L’abominevole donna ricoperta di peli

Abominevole donna

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L’automobile, una Ford Kuga grigia 4×4 vecchio modello, si fermò all’ingresso della piazza di Vicobarone, proprio sotto l’insegna dell’agriturismo Piacenza.

“Da qui possiamo vedere bene l’ingresso del bar” disse Giada, una giovane bionda bella e malvagia, stappando una bottiglia di gutturnio frizzante di media qualità.

“Sei sicura che sia una buona idea?” le chiese Samantha, la sua compagna, una pantera senegalese color cioccolato e con due gambe da urlo.

“Certamente, nessuno rapina mai questi pidocchiosi bar sperduti sulle colline piacentine. Ma è sabato sera e i vecchi pensionati che lo frequentano non hanno fatto altro che bere per tutto il giorno. Ora le casse sono piene e aspettano solo di essere svuotate nelle nostre borse”

“E se il proprietario cercasse di reagire? I villici di campagna sono spesso armati sino ai denti. A mio fratello che ruba gasolio dalle cisterne dei contadini gli hanno già sparato addosso un paio di volte.”

“Il sabato sera è di turno una ragazza inerme. L’unico grilletto che abbia mai toccato lo tiene in mezzo alle gambe” concluse Giada con una risata perversa e buttando giù una gollata di gutturnio direttamente dalla bottiglia.

Le due giovani rapinatrici si infilarono allora delle calze di nailon sulla testa, scesero dall’auto, presero i fucili adagiati sui sedili posteriori e fecero irruzione nel bar.

“Tutti fermi, luridissimi vermi! Questa è una rapina!” urlò Giada per prima, sparando una fucilata contro le vetrate del bancone, per far capire che non stava scherzando.

“Tirate fuori i soldi brutti figli di puttana!” aggiunse Samantha colpendo in piena faccia con il calcio del fucile uno dei vecchi ubriaconi seduti vicino all’ingresso, facendolo crollare a terra svenuto con le labbra spaccate, due denti rotti e la bocca sanguinante.

Il bar fu avvolto da un silenzio surreale, anche la barista di turno, che avrebbe voluto urlare, era paralizzata dalla paura e incapace quasi di respirare.

“Coraggio bastardi, mettete tutti i soldi dentro al sacco nero della spazzatura e nessuno si farà male” ordinò Giada, mentre Samantha passava davanti agli avventori terrorizzati con il sacco nero spalancato.

Gli ubriaconi e gli altri clienti occasionali di quel caldo sabato di mezza estate obbedirono senza fare storie, erano troppo spaventati oppure troppo sbronzi per tentare una qualsiasi reazione.

In pochi minuti le giovani bandite avevano svuotato le tasche dei clienti e la cassa del bar.

“Ora ci serve un ostaggio!” gridò Giada, poi si girò verso la porta e indicò un uomo grasso, seduto vicino al vecchio svenuto: “Tu, ciccione di merda, alzati in piedi e vieni con noi!”

Il ciccione si chiamava Cosimo Truffaldino, era un agente di commercio in disgrazia e aveva una cinquantina di primavere mal vissute e mal portate sulle spalle. Da qualche anno viveva di espedienti e piccole truffe.

“Muovi il culo grassone” lo aggredì Samantha colpendolo con la canna del fucile sulla testa per farlo alzare.

Cosimo Truffaldino, in stato di ebrezza avanzata, cercò faticosamente di alzarsi.

“Se qualcuno di voi stronzi, si azzarda a chiamare i carabinieri prima che siano passati sessanta minuti, vi giuro che ammazzo il ciccione!” spiegò Giada urlando come una pazza.

“E ricordate che noi facciamo sul serio” aggiunse Samantha sparando una fucilata sullo schermo di una slot machine, che esplose fragorosamente schizzando fuori fiamme e scintille.

Poi le due donne si allontanarono trascinandosi dietro un sacco pieno di soldi ed un ciccione barcollante. Arrivate alla Kuga costrinsero Cosimo a inginocchiarsi, lo imbavagliarono con del nastro adesivo legandogli anche le mani dietro la schiena. Lo obbligarono ad entrare nel portabagagli e a quel punto gli legarono anche le caviglie. Dopo essere salite a bordo anche loro, si tolsero le calze di nailon dalla testa e partirono sgommando verso Castel San Giovanni.

La macchina sfrecciava silenziosa a fari spenti lungo la strada illuminata dalle stelle, lasciandosi alle spalle rigogliosi vigneti ordinati in geometrici filari e regolari campi di girasole.

Arrivati all’altezza di Ganaghello, Giada condusse la Kuga lungo una strada sterrata sino ad un vecchio casale in mezzo alla campagna, dove si fermarono, facendo sparire la macchina dentro un fienile e nascondendola agli occhi del modo.

“Prendiamo l’Alfa Romeo e tagliamo la corda” suggerì Samantha.

“E del ciccione cosa ne facciamo?” chiese Giada, mentre qualcosa di sinistro sembrò balenarle tra gli occhi color castagno.

“Lo carichiamo sull’Alfa, e quando arriviamo sulle colline di Bologna lo seppelliamo vivo da qualche parte” suggerì la pantera nera, “non lo troveranno mai” concluse con una specie di ghigno crudele.

“Vuoi aspettare di arrivare a Bologna per divertiti un po’ con lui?” chiese Giada maliziosa.

“Vuoi scherzare? Prima prendiamo l’autostrada e ci allontaniamo da qui meglio è. Tra meno di mezzora ci saranno posti di blocco ovunque.”

“Appunto gattina mia, tra poco le strade saranno bollenti. Noi invece ci nascondiamo qui per un paio di settimane, e quando le acque si saranno calmate andiamo a goderci la refurtiva.”

“Ma ci verranno a cercare” obiettò Samantha.

“Qui non ci troveranno, non possono mica perquisire tutte le case della valle. Faranno dei posti di blocco, qualche giro in elicottero e cazzate del genere, tra un paio di settimane nessuno parlerà più di questa rapina e del ciccione rapito, di cui scommetto non interessa un cazzo a nessuno. Cominciamo a interrogarlo piuttosto, per assicurarci che sia solo un ubriacone di merda.”

Le due donne scaraventarono Cosimo Truffaldino giù dalla macchina, e tirandolo per i capelli ingrigiti lo trascinarono in cantina facendolo sobbalzare lungo i vecchi gradini in mattoni che portavano nel sottosuolo. Cosimo gemette per il dolore ogni volta che qualche osso sbatteva sui rigidi laterizi e per la sofferenza lancinante al cuoio capelluto che lentamente si lacerava sotto al suo peso, mentre le crudeli malandrine lo strattonavano senza pietà giù per le scale.

Quando furono arrivate nello scantinato maleodorante di muffa, aceto e vino andato a male lo assicurarono ad una vecchia sedia di legno legandolo per bene con delle vecchie corde nautiche abbandonate.

“Allora merdone, cerca di essere collaborativo se non vuoi che ti ammazziamo subito” disse Giada schiaffeggiandogli la faccia grassoccia.

“Rispondi alle mie domande con un gesto della testa, solamente sì oppure no, tutto chiaro?”

Cosimo annui con il capo.

“Molto bene merdone, vedo che non sei del tutto stronzo. Allora dimmi, sei sposato?”

Cosimo scosse il capo in segno di diniego.

“Hai una compagna?”

Cosimo scosse nuovamente il capo

“Figli?”

Cosimo fece nuovamente cenno di no.

Un agghiacciante e torbido sguardo di trionfo si materializzò sul volto grazioso e letale di Giada.

“Cosa ti avevo detto? Il cicciobomba qui non se lo fila nessuno, forse anche al bar che abbiamo svaligiato nemmeno lo conoscono”

“Non resta che appurarlo” convenne Samantha

“Palla di merda, sei un avventore abituale del bar dove ti abbiamo rapito?”

Cosimo questa volta annuì, ma stava mentendo, era entrato la prima volta in quel bar il giorno stesso e solo perché la sua automobile, finita la benzina, lo aveva lasciato a piedi.

“Questo complica le cose” commentò Samantha vagamente preoccupata.

“Per nulla” la tranquillizzò subito la compagna bionda, “scommetto che è solo un sociopatico ubriacone di cui nessuno sentirà la mancanza”.

“Ce lo facciamo come gli altri?” chiese allora la panterona nera, mentre le si dilatavano le pupille per l’eccitazione.

“Ottima idea” chiosò Giada, appoggiando il piede destro sul petto di Cosimo Truffaldino. Poi spinse facendo leva con la gamba e rovesciando all’indietro la sedia su cui lui era legato, e facendolo cadere all’indietro.

Cosimo poteva vedere la mostruosità dei volti delle due ragazze, così belli e così terribili, contratti in agghiaccianti sorrisini perversi.

“Pensi che serva spogliarlo?” domandò Samantha picchiettando col tacco del suo scarpone militare sul ventre molle e sovrappeso di Cosimo.

“Non credo sia necessario” valutò Giada, intenta a sfilarsi gli stivali da cow-girl rivestiti in pelle di serpente.

Samantha invece tirò fuori un coltello a serramanico che teneva nascosto in una tasca dei Jeans neri attillati. Poi si inginocchiò vicino alla testa dell’uomo e con perizia degna di un chirurgo iniziò a tagliare e rimuovere il nastro adesivo che gli avvolgeva la bocca.

“Ti suggeriamo di non urlare” disse Giada ridacchiando, “se non vuoi ritrovarti la gola squartata con quel coltello”.

Cosimo annuì terrorizzato, non riusciva a capire quali malvage intenzioni avessero quelle due diaboliche e super sexy fuorilegge.

Samantha indossava una T-shirt maculata di colore verde militare che le metteva in risalto il seno generoso, Giada indossava pratici pantaloncini di jeans e una camicetta scollata sul davanti che lasciava poco spazio alla fantasia.

“Lasciatemi andare” osò protestare Cosimo, appena gli fu possibile parlare.

“Chiudi quella fogna!” lo redarguì Samantha, cominciando a picchiarlo sugli stinchi con il manico del coltello. I colpi non erano particolarmente forti, ma molto precisi e dolorosi.

Le ragazze ridevano divertite, nonostante la violenza dei colpi e la sofferenza inferta allo sventurato. Lui ne era agghiacciato ed iniziò a piangere in silenzio trattenendo i gemiti per paura di ulteriori conseguenze.

“Basta Ti prego smettila” implorò infine, quando il dolore era divenuto insopportabile.

“Ti abbiamo detto di stare zitto” disse Giada mettendogli il piede nudo e sudato sulla faccia, “leccami i piedi piuttosto, ciccione di merda”

Cosimo obbedì. Il piede di Giada, per quanto ben fatto e ben curato, puzzava in modo terribile dopo un’afosa giornata d’estate chiuso dentro lo stivale di serpente.

Ma Cosimo era un pervertito feticista dei piedi e si eccitò immediatamente, dandosi da fare con la lingua con impegno e dedizione.

Samantha notò la sua perversione e cominciò a ridere di gusto.

“Abbiamo trovato un altro schiavetto, è proprio un peccato doverlo eliminare” commentò Giada, spingendo le dita del piede smaltate di rosso dentro la bocca di Cosimo.

Samantha recuperò un’altra vecchia sedia, la dispose vicino al corpaccione obeso dell’ostaggio e vi sedette sopra, quindi si tolse le scarpe militari che indossava.

