimento e cominciò a scavare la malta nei punti dove gli sembrava che fosse più malleabile.

Dopo alcuni minuti di certosino lavoro era già riuscito ad estrarre dal muro un paio di mattoni aprendo una piccola feritoia.

Da dietro al buco soffiava un sozzo e gelido spiffero d’aria puzzolente, ripugnante come un sudicio vento proveniente dall’inferno.

“Vuoi veramente che continui?”

“Certamente! Non osare fermarti”

Rino continuò, tolti i primi mattoni il lavoro procedeva più speditamente, e dopo circa un quarto d’ora il buco nel muro era già sufficientemente grande per poterci entrare.

“Passami la pila” disse Edda infilandosi nel varco.

Rino le passò la torcia elettrica restando poi imbambolato a guardare il suo flessuoso corpo scomparire dentro l’apertura.

“C’è una scala di pietra” disse la voce di Edda da dietro la porta murata.

“Venite” fu il perentorio invito.

I suoi amici avevano paura, e poi il puzzo mortifero che proveniva da dietro quella porta era nauseante.

Ma nessuno di loro poteva resistere al fascino e alle richieste di Edda, e così, facendosi coraggio e aiutati da una irresistibile curiosità, Rino e Matilda la raggiunsero per scendere assieme a lei le angoscianti profondità dove quella scalinata di pietra li avrebbe condotti.

Gilda invece, paralizzata dal terrore, rimase tremebonda a fianco di Franchino che, rovinato dalla droga, si era addormentato appoggiato ad una catasta di bottiglie di Gutturnio in stagionatura.

La scalinata di pietra era ripida e stretta e si attorcigliava su sé stessa come una lunga chiocciola senza fine.

Dopo diversi minuti e moltissimi gradini, avvolti dalle tenebre e dal fetore sempre più intenso, i tre adolescenti arrivarono al livello inferiore, dentro una stanza circolare scavata nel tufo.

Nel centro del soffitto a cupola si apriva un canale attraverso il quale filtrava una flebilissima luce. Dal pavimento in terra battuta al centro della stanza spuntavano lance e lame acuminate.

Edda con la torcia elettrica ispezionò quell’antro diabolico. In un orribile carnevale della follia, la luce artificiale illuminò un susseguirsi di spaventose, macabre, disgustose edicole collocate lungo tutta la circonferenza della stanza. In corrispondenza di ogni edicola, si vedevano sul pavimento e sulla parete decine di croci di legno e piccole lapidi di pietra.

“Mio Dio!” esclamò Matilda sconvolta, “i cadaveri dei condannati al supplizio del pozzo sono stati sepolti direttamente qui sotto.”

“Ed ecco spiegati i misteriosi rumori” aggiunse Edda, mentre il fascio di luce della torcia elettrica inquadrava un gigantesco ratto intento a rosicchiare una croce di legno sgangherata.

Poi la luce della torcia cominciò ad indebolirsi.

“Faremmo meglio ad andarcene da qui sotto prima che la pila si spenga” osservò Rino con la voce tremante.

Si udì un nuovo angosciante stridio, un clangore cigolante di metallo arrugginito.

Matilda e Rino si strinsero impauriti al corpo di Edda.

Lei diresse la torcia verso l’apertura al centro del soffitto da dove provenivano i suoni di ferraglia e tutti trattennero il respiro. Dai bordi del canale, piccole lacrime di sangue gocciolavano pigramente precipitando silenziose sul pavimento.

“No!! Haaa… noo… pietà… nooo… Aiutooo!!”

Erano le urla disperate di Gilda.

Subito dopo, un ultimo straziante grido disumano si accompagnò ad orribili suoni di carne sbattuta, tessuti strappati e muscoli lacerati.

Poi un corpo tragicamente martoriato fu sputato fuori come carne masticata dal buco al centro del soffitto, e si andò a sfracellare sopra le lame che spuntavano dal pavimento sottostante. La faccia orribilmente sfigurata di Gilda fissava ora nel vuoto con un solo occhio vitreo, mentre una lancia insanguinata spuntava dall’altra cavità oculare dopo avergli trapassato il cranio.

I ragazzi urlando per lo spavento si ritrassero istintivamente verso la parete circolare della stanza.

Rino inciampò sul femore di uno scheletro legato ad una catena di ferro e cadde urlando. Edda illuminò quel punto che non avevano ancora perlustrato portando alla luce le numerose ossa torturate di altri sventurati condannati a morire là sotto.

Matilda divenne pallida come un cadavere e svenne cadendo in avanti. Il corpo privo di sensi rimbombò sul pavimento.

“Franchino ci sei ancora?” urlò Edda in direzione del buco nel soffitto. Rino intanto si era rialzato stringendosi a lei come una cozza agli scogli.

Nessuno rispose.

“E adesso cosa facciamo?”

“Torniamo di sopra, tu caricati Matilda sulla schiena.”

Rino eseguì volentieri, non vedeva l’ora di andarsene da quell’inferno.

“Come cazzo avrà fatto Gilda a cadere nel pozzo…” disse Edda, mentre risalivano la ripida scalinata.

“Temo che qualcuno l’abbia spinta dentro, forse Franchino è impazzito, o forse lo ha fatto per via della droga” suggerì Rino ansimando. Matilda era bella, anche da svenuta, ma pesava più di quaranta chili e lui era già scoppiato a metà della salita.

La torcia elettrica ormai quasi del tutto esaurita emetteva solo una fioca luce, praticamente inutile. Edda decise di spegnerla per conservare quel poco che restava in caso di emergenza.

Lei e Rino, che per di più aveva Matilda in groppa, dovettero procedere al buio, lentamente.

“Ti prego fermiamoci un poco, non ce la faccio più, sono stanco”

“Sei senza fisico” commentò Edda con disprezzo.

All’improvviso un vento gelido e puzzolente salì lungo la scalinata e investì i loro corpi.

“Cosa cazzo sta succedendo?” gridò Rino mentre gli si scompigliavano i capelli.

“Non lo so” gli urlò Edda di rimando, cercando di aggrapparsi alle pareti per non cadere.

Matilda riprese i sensi, confusa impiegò qualche secondo per capire che si trovava sulla schiena di Rino, poi si sentì sollevare dal vento putrescente ed una forza invisibile iniziò a trascinarla verso il basso.

Matilda gridò il suo sgomento con tutto il fiato che aveva in gola.

Rino allungò un braccio e riuscì ad afferrarla per la maglietta del pigiama, ma il risucchio era troppo potente, il pigiama si strappò e la ragazza fu ingoiata dalle tenebre sotto di loro.

Lei si sentì avvolgere il petto nudo da qualcosa di freddo, pulsante e viscido mentre il suo corpo precipitava sempre più in basso. Vide la cosa fluorescente che l’aveva presa. Sbarrò gli occhi. “Via! Vattene Via! Aiutatemi, salvatemi, Aiutooo!”

Si udirono altre orribili urla di terrore provenire dal fondo della scalinata poi finalmente il vento si placò e tornò il silenzio.

“Usciamo da qui, e alla svelta” balbettò Edda, ma le gambe erano pesanti e riusciva a muoverle con fatica.

Rino allungò le mani tremanti nel tentativo di aggrapparsi a lei.

Continuarono a salire tenendosi per mano, con il cuore in gola ed il fiato corto, allungando il passo man mano che la luce proveniente dalla cantina sopra di loro si faceva più forte.

Quando finalmente arrivarono in cima e riuscirono a superare la porta murata erano esausti. Rino era fradicio di sudore e verde dalla paura, Edda sconvolta.

Davanti ai loro piedi nudi e sporchi la grata di ferro ribaltabile era stata aperta, e oltre il pozzo un giovane avanzava verso di loro barcollando come uno zombie. Sulla faccia grottesca era stampato una specie di sorriso stupido, mentre gli occhi cerchiati di nero roteavano follemente nelle orbite. Dalla testa gli spuntava il grosso chiodo di ferro arrugginito che Rino aveva usato per scavare il passaggio nella porta murata.

Il corpo crollò sulle ginocchia poco prima di raggiungere l’apertura del pozzo e poi cadde di lato emettendo un ultimo gemito gutturale.

“Cazzo! Hanno ammazzato anche Franchino!” gridò Edda isterica.

Rino spalancò la bocca. Un rivolo di sangue e cervella uscì dalla testa perforata di Franchino rovesciata sul pavimento di pietra.

Si sentirono nuovi rumori provenire contemporaneamente da dentro il pozzo e da dietro la porta. Sembrava il suono di un vecchio giradischi, ed il motivetto orecchiabile era inconfondibile, persino Edda, Rino e tutta la loro generazione lo avevano già sentito almeno una volta in vecchi film di guerra o in qualche documentario storico di quelli che davano in televisione.

Fischia il vento e infuria la bufera

scarpe rotte e pur bisogna andar

Poi qualcosa di spaventoso e maleodorante cominciò a fuoriuscire dal pozzo fluttuando lentamente.

a conquistare la rossa primavera

dove sorge il sol dell’avvenir

Era una gelatinosa presenza fluorescente vagamente simile ad una figura umanoide e puzzava di cadavere in avanzato stato di decomposizione.

Ogni contrada è patria del ribelle,

ogni donna a lui dona un sospir,

Il corpo indefinito era coperto da una lacera divisa militare sporca di fango, sangue, e terrore.

nella notte lo guidano le stelle,

forte il cuor e il braccio nel colpir

Le scheletriche mani ossute con le dita nere e livide si protendevano già verso i ragazzi.

“Gesù, Giuseppe e Maria”, mormorò Rino divenuto bianco come la panna.

Se ci coglie la crudele morte,

dura vendetta verrà dal partigian;

La faccia orribile era coperta dalle mosche, deturpata dall’odio e dalla sanguinaria sete di vendetta, e attraverso la bocca distorta in un ghigno mostruoso e disumano, si intravedevano putridi denti marci ed un moncherino di lingua bluastra.

ormai sicura è già la dura sorte

del fascista vile e traditor.

“Non ucciderci”, implorò Edda singhiozzando, “Non farlo… per favore, ti prego…”

Gli occhi dello spettro erano torbidi e diabolici e iniettati di sangue e brillavano di una sinistra luce assassina. Sul capo portava un bucherellato berretto da ufficiale con l’emblema comunista della falce e martello.

La mano sinistra del fantasma, viscosa e palpitante, si strinse attorno alla gola di Rino in una morsa fatale, poi il braccio destro penetrò nel petto per strappargli il cuore. Un copioso rigagnolo di sangue uscì dalla bocca del ragazzo tingendogli il mento di rosso.

Edda gridò, chiese aiuto, implorò pietà, ma la sua anima fu avvolta dal nero sudario dell’oscurità. Poi non sentì più niente di niente e si dimenticò anche del pigiama party horror nella cantina proibita.

Umberto, il figlio coglione di Vittorio Maldracini, fu processato per il triplice omicidio di Gilda, Franchino e Rino. Il corpo di Matilda non fu mai ritrovato.

Il giorno in cui fu pronunciata la sentenza di primo grado, Edda, l’unica sopravvissuta, era presente nell’aula del tribunale.

Condanna all’ergastolo, fu il verdetto.

Suo padre fu trascinato via in manette con la faccia inebetita.

Lei osservò la scena a pugni stretti.

Poi aprì lentamente la mano sinistra che nascondeva uno stemma insanguinato con la falce e martello.

Alzò lo sguardo verso i giudici ed una perversa luce omicida brillò nei suoi folli occhi color del ghiaccio.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Brevi racconti horror

Gimbo Spazzacorrotti era un vecchio di quarant’anni, terrapiattista e teorico del complotto. Disoccupato da almeno vent’anni, tirava avanti con il reddito di cittadinanza e la pensione della madre. Era anche tendenzialmente ludopatico con manie di persecuzione, ipocondriaco, sovrappeso e strabico dall’occhio sinistro.

I suoi passatempi preferiti consistevano nello scrivere brevi racconti horror, oppure nell’intrattenere i pensionati che frequentavano l’unico bar del paesino dove viveva, aggiornandoli con le più recenti e inquietanti teorie del complotto.

Come scrittore di racconti dell’orrore era veramente scarso, e in fondo lo sapeva anche lui. Per questo motivo era più facile che si dedicasse alla divulgazione delle trame più segrete e delle verità più sconvolgenti.

Era un piovoso pomeriggio di inizio primavera in Val Tidone, quando Gimbo, svegliatosi da poco, si recò al bar per fare colazione.

Quella settimana faceva il turno del pomeriggio Matilda, la sua barista preferita. Lui la corteggiava da sempre, ma lei preferiva uscire con i muscolosi figli dei più facoltosi proprietari terrieri della provincia, che il sabato sera la portavano a ballare in discoteca, mentre Gimbo l’aveva più volte invitata, sempre senza successo, a qualche conferenza della Flat Earth Society o ai meeting organizzati dal movimento raeliano o da qualche altra congrega specializzata in rapimenti alieni o teorie degli antichi astronauti.

“Ciao bellezza, come ti butta oggi? Mi prepari il solito?”

Matilda accennò un sorriso affettato.

“Portamelo al tavolo, dolcezza” aggiunse Gimbo, facendole l’occhiolino.

Che coglione, pensò Matilda, sfoggiando la sua miglior smorfia di circostanza seguita da un educato cenno di assenso. In verità desiderava prenderlo a calci nel culo, ma era una professionista ed aveva imparato a disprezzare i clienti più odiosi in silenzio e senza farsi scoprire.

“Amici” disse Gimbo rivolgendosi carico di orgoglio al suo uditorio abituale, “ho le nuove ultime e definitive prove che il Molise e la Finlandia non esistono”

Piero, Ugo, Sandro e Luigi erano le sue vittime preferite. A quell’ora del pomeriggio, dopo aver iniziato a bere Gutturnio e Malvasia sin dalla mattina, erano già abbastanza intontiti dal vino da poter ascoltare e forse persino credere alle teorie complottiste raccontate da Gimbo. Dopo anni passati ad assistere ai suoi monologhi, sapevano tutto sulla teoria della terra piatta, sul finto allunaggio, sul crollo indotto delle torri gemelle, sulle manovre cospirazioniste delle multinazionali del farmaco per vendere i vaccini.

“Ma mio nipote ha sposato una donna di Campobasso” osò obiettare Piero, pensionato di settant’anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero per non vedersi ridurre la pensione.

Gimbo lo guardò in tralice, ma assorbì bene il colpo.

“Sciocchezze, vi dico che il Molise non esiste, è solo il parto della fantasia di un famoso scrittore. Per sfuggire alle accuse di aver incendiato la chiesa del suo villaggio, diede la colpa agli abitanti di quel luogo fantastico: i famigerati molisani.”

“Ma mio figlio è stato in viaggio di nozze a Termoli nel 1986, mi ha mandato anche una cartolina” disse Ugo, pensionato di settantadue anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero, per non vedersi ritirare la seconda pensione di invalidità.

Gimbo cominciò a sudare impercettibilmente, non si aspettava questa resistenza. Era forse accaduto qualcosa? Aveva perso il consueto ascendente su quei dannati vecchi?

“Dovete fidarvi di me, il Molise non esiste, ne è una prova il famoso detto popolare secondo cui le battute sui molisani sono scontate, ma sono belle perché nessuno si offende”

“Io ci sono stato durante la guerra” disse gonfiando il petto Sandro, 94 anni, che mangiava carne una sola volta a settimana, ma solo se aveva lavorato nelle vigne anche il sabato, rigorosamente in nero, per non vedersi decurtare il cumulo delle sue tre pensioni: quella di guerra, quella di contadino, e quella di vecchiaia.

Gimbo cominciava ad irritarsi ed un caldo rossore gli si arrampicò su dal collo fino alle guance.

Matilda si avvicinò sculettando al loro tavolo. Indossava pantaloncini aderenti che le mettevano in risalto glutei marmorei e le belle e lunghe gambe. Il seno era offerto alla vista della compiaciuta clientela attraverso una camicetta di cotone a quadrettoni in stile country lasciata oscenamente aperta sul davanti. Sul vassoio portava un paio di bottiglie di Gutturnio frizzante, un cappuccio ed un cornetto al pistacchio.

“Allora non lo volete proprio capire. Vi dico che il Molise è un’invenzione dell’ordine costituito, fa parte di una cospirazione planetaria per dominare il mondo e nasconderci che la terra è piatta” insistette Gimbo, immergendo il cornetto nel cappuccio ancora caldo, e cominciando a mangiarlo nervosamente.

I quattro pensionati lo ascoltavano scettici, riempiendosi i bicchieri di vino e continuando a bere.

Fu allora che si mise di mezzo Artemio, un rappresentante di prodotti fitosanitari che stava leggendo la Gazzetta dello sport seduto al tavolo accanto.

“Certe cazzate non si possono proprio sentire, a voi terrapiattisti e teorici del complotto vi si dovrebbe prendere a legnate, così vi passerebbe la voglia di propagandare idiozie.”

Gimbo si sentì avvolgere da una scura nube di disagio, non poteva subire un simile affronto e percepì crescere dentro di sé una collera sorda e nera.

“Non ascoltate questo servo del potere, al soldo delle multinazionali della chimica. Vuole solo confondervi le idee per indurvi a comperare cibo sintetico e frutta transgenica”

Artemio scoppiò in una grassa risata: “deve proprio mancarti qualche rotella, i tuoi genitori hanno partorito anche figli normali o in famiglia sono tutti disconnessi come te?”

La faccia di Gimbo si accartocciò allora in una cupa smorfia rabbiosa, era come un cielo plumbeo prima di una tempesta. Artemio lo stava sfidando apertamente con insulti infamanti e non poteva sopportarlo. Aprì di scatto le mani, le richiuse in pugni stretti e serrati, le riaprì allungando le dita sui fianchi. Si era alzato in piedi rovesciando la tazzina del cappuccio sul tavolo.

“Stai molto attento a quel che dici, i confini tra lecito e illecito sono come l’arcobaleno, apparentemente esistono ma osservando da vicino si dissolvono.”

“Mi stai forse minacciando pidocchio?” chiese Artemio confuso, incerto sul significato di quelle parole.

“Che cazzo fai!? Vedi di stare più attento, che poi mi tocca pulire” ringhiò Matilda, appena si accorse della tazzina rovesciata. La sua stridula voce tradiva tutto il disprezzo che provava per lui.

Gimbo si sentì accerchiato. Tutti erano contro di lui: i vecchi ubriaconi, la bella Matilda che lo aveva sempre respinto, il maledetto venditore di prodotti chimici per l’agricoltura. Le sue narici cominciarono a dilatarsi ritmicamente come quelle di un animale in fuga che ha fiutato il predatore, le mani continuarono a serrarsi e a riaprirsi ritmicamente, una grossa vena gli pulsava nel collo.

“Non riuscirete a fregarmi!” strillò loro in faccia, “conosco i vostri trucchetti del cazzo, volete incastrarmi ma non ci riuscirete, io sono migliore di voi, sono più intelligente di voi e ho capito il vostro gioco…”

“Che stupidaggini” lo interruppe Stefanone, un grosso contadino che lavorava la vigna a giornata, rigorosamente in nero, per non perdere il sussidio di disoccupazione ed il reddito di cittadinanza.

Gimbo si sentì braccato, senza scampo, stretto d’assedio da un anello di fuoco, barricato nel bunker della sua pazza testa. Con un rapido scatto si lanciò dietro al bancone del bar ed afferrò un grosso coltello che usavano per affettare il salame.

“Siete un branco di vigliacchi, prostitute dei poteri forti. Scommetto che vi si siete già fatti tutti impiantare il chip sottocutaneo. E’ con quello che vi controllano lo so, ora vi ordineranno di farmi fuori, ma io l’ho già capito bastardi!” urlò in preda all’ira, furibondo, fuori di sé.

Salì in piedi sul bancone del bar brandendo il coltello come una spada, guardandosi attorno con l’occhio sano iniettato di sangue, la faccia trasfigurata in un grugno di follia.

“Nooo!! Scendi subito dal bancone con quei luridi piedi” gli gridò Matilda disperata.

Gimbo le balzò sopra come una furia, la buttò a terra, e prima che chiunque potesse intervenire le piantò il coltello nella pancia, mordendole la faccia con bestiale ferocia mentre le sprofondava la lama dentro le budella.

La ragazza urlava devastata dal dolore, sentiva il fetore del suo alito sulla faccia, mentre lui le strappava a morsi brandelli di carne dal volto come un lupo affamato.

Artemio fu il primo a reagire. Afferrò la sedia sulla quale stava seduto ed usandola come un’arma colpì Gimbo sul collo, di taglio, quasi ammazzandolo sul colpo.

Stefanone fu su di lui subito dopo, lo sollevò di peso e lo lanciò contro alla parete come fosse stato un sacco nero dell’immondizia pieno di stracci bagnati.

Matilda continuava ad urlare e a piangere, con la faccia sfigurata, il coltello nella pancia ed il sangue che usciva copioso e scuro e viscido e puzzolente.

Gimbo cercò di rimettersi in piedi ma Artemio e Stefanone lo picchiarono duro, e furono pugni pesanti come martellate e calci violenti come fucilate.

Gimbo sentì il dolore avvolgerlo in un sudario di morte e sofferenza.

I carabinieri e due ambulanze arrivarono dopo circa quindici minuti. Matilda morì durante il trasporto in ospedale.

Gimbo Spazzacorrotti fu condannato a cinque anni di reclusione per omicidio preterintenzionale con l’attenuante della seminfermità mentale.

Durante la carcerazione scrisse molti brevi racconti horror.

Scontata la pena tornò a frequentare il bar del suo paese e continuò a raccontare storie di cospirazioni e teorie del complotto.

La nuova barista si chiamava Luisa, e Gimbo la corteggiava da sempre.

 

 

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Gimbo

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Infermiera sadica

 

“Dio… sto crepando… sto morendo… dannazione sto morendo…”

“Cazzo dai, calmati ragazzo… non è poi così grave, puoi farcela…”

Il colpo alla farmacia di Pianello era andato male.

In fila alla cassa, con il volto coperto da una mascherina chirurgica per il covid19, avevano trovato un carabiniere in borghese.

Appena Cuore di Pietra aveva cominciato a minacciare la farmacista con una pistola, il militare aveva estratto una Beretta 92 sparandogli a bruciapelo.

Ne era seguita una colluttazione. Il carabiniere era stato tramortito ma ormai la rapina era andata in fumo. Gamba di Ferro si era allora caricato sulle spalle il suo compare ferito e insieme si erano dati alla fuga.

Cuore di Pietra adesso piangeva dilaniato dal dolore, tutto insanguinato, contorcendosi sui sedili posteriore della Alfa Romeo Giulietta che avevano rubato il giorno prima.

“Fa male, ma maledettamente male, e sto per morire…”

“Non fare lo stronzo, hai una brutta ferita del cazzo, ma non morirai”

Cuore di Pietra continuava a piangere disperato: “sono tutto pieno di sangue, me la sto facendo sotto dalla paura… ho freddo… sto per tirare le cuoia io lo so… maledizione, sono fottuto… porca troia…”

“Non sapevo ti fossi laureato in medicina, da quando sei un fottuto dottore del cazzo? Allora sei un dottore? Rispondimi brutto figlio di puttana: tu sei per caso un dottore?

“No!!, non sono un dottore… ma non serve una laurea per capire che sto crepando dissanguato come una scrofa sgozzata…”

“Smettila di fare illazioni, non hai idea di cosa stai parlando. Adesso calmati e ascoltami bene: ora andremo da Labbra di Cuoio, è un’amica e mi deve un paio di favori, vedrai che lei ti metterà a posto e te la caverai, fidati di me.”

“Oh Cristo, ma Labbra di Cuoio è una fottuta veterinaria, che cazzo vuoi che ne capisca di ferite d’arma da fuoco… o no… o no… sono morto, sono già morto…”

“Basta! Cosa pretendi che faccia, non posso mica portarti al pronto soccorso cazzo. Labbra di Cuoio ti toglierà la pallottola dalla pancia e ti rimetterà in sesto, sarà questione di minuti e tra qualche settimana ci ricorderemo di questa brutta avventura ridendoci sopra. Non morirai cazzo, andrà tutto benone, Labbra di Cuoio ti rimetterà in forma, devi credermi”

Cuore di Pietra non rispose, era svenuto.

Gamba di Ferro guidò veloce lungo la statale 412 della Val Tidone, poi tagliò per i campi sino ad arrivare a Bilegno e lì si fermò davanti alla villetta di Labbra di Cuoio. Scese dalla macchina, si caricò sulle spalle il ferito e lo portò in casa.

Labbra di Cuoio non la prese bene. Si stava gustando un calice di passito di Malvasia guardando una delle sue serie televisive preferite, e l’intrusione di quei due deficienti, di cui uno ferito e sanguinante non era nei suoi programmi per quella notte.

“Ti prego mi devi aiutare” implorò Gamba di Ferro, “ho bisogno che operi il mio amico qui, e dopo andremo via senza darti altre noie.

“Ti risulta che io sia un chirurgo brutto coglione?” disse Labbra di Cuoio incrociando le braccia profondamente infastidita.

“Beh, no, è chiaro, ma si tratta solo di togliere un proiettile dalle budella di un cristiano, sono sicuro che sei più che qualificata per questo”

“Se decidessi di aiutarti, e francamente non vedo proprio per quale motivo dovrei farlo, ma se per qualche imprevedibile ragione accettassi di aiutarti, cosa ci guadagno?”

“Beh, ecco…. Insomma… a soldi non siamo messi molto bene al momento… e quindi…”

“Ti sembro forse una che ha bisogno di soldi faccia di merda? Non lo vedi dove vivo? Non vedi come mi vesto? E i gioielli che porto?” disse lei, mostrandogli il grosso diamante che portava al dito.

Gamba di Ferro era in imbarazzo, non sapeva cosa dire.

“Prendi il tuo amico, spoglialo e sdraialo sul tavolo in cucina” ordinò lei.

Gamba di Ferro eseguì.

Labbra di Cuoio si avvicinò al bandito svenuto sul tavolo per esaminarne il corpo e la ferita.

“Cercherò di operarlo, se ci riesco, mi ripagherai come al solito”

Gamba di Ferro iniziò a sudare freddo, “è proprio necessario? Non si potrebbe trovare una soluzione alternativa? Non è che voglia tirarmi indietro, però sai… dopo quello che è successo l’ultima volta, adesso io… ecco… sì, insomma… non credo di sentirmi pronto”

“Cosa stai cercando di dirmi, forse non ti è piaciuto?” chiese lei, mentre stava scartando un bisturi sterile monouso.

“Beh… non esattamente, non direi che non mi è piaciuto… è solo che…è solo che non sono dell’umore più adatto, non vorrei che poi le cose non andassero nel modo giusto…”

“Stai dicendo un sacco di cazzate” lo interruppe lei, “in ogni caso, e mi sembra anche più giusto, sarà il tuo amico con la pancia bucata a darmi quello che voglio”

Labbra di Cuoio cominciò ad operare Cuore di Pietra, e dopo aver estratto la pallottola con delle pinze chirurgiche prese a cucire la ferita. Gamba di Ferro sembrò sollevato, “mi sembra più che ragionevole” chiosò.

“Bene, allora siamo d’accordo, qui ho quasi finito, dopo che avrò terminato il bendaggio portalo nella camera degli ospiti e mettilo a letto. Ha perso molto sangue e dovrà riposarsi per qualche giorno, mi prenderò cura io di lui.”

Gamba di Ferro eseguì senza fiatare, e dopo aver finito se ne andò alla svelta.

Passarono pochi giorni e Cuore di Pietra si sentiva già meglio. Le amorevoli cure della sua infermiera privata erano un toccasana.

Lei decise allora che era giunto il momento di rivendicare la propria ricompensa.

“Allora giovane, raccontami, perché ti chiamano Cuore di Pietra?”

Lui sorrise orgoglioso: “Perché sono uno spietato bastardo senza scrupoli e insensibile”

“Non si direbbe, guardandoti in faccia” disse lei, poco convinta.

“E tu? Perché ti fai chiamare Labbra di Cuoio?”

“Sei proprio sicuro di volerlo scoprire?”

“Certamente, mi sono sempre chiesto perché una così bella signora avesse un così sinistro nomignolo”

“Ho avuto qualche problema con la giustizia in passato, per colpa del mio ex marito”

“Non sapevo fossi divorziata”

“Non lo sono infatti. Sono vedova”

“Mi spiace, come è successo?”

Lei sorrise in modo strano, i suoi occhi si dilatarono.

“Tu fai troppe domande giovane, perché non parliamo di te invece: a parte prendere pallottole nella pancia, cosa fai nella vita, abitualmente?

“Sono un fuorilegge, un killer”

“Con quella faccia?”

“Certo, perché? Cosa non va con la mia faccia?”

“Non sembra la faccia di un assassino”

“E come dovrebbe essere la faccia di un assassino? Per come vanno oggi le cose, un killer può nascondersi dietro la faccia di chiunque”

“Devo dire che su questo hai proprio ragione” convenne la donna, esibendo un sorriso crudele.

“Ora bevi questo, ti farà bene” aggiunse, porgendogli un calice pieno di uno strano liquido effervescente.

Cuore di Pietra bevve tutto senza fare obiezioni. Si fidava della bella e misteriosa veterinaria che per curarlo si era fatta infermiera.

La stanza intorno a lui però iniziò a girare, una strana sensazione di torpore si impadronì del suo corpo già debilitato, vide la donna indossare dei guanti di lattice e poi perse i sensi.