“Sei proprio uno schifoso grassone” valutò ad alta voce, ridendo ed umiliando il prigioniero.

Il piede di Giada era quasi per intero dentro la bocca di Cosimo, e le conseguenti difficoltà respiratorie lo stavano soffocando.

“Questo cicciobomba feticista mi fa veramente schifo” disse Samantha.

“E’ proprio uno stronzo” valutò Giada spingendo il piede ancora più in profondità nella gola dell’uomo.

Samantha allora si tolse i pantaloni mostrando a Cosimo le sue bellissime gambe. Giada gli sfilò il piede dalla bocca  e lasciò spazio alla sua amica, che tornata a sedere sulla sedia appoggiò i piedi neri sulla faccia dell’agente di commercio.

Il prigioniero iniziò a leccare anche la pianta dei piedi della panterona, ma si accorse con orrore che vi era qualcosa di strano, insolito e disgustoso.

I piedi della bandita di colore erano ricoperti di ispidi peli neri ripugnanti, sopra e sotto, e non da meno lo erano le caviglie e buona parte delle gambe.

“Cosa ti succede panzone, non ti piacciono i miei piedi?”

Cosimo osò muovere la testa in segno di diniego e, cosa ancor peggiore, smise di leccare.

“Brutto stronzo, continua a leccare” ordinò Samantha fulminandolo con uno sguardo torbido e omicida.

Cosimo tergiversò, mentre una nuova terribile percezione tattile gli riempì il cuore di sgomento: i peli della ragazza da sotto i piedi neri si stavano allungando circondandogli tutta la faccia, penetrando come anguille dentro la bocca e le narici.

Completamente sopraffatto dal panico Cosimo chiuse gli occhi dicendo a sé stesso che non poteva essere vero, probabilmente era solo una sensazione passeggera dovuta a quella situazione traumatizzante.

Quando riaprì gli occhi poté per qualche secondo osservare peli grossi come corde e lunghi come liane fuoriuscire dall’intero corpo della panterona avvolgendolo in un disgustoso bozzolo di peluria nauseante.

Un attimo dopo tutta la testa e buona parte del grasso addome dell’uomo erano ricoperti dai mostruosi peli della spregevole ragazza.

Cosimo cercò inutilmente di gridare ma i velli avevano già raggiunto i polmoni e lo stomaco, e le diaboliche risate fragorose delle due crudeli megere furono l’ultima cosa che riuscì ad udire, prima di morire soffocato dall’abominevole donna ricoperta di peli.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Lezioni private

Lezioni private

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Era una fredda e buia notte d’inverno, fuori nevicava da alcune ore e non si vedevano nemmeno le stelle, nascoste da una spessa coltre di nuvole nere come la pece.

Al tepore di un caminetto acceso, comodamente sdraiata sul divano in soggiorno, Gilda scaldava il suo giovane corpo sotto le coperte, e nutriva l’animo esuberante leggendo sadici racconti dell’orrore con il suo tablet.

Gilda era una ragazza sensibile: una poetessa. Scriveva conturbanti versi d’amore e passione, fantasticando a proposito di trasgressive avventure con uomini sconosciuti.

Un brivido di eccitazione la pervase quando navigando sul blog di un anonimo scrittore di indecenti racconti erotici lesse uno strano annuncio che colpì la sua fantasia: “LEZIONI PRIVATE, SADICO PROFESSORE OFFRE CONSULENZA TELEFONICA A STUDENTESSE REMISSIVE, OBBEDIENTI E TENDENZIALMENTE MASOCHISTE”

Seguiva il numero di telefono e l’indirizzo email.

Passò molte ore a domandarsi che aspetto, età e nome potesse avere questo misterioso e sadico professore. Poi si sconvolse nel scoprire quanto questi pensieri, unitamente ad altri molto più maliziosi, l’avessero turbata. Era quasi l’alba quando, dopo una notte insonne, decise che gli avrebbe telefonato.

Nel tardo pomeriggio del giorno dopo, appena rientrata dall’università dove anziché seguire le lezioni aveva passato tutto il tempo a fantasticare a proposito delle consulenze promesse dall’annuncio, si fece coraggio e compose il numero.

Il telefono la lasciò in attesa per alcuni interminabili secondi, poi finalmente qualcuno rispose

“Chi parla?” domandò una voce virile, calda e sensuale.

“Io.. ecco.. si.. cioè..mi chiamo Gilda” disse lei arrossendo.

L’uomo rimase in silenzio a lungo, lei poteva sentire il suo respiro calmo e calcolatore, mentre un’ondata di emozioni contrastanti le facevano accelerare le palpitazioni del cuore.

“Chiami per l’annuncio?” chiese lui alla fine, con tono severo.

“Sì” sospirò lei, sempre più agitata

“Sei consapevole delle conseguenze?”

Gilda fu scossa da un fremito di paura. Non aveva considerato che potessero esserci delle conseguenze ed ora si sentiva in pericolo.

“Ecco… io.. non.. non ci ho pensato” ammise con un filo di mestizia nel finale.

“Stupida stronzetta insolente, come osi chiamarmi se nemmeno capisci o sei consapevole di quello che stai facendo?”

Gilda avvampò per la vergogna: la sentenza senza appello di quella voce era come uno schiaffo sul viso.

“Ma.. ma io.. non credevo..”

“Stai zitta! Chiudi quella fogna di bocca, ascoltami attentamente e parla solo se interrogata. Hai capito?”

“Sì” riuscì a dire lei, deglutendo.

“Quando mi rispondi, devi sempre rivolgerti a me con il titolo che mi spetta, riesce la tua zucca vuota a capire questo?”

“Sì.. professore” disse lei, mentre un leggero tremolio le aveva preso le gambe.

“Tu hai bisogno del mio aiuto, questo lo capisco: se ti fossi rotta un piede andresti da un ortopedico. Se tu avessi problemi alla vista ti rivolgeresti ad un oculista. Ma tu sei una piccola, debole, scellerata masochista e quindi, giustamente, ti rivolgi a qualcuno che capisca la tua natura malata e sia in grado di curarti. Hai bisogno di una guida, di qualcuno che decida per te, perché tu da sola non sei nemmeno capace di andare al cesso, non è forse vero?”

Gilda iniziò a piangere in silenzio. Lui la stava umiliando con violenza e lei non era capace di reagire, anzi nemmeno lo desiderava. Sentiva nel profondo del suo animo di condividere l’inquietante verità che lo sconosciuto le stava buttando in faccia: sentiva il bisogno di una persona che la guidasse per mano lungo la complicata strada della vita.

“Non ho ragione? Rispondi capra!” ordinò la voce in modo perentorio.

“Sì professore, è vero, ho bisogno di aiuto” ammise lei, rompendo la voce in un pianto disperato.

“Smetti subito di piangere cretina. Se vuoi che ti aiuti dovrai imparare a controllarti e seguire le mie regole. Regola numero uno: devi fare tutto quello che ti dico. Regola numero due: devi essermi grata e adorarmi per tutto quello che ti insegnerò. Regola numero tre: dovrai pagarmi, cinquanta euro per ogni conversazione telefonica. Userai Paypal e manderai i soldi al mio indirizzo email. E’ tutto chiaro stupida stronza?”

“Sì professore”

“Bene. Questa notte dormirai distesa sul pavimento, con solo una coperta. Poi mi manderai 100 euro e domani mi chiamerai alle 21:00 per cominciare le lezioni private”, ordinò, poi chiuse la conversazione.

Gilda era sotto shock. Andò in camera sua senza cenare, per dormire sul pavimento con solo una coperta addosso.

Sentiva freddo, ma degradarsi in quel modo la fece stare bene. Non riuscì ad addormentarsi, ma nel lungo dormiveglia immaginò che il professore sadico fosse giovane e bellissimo e che si prendesse cura di lei con dolce ma risoluta fermezza.

Dopo dieci giorni e 700 euro spesi, Gilda si era innamorata. Lui l’aveva in pugno, l’aveva soggiogata ed esercitava su di lei un assoluto controllo.

Era un sabato sera, l’aria era pulita e nel cielo erano tornate a vedersi le stelle. Per il primo appuntamento dal vivo con lui, Gilda aveva ricevuto precise disposizioni. Indossava una minigonna cortissima di cotone nero, scarpe con il tacco alto, calze a rete da battona di periferia ed una giacca nera di pelle.

Come le era stato ordinato arrivò puntuale alle ore 21:00, a bordo del suo motorino, presso l’agriturismo Piacenza, sulle colline di Vicobarone, nel piacentino. Si era mezzo assiderata e tremava come una foglia per il freddo e per l’agitazione: stava per incontrare il suo amato professore sadico.

La vecchia titolare dell’agriturismo accompagnò Gilda alla sala dei giochi, e la lasciò davanti alla porta allontanandosi sorridendo in modo perverso.

Oltre l’uscio l’aspettavano la perdizione e le infinite tentazioni del demonio.

Un gelido vento soffiava da nord: puzzava di sterco di vacca. Gilda si fece coraggio, aprì la porta ed entrò.

Il professore stava seduto su di una poltrona al centro della stanza: era un tipo tosto, indossava un abito elegante e delle belle scarpe, i capelli erano color argento con il volto nascosto da una maschera che gli lasciava scoperta la bocca carnosa e dal taglio crudele. Dalle labbra pendeva un sigaro acceso dal quale salivano nuvole di fumo puzzolente. Gli ultimi due bottoni della camicia di seta erano aperti e si intravedevano i peli del petto, lunghi e disgustosi.

Dietro di lui quattro robusti ragazzi scandinavi con grossi muscoli di varia misura  tenevano in mano calici colmi di vino rosso Gutturnio.

“Vieni qui, vicino a me, Gilda” ordinò il professore.

Lei si avvicinò tremante, ondeggiando sui tacchi altissimi. Era ben fatta, molto ben fatta.

Lui la prese per mano, poi la pizzicò sulle guancia.

“Avanti stronzetta, racconta a questi miei giovani amici cosa hai imparato”

“Questa ragazza ha scoperto quale sia il suo posto nel mondo, professore” disse Gilda inginocchiandosi in una posizione goreana: seduta sui talloni, con la schiena dritta e il petto in fuori, lo sguardo rivolto verso il basso e la mani incrociate dietro la schiena. Le gambe erano divaricate  oscenamente offerte alla vista dei presenti.

“Vai avanti, cos’altro ti ho insegnato?”

“Questa ragazza è una schiava senza diritti, un pezzo di carne a disposizione del suo padrone, pronta a soddisfare qualsiasi suo volere. Questa ragazza obbedisce a tutti gli ordini che riceve dalle persone libere, professore”

“Eccellente Gilda, ora dimmi, dove hai dormito questa notte?”

“Nella mia cuccia Professore, ai piedi del letto, sul pavimento” disse la ragazza, arrossendo per la vergogna.

“E per quale motivo ti ho ordinato di dormire dentro ad una cuccia per cani?”

“Perché sono una stupida cagna, professore” sussurrò lei, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

“Non piangere stronzetta” le disse lui dandole uno schiaffo, “se non vuoi che ti dia un serio motivo per piangere, smetti subito”

“Sì, professore”

Lui allora si alzò in piedi, prese da un tavolino vicino alla poltrona un grosso collare di pelle e lo legò intorno al collo della ragazza. Dopo averlo stretto sino a farlo aderire alla pelle della giovane lo chiuse con un pesante lucchetto.