Lei lo aveva sedato ed era pronta a prendersi ciò che voleva.

Quando Cuore di Pietra riprese i sensi non era più sdraiato nel letto della camera degli ospiti. Ora si trovava in uno scantinato, nudo come un verme, in piedi, piegato in avanti, con testa e braccia infilate in una gogna medioevale di legno vecchia di secoli, ormai più dura del ferro, e dalla quale non vi era modo di liberarsi.

Davanti a lui poteva scorgere distintamente due figure: sulla destra, appoggiato su di una mezza colonna greca, vi era un busto in marmo a dimensioni naturali di Iosif Stalin; sulla sinistra c’era Labbra di Cuoio con indosso un camice da infermiera che lo fissava in modo oscuro. In quel momento gli sembrò particolarmente grossa e nerboruta, un donnone dalla mole minacciosa. Dietro di loro, appesa alla parete come fosse un prezioso arazzo, vi era una gigantesca bandiera rossa dell’Unione Sovietica.

“Bene bene, ora vedremo se sei veramente un duro, come il tuo ridicolo nomignolo suggerirebbe, o se invece, più probabilmente, sei solo il solito patetico sbruffoncello che si sente forte maneggiando pistole di piccolo calibro” disse lei avvicinandosi lentamente.

“Liberami subito, non hai nessun diritto si tenermi intrappolato in questa gogna di merda, chi cazzo credi di essere?” protestò lui.

Labbra di Cuoio lo colpì con uno schiaffo energico.

“Non voglio illuderti giovane, qui sotto saremo molto felici, io e la mia amica Charlene” disse mostrandogli il grosso coltellaccio militare che teneva nella mano sinistra, “ma per te saranno dolori e sofferenze. Quindi se vuoi uscirne vivo cerca di essere collaborativo e non rompermi i coglioni. Sono stata abbastanza chiara?”

Cuore di Pietra osservò esterrefatto, prima il grosso coltello, poi la faccia crudele di quel mostro di donna.  In un attimo comprese due terrificanti verità. La prima era che si trovava imprigionato senza scampo e in grossi guai. La seconda era che la sua carceriera, Labbra di Cuoio, era pericolosamente pazza.

Il coltellaccio, oltre che grosso era anche molto affilato. Lui lo capì immediatamente, quando lei inizio a radergli a secco i capelli. Lei lo sapeva maneggiare discretamente bene, ma la cute era delicata e si tagliò in più punti. Poteva sentire rivoli di sangue colargli lungo la fronte e sulla faccia e di lato sul collo. Era una sensazione spaventosa e si sentì il cuore trafitto da una saetta d’orrore. Tuttavia cercò di restare immobile, e soprattutto non disse nulla. Pensò soltanto che forse sarebbe stato meglio morire dissanguato con una pallottola nelle budella qualche giorno prima, piuttosto che sottoporsi alle torture di quel demonio.

“Ora che ti ho rasato per bene i capelli sei veramente tutto nudo e indifeso, che ne dici?”

“I capelli ricresceranno” azzardò lui, con una vaga intonazione di sfida.

“Questo è vero, ma quello che ti taglierò dopo non ricrescerà”

“Cosa? Cosa hai detto? Non dirai sul serio vero? Non puoi farlo, ti prego, non lo fare, non ti ho fatto nulla di male, ti prego…”

“Beh che fai? Inizi già a piagnucolare come una scolaretta? Non abbiamo nemmeno iniziato e hai già perso tutta la tua dignità? Sei proprio una mezza sega…”

Cuore di Pietra non rispose. Il suo orgoglio era ferito, come la sua testa. Ma era il panico a farsi largo nella sua mente mentre si chiedeva cosa lei avrebbe tentato di amputargli. Poi la vide allontanarsi e per qualche secondo si sentì meglio.

La donna si avvicinò ad una sedia dove erano piegati i vestiti insanguinati di Cuore di Pietra e dai pantaloni avvizziti tirò fuori il portafogli e cominciò ad esaminarne il contenuto.

“Vediamo cosa possiamo scoprire sul nostro giovane qui” disse aprendo la carta d’identità, “hai già passato i quaranta a quel che dice questo documento, ne dimostri di più però, invecchi in fretta a quanto pare”

“Ho avuto una vita intensa”

“Certo, dite tutti così appena vi spuntano i primi capelli grigi e…ma…ma… e questo? E questo che cazzo è!?” urlò brandendo nella mano una tessera di plastica.

Il volto della donna si fece cinereo, il cipiglio si rabbuiò. Andò verso di lui con passo rapido, sembrava furente. Cuore di Pietra cercò di sottrarsi ma era immobilizzato nella gogna e non poteva sfuggirle. In un attimo fu sopra di lui con la faccia rubiconda per l’ira, i tendini del collo in rilievo ed una grossa vena che le pulsava nel centro della fronte.

“Brutta burba figlio di puttana, vuoi dirmi che cazzo è questa?” lo aggredì mettendogli sotto al naso la tessera del PD che aveva trovato nel suo portafogli.

“Ma come… perché ti arrabbi? Pensavo che anche tu fossi di sinistra…”

Lei lo colpì al volto, con un pugno questa volta, un gancio destro, duro come una sassata.

“Chiudi quella fogna, luridissima burba!” gli urlò in faccia, “non ho nulla da spartire con voi traditori globalisti al soldo dell’usura cosmopolita e apolide”

“Non capisco cosa vuoi dire?” disse lui confuso

“Non capisci?” chiese lei, e lo colpì con un sinistro micidiale, fratturandogli il setto nasale.

Cuore di Pietra gemette per il dolore, e cominciò a sanguinare anche dal naso rotto.

“ll PD è il partito delle banche” spiegò lei, “Il PD tutela sempre e solo gli interessi della grande finanza disprezzando i ceti medi, la piccola impresa e i lavoratori delle fabbriche, i precari e i disoccupati. Il PD è il partito che tutela l’interesse transnazionale, apolide e cosmopolita della massoneria globalista che mira a dominare il mondo, in modo che vinca sempre e solo il libero mercato ed il nuovo ordine mondiale. il PD è il nemico principale del popolo e dei lavoratori. Non c’è nulla di più distante dagli interessi del lavoratore delle politiche del PD. Al lavoratore non gliene importa un cazzo che ci sia il matrimonio omosessuale. Al lavoratore interessa avere un salario dignitoso, la sanità garantita, la possibilità di farsi una famiglia e mandare i figli a scuola. Il PD e le sinistre arcobaleniche hanno tradito quelli che un tempo erano i diritti sociali per i quali combatteva il Partito Comunista di Stalin e Togliatti.”

Ci furono alcuni secondi di silenzio.

“Ora hai capito schifoso liberasta?” lo incalzò lei squarciando il silenzio, e brandendo nuovamente il coltellaccio con la mano sinistra.

Cuore di Pietra non sapeva cosa dire, in fondo della politica non gli importava niente, non andava a votare da almeno vent’anni e aveva fatto la tessera del PD solamente per poter ottenere più facilmente il reddito di cittadinanza, o almeno così aveva creduto. Mai avrebbe pensato di rischiare la vita per questo.

Labbra di Cuoio cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro passandosi il coltello da una mano all’altra in modo isterico. Sembrava una belva in gabbia, un filo di bava bianca le fuoriusciva da un angolo della bocca.

Lui la osservava atterrito, aspettandosi il peggio da un momento all’altro.

All’improvviso lei si quietò, sul volto le apparve un’espressione rilassata e vagamente assente, sembrava quasi che fosse precipitata in uno stato catatonico. Rimase così, immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto e il coltellaccio stretto nella mano sinistra per un periodo che lui percepì come infinito.

Alla fine la donna si riprese, si riavviò i capelli e sculettando platealmente attraversò tutto lo scantinato sino a raggiungere una polverosa libreria stipata di vecchi libri ed antichi cimeli di epoca sovietica. Armeggiò con quelle strane anticaglie per diverso tempo. Cuore di Pietra non poteva vederla perché la libreria si trovava dietro la gogna, ma sentiva strani rumori come di oggetti di legno e ferro che venivano spostati.

Quando tornò da lui non aveva più il coltellaccio. Ora teneva tra le mani un grosso ed inquietante manufatto di ebano scuro. Cuore di Pietra non comprese subito che cosa fosse, ma poi, dopo un’analisi più attenta realizzò che si trattava della riproduzione in scala ridotta di una grottesca ghigliottina.

“Ti piace?” chiese lei, accartocciando la faccia in un ghigno osceno tra il sadico ed il sarcastico.

“E’ troppo piccola per infilarci una testa” osservò lui.

“Sei perspicace giovane. Ma la tua brutta testa di cazzo non mi interessa. Nella mia collezione di arti ci sono solo piedi, dita e mani. Comunque non temere, sentirai solo un momento di dolore. Sarà forte non lo nego, ma breve. Poi sarà tutto finito, cerca di concentrarti su questo pensiero.”

“No!” implorò lui. “Ti prego… qualsiasi cosa tu abbia in mente discutiamone, ti scongiuro… per amor di Dio…”

Lei sollevò la ghigliottina agganciandola alla gogna medievale, proprio in corrispondenza della sua mano destra, di modo che l’arto restasse immobilizzato nel collare del marchingegno in ebano.

“No!” gridò. “Ti supplico non lo fare, farò tutto quello che vuoi! Sarò il tuo servo, sono pronto a tutto ma non tagliarmi la mano, ti prego… Ti supplico!”

“Andrà tutto bene” assicurò lei, “non è la prima volta che lo faccio, puoi credermi.”

Dopo essersi assicurata che la ghigliottina non potesse più muoversi, stringendola forte alla gogna con delle cinghie ben strette, andò nuovamente ad armeggiare vicino alla libreria, tornando poi con un cannello a gas propano.

“Questo servirà per cauterizzare il moncherino” gli spiegò sorridendo compiaciuta.

Cuore di Pietra era disperato, sudava freddo e cercava inutilmente di liberarsi agitandosi con tutte le sue forze, ma senza ottenere altro risultato che escoriarsi la pelle del collo e delle braccia in prossimità dei polsi.

“Ancora un minutino e sarà tutto pronto giovane” promise lei, mentre svitava il tappo ad una bottiglia d’olio d’oliva extravergine, con il quale avrebbe lubrificato i due montanti tra i quali scorreva la lama d’acciaio a forma di trapezio e rinforzata con un peso metallico per aumentarne la massa.

“Giovane, lo sapevi che cadendo da un’altezza di circa 2,25 metri, la lama di una ghigliottina a dimensioni reali raggiunge la velocità di 24 km/h quando si abbatte sul collo del condannato?”

“Oh ti prego, ti supplico no, non farlo, per amor del cielo chiedimi qualsiasi cosa vuoi e io la farò, dammi una possibilità non ti deluderò lasciami fare il tuo schiavo e vedrai come sono bravo… vedrai… vedrai…”

“E lo sapevi che dopo la decapitazione la testa mozzata resta cosciente per almeno trenta secondi? Lo hanno dimostrato, con degli esperimenti e poi ci sono anche molte testimonianze…”

“Oh ti prego non farmi male ti prego non tagliarmi la mano, ti supplico…”

Una luce perversa le balenò attraverso gli occhi malvagi mentre rimuoveva il fermo azionando la ghigliottina.

La lama scese sibilando e si conficco nel braccio di Cuore di Pietra, appena dopo il polso. Il dolore esplose incontrollabile. Un getto di sangue scuro spruzzò la faccia della donna ed il camice bianco da infermiera. Si sentì la lama cigolare contro le ossa del polso quando lei cercò di disincagliarla: si era inceppata senza terminare il lavoro.

Lui osservò incredulo la sadica infermiera armeggiare con l’attrezzo, per un momento incrociò il suo folle sguardo, e vide con chiarezza il volto della pazzia.

Istintivamente ritrasse l’arto ferito ma si rese conto che stava spostando il braccio ma non la mano: riusciva solo ad ampliare lo squarcio dilatando la ferita ed amplificando il dolore.

Lei terminò allora l’operazione passando il braccio da parte a parte con il coltellaccio, segando via la mano dal polso. Quando cadde sul pavimento della cantina un suono flaccido risuonò nella stanza.

Cuore di Pietra aveva la testa intrappolata nella gogna, ma poteva vedere la sua mano abbandonata sul selciato, con le dita che ancora si muovevano in deboli spasmi.

Il braccio mozzato invece era libero, senza più la mano lo aveva sfilato dalla gogna e lo muoveva senza senso in ogni direzione spruzzando ovunque fiotti di sangue. E intanto piangeva ed urlava.

Ed urlò ancora più forte quando lei, dopo avergli afferrato l’arto amputato, investì la ferita sanguinante con la fiamma viva del cannello a gas.

Salirono fumo nell’aria, e puzzo di bruciato e le urla disperate di Cuore di Pietra.

Prima che lei avesse terminato lui era già svenuto, privato delle forze, della dignità e della mano destra.

“Da oggi non sei più un cuore di pietra. Tutti ti chiameranno mano di legno” disse ridacchiando l’infermiera sadica, mentre aggiungeva un nuovo pezzo alla sua collezione di arti amputati dentro al congelatore a pozzetto.

Poi si fece una doccia per lavarsi via il sangue, si asciugò i capelli e stappò una bottiglia di Ortrugo Frizzante della sua marca preferita.

Concluse la giornata sprofondata sul divano a guardare la sua serie TV preferita e bevendo vino.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Infermiera sadica

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C’era una volta in… Val Trebbia

Una volta in Val Trebbia

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Dopo la sospensione delle operazioni militari alleate, nell’inverno del 1944 i nazisti intensificarono le azioni di rastrellamento contro i ribelli….

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o a crimini realmente accaduti è del tutto casuale e non voluto.

 

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Satanisti in Val Tidone

Una volta in Val Tidone

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“Sei un coglione! Un fallito! Una merdosa testa di cazzo!!”

Lorenza era furibonda.

Gino invece se ne stava in silenzio, con la testa china sul bicchiere vuoto che stringeva nella mano.

“Non ho mai conosciuto un coglione più coglione di te!”

Lorenza era la più bella tra i satanisti in Val Tidone, aveva 23 anni e le tette grosse e folli occhi azzurri.

Gino aveva superato i quaranta da un pezzo, era disoccupato, ludopatico e grasso e piuttosto stronzo: passava gran parte delle sue inutili giornate a giocare a GTA 5 on line e a ubriacarsi.

“Brutto schifoso figlio di puttana, voglio che mi guardi quando ti parlo!”

Lui non la guardò, prese la bottiglia di Gutturnio frizzante di una famosa cantina dei colli piacentini e riempì nuovamente il bicchiere.

“E va bene, bevi brutta testa di cazzo! Continua pure a bere ubriacone di merda, tanto hai già mandato tutto a puttane!!