“Ecco, poiché sei una schiava ed una cagnetta da addestrare, d’ora in avanti dovrai portare questo collare, simbolo della tua sottomissione e della tua condizione di inferiorità”

“Sì professore”

I giovani culturisti intanto ridevano divertiti dallo spettacolo, continuando a bere vino Gutturnio. Ne avevano aperte diverse bottiglie e ci davano dentro. Le loro facce erano inquietanti, tutte tirate a lucido e sbarbate come il culo di un neonato. Avevano l’alito maleodorante e gli occhi psicotici.

“Adesso ascoltami attentamente stronzetta: vedi questi grossi giovanotti biondi che stanno ridendo di te?”

“Sì, li vedo, professore” disse lei, sempre più umiliata.

“Hai una vaga idea del perché siano qui?”

“Immagino di sì, professore”

“Bene, voglio allora che tu faccia felici questi quattro vichinghi. Sono in ritiro precampionato da un paio di mesi, ed hanno tutto il diritto di divertirsi un po’ con te…”

“Sì professore” disse Gilda senza troppa convinzione, ora aveva anche un po’ di paura.

I quattro scandinavi intanto l’avevano circondata e quello più vicino si chinò a baciarla. Lei aveva la bocca aperta e umida. Un secondo ragazzone la sollevò, e insieme la trascinarono dietro ad un tavolo di legno massello tutto infarinato.

Poi la costrinsero a preparare diciotto chili di tagliatelle tirando la pasta a mano con il solo ausilio di un mattarello.

Il professore si godette la scena fumando il sigaro, bevendo Gutturnio, e commentando con osservazioni sprezzanti le prestazioni culinarie della sua giovane schiava. E mentre i quattro ragazzi  con grossi muscoli di varia misura costringevano Gilda a preparagli la cena, lui sogghignava crudele.

“Un’altra anima è perduta” pensò con soddisfazione malvagia.

Quando tutto fu finito, lei rimase accasciata ed ansimante sul tavolaccio di legno sfinita dalla fatica e dall’umiliazione, con le mani rovinate dalle vesciche e la schiena a pezzi.

Solo a notte fonda finalmente tornò a casa. Si sentiva avvilita, sporca di farina, svuotata, depressa. Anche se in parte si sentiva attratta da queste cose, la sua coscienza le diceva che erano sbagliate. Desiderava assecondare il professore sadico, ma essere umiliata in modo così estremo la faceva soffrire.

Cominciò a piangere presa dallo sconforto più nero, schiacciata dal peso psicologico rappresentato dal collare che lui le aveva stretto attorno alla gola.

Si ricordò allora di quando era bambina e sua zia la portava in pellegrinaggio al santuario della Madonna della Quercia vicino a Bettola. Il pensiero di quell’età di innocenza, devozione e cose belle, la spinsero a cercare nuovamente conforto nella preghiera e nella fede. E così un fuoco caldo e misterioso improvvisamente le scaldò il cuore.

Il giorno dopo si svegliò serena e felice, e determinata a cambiare vita.

La Gilda che aveva vissuto nel peccato, la schiava del dissoluto professore non esisteva più. Con delle grosse tenaglie trovate in cantina tranciò il lucchetto che chiudeva il collare del malvagio professore sadico, liberandosene per sempre.

Da quel momento si dedicò all’aiuto del prossimo facendo opere di bene nella sua parrocchia e scrivendo poesie sulla purezza dell’amore. E finalmente si sentì amata, appagata, e felice.

Pochi anni dopo si innamorò di un bravo ragazzo timorato di Dio, lo sposò e insieme misero al mondo tanti bei bambini.

Il professore che dava lezioni private invece fu consumato dalla rabbia e dall’odio: non poteva sopportare che l’anima perduta di una giovane viziosa e lasciva si fosse redenta, salvandosi dalle fiamme della geenna. Quelle stesse fiamme infernali che lo stavano divorando da ormai più di ottocento anni.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Giochi Perversi

Giochi perversi

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Avvertenze

Nel presente racconto sono descritte scene di violenza estrema. Il linguaggio utilizzato è brutale, volgare ed osceno. La lettura è sconsigliata ai soggetti più sensibili e severamente vietata ai minori di anni 18

 

Capitolo primo: Il Professore

 

Lo chiamavano il Professore e tutto in lui era perverso: lo sguardo, la condotta dissoluta ed i pensieri malvagi.

“Ho voglia di rilassarmi, vieni qui e massaggiami i piedi” ordinò rivolgendosi a Mandingo, il suo schiavo svedese, dopo essersi tolto le scarpe.

Mandingo non piaceva massaggiare i piedi al suo padrone, anzi più spesso lo disgustava, soprattutto a fine giornata, quando i piedi del Professore erano stanchi, sudati e facilmente puzzavano. Ma era uno schiavo sottomesso ed ubbidiente ed eseguì gli ordini senza protestare.

“Il mondo là fuori è una vera merda, sono tutti pazzi” osservò il Professore accendendosi un sigaro, comodamente sprofondato nella sua poltrona in pelle nera.

Mandingo annuì con la testa, inginocchiato tra le gambe del suo padrone, mentre con le mani si dava da fare massaggiandogli i piedi.

“Non si può nemmeno andare al centro commerciale senza correre il rischio di essere rapinati per strada, oppure investiti da un camion guidato da qualche fottuto terrorista, o ancora trovarsi invischiati in qualche discussione con un vicino di casa nevrotico o qualche donna inacidita, aggressiva e insopportabile. Tu che ne pensi Linda?”

Linda arrossì, senza sapere cosa rispondere: era una schiava bianca e raramente poteva esprimere le sue opinioni. In quel momento era nuda, inginocchiata alla destra del padrone e reggeva tra le mani un grosso posacenere di cristallo. Aveva da poco compiuto 17 anni ed era stata acquistata dieci anni prima in un accampamento di zingari.

“Ti ho fatto una domanda” disse il professore pizzicandole una gamba.

Linda abbassò lo sguardo e si morse le labbra, lasciandosi sfuggire un gemito.

“Se non mi rispondi ti dovrò punire, stupida stronzetta ignorante”

“Sono tutti pazzi, il mondo là fuori è orribile, soprattutto le donne aggressive e insopportabili” disse lei timidamente, tutto di un fiato, tremando per la paura e avvampando per la vergogna.

Il Professore sorrise compiaciuto, Linda era una schiava perfettamente addestrata, la migliore che avesse mai posseduto.

Poi allontanò Mandingo, spingendolo via con fare stizzito. Oramai era piuttosto avanti con gli anni, e si annoiava velocemente. Il suo schiavo scandinavo, per quanto si potesse impegnare, per quanto fosse giovane, atletico e muscoloso, non sarebbe mai riuscito a massaggiargli i piedi nel modo giusto, nemmeno andando avanti per una intera settimana di fila.

“Mi sembri in forma oggi, voglio che ti prepari, questa sera parteciperai ai giochi”.

La faccia di Mandingo si contrasse allora in una smorfia piuttosto preoccupata.

“Ti ho iscritto ai giochi di Lady Circe” concluse il Professore, mentre un sadico ghigno crudele gli si abbozzava sulla faccia rugosa.

La preoccupazione sul volto di Mandingo repentinamente scomparve, per lasciare posto ad autentico panico.

 

Capitolo secondo: il Castello di Lady Circe

 

Arrivarono al castello di Lady Circe quando il sole era calato da un pezzo e nel cielo senza luna le stelle brillavano astute, sopra la coltre di nebbia che copriva la valle.

Lady Circe era una padrona misteriosa ed esigente. Si era da poco trasferita sulle colline del piacentino, dopo aver fatto ristrutturare un fatiscente castello abbandonato. La sua dimora era ora nuovamente sontuosa e sinistramente lugubre, grazie al sapiente recupero in stile tardogotico.

Il Castello era avvolto dalla nebbia e dalle alte e nere finestre non traspariva raggio di luce alcuno.

Il Professore ed i suoi schiavi furono accolti all’ingresso da Franchino, il maggiordomo.

Era un uomo di alta statura, con una lunga barba scura ed un gran cappello nero in testa, che in parte gli copriva il volto. Salutando gli ospiti mostrò per un attimo due piccoli occhi brillanti, che alla fioca luce delle fiaccole poste ad illuminare il tetro ingresso, sembrarono di colore rosso. Sorridendo aveva anche esibito una bocca dal taglio duro con piccoli denti gialli anneriti dal tempo. L’alito emanava un fetore di morte e gli sudavano visibilmente le ascelle.

La grande porta, con strepitio assordante e gran clangore di pesanti catene, si chiuse alle loro spalle, e Franchino accompagnò gli ospiti attraverso un ampio ed alto corridoio avvolto dall’oscurità, con pareti sorrette da slanciati archi a sesto acuto.

Il gruppo poteva avanzare grazie solo ad una piccola fioca luce proveniente da una vetusta lucerna d’argento, che Franchino teneva ben salda nella mano ossuta.

Scesero lungo un grande scalone al piano inferiore e poi percorsero un altro corridoio sul cui pavimento di pietra i loro passi riecheggiarono cupi. Attraversato anche questo, Franchino aprì un pesante uscio di rovere nero, ed accompagnò il Professore ed il suo seguito nel salone dei giochi.

Anche questa stanza era semiavvolta dall’oscurità, ad eccezione della flebile luce proveniente dai bracieri lungo le pareti, e dal gigantesco camino nel quale fiammeggiava un gran fuoco, che scaldava un poco il tenebroso ambiente circostante.

La sala dei giochi era riccamente addobbata con tendaggi e arazzi realizzati con le stoffe più raffinate e preziose, probabilmente vecchie di secoli, ma ancora in ottimo stato.

Gli altri invitati erano già tutti arrivati e stavano animosamente conversando seduti sulle panche disposte a guisa di spalti intorno ad un ring appositamente allestito al centro della stanza.

Il Professore si diresse subito verso il palchetto reale per salutare Lady Circe, la padrona del castello che aveva organizzato i giochi e lo aveva invitato.

“Lady Circe i miei rispetti” le disse accennando un inchino e porgendo la mano.

Lei l’afferrò con un tale vigore da farlo sobbalzare, e con una mano fredda come il ghiaccio, più la mano di un morto che di un vivo.

“Benvenuto Professore, è un grande piacere per me incontrarla nuovamente e poterla ospitare in questa mia antica dimora, riportata a nuovo splendore”

Il Professore rispose con un leonardesco ed enigmatico ghigno, senza dire nulla, ansioso di sottrarsi alla presa della donna.

Lady Circe era una bella signora di mezza età, bionda come più non si può essere, con grandi masse di capelli ondulati color dell’oro. Era nerovestita da capo a piedi, senza altra macchia di colore in tutta la persona. Il volto era grifagno con un naso sottile e sporgente, la bocca carnosa e morbida, dal taglio segnatamente crudele, con candidi denti bianchissimi ed aguzzi, che scintillavano come perle sulle labbra voluttuose e rosse come il sangue. Le gote erano magre e gli occhi coperti da spessi occhiali da sole, la cui montatura nera contrastava in modo impressionante con lo straordinario pallore del viso.

“Non mi presentate i vostri amici Professore?” chiese Circe, guardando i sottomessi che stavano due passi dietro al loro padrone con la testa china e lo sguardo umilmente rivolto al pavimento.

“Essi sono i miei schiavi” disse il professore senza nascondere il proprio orgoglio, “lui si chiama Mandingo, mentre lei è Linda”

Lady Circe osservò con finto interesse i due giovani: Mandingo indossava solamente una sottofascia costituita da una striscia di lino, una sorta di semplice perizoma avvolto intorno alle cosce e allacciato alla vita. Il suo corpo muscoloso era in questo modo offerto alla vista dei presenti, lasciando poco spazio all’immaginazione. Linda era invece vestita come una scolaretta giapponese, con una oscena minigonna inguinale, una magliettina di cotone semitrasparente ed i capelli nero corvino tagliati a caschetto.

Gli altri ospiti di Lady Circe erano piuttosto inquietanti, facce da galera inespressive, truffatori, specialisti in espedienti e sotterfugi, dominatori con i loro schiavi al seguito, alcolizzati, ludopatici e rifiuti umani di varia natura. Il Professore si guardò attorno provando disagio e fastidio, poi si grattò il sedere e si diresse verso il bar.

Una bella morettina vestita da cameriera versò vino bianco, Ortrugo frizzante, in un paio di calici, poi ne offrì al Professore e ad un tizio raccapricciante, storpio e con la faccia devastata dall’acne che gli stava vicino.

“Piacere, mi chiamo Locusta e sono un poeta” si presentò lo storpio.

“Poeti e scrittori, sono tutta gente fallita, oppure pazza o più spesso entrambe le cose” disse il professore tracannando una gran sorsata di Ortrugo.

“Sono il più grande poeta vivente” precisò lo storpio “nessuno mi sta alla pari” aggiunse con un orgoglio bizzarro negli occhi.

“Vi conosco a voi poeti, vi piace discorrere di filosofia e dei massimi sistemi, ma siete tutti inconcludenti, feroci e narcisi”

“Si, ma io sono il migliore di tutti, meglio anche di Bukowski e Steno Cremona”

“E chi cazzo è Steno Cremona?”

“L’autore di 23, il romanzo definitivo del nuovo millennio”

“Dammi altro Ortrugo” disse il Professore alla morettina, sperando che lo storpio mollasse la presa.

“Nelle mie poesie parlo spesso del vino di questa cantina” disse Locusta indicando l’etichetta sulla bottiglia.

Il Professore non commentò, continuando a bere.

“Adesso però ho cambiato marca, ne ho trovata una migliore”

“E come si chiama?”

“Non me lo ricordo, ma sono ugualmente il più grande poeta vivente”

Il Professore tracannò un altro calice di vino, si fece riempire nuovamente il bicchiere e cercò di allontanarsi dallo storpio che iniziava a dargli sui nervi. Intanto sul tabellone elettronico appeso sulla parete più grande, andavano formandosi le accoppiate per la prima fase dei giochi.

 

Capitolo terzo: i combattimenti

 

“Come funzionano questi giochi?” domandò Linda

“Si tratta di combattimenti ad eliminazione diretta tra schiavi dello stesso sesso e il primo turno prevede uno scontro a mani nude” iniziò a spiegare il Professore.

“Mandingo è robusto e ha in passato già vinto parecchi incontri di questo tipo, tuttavia non è tra le teste di serie, quindi dobbiamo sperare che il sorteggio non lo costringa ad affrontare subito i favoriti: lo schiavo di Lady Circe, il temibile Pony-boy, o lo schiavo di Mistress Demonista, l’orribile Uomo Trota”

“Cosa succede se pesca subito uno dei favoriti” domandò ancora la ragazza sfoggiando un’ingenua espressione di sincera ignoranza.

“Succede che lo riempiono di botte e torniamo a casa presto” disse il professore terminando in una sadica e divertita risata.

Mandingo intanto fingeva indifferenza ma il suo faccione vichingo tradiva tutta la sua paura.

Ebbe fortuna, il responso delle urne era stato favorevole:

Pony-Boy contro Sweet Ganja

Leccapali contro Mani di Fata

Sperminator contro Mandingo

Uomo Trota contro Leatherface

“Molto bene Mandingo, Sperminator è un vero brocco, è assolutamente alla tua portata. Se riesci a passare il turno te la dovrai vedere con il vincente tra Uomo Trota e Leatherface” commentò soddisfatto il Professore.

“Chi sono quelli nella seconda metà del tabellone?” chiese ancora la giovane Linda.

“Quelle sono le schiave femmine: Little Slut contro Scarafaggio Ruth, Sluttern Honey contro Cunnilingus, Miss Piggy contro Puppy Doll e Donna Capra contro Bondagewoman”

“E chi sono le favorite tra le donne?” domandò Linda con un filo d’ansia nella voce, immaginando per un momento di essere un giorno anche lei costretta a combattere.

“La favorita è Donna Capra, la schiava di Lady Moralizzatrice, una temuta e spietatissima padrona: integerrimo funzionario dello Stato di giorno e implacabile e perversa dominatrice di notte” la informò lui con sadico compiacimento.

“E il divertimento consiste nel guardare questa gente che si prende a pugni?”

“Naturalmente, e poi ci sono anche le scommesse”.

Un vecchio sdentato si avvicinò allora tutto serio al Professore e gli disse: “voglio togliermi una soddisfazione prima di morire, ho simpatia per Leatherface e ho puntato 200 euro su di lui.”

“Uomo Trota è uno dei favoriti, mentre Leatherface ha perso gli ultimi tre incontri, non credo abbia speranze” obiettò il Professore.

“Staremo a vedere” disse il vecchio, e attese che iniziasse il combattimento.

L’Uomo Trota vinse al primo round. Leatherface era grosso e possente, ma lento, mentre l’Uomo Trota era svelto, agile, sfuggente: lo stese con un paio di diretti ben assestati sulla faccia ricoperta da una maschera grottesca di pelle nera che gli dava il nome.

Il pubblico intorno al ring intanto ondeggiava psichedelico, tutti assieme sembravano una gran massa di ipnotizzati, gridavano, tifavano, facevano le loro puntate mentre i combattimenti si susseguivano a ritmo incessante, uno via l’altro.  In circa un’ora si era concluso il primo turno, meno di 10 minuti ad incontro in media.

Il Professore aveva continuato a bere, era ormai alla terza bottiglia di Ortrugo ma lo reggeva bene.

Quasi tutti i favoriti avevano vinto, come era prevedibile. Unica eccezione Cunnilingus data per vincente 3 a 1 che si era fatta battere dalla esordiente Sluttern Honey data a 10.

Chi aveva puntato sui perdenti aveva adesso la faccia torva, la sconfitta stampata sul volto, la follia straripante dagli occhi stralunati.

Il vecchio sdentato era incazzatissimo, aveva puntato su Leatherface, Cunnilingus, e Mani di Fata. Tutti sconfitti. Ci aveva rimesso un migliaio di euro.

“Ma che diavolo, quella puttana di Cunnilingus si è fatta fregare da una principiante. Questi giochi andrebbero vietati, che io sia maledetto” ringhiò, tutto rosso in faccia. Sembrava sul punto di avere un infarto.

Il Professore si allontanò da lui per andare a ritirare una vincita. Aveva fatto una sola puntata di 500 euro su Donna Capra data 2 a 1. Avrebbe voluto puntare anche su Mandingo, ma era vietato scommettere sui combattimenti dove partecipavano i propri schiavi.

“Sono tutte delle mezze seghe effemminate, alcuni di questi rammolliti possono anche decidere di perdere deliberatamente, per paura di andare avanti” commentò un ciccione infervorato: il suo schiavo Sperminator aveva perso il combattimento proprio contro Mandingo.

Gli incontri del secondo turno furono anche più brevi. Si svolgevano con armi da taglio come spade o coltelli e alla prima ferita si veniva eliminati. Mandingo ci sapeva fare discretamente con il coltello, e in meno di sette minuti riuscì a rifilare un fendente sulla faccia di Uomo Trota. Ai fortunati che avevano puntato su di lui aveva fruttato un bel bottino, perché era dato per sfavorito e pagato 5 a 1. Ci furono anche delle proteste perché Uomo Trota aveva combattuto molto sotto i suoi standard abituali: forse per paura di arrivare alle semifinali, forse perché era stanco, oppure perché aveva bevuto troppo vino Gutturnio tra il primo incontro ed il secondo. Ad ogni buon conto Mandingo aveva superato la prima fase e adesso era terrorizzato.

“Avanti Mandingo, puoi farcela, sei forte, sei molto resistente ed hai una elevata capacità di sopportare il dolore” cercò di incoraggiarlo il Professore.

“Se resisti ed arrivi in finale, ti faccio fare un massaggio completo da Linda” gli promise.

Linda, che aveva anche bevuto un paio di bicchieri di bianco ed era un po’ alticcia, arrossì imbarazzata.

“Ho paura padrone” confessò Mandingo a voce bassa.

“Sei andato forte sino ad ora, perché hai paura?” chiese Linda.

“Le regole della seconda fase sono diverse” iniziò a spiegare il Professore, “Il sorteggio ha accoppiato Mandingo con Donna Capra e Pony-Boy con Little Slut.  Ma gli schiavi non combatteranno tra loro. No, se la vedranno con il dominatore del loro avversario sottoponendosi and una sessione BDSM senza limiti”

“E come funziona?”

“Lo schiavo che per primo pronuncerà la safe-word sarà eleminato. I dominatori devono rispettare una sola regola: non infliggere danni fisici permanenti agli schiavi. Per il resto possono disporre a piacimento dei loro corpi e delle loro menti”

“Ma è terribile” disse Linda lasciandosi sfuggire un piccolo rutto, dovuto al vino frizzante che aveva bevuto.

“Già proprio così” chiosò il Professore con un ghigno malvagio, pregustando il suo turno, quando avrebbe avuto la Donna Capra per le mani.

Mandingo invece sarebbe finito sotto le grinfie di Lady Moralizzatrice, e proprio per questo se la stava facendo sotto: la ferocia di quella dominatrice era leggendaria.

“Poteva andarti peggio” cercò allora di consolarlo il Professore, “potevi capitare con Pony-Boy ed affrontare Lady Circe.

Mandingo annuì, ma le parole del suo padrone non furono sufficienti a lenire la disperazione nel suo animo.

 

Capitolo quarto: Little Slut contro Pony-Boy

 

La prima a scendere in campo fu Little Slut. Era una debosciata ventiseienne bionda piuttosto esperta e ben addestrata dalla sua padrona australiana Miss Cane.

Correva voce che Little Slut fosse capace di lottare persino contro alligatori e canguri, ed in effetti aveva superato in scioltezza i primi due turni, dando prova di notevole forza fisica e padronanza delle arti marziali.

Aveva eliminato Scarafaggio Ruth in quattro minuti e Sluttern Honey in sette. Quest’ultima aveva abbandonato l’arena con un coltello conficcato nelle budella.

Ora però la musica era destinata a cambiare, perché avrebbe dovuto fronteggiare la malvagia Lady Circe.

Sul ring era stato portato un carrello a disposizione di tutti i dominatori con gli attrezzi e gli oggetti più pericolosi: aghi, spilli, pinze, vibratori, martelletti, fruste, lame, bisturi, chiodi, ganci, corde, cinghie e molto altro. Appositamente per Lady Circe furono portate una strana gabbietta di ferro ed un misterioso vaso di vimini chiuso con un coperchio di gomma.