Lorenza era rabbiosa, ringhiava, digrignava i denti, sembrava una leonessa in gabbia, mentre Gino, già ubriaco, continuava a bere.

“Ti avevo chiaramente detto di rapire la figlia minorenne del farmacista, quella adolescente che va ancora a scuola, quella ancora vergine. E tu invece cosa fai? Chi rapisci?”

Gino taceva.

“Rapisci la vergine come ti avevo chiesto? No. Certo che no. Hai preso sua sorella, una famosissima insaziabile libertina! Mi spieghi adesso cosa ce ne facciamo? Eppure ero stata chiara, ti ho spiegato cento volte che per il sacrificio a Satana ci serve una vergine. Ma tu no, o te ne sei sbattuto le palle, oppure eri ubriaco, oppure entrambe le cose. E cosa fai? Te ne torni a casa con la sorella libertina chiusa dentro al bagagliaio della macchina. Sei proprio un coglione!!”

Gino iniziava ad infastidirsi: le urla di Lorenza gli penetravano nella testa come coltelli, quella stridula, isterica, saettante e insopportabile voce lo stava lentamente portando alla pazzia.

La sua unica consolazione era la figlia del farmacista. Ora la teneva legata ad una sedia, imbavagliata, davanti a loro. Aveva un bel corpo e un bel paio di gambe lunghe. Portava una minigonna così corta che le si potevano vedere le mutandine rosa.

“Scommetto che hai rapito lei perché ti piace”, disse Lorenza.

“Non riesco a togliermela dalla testa” ammise Gino.

“E’ solo una slandrona.”

“Questo è sicuro ma… ecco… vedi, il fatto è che… penso di essermi innamorato”.

“Innamorato? Ma di chi? Della libertina insaziabile? E cosa avrebbe di così speciale?”

Lorenza era sconcertata.

“Bhe, ecco… io penso sia per come bacia, e per quelle mutandine rosa, per quel modo che ha di fartele intravedere, lo trovo irresistibile” disse Gino, prima di ingollare un’altra copiosa sorsata di vino rosso frizzante.

La prigioniera intanto si dimenava sulla sedia cercando disperatamente di liberarsi, le si vedeva anche l’ombelico attraverso la camicetta strappata.

“Senti senti questo figlio di puttana. Non solo hai rapito la ragazza sbagliata, hai anche trovato il tempo per farci i porci comodi tuoi. Dopo averla baciata ti ha per caso anche fatto un servizietto completo, brutto bastardo schifoso!?”

Gino abbassò nuovamente lo sguardo sul bicchiere.

“Non si tratta di questo, è che… è che sento del sentimento, tu non puoi capire ma… io… io la amo.”

Gino si era innamorato della figlia del farmacista, ed ora si era messo nei guai. Non sapeva perché gli fosse capitato né perché lo avesse confessato: quando beveva non aveva le idee molto chiare.

Lorenza lo guardava con disgusto, come si guarda una merda pestata in mezzo alla strada.

“E’ colpa della mia infanzia, niente amore, niente affetto. Ora sento il bisogno di rifarmi” aggiunse lui, come a cercare una giustificazione.

La figlia del farmacista era terrorizzata, i suoi occhi urlavano disperazione al posto della bocca imbavagliata.

Il volto di Lorenza allora si fece scuro, andò in cucina, prese un martello da un cassetto e tornò in soggiorno dove stavano gli altri due.

“Gli innamorati possono essere pericolosi” cominciò a dire alzando la voce in un crescendo assordante, “perdono il senso della realtà, cominciano a fare cazzate, sino a quando diventano psicotici. Possono persino ammazzare la gente. Lo sapevi sudicio vigliacco ributtante traditore figlio di troia?!”.

Gino ruttò, e la sua bocca si riempì del sapore del vomito.

Lorenza si mise ad urlare ancora più forte. Un urlo tremendo, lunghissimo, ed inquietante. Poi brandì in aria il martello e si lanciò all’attacco.

Cominciò a tempestare Gino di martellate. Martellate pesanti come macigni. Lo martellava a due mani.

Lui restò lì a farsi colpire. Lei lo picchiò ovunque, sopra gli occhi, sulla fronte, sulle labbra, sui denti: il sangue schizzava a fiotti sul pavimento, sulle pareti, sulla faccia crudele e indemoniata di Lorenza.

“Sei un bastardo, un brutto bastardo, bastardo, bastardo, bastardo ubriacone, ti odio!!”

Alla fine Gino crollò a terra con il cranio fracassato in una maschera di sangue e carne maciullata.

Charles Manson, così Lorenza aveva chiamato il suo feroce pitbull sanguinario, si avvicinò al corpo di Gino, gli girò attorno, gli annusò un po’ il sedere e poi tornò annoiato a sdraiarsi dentro la sua cuccia assemblata con ossa umane, trafugate da Lorenza nei cimiteri della zona.

Ormai stava per tramontare il sole dietro alla collina, in uno di quei noiosi borghi della valle. Nella casa di Lorenza, regina dei satanisti in Val Tidone, era tornata la calma.

Lei andò in bagno per pulirsi la faccia dagli schizzi di sangue, Gino giaceva sul pavimento, la figlia del farmacista piangeva in silenzio, legata ad una sedia.

Charles Manson, il pitbull di Lorenza, stava sonnecchiando in attesa della passeggiata serale quando all’improvviso rizzò le orecchie, per poi cominciare a ringhiare in modo spaventoso rivolto alla porta.

Un attimo dopo due carabinieri della stazione di Borgonovo Val Tidone fecero irruzione nella casa ad armi spianate: delle pistole mitragliatrici Beretta PMX.

Avvenne tutto in pochi secondi.

Charles Manson si fiondò sul carabiniere più vicino azzannandolo ad un braccio con violenta ferocia: le sue mandibole assassine si strinsero sull’arto dell’uomo con la forza di una pressa meccanica. Il poveraccio iniziò ad urlare disperato mentre il pitbull spietatissimo gli stava staccando il braccio a morsi. Schizzi di sangue volavano in giro dappertutto mentre il collega con ancora in mano la pistola mitragliatrice Beretta PMX, paralizzato dal panico, non sapeva cosa fare.

Alla fine, un attimo prima che il cane amputasse un braccio al collega, fece partire un raffica che centrò in pieno Charles Manson facendogli scoppiare il cuore e metà della testa.

Ora il cane stava disteso stecchito sul pavimento in una pozza di sangue, ma anche il carabiniere era in condizione critiche. Oltre che dal braccio sbrindellato, perdeva molto sangue da una delle gambe colpite involontariamente dalle pallottole vaganti. Era caduto a terra e stava urlando dilaniato da dolori strazianti.

“Maledetti bastardi avete ammazzato il mio cane, luridi figli di puttana!” gridò Lorenza, così forte da coprire le urla del carabiniere a terra.

Quello ancora in piedi non ebbe il tempo di reagire.

Lorenza si avventò contro di lui pugnalandolo con un cacciavite: un solo preciso e letale fendente dentro all’occhio destro. Lo ammazzò sul colpo.

“Non spari più adesso verme schifoso? Vai a farti fottere all’inferno pezzo di merda!” inveì lei, mentre il cadavere del carabiniere si afflosciava sul pavimento.

Lorenza si guardò le mani insanguinate, poi afferrò il cacciavite e facendo forza con il piede sulla testa del morto lo estrasse dalla cavità oculare sfondata.

Ma non fece in tempo a voltarsi che una raffica di mitra le centrò il petto squarciando le sue belle grosse tette e perforandole entrambi i polmoni. Non riuscì nemmeno a gridare, il sangue cominciò a uscirle dalla bocca colando dalle labbra carnose lungo il mento ed il collo.

Il cuore della malvagia satanista della Val Tidone si fermò per sempre in quella calda sera di tarda primavera, in cima alla collina, in uno di quei noiosi borghi della valle dove non succedeva mai niente.

Il carabiniere con il braccio sbranato e le gambe ferite dal fuoco amico era riuscito a trascinarsi sino alla sua mitragliatrice Beretta PMX e a sparare per l’ultima volta. Spirò prima che arrivassero i soccorsi.

Unica superstite la figlia del farmacista. La trovarono legata ad una sedia, imbavagliata, con la camicetta strappata e le mutandine rosa sotto la minigonna troppo corta. Ai suoi piedi c’era Gino, anche lui morto, con la faccia tumefatta e l’ultimo bicchiere di vino Gutturnio ancora in mano.

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Scritto da Anonimo Piacentino

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Pestaggio in centro a Piacenza

Pestaggio a Piacenza

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La cruenta storia di un giovane organizzatore di risse clandestine e di un memorabile pestaggio in centro a Piacenza. Il tutto in salsa social network e con un finale a sorpresa.

Racconto pubblicato su Typee.

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I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Locandiera sadica

Locandiera sadica

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Un fastidioso musicista giunge in piena notte alla Locanda della Luna Nera, sulle colline del piacentino. Le sue continue pretese metteranno a dura prova la pazienza della locandiera sadica, rimasta sveglia per aspettarlo…

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Scritto da Anonimo Piacentino

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L’abominevole donna ricoperta di peli

Abominevole donna

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L’automobile, una Ford Kuga grigia 4×4 vecchio modello, si fermò all’ingresso della piazza di Vicobarone, proprio sotto l’insegna dell’agriturismo Piacenza.

“Da qui possiamo vedere bene l’ingresso del bar” disse Giada, una giovane bionda bella e malvagia, stappando una bottiglia di gutturnio frizzante di media qualità.

“Sei sicura che sia una buona idea?” le chiese Samantha, la sua compagna, una pantera senegalese color cioccolato e con due gambe da urlo.

“Certamente, nessuno rapina mai questi pidocchiosi bar sperduti sulle colline piacentine. Ma è sabato sera e i vecchi pensionati che lo frequentano non hanno fatto altro che bere per tutto il giorno. Ora le casse sono piene e aspettano solo di essere svuotate nelle nostre borse”

“E se il proprietario cercasse di reagire? I villici di campagna sono spesso armati sino ai denti. A mio fratello che ruba gasolio dalle cisterne dei contadini gli hanno già sparato addosso un paio di volte.”

“Il sabato sera è di turno una ragazza inerme. L’unico grilletto che abbia mai toccato lo tiene in mezzo alle gambe” concluse Giada con una risata perversa e buttando giù una gollata di gutturnio direttamente dalla bottiglia.

Le due giovani rapinatrici si infilarono allora delle calze di nailon sulla testa, scesero dall’auto, presero i fucili adagiati sui sedili posteriori e fecero irruzione nel bar.

“Tutti fermi, luridissimi vermi! Questa è una rapina!” urlò Giada per prima, sparando una fucilata contro le vetrate del bancone, per far capire che non stava scherzando.

“Tirate fuori i soldi brutti figli di puttana!” aggiunse Samantha colpendo in piena faccia con il calcio del fucile uno dei vecchi ubriaconi seduti vicino all’ingresso, facendolo crollare a terra svenuto con le labbra spaccate, due denti rotti e la bocca sanguinante.

Il bar fu avvolto da un silenzio surreale, anche la barista di turno, che avrebbe voluto urlare, era paralizzata dalla paura e incapace quasi di respirare.

“Coraggio bastardi, mettete tutti i soldi dentro al sacco nero della spazzatura e nessuno si farà male” ordinò Giada, mentre Samantha passava davanti agli avventori terrorizzati con il sacco nero spalancato.

Gli ubriaconi e gli altri clienti occasionali di quel caldo sabato di mezza estate obbedirono senza fare storie, erano troppo spaventati oppure troppo sbronzi per tentare una qualsiasi reazione.

In pochi minuti le giovani bandite avevano svuotato le tasche dei clienti e la cassa del bar.

“Ora ci serve un ostaggio!” gridò Giada, poi si girò verso la porta e indicò un uomo grasso, seduto vicino al vecchio svenuto: “Tu, ciccione di merda, alzati in piedi e vieni con noi!”

Il ciccione si chiamava Cosimo Truffaldino, era un agente di commercio in disgrazia e aveva una cinquantina di primavere mal vissute e mal portate sulle spalle. Da qualche anno viveva di espedienti e piccole truffe.

“Muovi il culo grassone” lo aggredì Samantha colpendolo con la canna del fucile sulla testa per farlo alzare.

Cosimo Truffaldino, in stato di ebrezza avanzata, cercò faticosamente di alzarsi.

“Se qualcuno di voi stronzi, si azzarda a chiamare i carabinieri prima che siano passati sessanta minuti, vi giuro che ammazzo il ciccione!” spiegò Giada urlando come una pazza.

“E ricordate che noi facciamo sul serio” aggiunse Samantha sparando una fucilata sullo schermo di una slot machine, che esplose fragorosamente schizzando fuori fiamme e scintille.

Poi le due donne si allontanarono trascinandosi dietro un sacco pieno di soldi ed un ciccione barcollante. Arrivate alla Kuga costrinsero Cosimo a inginocchiarsi, lo imbavagliarono con del nastro adesivo legandogli anche le mani dietro la schiena. Lo obbligarono ad entrare nel portabagagli e a quel punto gli legarono anche le caviglie. Dopo essere salite a bordo anche loro, si tolsero le calze di nailon dalla testa e partirono sgommando verso Castel San Giovanni.

La macchina sfrecciava silenziosa a fari spenti lungo la strada illuminata dalle stelle, lasciandosi alle spalle rigogliosi vigneti ordinati in geometrici filari e regolari campi di girasole.

Arrivati all’altezza di Ganaghello, Giada condusse la Kuga lungo una strada sterrata sino ad un vecchio casale in mezzo alla campagna, dove si fermarono, facendo sparire la macchina dentro un fienile e nascondendola agli occhi del modo.

“Prendiamo l’Alfa Romeo e tagliamo la corda” suggerì Samantha.

“E del ciccione cosa ne facciamo?” chiese Giada, mentre qualcosa di sinistro sembrò balenarle tra gli occhi color castagno.

“Lo carichiamo sull’Alfa, e quando arriviamo sulle colline di Bologna lo seppelliamo vivo da qualche parte” suggerì la pantera nera, “non lo troveranno mai” concluse con una specie di ghigno crudele.

“Vuoi aspettare di arrivare a Bologna per divertiti un po’ con lui?” chiese Giada maliziosa.

“Vuoi scherzare? Prima prendiamo l’autostrada e ci allontaniamo da qui meglio è. Tra meno di mezzora ci saranno posti di blocco ovunque.”

“Appunto gattina mia, tra poco le strade saranno bollenti. Noi invece ci nascondiamo qui per un paio di settimane, e quando le acque si saranno calmate andiamo a goderci la refurtiva.”

“Ma ci verranno a cercare” obiettò Samantha.