Little Slut era in piedi al centro del ring con in dosso solamente delle piccole mutandine di cotone bianco. Era una bella e perversa ragazza nel fiore della giovinezza, e sembrava sicura di sé, per niente intimorita da ciò che l’aspettava.

Quando Lady Circe salì sul ring e le fu davanti, suonò il gong e partì il cronometro. Aveva esattamente 10 minuti di tempo per costringere Little Slut ad usare la Safe-word implorando pietà.

“Inginocchiati!” intimò Lady Circe.

Little Slut obbedì.

“Incrocia le braccia dietro la schiena, schifosa depravata!”

Little Slut eseguì senza protestare, anzi un sorriso malizioso le si disegnò sulla faccia.

Lady Circe le piazzò allora la gabbietta di ferro sulla faccia, legandola con delle corde intorno alla testa, di modo che la sottomessa non potesse allontanarla dal proprio corpo. La gabbietta era aperta su di un lato, che adesso aderiva perfettamente al volto grazioso della disgraziata.

Dalla parte opposta della gabbietta vi era invece uno sportellino. Lady Circe lo aprì.

Poi con lentezza teatrale si avvicinò al vaso di vimini, tolse il coperchio di gomma e vi infilò dentro un braccio. Lo ritrasse dopo un paio di secondi mostrando al pubblico e soprattutto a Little Slut cosa vi aveva estratto.

Nella sua pallida mano, bloccato tra le lunghe dita smaltate di rosso, si agitava un disgustoso e grosso ratto nero, con la coda lunghissima ed enormi denti affilati.

“Non mangia da tre giorni” disse Lady Circe contraendo le labbra carnose in un sadico ghigno. Poi si avvicinò alla gabbietta legata alla faccia di Little Slut.

Appena la poveretta comprese che Lady Circe stava per chiudere il ratto nella gabbietta, offrendo alle fauci del roditore affamato il suo viso indifeso, fu presa dal panico, iniziò ad urlare in preda ad una crisi di nervi, si alzò in piedi e si lanciò fuori dal ring tentando di fuggire. La fuga, così come il rifiutarsi di eseguire un ordine decretava la fine.

Il cronometro fu fermato dopo soli due minuti e 10 secondi. Un ottimo tempo. Quasi da record.

Fu allora il momento di Pony-Boy. Per arrivare in finale gli bastava resistere per due minuti e 11 secondi contro Miss Cane, la padrona di Little Slut.

Pony-Boy era stato un bel ragazzo un tempo, adesso invece era stato trasformato in una creatura grottesca. Aveva abbandonato la postura eretta e stava sempre a quattro zampe. Le mani ed i piedi erano intrappolati dentro a delle scatole a forma di zoccoli equini, mentre nel retto era stabilmente inserito un plug anale realizzato con materiali di primissima qualità: acciaio inossidabile per il plug e vere crine di cavallo per la coda.  Sulla bocca gli era stato inserito un morso da briglia a canna intera con ponte in acciaio inox, con tanto di redini in cuoio. Per il resto era coperto soltanto della sua naturale peluria, ad eccezione di una rudimentale sella legata sopra la schiena.

“Sei un repellente pervertito” ruggì Miss Cane appena fu il suo momento.

Dal carrellino degli attrezzi prese un fallo in lattice dalle dimensioni impressionanti, e poi si andò a posizionare davanti a Pony-Boy.

Afferrò le briglie e con violenza le strappò via insieme al morso da briglia, che risultò essere di dimensioni piuttosto ardite, ma comunque insignificanti rispetto al membro colossale che Miss Cane teneva stretto nella mano destra.

Afferrò lo schiavo per i capelli tirandogli indietro la testa.

“Apri la bocca debosciato”

Pony Boy obbedì spalancando la cavita orale.

Miss Cane vi sputò dentro una grossa, vischiosa e ripugnante scatarrata verde.

“E adesso ingoia per bene, merdaccia”

Pony-Boy ingoiò subito, ma sembrava più eccitato che dispiaciuto.

Lei allora iniziò a spingergli tra le labbra il mastodontico cazzo di lattice.

Con stupore di tutti, dopo una brevissima resistenza, la bocca già in precedenza addestrata dai trattamenti di Lady Circe, accolse per intero il gigantesco fallo di Miss Cane.

Lei gli chiuse allora il naso con un mollettone, rendendogli impossibile la respirazione. Lo costrinse in apnea per novanta secondi, poi quando il colore del volto era ormai cianotico e lo sventurato stava per svenire gli estrasse dalla gola il membro artificiale.

“Ne hai avuto abbastanza stupido bastardo?”

Pony-Boy, dopo ave rantolato alcuni secondi per riprendere fiato, si rivolse alla dominatrice con sguardo languido e la sfidò: “Ne voglio uno più grosso Padrona”

Miss Cane reagì male, corse al tavolino ed afferrò un manganello di gomma rigida, tornò dallo schiavo e lo colpì ripetutamente sui fianchi, sulle terga e persino sulla faccia.

Pony-Boy gemette più volte per il dolore, iniziò anche a sanguinare dal naso e dalla bocca, ma appena la donna si fermò per rifiatare lui la sfidò nuovamente: “Ne voglio ancora Padrona, colpisca più forte”

Miss Cane comprese allora che quel ragazzo ributtante era un osso duro, ma non aveva più tempo: erano passati due minuti e 11 secondi ed era stata sconfitta. Pony-Boy era il primo finalista.

 

Capitolo quinto: Mandingo contro Donna Capra

 

Mandingo stava in piedi in mezzo al ring con il solo perizoma addosso, i muscoli del corpo in tensione e la faccia di uno che va incontro alla morte.

Lady Moralizzatrice gli si parava davanti esibendo un’espressione fiera e perversa. Indossava una tuta in latex aderente color rosso fuoco, stivali coordinati in pelle tacco 12. I folti capelli erano rossi e ricci. Il viso era duro, gli occhi sadici, il mento affilato.

Appena il cronometro fu azionato lei prese un lungo spillone di acciaio inossidabile con capocchia d’avorio dal tavolino delle torture, poi afferrò Mandingo per un braccio.

Lui non oppose resistenza. Lady Moralizzatrice appoggiò lo spillone all’altezza del bicipite destro di Mandingo, poi lo spinse con forza ed iniziò ad infilare lo spillone dentro al braccio. Lo spillone era spesso e lungo non meno di una dozzina di centimetri, ma il bicipite di Mandingo misurava quasi il doppio, per cui accolse lo spillone per intero, sino alla capocchia d’avorio.

Mandingo gemette, mentre il sangue colava lungo il braccio infilzato e il suo volto si imbruttiva in una languida espressione di lussuria.

“Ma allora sei un rivoltante pervertito” commentò lei schiaffeggiandogli la faccia.

Mandingo sembrò gradire, lasciandosi sfuggire un gemito di piacere.

Lady Moralizzatrice comprese che era meglio cambiare tattica.

Decise allora di bendargli gli occhi, e di legargli i polsi e le caviglie con dei cavi elettrici. Poi lo assicurò ad un gancio da macellaio fissato ad una catena basculante fatta appositamente calare dal soffitto.

In pochi secondi Mandingo si trovò sollevato da terra, appeso per i polsi, privato della vista e in balia della spietata dominatrice rossa: Iniziò a sudare freddo e a tremare impercettibilmente.

Lady Moralizzatrice si avvicinò al tavolino, osservò i numerosi oggetti di tortura e con sadico compiacimento scelse una pesante spranga di ferro.

Il regolamento dei giochi parlava chiaro, non si potevano infliggere danni permanenti, per cui doveva stare attenta a non colpire organi vitali oppure la testa.

Ma poteva comunque infliggere dolori terribili, concentrandosi sulle parti ossee o sulle articolazioni come caviglie, stinchi, ginocchia, gomiti. Eventuali ferite o rotture in quelle parti potevano essere successivamente curate.

Girò intorno al corpo indifeso di Mandingo con fare rapace, poi prese bene la mira e vibrò un brutale colpo di spranga sul suo gomito. Lo schiavo squarciò l’aria con un grido di dolore.  Poi lo colpì ancora più volte, con violenza crescente, prima sulle caviglie, poi sulle scapole. Lasciò passare alcuni secondi tra una sprangata e l’altra. Poiché Mandingo era bendato, il breve tempo che passava tra un colpo e quello successivo si trasformava in un’attesa infinita carica di angoscia e sofferenza.

“Ne hai avuto abbastanza verme disgustoso?” lo interrogò Lady Moralizzatrice.

Mandingo non disse nulla, ma iniziò a piangere in silenzio.

“Devi sapere, lurido scimmione, che in questi casi è una buona idea rompere subito una gamba. Il dolore diventa quasi insopportabile, soprattutto quando si colpisce ripetutamente l’osso spezzato. Cosa ne dici, procedo o ti arrendi, puzzolente sacco di merda?”

Mandingo era già sul punto di cedere, ma prima che potesse pronunciare la safe-word intervenne il Professore urlando: “Qualunque cosa ti faccia lei, se adesso ti arrendi, quando torniamo a casa, io te ne faccio il doppio brutto stronzo, hai capito bene? Quindi stringi i denti e tieni duro!”

Mandingo sapeva bene che il Professore diceva sul serio, quindi si fece coraggio e con un filo di voce rispose: “Andiamo avanti”

Lady Moralizzatrice contrasse le labbra in un ghigno diabolico, tornò velocemente al tavolino, lasciò la spranga di ferro e prese un grosso martello da fabbro, tornò vicino a Mandingo, mirò subito sotto il ginocchio, e colpì con tutta la forza che aveva in corpo.

Il nitido schianto dell’osso che si rompeva riecheggiò nell’arena, accompagnato dalle disperate urla di dolore di Mandingo, mentre si dimenava come una biscia impazzita.

Linda, costretta ad assistere dall’inizio all’orribile supplizio, cadde svenuta ai piedi del Professore.

Le urla di Mandingo si sostituirono a gemiti strazianti, pianto a dirotto e stridore di denti.

La Moralizzatrice prese nuovamente la mira, e scagliò una seconda terribile martellata proprio nel punto in cui dalla gamba fuoriusciva un bianco pezzo dell’osso spezzato.

Questa volta il dolore fu troppo grande, Mandingo urlò come se non ci fosse un domani e poi svenne.

La sadica dominatrice prese allora un secchio d’acqua posato in un angolo del ring e lo lanciò sulla faccia dello schiavo, che riprese i sensi urlando ancora più forte.

“Cosa mi dici sudicia merdaccia, getti la spugna o devo spezzarti anche l’altra gamba?” ringhiò la donna sollevando nuovamente il martello

Mandingo aveva superato i suoi limiti, e senza altri indugi si arrese urlando la safe-wod con tutto il fiato che ancora aveva in corpo.

Era durato in tutto sei minuti.

Il Professore lo stava ancora insultando mentre veniva trasportato in barella fuori dall’arena. Avrebbe voluto seguirlo sino all’infermeria per continuare a pestarlo sulla tibia fratturata, ma non ne aveva il tempo. Era ora il suo turno: doveva salire sul ring per affrontare la Donna Capra.