“Qui non ci troveranno, non possono mica perquisire tutte le case della valle. Faranno dei posti di blocco, qualche giro in elicottero e cazzate del genere, tra un paio di settimane nessuno parlerà più di questa rapina e del ciccione rapito, di cui scommetto non interessa un cazzo a nessuno. Cominciamo a interrogarlo piuttosto, per assicurarci che sia solo un ubriacone di merda.”

Le due donne scaraventarono Cosimo Truffaldino giù dalla macchina, e tirandolo per i capelli ingrigiti lo trascinarono in cantina facendolo sobbalzare lungo i vecchi gradini in mattoni che portavano nel sottosuolo. Cosimo gemette per il dolore ogni volta che qualche osso sbatteva sui rigidi laterizi e per la sofferenza lancinante al cuoio capelluto che lentamente si lacerava sotto al suo peso, mentre le crudeli malandrine lo strattonavano senza pietà giù per le scale.

Quando furono arrivate nello scantinato maleodorante di muffa, aceto e vino andato a male lo assicurarono ad una vecchia sedia di legno legandolo per bene con delle vecchie corde nautiche abbandonate.

“Allora merdone, cerca di essere collaborativo se non vuoi che ti ammazziamo subito” disse Giada schiaffeggiandogli la faccia grassoccia.

“Rispondi alle mie domande con un gesto della testa, solamente sì oppure no, tutto chiaro?”

Cosimo annui con il capo.

“Molto bene merdone, vedo che non sei del tutto stronzo. Allora dimmi, sei sposato?”

Cosimo scosse il capo in segno di diniego.

“Hai una compagna?”

Cosimo scosse nuovamente il capo

“Figli?”

Cosimo fece nuovamente cenno di no.

Un agghiacciante e torbido sguardo di trionfo si materializzò sul volto grazioso e letale di Giada.

“Cosa ti avevo detto? Il cicciobomba qui non se lo fila nessuno, forse anche al bar che abbiamo svaligiato nemmeno lo conoscono”

“Non resta che appurarlo” convenne Samantha

“Palla di merda, sei un avventore abituale del bar dove ti abbiamo rapito?”

Cosimo questa volta annuì, ma stava mentendo, era entrato la prima volta in quel bar il giorno stesso e solo perché la sua automobile, finita la benzina, lo aveva lasciato a piedi.

“Questo complica le cose” commentò Samantha vagamente preoccupata.

“Per nulla” la tranquillizzò subito la compagna bionda, “scommetto che è solo un sociopatico ubriacone di cui nessuno sentirà la mancanza”.

“Ce lo facciamo come gli altri?” chiese allora la panterona nera, mentre le si dilatavano le pupille per l’eccitazione.

“Ottima idea” chiosò Giada, appoggiando il piede destro sul petto di Cosimo Truffaldino. Poi spinse facendo leva con la gamba e rovesciando all’indietro la sedia su cui lui era legato, e facendolo cadere all’indietro.

Cosimo poteva vedere la mostruosità dei volti delle due ragazze, così belli e così terribili, contratti in agghiaccianti sorrisini perversi.

“Pensi che serva spogliarlo?” domandò Samantha picchiettando col tacco del suo scarpone militare sul ventre molle e sovrappeso di Cosimo.

“Non credo sia necessario” valutò Giada, intenta a sfilarsi gli stivali da cow-girl rivestiti in pelle di serpente.

Samantha invece tirò fuori un coltello a serramanico che teneva nascosto in una tasca dei Jeans neri attillati. Poi si inginocchiò vicino alla testa dell’uomo e con perizia degna di un chirurgo iniziò a tagliare e rimuovere il nastro adesivo che gli avvolgeva la bocca.

“Ti suggeriamo di non urlare” disse Giada ridacchiando, “se non vuoi ritrovarti la gola squartata con quel coltello”.

Cosimo annuì terrorizzato, non riusciva a capire quali malvage intenzioni avessero quelle due diaboliche e super sexy fuorilegge.

Samantha indossava una T-shirt maculata di colore verde militare che le metteva in risalto il seno generoso, Giada indossava pratici pantaloncini di jeans e una camicetta scollata sul davanti che lasciava poco spazio alla fantasia.

“Lasciatemi andare” osò protestare Cosimo, appena gli fu possibile parlare.

“Chiudi quella fogna!” lo redarguì Samantha, cominciando a picchiarlo sugli stinchi con il manico del coltello. I colpi non erano particolarmente forti, ma molto precisi e dolorosi.

Le ragazze ridevano divertite, nonostante la violenza dei colpi e la sofferenza inferta allo sventurato. Lui ne era agghiacciato ed iniziò a piangere in silenzio trattenendo i gemiti per paura di ulteriori conseguenze.

“Basta Ti prego smettila” implorò infine, quando il dolore era divenuto insopportabile.

“Ti abbiamo detto di stare zitto” disse Giada mettendogli il piede nudo e sudato sulla faccia, “leccami i piedi piuttosto, ciccione di merda”

Cosimo obbedì. Il piede di Giada, per quanto ben fatto e ben curato, puzzava in modo terribile dopo un’afosa giornata d’estate chiuso dentro lo stivale di serpente.

Ma Cosimo era un pervertito feticista dei piedi e si eccitò immediatamente, dandosi da fare con la lingua con impegno e dedizione.

Samantha notò la sua perversione e cominciò a ridere di gusto.

“Abbiamo trovato un altro schiavetto, è proprio un peccato doverlo eliminare” commentò Giada, spingendo le dita del piede smaltate di rosso dentro la bocca di Cosimo.

Samantha recuperò un’altra vecchia sedia, la dispose vicino al corpaccione obeso dell’ostaggio e vi sedette sopra, quindi si tolse le scarpe militari che indossava.

“Sei proprio uno schifoso grassone” valutò ad alta voce, ridendo ed umiliando il prigioniero.

Il piede di Giada era quasi per intero dentro la bocca di Cosimo, e le conseguenti difficoltà respiratorie lo stavano soffocando.

“Questo cicciobomba feticista mi fa veramente schifo” disse Samantha.

“E’ proprio uno stronzo” valutò Giada spingendo il piede ancora più in profondità nella gola dell’uomo.

Samantha allora si tolse i pantaloni mostrando a Cosimo le sue bellissime gambe. Giada gli sfilò il piede dalla bocca  e lasciò spazio alla sua amica, che tornata a sedere sulla sedia appoggiò i piedi neri sulla faccia dell’agente di commercio.

Il prigioniero iniziò a leccare anche la pianta dei piedi della panterona, ma si accorse con orrore che vi era qualcosa di strano, insolito e disgustoso.

I piedi della bandita di colore erano ricoperti di ispidi peli neri ripugnanti, sopra e sotto, e non da meno lo erano le caviglie e buona parte delle gambe.

“Cosa ti succede panzone, non ti piacciono i miei piedi?”

Cosimo osò muovere la testa in segno di diniego e, cosa ancor peggiore, smise di leccare.

“Brutto stronzo, continua a leccare” ordinò Samantha fulminandolo con uno sguardo torbido e omicida.

Cosimo tergiversò, mentre una nuova terribile percezione tattile gli riempì il cuore di sgomento: i peli della ragazza da sotto i piedi neri si stavano allungando circondandogli tutta la faccia, penetrando come anguille dentro la bocca e le narici.

Completamente sopraffatto dal panico Cosimo chiuse gli occhi dicendo a sé stesso che non poteva essere vero, probabilmente era solo una sensazione passeggera dovuta a quella situazione traumatizzante.

Quando riaprì gli occhi poté per qualche secondo osservare peli grossi come corde e lunghi come liane fuoriuscire dall’intero corpo della panterona avvolgendolo in un disgustoso bozzolo di peluria nauseante.

Un attimo dopo tutta la testa e buona parte del grasso addome dell’uomo erano ricoperti dai mostruosi peli della spregevole ragazza.

Cosimo cercò inutilmente di gridare ma i velli avevano già raggiunto i polmoni e lo stomaco, e le diaboliche risate fragorose delle due crudeli megere furono l’ultima cosa che riuscì ad udire, prima di morire soffocato dall’abominevole donna ricoperta di peli.

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Scritto da Anonimo Piacentino

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Giochi Perversi

Giochi perversi

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Avvertenze

Nel presente racconto sono descritte scene di violenza estrema. Il linguaggio utilizzato è brutale, volgare ed osceno. La lettura è sconsigliata ai soggetti più sensibili e severamente vietata ai minori di anni 18

 

Capitolo primo: Il Professore

 

Lo chiamavano il Professore e tutto in lui era perverso: lo sguardo, la condotta dissoluta ed i pensieri malvagi.

“Ho voglia di rilassarmi, vieni qui e massaggiami i piedi” ordinò rivolgendosi a Mandingo, il suo schiavo svedese, dopo essersi tolto le scarpe.

Mandingo non piaceva massaggiare i piedi al suo padrone, anzi più spesso lo disgustava, soprattutto a fine giornata, quando i piedi del Professore erano stanchi, sudati e facilmente puzzavano. Ma era uno schiavo sottomesso ed ubbidiente ed eseguì gli ordini senza protestare.

“Il mondo là fuori è una vera merda, sono tutti pazzi” osservò il Professore accendendosi un sigaro, comodamente sprofondato nella sua poltrona in pelle nera.

Mandingo annuì con la testa, inginocchiato tra le gambe del suo padrone, mentre con le mani si dava da fare massaggiandogli i piedi.

“Non si può nemmeno andare al centro commerciale senza correre il rischio di essere rapinati per strada, oppure investiti da un camion guidato da qualche fottuto terrorista, o ancora trovarsi invischiati in qualche discussione con un vicino di casa nevrotico o qualche donna inacidita, aggressiva e insopportabile. Tu che ne pensi Linda?”

Linda arrossì, senza sapere cosa rispondere: era una schiava bianca e raramente poteva esprimere le sue opinioni. In quel momento era nuda, inginocchiata alla destra del padrone e reggeva tra le mani un grosso posacenere di cristallo. Aveva da poco compiuto 17 anni ed era stata acquistata dieci anni prima in un accampamento di zingari.

“Ti ho fatto una domanda” disse il professore pizzicandole una gamba.

Linda abbassò lo sguardo e si morse le labbra, lasciandosi sfuggire un gemito.

“Se non mi rispondi ti dovrò punire, stupida stronzetta ignorante”

“Sono tutti pazzi, il mondo là fuori è orribile, soprattutto le donne aggressive e insopportabili” disse lei timidamente, tutto di un fiato, tremando per la paura e avvampando per la vergogna.

Il Professore sorrise compiaciuto, Linda era una schiava perfettamente addestrata, la migliore che avesse mai posseduto.

Poi allontanò Mandingo, spingendolo via con fare stizzito. Oramai era piuttosto avanti con gli anni, e si annoiava velocemente. Il suo schiavo scandinavo, per quanto si potesse impegnare, per quanto fosse giovane, atletico e muscoloso, non sarebbe mai riuscito a massaggiargli i piedi nel modo giusto, nemmeno andando avanti per una intera settimana di fila.

“Mi sembri in forma oggi, voglio che ti prepari, questa sera parteciperai ai giochi”.

La faccia di Mandingo si contrasse allora in una smorfia piuttosto preoccupata.

“Ti ho iscritto ai giochi di Lady Circe” concluse il Professore, mentre un sadico ghigno crudele gli si abbozzava sulla faccia rugosa.

La preoccupazione sul volto di Mandingo repentinamente scomparve, per lasciare posto ad autentico panico.

 

Capitolo secondo: il Castello di Lady Circe

 

Arrivarono al castello di Lady Circe quando il sole era calato da un pezzo e nel cielo senza luna le stelle brillavano astute, sopra la coltre di nebbia che copriva la valle.

Lady Circe era una padrona misteriosa ed esigente. Si era da poco trasferita sulle colline del piacentino, dopo aver fatto ristrutturare un fatiscente castello abbandonato. La sua dimora era ora nuovamente sontuosa e sinistramente lugubre, grazie al sapiente recupero in stile tardogotico.

Il Castello era avvolto dalla nebbia e dalle alte e nere finestre non traspariva raggio di luce alcuno.

Il Professore ed i suoi schiavi furono accolti all’ingresso da Franchino, il maggiordomo.

Era un uomo di alta statura, con una lunga barba scura ed un gran cappello nero in testa, che in parte gli copriva il volto. Salutando gli ospiti mostrò per un attimo due piccoli occhi brillanti, che alla fioca luce delle fiaccole poste ad illuminare il tetro ingresso, sembrarono di colore rosso. Sorridendo aveva anche esibito una bocca dal taglio duro con piccoli denti gialli anneriti dal tempo. L’alito emanava un fetore di morte e gli sudavano visibilmente le ascelle.

La grande porta, con strepitio assordante e gran clangore di pesanti catene, si chiuse alle loro spalle, e Franchino accompagnò gli ospiti attraverso un ampio ed alto corridoio avvolto dall’oscurità, con pareti sorrette da slanciati archi a sesto acuto.

Il gruppo poteva avanzare grazie solo ad una piccola fioca luce proveniente da una vetusta lucerna d’argento, che Franchino teneva ben salda nella mano ossuta.

Scesero lungo un grande scalone al piano inferiore e poi percorsero un altro corridoio sul cui pavimento di pietra i loro passi riecheggiarono cupi. Attraversato anche questo, Franchino aprì un pesante uscio di rovere nero, ed accompagnò il Professore ed il suo seguito nel salone dei giochi.

Anche questa stanza era semiavvolta dall’oscurità, ad eccezione della flebile luce proveniente dai bracieri lungo le pareti, e dal gigantesco camino nel quale fiammeggiava un gran fuoco, che scaldava un poco il tenebroso ambiente circostante.

La sala dei giochi era riccamente addobbata con tendaggi e arazzi realizzati con le stoffe più raffinate e preziose, probabilmente vecchie di secoli, ma ancora in ottimo stato.

Gli altri invitati erano già tutti arrivati e stavano animosamente conversando seduti sulle panche disposte a guisa di spalti intorno ad un ring appositamente allestito al centro della stanza.

Il Professore si diresse subito verso il palchetto reale per salutare Lady Circe, la padrona del castello che aveva organizzato i giochi e lo aveva invitato.

“Lady Circe i miei rispetti” le disse accennando un inchino e porgendo la mano.

Lei l’afferrò con un tale vigore da farlo sobbalzare, e con una mano fredda come il ghiaccio, più la mano di un morto che di un vivo.

“Benvenuto Professore, è un grande piacere per me incontrarla nuovamente e poterla ospitare in questa mia antica dimora, riportata a nuovo splendore”

Il Professore rispose con un leonardesco ed enigmatico ghigno, senza dire nulla, ansioso di sottrarsi alla presa della donna.

Lady Circe era una bella signora di mezza età, bionda come più non si può essere, con grandi masse di capelli ondulati color dell’oro. Era nerovestita da capo a piedi, senza altra macchia di colore in tutta la persona. Il volto era grifagno con un naso sottile e sporgente, la bocca carnosa e morbida, dal taglio segnatamente crudele, con candidi denti bianchissimi ed aguzzi, che scintillavano come perle sulle labbra voluttuose e rosse come il sangue. Le gote erano magre e gli occhi coperti da spessi occhiali da sole, la cui montatura nera contrastava in modo impressionante con lo straordinario pallore del viso.

“Non mi presentate i vostri amici Professore?” chiese Circe, guardando i sottomessi che stavano due passi dietro al loro padrone con la testa china e lo sguardo umilmente rivolto al pavimento.

“Essi sono i miei schiavi” disse il professore senza nascondere il proprio orgoglio, “lui si chiama Mandingo, mentre lei è Linda”

Lady Circe osservò con finto interesse i due giovani: Mandingo indossava solamente una sottofascia costituita da una striscia di lino, una sorta di semplice perizoma avvolto intorno alle cosce e allacciato alla vita. Il suo corpo muscoloso era in questo modo offerto alla vista dei presenti, lasciando poco spazio all’immaginazione. Linda era invece vestita come una scolaretta giapponese, con una oscena minigonna inguinale, una magliettina di cotone semitrasparente ed i capelli nero corvino tagliati a caschetto.

Gli altri ospiti di Lady Circe erano piuttosto inquietanti, facce da galera inespressive, truffatori, specialisti in espedienti e sotterfugi, dominatori con i loro schiavi al seguito, alcolizzati, ludopatici e rifiuti umani di varia natura. Il Professore si guardò attorno provando disagio e fastidio, poi si grattò il sedere e si diresse verso il bar.

Una bella morettina vestita da cameriera versò vino bianco, Ortrugo frizzante, in un paio di calici, poi ne offrì al Professore e ad un tizio raccapricciante, storpio e con la faccia devastata dall’acne che gli stava vicino.

“Piacere, mi chiamo Locusta e sono un poeta” si presentò lo storpio.

“Poeti e scrittori, sono tutta gente fallita, oppure pazza o più spesso entrambe le cose” disse il professore tracannando una gran sorsata di Ortrugo.

“Sono il più grande poeta vivente” precisò lo storpio “nessuno mi sta alla pari” aggiunse con un orgoglio bizzarro negli occhi.

“Vi conosco a voi poeti, vi piace discorrere di filosofia e dei massimi sistemi, ma siete tutti inconcludenti, feroci e narcisi”

“Si, ma io sono il migliore di tutti, meglio anche di Bukowski e Steno Cremona”

“E chi cazzo è Steno Cremona?”

“L’autore di 23, il romanzo definitivo del nuovo millennio”

“Dammi altro Ortrugo” disse il Professore alla morettina, sperando che lo storpio mollasse la presa.

“Nelle mie poesie parlo spesso del vino di questa cantina” disse Locusta indicando l’etichetta sulla bottiglia.

Il Professore non commentò, continuando a bere.

“Adesso però ho cambiato marca, ne ho trovata una migliore”

“E come si chiama?”

“Non me lo ricordo, ma sono ugualmente il più grande poeta vivente”

Il Professore tracannò un altro calice di vino, si fece riempire nuovamente il bicchiere e cercò di allontanarsi dallo storpio che iniziava a dargli sui nervi. Intanto sul tabellone elettronico appeso sulla parete più grande, andavano formandosi le accoppiate per la prima fase dei giochi.

 

Capitolo terzo: i combattimenti

 

“Come funzionano questi giochi?” domandò Linda

“Si tratta di combattimenti ad eliminazione diretta tra schiavi dello stesso sesso e il primo turno prevede uno scontro a mani nude” iniziò a spiegare il Professore.

“Mandingo è robusto e ha in passato già vinto parecchi incontri di questo tipo, tuttavia non è tra le teste di serie, quindi dobbiamo sperare che il sorteggio non lo costringa ad affrontare subito i favoriti: lo schiavo di Lady Circe, il temibile Pony-boy, o lo schiavo di Mistress Demonista, l’orribile Uomo Trota”

“Cosa succede se pesca subito uno dei favoriti” domandò ancora la ragazza sfoggiando un’ingenua espressione di sincera ignoranza.

“Succede che lo riempiono di botte e torniamo a casa presto” disse il professore terminando in una sadica e divertita risata.

Mandingo intanto fingeva indifferenza ma il suo faccione vichingo tradiva tutta la sua paura.

Ebbe fortuna, il responso delle urne era stato favorevole:

Pony-Boy contro Sweet Ganja

Leccapali contro Mani di Fata

Sperminator contro Mandingo

Uomo Trota contro Leatherface

“Molto bene Mandingo, Sperminator è un vero brocco, è assolutamente alla tua portata. Se riesci a passare il turno te la dovrai vedere con il vincente tra Uomo Trota e Leatherface” commentò soddisfatto il Professore.

“Chi sono quelli nella seconda metà del tabellone?” chiese ancora la giovane Linda.

“Quelle sono le schiave femmine: Little Slut contro Scarafaggio Ruth, Sluttern Honey contro Cunnilingus, Miss Piggy contro Puppy Doll e Donna Capra contro Bondagewoman”

“E chi sono le favorite tra le donne?” domandò Linda con un filo d’ansia nella voce, immaginando per un momento di essere un giorno anche lei costretta a combattere.

“La favorita è Donna Capra, la schiava di Lady Moralizzatrice, una temuta e spietatissima padrona: integerrimo funzionario dello Stato di giorno e implacabile e perversa dominatrice di notte” la informò lui con sadico compiacimento.

“E il divertimento consiste nel guardare questa gente che si prende a pugni?”

“Naturalmente, e poi ci sono anche le scommesse”.

Un vecchio sdentato si avvicinò allora tutto serio al Professore e gli disse: “voglio togliermi una soddisfazione prima di morire, ho simpatia per Leatherface e ho puntato 200 euro su di lui.”

“Uomo Trota è uno dei favoriti, mentre Leatherface ha perso gli ultimi tre incontri, non credo abbia speranze” obiettò il Professore.

“Staremo a vedere” disse il vecchio, e attese che iniziasse il combattimento.

L’Uomo Trota vinse al primo round. Leatherface era grosso e possente, ma lento, mentre l’Uomo Trota era svelto, agile, sfuggente: lo stese con un paio di diretti ben assestati sulla faccia ricoperta da una maschera grottesca di pelle nera che gli dava il nome.

Il pubblico intorno al ring intanto ondeggiava psichedelico, tutti assieme sembravano una gran massa di ipnotizzati, gridavano, tifavano, facevano le loro puntate mentre i combattimenti si susseguivano a ritmo incessante, uno via l’altro.  In circa un’ora si era concluso il primo turno, meno di 10 minuti ad incontro in media.

Il Professore aveva continuato a bere, era ormai alla terza bottiglia di Ortrugo ma lo reggeva bene.

Quasi tutti i favoriti avevano vinto, come era prevedibile. Unica eccezione Cunnilingus data per vincente 3 a 1 che si era fatta battere dalla esordiente Sluttern Honey data a 10.

Chi aveva puntato sui perdenti aveva adesso la faccia torva, la sconfitta stampata sul volto, la follia straripante dagli occhi stralunati.

Il vecchio sdentato era incazzatissimo, aveva puntato su Leatherface, Cunnilingus, e Mani di Fata. Tutti sconfitti. Ci aveva rimesso un migliaio di euro.

“Ma che diavolo, quella puttana di Cunnilingus si è fatta fregare da una principiante. Questi giochi andrebbero vietati, che io sia maledetto” ringhiò, tutto rosso in faccia. Sembrava sul punto di avere un infarto.

Il Professore si allontanò da lui per andare a ritirare una vincita. Aveva fatto una sola puntata di 500 euro su Donna Capra data 2 a 1. Avrebbe voluto puntare anche su Mandingo, ma era vietato scommettere sui combattimenti dove partecipavano i propri schiavi.

“Sono tutte delle mezze seghe effemminate, alcuni di questi rammolliti possono anche decidere di perdere deliberatamente, per paura di andare avanti” commentò un ciccione infervorato: il suo schiavo Sperminator aveva perso il combattimento proprio contro Mandingo.

Gli incontri del secondo turno furono anche più brevi. Si svolgevano con armi da taglio come spade o coltelli e alla prima ferita si veniva eliminati. Mandingo ci sapeva fare discretamente con il coltello, e in meno di sette minuti riuscì a rifilare un fendente sulla faccia di Uomo Trota. Ai fortunati che avevano puntato su di lui aveva fruttato un bel bottino, perché era dato per sfavorito e pagato 5 a 1. Ci furono anche delle proteste perché Uomo Trota aveva combattuto molto sotto i suoi standard abituali: forse per paura di arrivare alle semifinali, forse perché era stanco, oppure perché aveva bevuto troppo vino Gutturnio tra il primo incontro ed il secondo. Ad ogni buon conto Mandingo aveva superato la prima fase e adesso era terrorizzato.

“Avanti Mandingo, puoi farcela, sei forte, sei molto resistente ed hai una elevata capacità di sopportare il dolore” cercò di incoraggiarlo il Professore.

“Se resisti ed arrivi in finale, ti faccio fare un massaggio completo da Linda” gli promise.

Linda, che aveva anche bevuto un paio di bicchieri di bianco ed era un po’ alticcia, arrossì imbarazzata.

“Ho paura padrone” confessò Mandingo a voce bassa.

“Sei andato forte sino ad ora, perché hai paura?” chiese Linda.

“Le regole della seconda fase sono diverse” iniziò a spiegare il Professore, “Il sorteggio ha accoppiato Mandingo con Donna Capra e Pony-Boy con Little Slut.  Ma gli schiavi non combatteranno tra loro. No, se la vedranno con il dominatore del loro avversario sottoponendosi and una sessione BDSM senza limiti”

“E come funziona?”

“Lo schiavo che per primo pronuncerà la safe-word sarà eleminato. I dominatori devono rispettare una sola regola: non infliggere danni fisici permanenti agli schiavi. Per il resto possono disporre a piacimento dei loro corpi e delle loro menti”

“Ma è terribile” disse Linda lasciandosi sfuggire un piccolo rutto, dovuto al vino frizzante che aveva bevuto.

“Già proprio così” chiosò il Professore con un ghigno malvagio, pregustando il suo turno, quando avrebbe avuto la Donna Capra per le mani.

Mandingo invece sarebbe finito sotto le grinfie di Lady Moralizzatrice, e proprio per questo se la stava facendo sotto: la ferocia di quella dominatrice era leggendaria.

“Poteva andarti peggio” cercò allora di consolarlo il Professore, “potevi capitare con Pony-Boy ed affrontare Lady Circe.

Mandingo annuì, ma le parole del suo padrone non furono sufficienti a lenire la disperazione nel suo animo.

 

Capitolo quarto: Little Slut contro Pony-Boy

 

La prima a scendere in campo fu Little Slut. Era una debosciata ventiseienne bionda piuttosto esperta e ben addestrata dalla sua padrona australiana Miss Cane.

Correva voce che Little Slut fosse capace di lottare persino contro alligatori e canguri, ed in effetti aveva superato in scioltezza i primi due turni, dando prova di notevole forza fisica e padronanza delle arti marziali.

Aveva eliminato Scarafaggio Ruth in quattro minuti e Sluttern Honey in sette. Quest’ultima aveva abbandonato l’arena con un coltello conficcato nelle budella.

Ora però la musica era destinata a cambiare, perché avrebbe dovuto fronteggiare la malvagia Lady Circe.

Sul ring era stato portato un carrello a disposizione di tutti i dominatori con gli attrezzi e gli oggetti più pericolosi: aghi, spilli, pinze, vibratori, martelletti, fruste, lame, bisturi, chiodi, ganci, corde, cinghie e molto altro. Appositamente per Lady Circe furono portate una strana gabbietta di ferro ed un misterioso vaso di vimini chiuso con un coperchio di gomma.

Little Slut era in piedi al centro del ring con in dosso solamente delle piccole mutandine di cotone bianco. Era una bella e perversa ragazza nel fiore della giovinezza, e sembrava sicura di sé, per niente intimorita da ciò che l’aspettava.

Quando Lady Circe salì sul ring e le fu davanti, suonò il gong e partì il cronometro. Aveva esattamente 10 minuti di tempo per costringere Little Slut ad usare la Safe-word implorando pietà.

“Inginocchiati!” intimò Lady Circe.

Little Slut obbedì.

“Incrocia le braccia dietro la schiena, schifosa depravata!”

Little Slut eseguì senza protestare, anzi un sorriso malizioso le si disegnò sulla faccia.

Lady Circe le piazzò allora la gabbietta di ferro sulla faccia, legandola con delle corde intorno alla testa, di modo che la sottomessa non potesse allontanarla dal proprio corpo. La gabbietta era aperta su di un lato, che adesso aderiva perfettamente al volto grazioso della disgraziata.

Dalla parte opposta della gabbietta vi era invece uno sportellino. Lady Circe lo aprì.

Poi con lentezza teatrale si avvicinò al vaso di vimini, tolse il coperchio di gomma e vi infilò dentro un braccio. Lo ritrasse dopo un paio di secondi mostrando al pubblico e soprattutto a Little Slut cosa vi aveva estratto.

Nella sua pallida mano, bloccato tra le lunghe dita smaltate di rosso, si agitava un disgustoso e grosso ratto nero, con la coda lunghissima ed enormi denti affilati.

“Non mangia da tre giorni” disse Lady Circe contraendo le labbra carnose in un sadico ghigno. Poi si avvicinò alla gabbietta legata alla faccia di Little Slut.

Appena la poveretta comprese che Lady Circe stava per chiudere il ratto nella gabbietta, offrendo alle fauci del roditore affamato il suo viso indifeso, fu presa dal panico, iniziò ad urlare in preda ad una crisi di nervi, si alzò in piedi e si lanciò fuori dal ring tentando di fuggire. La fuga, così come il rifiutarsi di eseguire un ordine decretava la fine.

Il cronometro fu fermato dopo soli due minuti e 10 secondi. Un ottimo tempo. Quasi da record.

Fu allora il momento di Pony-Boy. Per arrivare in finale gli bastava resistere per due minuti e 11 secondi contro Miss Cane, la padrona di Little Slut.

Pony-Boy era stato un bel ragazzo un tempo, adesso invece era stato trasformato in una creatura grottesca. Aveva abbandonato la postura eretta e stava sempre a quattro zampe. Le mani ed i piedi erano intrappolati dentro a delle scatole a forma di zoccoli equini, mentre nel retto era stabilmente inserito un plug anale realizzato con materiali di primissima qualità: acciaio inossidabile per il plug e vere crine di cavallo per la coda.  Sulla bocca gli era stato inserito un morso da briglia a canna intera con ponte in acciaio inox, con tanto di redini in cuoio. Per il resto era coperto soltanto della sua naturale peluria, ad eccezione di una rudimentale sella legata sopra la schiena.