Sapeva bene che con la schiava della Moralizzatrice non sarebbe stato facile, l’aveva vista combattere con selvaggia determinazione durante gli incontri della prima fase.

Era comunque fiducioso, pensava che prima o poi lei avrebbe ceduto sconfitta dal suo metodo infallibile.

Ciò che lo preoccupava era il fattore tempo, doveva raggiungere il suo scopo in meno di sei minuti e questo rendeva l’intera faccenda maledettamente complicata.

Quando raggiunse l’interno del ring era tutto pronto: gli inservienti avevano portato la macchina dell’elettroshock ed una specie di tavolo operatorio secondo le sue disposizioni, e la Donna Capra lo attendeva imperturbabile al centro della scena con indosso solamente dei piccolissimi slip.

Lei era di una bruttezza inquietante: aveva un giovane flessuoso e sensuale corpo da top model internazionale, ma la testa era deforme con un’orribile faccia caprina, piccoli occhi cisposi e grosse labbra gibbose.

“Sdraiati sul tavolo brutta stronza!” ordinò il Professore appena fu suonato il gong che dava avvio alla sessione.

La Donna Capra obbedì.

Il professore legò velocemente al tavolo i polsi e le caviglie della donna con dei legacci, poi le bloccò la testa caprina con una specie di grosso morsetto.

Si avvicinò senza perdere tempo alla macchina dell’elettroshock, afferrò i cavi che terminavano su due pinze a coccodrillo e le attaccò agli alluci smaltati della Donna Capra, una per piede. Poi fece un passo indietro e prima di dare corrente indugiò per un attimo sul corpo indifeso della ragazza.

La scarica durò circa quindici secondi e la Donna Capra riuscì a non urlare, senza tuttavia poter trattenere le lacrime, che iniziarono a sgorgarle dagli occhi arrossati.

“Questa era meno della metà della potenza massima” la informò il Professore sorridendo in modo malvagio.

“Allora metta al massimo, padrone” disse lei singhiozzando.

Lui usava raramente la massima potenza e solamente quando le torture si protraevano molto a lungo. Tendenzialmente cercava di non farlo se possibile, per evitare che nella vittima potesse subentrare la pazzia.

“Ti accontenterò volentieri” annunciò in questo caso il Professore, che avendo poco tempo era intenzionato ad andare sino in fondo.

Aumentò il voltaggio alla massima potenza e lasciò accesa la macchina per altri dieci secondi, ghignando sadicamente mentre la ragazza si dimenava per il dolore, gridando e urlando questa volta senza remore.

“Brutta debosciata, ti arrendi o vuoi una scarica da trenta secondi?”

“No” lo implorò lei. “Ti prego padrone, trenta secondi no”

“Allora pronuncia la safe-word” disse lui con uno sguardo di trionfo dipinto sul volto.

“Falla di almeno… quaranta, secondi” sussurrò lei con un filo di voce vagamente lascivo.

“Schifosa sgualdrina, te ne pentirai amaramente!”

Il Professore allora le strappò le pinzette a coccodrillo dai piedi facendola nuovamente urlare, poi afferrò dal tavolo degli attrezzi un grosso cilindro di ebanite che misurava cinque centimetri di diametro a circa venticinque in lunghezza. Intorno al cilindro erano fissate delle placche di metallo alle quali attaccò le pinzette collegandolo in questo modo alla macchina.

Poi si avvicinò nuovamente alla ragazza e senza troppi complimenti le spinse violentemente il cilindro per due terzi dentro alla bocca. Quindi, senza indugiare, diede nuovamente corrente: per quaranta interminabili secondi.

La Donna Capra gridò disperata, mentre il suo corpo era scosso dalle convulsioni, e si contorceva in modo innaturale, e una disgustosa puzza di carne bruciata si diffondeva per tutta la stanza.

“Arrenditi cagna nauseabonda” le intimò lui ancora una volta.

Ma era troppo tardi, prima che potesse fare altro, il gong suonò: erano passati sei minuti ed un secondo, e il Professore era stato sconfitto.

 

Capitolo sesto: scontro finale

 

Per il gran finale salirono per prime sul ring la Donna Capra e Lady Circe.

Appena il cronometro iniziò a scandire i secondi, la padrona del castello si avvicinò alla ragazza dal volto caprino, che ancora scossa per l’elettroshock stava in piedi a fatica, tutta tremebonda.

“Offrimi il collo, schiava” ordinò Lady Circe.

La Donna Capra obbedì come ipnotizzata, scostando i lunghi capelli scuri con le mani tremolanti e concedendo la gola indifesa.

Lady Circe spalancò allora la bocca esibendo mostruosi candidi denti aguzzi e si avventò sul collo della ragazza squarciandole le carni, affondando nella carotide gli immondi incisivi ancora ben visibili tra le labbra carnose, dentro l’orribile bocca stillante sangue.

La Donna Capra emise un gemito strozzato lasciandosi cadere quasi morta tra le braccia della padrona.

A reagire con impeto fu la Moralizzatrice, che urlando disperata con un salto balzò sul ring, afferrò una grossa mazza di ferro e cominciò a colpire Lady Circe sulla testa e sulla faccia mandandole in pezzi gli occhiali da sole e costringendola ad aprire le fauci mollando la preda.

Lady Circe si girò allora verso la donna che aveva osato aggredirla.

Il volto sino a poco prima di colore bianco cadaverico aveva iniziato a fiammeggiare di demoniaco furore, e i grandi occhi rossi incandescenti ardevano ora di rabbia, odio e collera, così grandi da far impallidire i diavoli dell’inferno.

“Come hai osato colpirmi stupida troia!?” ringhiò digrignando i denti insanguinati come una bestia selvaggia.

“Non sono ammessi danni permanenti, ricordi puttana? Hai scritto tu le regole, e non puoi vampirizzare la mia schiava senza che io ti spacchi la testa” rispose la Moralizzatrice afferrando uno spadone medioevale dal tavolo delle torture.

“Io faccio quello che voglio, come voglio, quando voglio e con chi voglio, e adesso ti rimanderò a casa a calci, dopo aver sculacciato per bene quel tuo grosso grasso culone pieno di merda!”

“Ti sbagli di molto, brutta ciuccia sangue del cazzo, sarò io a staccarti quella stupida zucca vuota dal collo rispedendoti all’inferno”

Lady Circe, senza aggiungere altra parola, si mosse veloce come un fulmine, con un morso bestiale azzannò la Moralizzatrice ad una spalla strappandole pelle, muscoli e carne viva sino alla clavicola.

“Sei troppo lenta, stupida stronza” commentò Circe leccandosi le labbra spruzzate dal sangue uscito dai tessuti sventrati.

La Moralizzatrice fece roteare disperatamente lo spadone un ultima volta nel vano tentativo di colpire la sadica vampira, ma ormai le mancavano le forze, le girava la testa, e dopo aver tentato un ultimo affondo senza successo, cadde sulle ginocchia esausta.

Lady Circe le fu sopra in un attimo, le afferrò la testa con le sue fredde mani dalle lunghe dita e poi affondò le spaventosi e bestiali zanne affilate sulla gola della dominatrice ormai sconfitta, spezzandole il collo.

Il rumore delle vertebre che andavano in pezzi riecheggiò nello scantinato del castello nel silenzio più assoluto. Tutto il pubblico aveva infatti assistito ammutolito a questo gran finale a sorpresa.

I corpi della Moralizzatrice e della Donna Capra giacevano privi di vita sul telo bianco del ring macchiato del loro stesso sangue.

“E’ con grande piacere che comunico ora il vincitore di questi giochi perversi” annunciò Lady Circe dopo essersi ricomposta.

“Il primo classificato è il mio adorabile schiavo Pony-Boy, che dichiaro vincitore per manifesta rinuncia della sua avversaria, Donna Capra”

Il pubblico applaudì entusiasta, e desideroso di andarsene il prima possibile.

Lady Circe rise in modo satanico per poi iniziare a congedare gli ospiti sopravvissuti.

Mancavano pochi minuti all’alba e per lei si avvicinava il momento di ritirarsi.

Lo stanzone dei giochi si era quasi svuotato del tutto quando si fece avanti Locusta, lo storpio, tirando fuori da sotto il mantello un grosso crocefisso d’argento.

“Vade retro, demonio” intimò alla padrona di casa.

Circe si ritrasse furibonda alla vista della croce e iniziò a ringhiare mentre il volto le si imbruttiva per la collera.

Franchino, la ragazza del Bar e altre tre serve circondarono lo storpio, ma non potevano avvicinarsi paralizzati dal potere della croce.

“Come osi sfidarmi nella mia dimora storpio” urlò Circe con una voce che non aveva più nulla di umano.

“Non sono qui per sfidarti, ma per liberare il mondo dalla tua mefistofelica presenza” puntualizzò lo storpio, che con l’altra mano ora impugnava una pistola.

“E pensi davvero ti poterci riuscire con una croce e una pistola?”

“E’ una pistola ad acqua, puttana, ma caricata con acqua benedetta, o acqua Santa che dir si voglia.”

Franchino allora si fece sotto per disarmarlo: “Vediamo se hai il sangue dolce, storpio” gridò spalancando le fauci e allungando le mani ossute trasformate ora in artigli ferini.

“Vai a farti fottere” disse il poeta, e gli sparò in faccia un getto d’acqua benedetta che gli incendiò la barba e la faccia e i denti anneriti dal tempo.

Poi fu attaccato dalla morettina del bar e dalle altre serve, che sbavavano dalla rabbia e dal desiderio di morderlo sul collo, ma Locusta era insospettabilmente agile e riusciva ad evitare gli affondi di quelle maledette e le colpiva con la croce e con l’acqua Santa e in breve le serve del diavolo stavano bruciando sul pavimento nella sala dei giochi perversi.

Sembrava che nulla potesse fermarlo.

“O Signore, donaci il coraggio in queste ore tormentose” disse alzando gli occhi verso il cielo, prima di avanzare minaccioso al cospetto di Lady Circe.

Ma lei si mosse più veloce, e in un lampo riuscì a colpirlo con un paio di schiaffi disarmandolo della croce e della pistola ad acqua, ed ora gli aveva attanagliato il collo con le mani e lo teneva sollevato da terra.

“Non ti berrò tutto in una volta” disse mostrando gli immondi canini vampireschi.

“Prima ti farò diventare il mio schiavo e ti costringerò a mangiare ratti e scarafaggi”

Lo storpio rantolava, la presa micidiale della creatura satanica lo stava strangolando.

“Ti userò come uno zerbino, ti farò leccare merda dai tacchi dei miei stivali, ti trasformerò in un mulo da soma e userò il tuo lurido culo come portaombrelli”

“I peccatori che vagano nell’oscurità hanno visto la luce” riuscì a sussurrare il poeta mentre le ultime forze gli venivano meno.

“Ben venuto nel mondo degli schiavi” ruggì infine Lady Circe con voce demoniaca, mentre stava per azzannarlo sul collo.

Ma un instante prima che potesse chiudere le diaboliche fauci sul gozzo dello storpio, un palo di legno la trapassò da parte a parte. Fece appena in tempo a voltarsi per guardare chi l’avesse trafitta, poi il suo corpo satanico e la faccia pallida e sfigurata dalla perversione e dal peccato si incenerirono in un gran bagliore di fuoco e di fiamme.