“Sei un repellente pervertito” ruggì Miss Cane appena fu il suo momento.

Dal carrellino degli attrezzi prese un fallo in lattice dalle dimensioni impressionanti, e poi si andò a posizionare davanti a Pony-Boy.

Afferrò le briglie e con violenza le strappò via insieme al morso da briglia, che risultò essere di dimensioni piuttosto ardite, ma comunque insignificanti rispetto al membro colossale che Miss Cane teneva stretto nella mano destra.

Afferrò lo schiavo per i capelli tirandogli indietro la testa.

“Apri la bocca debosciato”

Pony Boy obbedì spalancando la cavita orale.

Miss Cane vi sputò dentro una grossa, vischiosa e ripugnante scatarrata verde.

“E adesso ingoia per bene, merdaccia”

Pony-Boy ingoiò subito, ma sembrava più eccitato che dispiaciuto.

Lei allora iniziò a spingergli tra le labbra il mastodontico cazzo di lattice.

Con stupore di tutti, dopo una brevissima resistenza, la bocca già in precedenza addestrata dai trattamenti di Lady Circe, accolse per intero il gigantesco fallo di Miss Cane.

Lei gli chiuse allora il naso con un mollettone, rendendogli impossibile la respirazione. Lo costrinse in apnea per novanta secondi, poi quando il colore del volto era ormai cianotico e lo sventurato stava per svenire gli estrasse dalla gola il membro artificiale.

“Ne hai avuto abbastanza stupido bastardo?”

Pony-Boy, dopo ave rantolato alcuni secondi per riprendere fiato, si rivolse alla dominatrice con sguardo languido e la sfidò: “Ne voglio uno più grosso Padrona”

Miss Cane reagì male, corse al tavolino ed afferrò un manganello di gomma rigida, tornò dallo schiavo e lo colpì ripetutamente sui fianchi, sulle terga e persino sulla faccia.

Pony-Boy gemette più volte per il dolore, iniziò anche a sanguinare dal naso e dalla bocca, ma appena la donna si fermò per rifiatare lui la sfidò nuovamente: “Ne voglio ancora Padrona, colpisca più forte”

Miss Cane comprese allora che quel ragazzo ributtante era un osso duro, ma non aveva più tempo: erano passati due minuti e 11 secondi ed era stata sconfitta. Pony-Boy era il primo finalista.

 

Capitolo quinto: Mandingo contro Donna Capra

 

Mandingo stava in piedi in mezzo al ring con il solo perizoma addosso, i muscoli del corpo in tensione e la faccia di uno che va incontro alla morte.

Lady Moralizzatrice gli si parava davanti esibendo un’espressione fiera e perversa. Indossava una tuta in latex aderente color rosso fuoco, stivali coordinati in pelle tacco 12. I folti capelli erano rossi e ricci. Il viso era duro, gli occhi sadici, il mento affilato.

Appena il cronometro fu azionato lei prese un lungo spillone di acciaio inossidabile con capocchia d’avorio dal tavolino delle torture, poi afferrò Mandingo per un braccio.

Lui non oppose resistenza. Lady Moralizzatrice appoggiò lo spillone all’altezza del bicipite destro di Mandingo, poi lo spinse con forza ed iniziò ad infilare lo spillone dentro al braccio. Lo spillone era spesso e lungo non meno di una dozzina di centimetri, ma il bicipite di Mandingo misurava quasi il doppio, per cui accolse lo spillone per intero, sino alla capocchia d’avorio.

Mandingo gemette, mentre il sangue colava lungo il braccio infilzato e il suo volto si imbruttiva in una languida espressione di lussuria.

“Ma allora sei un rivoltante pervertito” commentò lei schiaffeggiandogli la faccia.

Mandingo sembrò gradire, lasciandosi sfuggire un gemito di piacere.

Lady Moralizzatrice comprese che era meglio cambiare tattica.

Decise allora di bendargli gli occhi, e di legargli i polsi e le caviglie con dei cavi elettrici. Poi lo assicurò ad un gancio da macellaio fissato ad una catena basculante fatta appositamente calare dal soffitto.

In pochi secondi Mandingo si trovò sollevato da terra, appeso per i polsi, privato della vista e in balia della spietata dominatrice rossa: Iniziò a sudare freddo e a tremare impercettibilmente.

Lady Moralizzatrice si avvicinò al tavolino, osservò i numerosi oggetti di tortura e con sadico compiacimento scelse una pesante spranga di ferro.

Il regolamento dei giochi parlava chiaro, non si potevano infliggere danni permanenti, per cui doveva stare attenta a non colpire organi vitali oppure la testa.

Ma poteva comunque infliggere dolori terribili, concentrandosi sulle parti ossee o sulle articolazioni come caviglie, stinchi, ginocchia, gomiti. Eventuali ferite o rotture in quelle parti potevano essere successivamente curate.

Girò intorno al corpo indifeso di Mandingo con fare rapace, poi prese bene la mira e vibrò un brutale colpo di spranga sul suo gomito. Lo schiavo squarciò l’aria con un grido di dolore.  Poi lo colpì ancora più volte, con violenza crescente, prima sulle caviglie, poi sulle scapole. Lasciò passare alcuni secondi tra una sprangata e l’altra. Poiché Mandingo era bendato, il breve tempo che passava tra un colpo e quello successivo si trasformava in un’attesa infinita carica di angoscia e sofferenza.

“Ne hai avuto abbastanza verme disgustoso?” lo interrogò Lady Moralizzatrice.

Mandingo non disse nulla, ma iniziò a piangere in silenzio.

“Devi sapere, lurido scimmione, che in questi casi è una buona idea rompere subito una gamba. Il dolore diventa quasi insopportabile, soprattutto quando si colpisce ripetutamente l’osso spezzato. Cosa ne dici, procedo o ti arrendi, puzzolente sacco di merda?”

Mandingo era già sul punto di cedere, ma prima che potesse pronunciare la safe-word intervenne il Professore urlando: “Qualunque cosa ti faccia lei, se adesso ti arrendi, quando torniamo a casa, io te ne faccio il doppio brutto stronzo, hai capito bene? Quindi stringi i denti e tieni duro!”

Mandingo sapeva bene che il Professore diceva sul serio, quindi si fece coraggio e con un filo di voce rispose: “Andiamo avanti”

Lady Moralizzatrice contrasse le labbra in un ghigno diabolico, tornò velocemente al tavolino, lasciò la spranga di ferro e prese un grosso martello da fabbro, tornò vicino a Mandingo, mirò subito sotto il ginocchio, e colpì con tutta la forza che aveva in corpo.

Il nitido schianto dell’osso che si rompeva riecheggiò nell’arena, accompagnato dalle disperate urla di dolore di Mandingo, mentre si dimenava come una biscia impazzita.

Linda, costretta ad assistere dall’inizio all’orribile supplizio, cadde svenuta ai piedi del Professore.

Le urla di Mandingo si sostituirono a gemiti strazianti, pianto a dirotto e stridore di denti.

La Moralizzatrice prese nuovamente la mira, e scagliò una seconda terribile martellata proprio nel punto in cui dalla gamba fuoriusciva un bianco pezzo dell’osso spezzato.

Questa volta il dolore fu troppo grande, Mandingo urlò come se non ci fosse un domani e poi svenne.

La sadica dominatrice prese allora un secchio d’acqua posato in un angolo del ring e lo lanciò sulla faccia dello schiavo, che riprese i sensi urlando ancora più forte.

“Cosa mi dici sudicia merdaccia, getti la spugna o devo spezzarti anche l’altra gamba?” ringhiò la donna sollevando nuovamente il martello

Mandingo aveva superato i suoi limiti, e senza altri indugi si arrese urlando la safe-wod con tutto il fiato che ancora aveva in corpo.

Era durato in tutto sei minuti.

Il Professore lo stava ancora insultando mentre veniva trasportato in barella fuori dall’arena. Avrebbe voluto seguirlo sino all’infermeria per continuare a pestarlo sulla tibia fratturata, ma non ne aveva il tempo. Era ora il suo turno: doveva salire sul ring per affrontare la Donna Capra.

Sapeva bene che con la schiava della Moralizzatrice non sarebbe stato facile, l’aveva vista combattere con selvaggia determinazione durante gli incontri della prima fase.

Era comunque fiducioso, pensava che prima o poi lei avrebbe ceduto sconfitta dal suo metodo infallibile.

Ciò che lo preoccupava era il fattore tempo, doveva raggiungere il suo scopo in meno di sei minuti e questo rendeva l’intera faccenda maledettamente complicata.

Quando raggiunse l’interno del ring era tutto pronto: gli inservienti avevano portato la macchina dell’elettroshock ed una specie di tavolo operatorio secondo le sue disposizioni, e la Donna Capra lo attendeva imperturbabile al centro della scena con indosso solamente dei piccolissimi slip.

Lei era di una bruttezza inquietante: aveva un giovane flessuoso e sensuale corpo da top model internazionale, ma la testa era deforme con un’orribile faccia caprina, piccoli occhi cisposi e grosse labbra gibbose.

“Sdraiati sul tavolo brutta stronza!” ordinò il Professore appena fu suonato il gong che dava avvio alla sessione.

La Donna Capra obbedì.

Il professore legò velocemente al tavolo i polsi e le caviglie della donna con dei legacci, poi le bloccò la testa caprina con una specie di grosso morsetto.

Si avvicinò senza perdere tempo alla macchina dell’elettroshock, afferrò i cavi che terminavano su due pinze a coccodrillo e le attaccò agli alluci smaltati della Donna Capra, una per piede. Poi fece un passo indietro e prima di dare corrente indugiò per un attimo sul corpo indifeso della ragazza.

La scarica durò circa quindici secondi e la Donna Capra riuscì a non urlare, senza tuttavia poter trattenere le lacrime, che iniziarono a sgorgarle dagli occhi arrossati.

“Questa era meno della metà della potenza massima” la informò il Professore sorridendo in modo malvagio.

“Allora metta al massimo, padrone” disse lei singhiozzando.

Lui usava raramente la massima potenza e solamente quando le torture si protraevano molto a lungo. Tendenzialmente cercava di non farlo se possibile, per evitare che nella vittima potesse subentrare la pazzia.

“Ti accontenterò volentieri” annunciò in questo caso il Professore, che avendo poco tempo era intenzionato ad andare sino in fondo.

Aumentò il voltaggio alla massima potenza e lasciò accesa la macchina per altri dieci secondi, ghignando sadicamente mentre la ragazza si dimenava per il dolore, gridando e urlando questa volta senza remore.

“Brutta debosciata, ti arrendi o vuoi una scarica da trenta secondi?”

“No” lo implorò lei. “Ti prego padrone, trenta secondi no”

“Allora pronuncia la safe-word” disse lui con uno sguardo di trionfo dipinto sul volto.

“Falla di almeno… quaranta, secondi” sussurrò lei con un filo di voce vagamente lascivo.

“Schifosa sgualdrina, te ne pentirai amaramente!”

Il Professore allora le strappò le pinzette a coccodrillo dai piedi facendola nuovamente urlare, poi afferrò dal tavolo degli attrezzi un grosso cilindro di ebanite che misurava cinque centimetri di diametro a circa venticinque in lunghezza. Intorno al cilindro erano fissate delle placche di metallo alle quali attaccò le pinzette collegandolo in questo modo alla macchina.

Poi si avvicinò nuovamente alla ragazza e senza troppi complimenti le spinse violentemente il cilindro per due terzi dentro alla bocca. Quindi, senza indugiare, diede nuovamente corrente: per quaranta interminabili secondi.

La Donna Capra gridò disperata, mentre il suo corpo era scosso dalle convulsioni, e si contorceva in modo innaturale, e una disgustosa puzza di carne bruciata si diffondeva per tutta la stanza.

“Arrenditi cagna nauseabonda” le intimò lui ancora una volta.

Ma era troppo tardi, prima che potesse fare altro, il gong suonò: erano passati sei minuti ed un secondo, e il Professore era stato sconfitto.

 

Capitolo sesto: scontro finale

 

Per il gran finale salirono per prime sul ring la Donna Capra e Lady Circe.

Appena il cronometro iniziò a scandire i secondi, la padrona del castello si avvicinò alla ragazza dal volto caprino, che ancora scossa per l’elettroshock stava in piedi a fatica, tutta tremebonda.

“Offrimi il collo, schiava” ordinò Lady Circe.

La Donna Capra obbedì come ipnotizzata, scostando i lunghi capelli scuri con le mani tremolanti e concedendo la gola indifesa.

Lady Circe spalancò allora la bocca esibendo mostruosi candidi denti aguzzi e si avventò sul collo della ragazza squarciandole le carni, affondando nella carotide gli immondi incisivi ancora ben visibili tra le labbra carnose, dentro l’orribile bocca stillante sangue.

La Donna Capra emise un gemito strozzato lasciandosi cadere quasi morta tra le braccia della padrona.

A reagire con impeto fu la Moralizzatrice, che urlando disperata con un salto balzò sul ring, afferrò una grossa mazza di ferro e cominciò a colpire Lady Circe sulla testa e sulla faccia mandandole in pezzi gli occhiali da sole e costringendola ad aprire le fauci mollando la preda.

Lady Circe si girò allora verso la donna che aveva osato aggredirla.

Il volto sino a poco prima di colore bianco cadaverico aveva iniziato a fiammeggiare di demoniaco furore, e i grandi occhi rossi incandescenti ardevano ora di rabbia, odio e collera, così grandi da far impallidire i diavoli dell’inferno.

“Come hai osato colpirmi stupida troia!?” ringhiò digrignando i denti insanguinati come una bestia selvaggia.

“Non sono ammessi danni permanenti, ricordi puttana? Hai scritto tu le regole, e non puoi vampirizzare la mia schiava senza che io ti spacchi la testa” rispose la Moralizzatrice afferrando uno spadone medioevale dal tavolo delle torture.

“Io faccio quello che voglio, come voglio, quando voglio e con chi voglio, e adesso ti rimanderò a casa a calci, dopo aver sculacciato per bene quel tuo grosso grasso culone pieno di merda!”

“Ti sbagli di molto, brutta ciuccia sangue del cazzo, sarò io a staccarti quella stupida zucca vuota dal collo rispedendoti all’inferno”

Lady Circe, senza aggiungere altra parola, si mosse veloce come un fulmine, con un morso bestiale azzannò la Moralizzatrice ad una spalla strappandole pelle, muscoli e carne viva sino alla clavicola.

“Sei troppo lenta, stupida stronza” commentò Circe leccandosi le labbra spruzzate dal sangue uscito dai tessuti sventrati.

La Moralizzatrice fece roteare disperatamente lo spadone un ultima volta nel vano tentativo di colpire la sadica vampira, ma ormai le mancavano le forze, le girava la testa, e dopo aver tentato un ultimo affondo senza successo, cadde sulle ginocchia esausta.