Quando il fumo si dissolse Linda era lì in piedi davanti alle ceneri di Lady Circe, con il paletto di legno in mano, pietrificata dalla paura.

“Solo un autentico servo di Dio può infilare con tale grazia un palo di legno nel cuore di questi mostri” disse il poeta tossendo, mentre cercava di tornare a respirare.

“Non esageriamo, è solo la gamba di una sedia rotta” si intromise il Professore, desideroso di recuperare i suoi schiavi e andarsene da quello scantinato.

“Convertiti, finché sei in tempo” lo ammonì lo storpio, “non c’è salvezza per chi muore nel peccato e senza pentimento”

Ma lui non gli rispose, aveva afferrato Linda per un braccio e stava già salendo la scalinata che lo avrebbe riportato in superficie.

“Che nottata di merda” commentò poco dopo aver lasciato il castello a bordo della sua automobile insieme ai suoi schiavi.

Mandingo era sdraiato sui sedili posteriori con la gamba rotta fasciata alla meno peggio e dilaniato dal dolore. Linda era seduta davanti senza parlare e in stato di shock.

“Non c’è nulla di più fastidioso di due donne pazze che litigano, è una cosa che non posso sopportare” aggiunse accendendosi un sigaro e dirigendo il veicolo verso casa.

Il sole si stava alzando pigramente sulla rigogliosa valle coltivata a vigneto. Era il primo giorno di primavera, e quella settimana il professore avrebbe imbottigliato il vino dell’ultima vendemmia.

 
 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

 

Scritto da Anonimo Piacentino

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La professoressa sadica

 

Giovanni Ligas arrivò a scuola particolarmente provato.

Il giorno prima ci aveva dato dentro in modo pesante con i suoi compagni di sbronza abituali: Mario Bonaldi e Germano il Capitano. Il Gutturnio era passato a fiumi dalle bottiglie alle loro fauci fameliche.

Alla prima ora avevano lezione d’inglese. La professoressa Mary Zambon entrò in classe vestita in modo diverso. Non indossava il solito kilt scozzese da vecchia babbiona noiosa. No, quel giorno aveva addosso una conturbante tuta nera aderente in latex e calzava stivali in pelle con tacco 12. Aveva anche cambiato pettinatura optando per un caschetto sexy alla Valentina di Guido Crepax. Il rossetto scarlatto e le pupille stranamente dilatate le conferivano un’aria vagamente perversa.

“Bonaldi, Ligas e Germano, subito in presidenza!” sibilò la professoressa di inglese con voce severa.

I tre giovani piombarono nel panico, avviandosi in preda all’agitazione verso gli uffici della preside.

“Mi viene da vomitare” piagnucolò Ligas.

“Cosa cazzo abbiamo combinato questa volta?” si lamentò Bonaldi intercalando con un paio di bestemmioni.

Il Capitano iniziò a pregare, dopo essere impallidito sino a diventare bianco come il latte appena munto.

Quando arrivarono davanti alla presidenza trovarono la porta aperta, ma l’ufficio era vuoto e della preside nemmeno l’ombra.

“Entrate!” gracchiò la Gina, una orribile bidella obesa dai modi scorbutici.

I tre obbedirono, continuando ad interrogarsi sottovoce sulle ragioni della misteriosa convocazione.

Dopo circa dieci minuti di penosa attesa, nella stanza entrò la professoressa Zambon sui nuovi stivali in pelle tacco 12, chiudendosi la porta alle spalle e serrando la serratura con due mandate. Poi prese la chiave e la nascose tra i seni, divenuti anch’essi insolitamente prosperosi e sodi e con due grossi capezzoli turgidi mal celati sotto il latex aderente.

“Spogliatevi” disse la professoressa andandosi a sedere sulla scrivania della preside, proprio davanti a loro.

“Cosa?”

“Come?”

“Dice sul serio?”

I giovani studenti erano basiti ed increduli: era la prima volta che sentivano la Zambon parlare in italiano.

“Siete sordi oltre che stupidi? Vi ho ordinato di togliervi i vestiti!”

Sempre più disorientati i tre obbedirono, sino a restare in mutande.

La prof si avvicinò per passarli in rassegna.

“Toglietevi le mutande mezze seghe!”

Bonaldi eseguì l’ordine già mezzo barzotto. Ligas non oppose resistenza, ma si vergognava e aveva freddo e gli veniva da vomitare sempre più forte. Il Capitano rimase immobile impietrito, diventando rosso come il sangue.

La Zambon non si scompose, si avvicinò al Capitano e lo colpì con un gancio sinistro in pieno stomaco.

“E’ meglio che te le togli da solo quelle luride mutande, fin tanto che sei in grado di farlo usando le tue mani.”

Sopraffatto dalla paura, dalla vergogna e dall’umiliazione, anche il Capitano eseguì gli ordini, ed ora i tre adolescenti erano nudi come vermi davanti alla loro sadica professoressa d’inglese.

“Siete tre patetici stronzi, ed avete anche il cazzo piccolo” sentenziò ridacchiando la Zambon.

Ligas iniziò a piangere in silenzio, il Capitano, umiliatissimo, iniziò a tremare colpito da un attacco di epilessia, Bonaldi scorreggiò rumorosamente in segno di protesta.

“Sei un porco, un pervertito!” lo redarguì immediatamente la Zambon, e per far capire che non stava scherzando aprì la sua vecchia borsa di cartone dalla quale tirò fuori uno sfollagente della polizia. Si avvicinò per bene al Bonaldi e lo colpì sul ginocchio destro con forza inaudita. Il poveraccio crollò a terra bestemmiando con la rotula fratturata.

Poi, mentre lui si dimenava sul pavimento tenendosi in mano il ginocchio gonfio e dal colore bluastro, iniziò a prenderlo a calci intimandogli di mettersi sdraiato supino.

Bonaldi cercò di opporre una timida resistenza, ma le punte rinforzate con placche in titanio degli stivali in pelle tacco 12 della Zambon lo convinsero velocemente ad assecondare i desideri della sadica professoressa.

Quando fu perfettamente sdraiato ed immobile, la Zambon cominciò a calpestarlo camminandogli sopra il petto, la pancia ed i genitali.

Bonaldi sulle prime cercò stoicamente di non urlare, ma poi, quando uno dei tacchi 12 gli infilzarono il pene come uno spiedino tirò un grido che squarciò l’aria e fece tremare le pareti: poi svenne.

“Questa pratica BDSM si chiama trampling” spiegò la Zambon con fare professorale, avvicinandosi minacciosa a Ligas e al Capitano.

“Ma quel pippaiolo del vostro compagno non ha saputo resistere nemmeno pochi secondi” disse afferrando il Capitano per le palle.

“Pensi di poter fare di meglio?”

Il Capitano annuì terrorizzato

“Allora inginocchiati immediatamente!”

Lui obbedì trattenendo il fiato per la paura.

La malvagia professoressa armeggiò nuovamente nella sua borsa e ne tirò fuori un gigantesco fallo in silicone e di color cioccolata.

“Fammi vedere come succhi i cazzi frocetto!”

Il volto del Capitano si rigò di lacrime, poi con le mani tremolanti afferrò il fallo di silicone e se lo mise in bocca simulando maldestramente un’atroce fellatio.

La Zambon lo guardò con disprezzo, poi si rivolse al Ligas: “porgimi le tue mani schifose” gli ordinò, mentre dalla borsa estraeva una bacchetta di legno di Rattan.

Ligas offrì i palmi delle mani.

La Zambon scosse il capo in segno di diniego: “I dorsi” disse contraendo le labbra in un ghigno crudele.

Ligas girò le mani lentamente e tremando, lei cominciò a bacchettarlo con durezza.

Lui iniziò a singhiozzare mentre le mani si gonfiavano ed i dorsi presero a sanguinare.

“Questa punizione corporale si chiama caning” lo informò la Zambon, colpendo sempre più energicamente.

“Basta, la prego… basta” implorò Ligas contorcendosi per il dolore.

La professoressa ignorò le sue suppliche, gli girò dietro le spalle, e dopo avergli rifilato una fucilata nel culo con la punta rinforzata in titanio dello stivale tacco 12 della gamba destra, iniziò a bacchettarlo sulla schiena.

Non contenta, la sadica professoressa d’inglese prese ad alternare le vergate a dei feroci schiaffoni sulla faccia.

Dopo alcuni minuti di indicibile sofferenze, le listate iniziarono a diminuire di numero, lasciando posto ai soli schiaffoni.

Ligas iniziò allora ad udire delle voci lontane che lo chiamavano, insieme a confuse risate di scherno.

Le voci si fecero sempre più forti e vicine, le risate divennero quasi fragorose, ed infine uno schiaffone più forte dei precedenti lo riportò sulla terra costringendolo a svegliarsi.

La professoressa Zambon era in piedi davanti a lui, con il suo consueto kilt scozzese da vecchia e noiosa babbiona e lo guardava sgomenta. Senza aggiungere una parola gli allungò il compito in classe corretto.

Era solo un incubo, pensò Ligas sollevato, assicurandosi che i dorsi delle mani fossero perfettamente sani. Poi afferrò il compito e lo guardò, ripiombando nella più cupa disperazione: aveva preso un altro 4.

 

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La professoressa sadica

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La puttana di Satana

La puttana di Satana

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Emanuele Cagnacci, inquietante metallaro del quinto anno, pluriripetente ed aspirante satanista, quel mattino giunse a scuola in perfetto orario.

Era in programma, in aula magna, la festa di Natale organizzata dagli studenti del Liceo Volta di Borgonovo Val Tidone.

Ma mentre tutto il liceo si preparava a festeggiare la fine delle lezioni e le imminenti vacanze natalizie, il Cagnacci aveva progettato un festino alternativo negli scantinati del liceo.

Il Cagnacci, un tipo orribile con lunghi capelli neri e la faccia inespressiva, insieme ai suoi 3 seguaci abituali, tutti utilizzatori di droghe pesanti, era intenzionato ad inscenare una messa nera con rito di iniziazione sacrificale.

I suoi accoliti erano, in ordine di tossicodipendenza: Mino Spinelli, Gaetano Nasoni, Ciro Pera.

Vittima designata era Loretta Pruriti, una cannaiola del quarto anno, impegnata anche politicamente con i rossi del comunista Fausto Truzzone.

“Ripassiamo il piano un’ultima volta” disse Cagnacci, quando i quattro si ritrovarono nei cessi del piano terra per rivedere gli ultimi dettagli.

Ciro Pera iniziò a ripetere meccanicamente: “Allora capo, io e Spinelli andiamo a cercare la troia, e la convinciamo a seguirci nei cessi con la promessa di un dose di speedball

“Quando arriva qui dentro, prima la imbavagliamo con la ball gag, poi la infiliamo nel sacco nero della spazzatura e la trasciniamo in cantina senza farci notare” aggiunse Gaetano Nasoni, preparandosi una pista di cocaina sulla mensola di vetro di un vecchio specchio malandato appeso alla parete.

La Pruriti era stata scelta per le sue fattezze fisiche minute, che la rendevano una facile preda, e soprattutto per la fama di ragazza facile che si era meritatamente guadagnata cambiando in media un fidanzato ogni 10 giorni negli ultimi due anni.

In tutto era già stata con ben 40 diversi ragazzi del liceo, compresi nerd, pivelli del primo anno, e persino Dino Francescato primatista di due di picche e secondo in questa triste classifica al solo Giovanni Ligas.