Lady Circe le fu sopra in un attimo, le afferrò la testa con le sue fredde mani dalle lunghe dita e poi affondò le spaventosi e bestiali zanne affilate sulla gola della dominatrice ormai sconfitta, spezzandole il collo.

Il rumore delle vertebre che andavano in pezzi riecheggiò nello scantinato del castello nel silenzio più assoluto. Tutto il pubblico aveva infatti assistito ammutolito a questo gran finale a sorpresa.

I corpi della Moralizzatrice e della Donna Capra giacevano privi di vita sul telo bianco del ring macchiato del loro stesso sangue.

“E’ con grande piacere che comunico ora il vincitore di questi giochi perversi” annunciò Lady Circe dopo essersi ricomposta.

“Il primo classificato è il mio adorabile schiavo Pony-Boy, che dichiaro vincitore per manifesta rinuncia della sua avversaria, Donna Capra”

Il pubblico applaudì entusiasta, e desideroso di andarsene il prima possibile.

Lady Circe rise in modo satanico per poi iniziare a congedare gli ospiti sopravvissuti.

Mancavano pochi minuti all’alba e per lei si avvicinava il momento di ritirarsi.

Lo stanzone dei giochi si era quasi svuotato del tutto quando si fece avanti Locusta, lo storpio, tirando fuori da sotto il mantello un grosso crocefisso d’argento.

“Vade retro, demonio” intimò alla padrona di casa.

Circe si ritrasse furibonda alla vista della croce e iniziò a ringhiare mentre il volto le si imbruttiva per la collera.

Franchino, la ragazza del Bar e altre tre serve circondarono lo storpio, ma non potevano avvicinarsi paralizzati dal potere della croce.

“Come osi sfidarmi nella mia dimora storpio” urlò Circe con una voce che non aveva più nulla di umano.

“Non sono qui per sfidarti, ma per liberare il mondo dalla tua mefistofelica presenza” puntualizzò lo storpio, che con l’altra mano ora impugnava una pistola.

“E pensi davvero ti poterci riuscire con una croce e una pistola?”

“E’ una pistola ad acqua, puttana, ma caricata con acqua benedetta, o acqua Santa che dir si voglia.”

Franchino allora si fece sotto per disarmarlo: “Vediamo se hai il sangue dolce, storpio” gridò spalancando le fauci e allungando le mani ossute trasformate ora in artigli ferini.

“Vai a farti fottere” disse il poeta, e gli sparò in faccia un getto d’acqua benedetta che gli incendiò la barba e la faccia e i denti anneriti dal tempo.

Poi fu attaccato dalla morettina del bar e dalle altre serve, che sbavavano dalla rabbia e dal desiderio di morderlo sul collo, ma Locusta era insospettabilmente agile e riusciva ad evitare gli affondi di quelle maledette e le colpiva con la croce e con l’acqua Santa e in breve le serve del diavolo stavano bruciando sul pavimento nella sala dei giochi perversi.

Sembrava che nulla potesse fermarlo.

“O Signore, donaci il coraggio in queste ore tormentose” disse alzando gli occhi verso il cielo, prima di avanzare minaccioso al cospetto di Lady Circe.

Ma lei si mosse più veloce, e in un lampo riuscì a colpirlo con un paio di schiaffi disarmandolo della croce e della pistola ad acqua, ed ora gli aveva attanagliato il collo con le mani e lo teneva sollevato da terra.

“Non ti berrò tutto in una volta” disse mostrando gli immondi canini vampireschi.

“Prima ti farò diventare il mio schiavo e ti costringerò a mangiare ratti e scarafaggi”

Lo storpio rantolava, la presa micidiale della creatura satanica lo stava strangolando.

“Ti userò come uno zerbino, ti farò leccare merda dai tacchi dei miei stivali, ti trasformerò in un mulo da soma e userò il tuo lurido culo come portaombrelli”

“I peccatori che vagano nell’oscurità hanno visto la luce” riuscì a sussurrare il poeta mentre le ultime forze gli venivano meno.

“Ben venuto nel mondo degli schiavi” ruggì infine Lady Circe con voce demoniaca, mentre stava per azzannarlo sul collo.

Ma un instante prima che potesse chiudere le diaboliche fauci sul gozzo dello storpio, un palo di legno la trapassò da parte a parte. Fece appena in tempo a voltarsi per guardare chi l’avesse trafitta, poi il suo corpo satanico e la faccia pallida e sfigurata dalla perversione e dal peccato si incenerirono in un gran bagliore di fuoco e di fiamme.

Quando il fumo si dissolse Linda era lì in piedi davanti alle ceneri di Lady Circe, con il paletto di legno in mano, pietrificata dalla paura.

“Solo un autentico servo di Dio può infilare con tale grazia un palo di legno nel cuore di questi mostri” disse il poeta tossendo, mentre cercava di tornare a respirare.

“Non esageriamo, è solo la gamba di una sedia rotta” si intromise il Professore, desideroso di recuperare i suoi schiavi e andarsene da quello scantinato.

“Convertiti, finché sei in tempo” lo ammonì lo storpio, “non c’è salvezza per chi muore nel peccato e senza pentimento”

Ma lui non gli rispose, aveva afferrato Linda per un braccio e stava già salendo la scalinata che lo avrebbe riportato in superficie.

“Che nottata di merda” commentò poco dopo aver lasciato il castello a bordo della sua automobile insieme ai suoi schiavi.

Mandingo era sdraiato sui sedili posteriori con la gamba rotta fasciata alla meno peggio e dilaniato dal dolore. Linda era seduta davanti senza parlare e in stato di shock.

“Non c’è nulla di più fastidioso di due donne pazze che litigano, è una cosa che non posso sopportare” aggiunse accendendosi un sigaro e dirigendo il veicolo verso casa.

Il sole si stava alzando pigramente sulla rigogliosa valle coltivata a vigneto. Era il primo giorno di primavera, e quella settimana il professore avrebbe imbottigliato il vino dell’ultima vendemmia.

 
 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

 

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2017 racconti-brevi.com

La cugina minorenne

 

Jock si svegliò con la certezza che fosse un giorno speciale, ma non riuscì subito a capire il perché. Poi ricordò: stava per lasciare la città.

Non sarebbe arrivato lontano se avesse avuto l’aspetto dello spietato assassino criminale figlio di puttana in fuga: per prima cosa doveva darsi una ripulita.

Accese la caldaia sgangherata, poi andò in bagno ed aprì il rubinetto dell’acqua calda che iniziò a cadere lentamente nella vecchia vasca incrostata. La piccola stanza si riempì di vapore.

Andò in cucina e colmò un calice con del vino rosso italiano che non conosceva, non lo aveva mai sentito nominare: era un Gutturnio Superiore vendemmia 2010. Lo tracannò con un paio di copiose sorsate, poi appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolo, si spogliò e tornò in bagno scorreggiando.

Si lasciò cadere nella tinozza e con una grossa saponetta ed una spazzola rigida iniziò a lavarsi.

Provava una sensazione piacevole. Era l’ultima volta che si toglieva dalla pelle sangue rappreso e brandelli di carne morta di qualche bastardo ammazzato a sangue freddo: non avrebbe più dovute uccidere per vivere.

Si lasciava alle spalle la vita del fuorilegge e aveva davanti a sé il Messico, la libertà e una montagna di soldi da spendere sino alla vecchiaia. Avrebbe conosciuto gente che non aveva mai sentito parlare della banda degli assassini di San Clemente. Il suo destino era un libro bianco sul quale avrebbe scritto ciò che voleva.

Si stava ancora lavando quando la cugina minorenne, Betty, entrò nel bagno. Sembrava turbata ed incerta, esitante sulla soglia.

Jock sorrise, le porse la spazzola e ordinò: “Lavami la schiena”

Lei si avvicinò e afferrò la spazzola, ma rimase immobile a fissarlo con uno sguardo vagamente malinconico.

“Su dai, datti da fare” la sollecitò Jock.

Lei cominciò a spazzolargli la schiena.

“Dicono che è stata una vera strage” disse.

“Ne avete ammazzati una mezza dozzina, tra guardie giurate, impiegati e clienti innocenti”

“Abbiamo rapinato una banca, c’è stata una sparatoria, e qualcuno ci ha lasciato le penne, nessuno sarebbe morto se avessero fatto come avevamo comandato.”

Betty si fermò. “Portami con te, Jock” lo implorò. “Non lasciarmi qui sola.”

Jock se lo aspettava, il bacio del giorno prima era stato un segnale premonitore. Si sentiva in colpa. Era affezionato alla cugina e si era divertito con lei l’estate precedente, quando l’aveva portata in collina e avevano fatto l’amore dopo essersi ubriacati. Ma non voleva vivere con lei, e poi era anche minorenne, e questo gli avrebbe provocato un sacco di problemi. Come poteva spiegarglielo senza farla soffrire? Lei aveva le lacrime agli occhi e si capiva quanto desiderasse scappare in Messico con lui. Ma era deciso a partire solo: non desiderava altro che fuggire lontano e godersi gli illeciti proventi delle sue passate attività criminali.

“Devo andare” disse. “Mi mancherai, Betty, ma non posso portarti con me.”

“Credi di essere migliore di tutti noi, vero?” replicò lei in tono risentito.  Aveva occhi grandi e scuri, vagamente folli e deliziosamente incastonati in un bel viso angelico, che la faceva sembrare più giovane dei suoi 16 anni.

“Tua madre era una stronza e tu le somigli. Non sono abbastanza per te? Vuoi andare a Cancún e metterti con qualche troia messicana suppongo!”

Sua madre era sempre stata una canaglia in effetti, ma Jock non sarebbe andato in Messico per mettersi con la prima donnaccia che gli fosse capitata. Si sentiva migliore degli altri? Pensava che sua cugina non fosse alla sua altezza? Probabilmente era proprio quello che credeva, ma non voleva dirglielo apertamente, e si sentì a disagio, non sapeva cosa rispondere.

Betty si sedette sul bordo della vasca e gli posò la mano sul ginocchio che sporgeva dall’acqua. “Non mi ami Jock?”

Lui esitò, avrebbe voluto possederla ancora una volta prima di partire, ma cercò di controllarsi. “Ti voglio bene, Betty, ma non ho mai detto di amarti, e tu non l’hai mai detto a me.”

Betty immerse la mano e lo toccò tra le gambe, sorridendo maliziosa.

“Portami con te e sposami” disse accarezzandolo. Era una sensazione inebriante, Jock le aveva insegnato come fare, e lei aveva imparato in fretta, non voleva sposarla, ma forse avrebbe potuto sfruttarla, lei aveva un innato talento per certe cose. L’idea di farla prostituire per lui in qualche malfamato bordello lo fece eccitare ancora di più.

“Potremo fare tutti i giorni quelle cose che Ti piacciono tanto” lo stuzzicò ancora lei.

“Non posso sposarti perché sei mia cugina minorenne, e tuo padre, mio zio Bud, non lo permetterebbe mai, lo sai bene” osservò Jock, mentre la sua resistenza era al limite.

Betty si alzò e si sfilò il vestito. Prima che lui potesse fermarla, lei entrò nella tinozza e si sedette tra le sue gambe, appoggiando la testa all’indietro sul suo petto villoso.

“Ora tocca a te lavarmi” disse porgendogli il sapone.

Jock la insaponò lentamente, prima le spalle e poi la schiena.

“Portami con te” lo supplicò Betty ancora una volta.

Jock non era più in grado di trattenersi, ma non voleva farsi sedurre, non in quel modo almeno.

“Non ti porterò con me” disse in un bisbiglio, ma senza nessuna convinzione.

Betty si girò, si inginocchiò davanti a lui e lo baciò.

Poi ci fu uno schianto terribile e la porta si aprì.

Betty gridò in preda al panico.

Quattro ceffi fecero irruzione: erano Bud Ammazzacristiani, il capo della banda degli assassini di San Clemente, padre della ragazza e zio di Jock, con tre dei suoi uomini più fidati.

Bud era armato con due pistole, uno dei suoi sgherri aveva un fucile e gli altri avevano in pugno grossi coltelli.

Betty si staccò da Jock ed uscì tremando dalla tinozza, mentre lui rimase immobile, e visibilmente contrariato.

Il bandito con il fucile guardò Betty ostentando disapprovazione: “Due cugini affezionati” disse disgustato.

Bud guardò Jock con disprezzo: “immagino che tu no faccia caso all’incesto normalmente, ma trattandosi della mia bambina ora sei nei guai, testa di cazzo!”

Jock era furioso per via di quella intrusione, ma cercò di dominarsi, lo zio Bud aveva già ucciso in passato per molto meno, quindi sapeva di essere in pericolo.

“La ragazza è consenziente, non abbiamo violato nessuna legge” provò a giustificarsi.

“E’ la verità” squittì Betty da un angolo del bagno, nuda come un verme e terrorizzata.

“Chiudi il becco sgualdrina, nessuno ha chiesto la tua opinione” la redarguì suo padre.

“Non è il caso di farne un dramma adesso” disse Jock nel tentativo di stemperare la tensione.

“Non dirmi di non farne un dramma. Tu che ti scopi tua cugina minorenne, mia figlia, è un fottutissimo dramma del cazzo, e non saranno le tue cazzate a convincermi del contrario, hai capito, maledetto bastardo?”

Jock non aveva mai visto lo zio Bud così alterato. Lo aveva osservato in azione decine di volte, mentre rapinava banche o ammazzava uomini, donne e persino bambini, senza mai perdere la calma ed il sangue freddo. Aveva sempre avuto un aria truce e la bocca piegata in una smorfia crudele, ma adesso i suoi occhi lanciavano saette, sembrava fuori di sé e gesticolava animatamente e pericolosamente con le due pistole in pugno.

“Va bene, capisco il tuo punto di vista, come pensi di sistemare questa faccenda allora, non posso mica sposarla”

“Ovviamente non puoi, quindi per prima cosa ti impedirò per sempre di andare in giro a sedurre minorenni” dichiarò Bud, prima di sparare a Jock in mezzo alle gambe.

L’acqua della tinozza si tinse di rosso, mentre Jock gridando come una scrofa ferita si teneva i testicoli spappolati nel tentativo disperato di tamponare l’emorragia e l’insopportabile dolore provocato da quella barbara castrazione sommaria: morì dissanguato in meno di quaranta minuti.

Bud e gli assassini di San Clemente furono arrestati il giorno dopo, mentre cercavano di scappare in Messico. Erano stati traditi, una telefonata anonima li aveva incastrati.

La refurtiva dell’ultima rapina non fu mai trovata.

Betty, la cugina minorenne e lasciva di Jock, fece perdere le sue tracce per sempre, dopo essere fuggita con il malloppo.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Cugina minorenne

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