“Molto bene” annuì il Cagnacci, “le faremo vedere chi comanda. Io vi aspetterò in cantina, nella sala caldaie, dove ho allestito l’altarino per il rito” aggiunse grattandosi sotto le ascelle pelose.

Nell’aula magna del liceo, intanto, era iniziato l’assembramento delle classi in seduta plenaria.

Il programma della festa prevedeva l’esibizione canora di diversi studenti e gruppi musicali, con un palinsesto che spaziava attraverso tutti i generi musicali, compreso un micidiale concerto lirico della contessina Ugobalda Maria Assunta Scotti, rappresentante degli studenti cattolici in seno al consiglio d’istituto e discendente diretta di Pier Maria Scotti detto il Buso.

Per rendere la festa memorabile, Ciccio Giuliacci, Mario Bonaldi e Franco Sparapizze si erano procurati quattro damigiane di ottimo vino piacentino: due di Gutturnio e due di Malvasia.

Per una tragica coincidenza, essendo severamente vietato introdurre alcolici a scuola, avevano deciso di occultare le damigiane proprio nei cessi del piano terra, da dove intendevano dar vita ad uno spaccio americano stile anni 30.

Alle 8:30 in punto, si ritrovarono insieme nello stesso bagno i tre satanisti drogati con la loro ignara preda, e i tre alcolizzati. Questi ultimi, capeggiati da Franco Sparapizze, per l’occasione travestito da gangster americano, erano accompagnati da Giovanni Ligas, Steno Cremona e Dino Francescato, tutti desiderosi di farsi un bicchierino.

“Che cazzo succede qui, cosa ci fate in questo cesso?” protestò immediatamente Ciro Pera, il secondo in gerarchia dopo Cagnacci.

“Non sono affari vostri, non avete mica l’esclusiva sull’uso dei cessi” ringhiò lo Sparapizze, che a quell’ora aveva già bevuto parecchio e credeva di essere Robert De Niro nel capolavoro di Sergio Leone “C’era una volta in America”

Percependo la tensione che si poteva fare a fette con un coltello, Giovanni Ligas si accucciò in posizione defilata cominciando a filmare tutto con la sua videocamera VHS.

Dino Francescato, appena vide la Loretta Pruriti fu preso dal panico e fuggì a gambe levate senza dire una parola.

“Ora ve ne dovete andare, qui abbiamo cose serie da fare” sentenziò con fare minaccioso Mino Spinelli.

“Non hai nessun diritto di mandarci via, credi che sia facile stare la fuori? Se vogliamo restare qui non puoi farci niente, piuttosto invitaci a partecipare” suggerì Ciccio Giuliacci, immaginando che lo Spinelli alludesse ad un droga party.

Mario Bonaldi si attaccò ad una damigiana di Gutturnio cominciando a bere a più non posso.

Zeno Cremona iniziò a rollare una sigaretta lanciando occhiatine maliziose a Loretta Pruriti.

“Va bene andiamo via noi” disse allora Ciro Pera avvicinandosi a Franco Sparapizze. I due si conoscevano bene, erano spesso compagni di bevute nei fumosi locali dal pavimento appiccicoso del Midnight Pub di Milano, dove tutto puzzava di birra scadente, vomito e trasgressione.

“Dateci una mano ad infilare la ragazza in questo sacco del rudo e spariamo in un minuto”

Franco Sparapizze annuì immediatamente, e una luce malvagia gli balenò tra gli occhi.

“Avanti, immobilizzate la troia” ordinò allora il Pera, rivolgendosi ai suoi sodali, mentre Sparapizze si appostava davanti alla porta dei cessi per impedire che altri potessero entrare oppure uscire.

Gaetano Nasoni e Mino Spinelli si avventarono come iene affamate sulla giovane ragazza.

Ma sfortunatamente per loro, Loretta Pruriti non era per nulla remissiva, e ancor meno indifesa. Al contrario, era cintura nera 1° DAN di karate e con un paio di mosse tremende mise fuori combattimento Nasoni, Spinelli e Pera, che si era avvicinato per imbavagliarla con la ball gag.

Già che ci aveva preso gusto, rifilò anche un paio di calci micidiali in piena faccia a Franco Sparapizze e Ciccio Giuliacci.

Zeno Cremona e Giovanni Ligas si salvarono fuggendo dalla finestra, mentre Mario Bonaldi, incurante di quanto accadeva intorno a lui, continuò a darci dentro con le damigiane di Gutturnio.

“Allora stronzetto, chi sarebbe la troia?” chiese la Pruriti afferrando il Pera da un orecchio e sollevando da terra.

“Lasciami! Mi fai male! Ti prego lasciami l’orecchio”

“Dimmi dove si nasconde il tuo capo o te lo stacco, stronzone!”

Il Pera non disse nulla, stringendo i denti nel tentativo vano di sopportare l’atroce dolore.

“Parla o te lo strappo a morsi” aggiunse lei, torcendogli il padiglione auricolare con forza.

Il Pera, che non era un duro, a quel punto crollò confessando tutto.

Lui, Nasone, Spinelli, Giuliacci e Sparapizze, sotto minaccia di evirazione, furono costretti a tornare a casa completamente nudi, al freddo di dicembre e correndo senza mai voltarsi.

Cagnacci fu invece sorpreso dalla sadica Pruriti negli scantinati del liceo, mentre stava spolverando un teschio di capra, circondato da candele nere, croci rovesciate e libri di Aleister Crowley.

Il poveraccio fu riempito di botte, sottomesso, imbavagliato con la ball gag e costretto a sfilare in mutande in aula magna come pony boy, con una scopa infilata nel culo e con al collo un grosso cartello con sopra scritto in caratteri cubitali: “sono la puttana di Satana.”

Mario Bonaldi si addormentò nei cessi del piano terra dopo aver bevuto due damigiane da 54 litri di Gutturnio ed una di Malvasia e si perse il clamoroso spettacolo conclusosi in un crescendo di applausi e ovazioni con la Loretta Pruriti che usciva in trionfo cavalcando il Cagnacci come un mulo da soma.

Da quel giorno e dopo quella umiliazione pubblica senza precedenti, Emanuele Cagnacci perse qualsiasi interesse per il satanismo, si innamorò perdutamente di Loretta Pruriti e accettò di divenirne il suo schiavo per sempre.

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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La bambola perfetta

La bambola perfetta

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Gino Manosvelta iniziò a fantasticare su quel genere di cose sin da quando era adolescente. A quei tempi, mentre i suoi coetanei si masturbavano con i giornalini porno, Gino si eccitava guardando i manichini sui cataloghi di biancheria intima di terz’ordine. Anche le Barbie e altre bamboline sexy accendevano la sua passione. A trent’anni era già sessualmente deviato, gli piacevano molto le ragazzine delle scuole superiori e non aveva rapporti normali con le donne da almeno un decennio: era anche brutto e facilmente gli puzzavano i piedi.

La sua vita ebbe una svolta il giorno in cui navigando su internet capitò per caso su realdoll.com

Scoprì in questo modo che dal 1996 la Abyss Creations produceva e vendeva in tutto il mondo le bambole per usi sessuali più realistiche mai costruite. Ideate dallo scultore Matthew McMullen e realizzate grazie alle più avanzate tecnologie sviluppate dall’industria degli effetti speciali hollywoodiana, le Real Dolls erano munite di endoscheletro in PVC per simulare tutte le posizioni di un vero corpo umano, ed il rivestimento in silicone riproduceva anche al tatto le fattezze di una vera donna.

Gino avrebbe voluto ordinare una Real Doll personalizzata scegliendo secondo il proprio gusto il tipo di corpo, il viso, i capelli ed il colore degli occhi. Tuttavia valutato il costo della bambola preferì desistere. Oltre a tutto il resto era anche piuttosto spilorcio e giudicò il prezzo troppo esoso per le sue tasche.

Quella stessa sera decise di mangiarci sopra e si recò nella sua pizzeria preferita. Era un locale nel piacentino, frequentato da una clientela giovanile. Le scuole erano finite da poco, faceva caldo e le ragazzine indossavano gonne corte e camicette attillate e sprizzavano ormoni mettendo in mostra gambe depilate, ombelichi tirati a lucido e capezzoli turgidi sotto le stoffe fini.

Alla seconda birra Gino era già su di giri, ma non riusciva a togliersi dalla testa le bambole americane che aveva visto su internet.

Al tavolo affianco era seduto un tizio strano, tutto vestito di nero, con la pelle scura, gli occhiali da sole ed un ghigno ancestrale stampato sul volto.

“Potrei risolvere i tuoi problemi” disse con voce baritonale, alzando un calice di vino Malvasia in segno benaugurale.

“Dici a me?” domandò lui stupito, non si aspettava che quel tipo strambo gli rivolgesse parola.

“Conosco un artigiano, dalle parti di Nibbiano, che costruisce incredibili bambole in silicone a prezzi modici.”

“Ehi! Tu come fai a sapere che mi interessano questo genere di cose? Chi diavolo sei?”

“Un amico!” rispose quello, esibendo un sorriso mefistofelico.

Gino spalancò gli occhi scettico, senza parlare, avvertendo nell’aria un fastidioso e pungente odore di zolfo.

“Non devi fare altro che telefonare a questo numero e descrivere il tipo di bambola che vuoi” disse offrendogli un volantino pubblicitario.

Gino lo afferrò avidamente e cominciò a leggere: “Realizziamo Bambole Perfette, create su misura, personalizzate e accessoriate con parti anatomiche che sembrano vere, soddisfatti o rimborsati!”

Sul volantino erano anche riprodotte le fotografie di alcune ragazze nude, e lui faticò a comprendere se si trattasse di modelle in carne ed ossa oppure, come promettevano gli slogan pubblicitari, di bambole in silicone straordinariamente realistiche.

Continuò ad osservare il volantino con sguardo rapito per parecchio tempo. Quando alla fine rialzò la testa, l’uomo vestito di nero era scomparso.

Non riuscì a dormire per tutta la notte, e nemmeno quella successiva, e quella dopo ancora. Passata un’intera settimana insonne sognando ad occhi aperti di mettere le mani su una di quelle Bambole Perfette, alla fine cedette alla tentazione e decise di assecondare il desiderio di averne una tutta per sé.

Il laboratorio dove venivano costruite le Bambole Perfette era dentro lo scantinato di un vecchio casale fatiscente sulle colline di Nibbiano. Il magazziniere ecuadoregno che la impacchettò prima di spedirla si fece delle grasse risate, chiedendosi quale tipo di pazzia avesse ottenebrato la mente del maniaco che aveva commissionato quella cosa grottesca. Si chiamava Esmeralda, aveva le sembianze di una sedicenne nigeriana, con la pelle nera e due tette enormi, ma gli occhi erano blu cobalto ed i capelli erano biondo platino. Aveva anche un culo da urlo. Era vestita da cameriera ed era la Bambola Perfetta ordinata da Gino Manosvelta.

Il giorno in cui gli fu finalmente recapitata a casa, fu il più bello della sua vita.

Per prima cosa la mise a sedere sul divano in soggiorno, le accarezzò i capelli sintetici, le ficcò in mano un bicchiere e lo riempì di vino rosso di media qualità, poi cominciò a parlarle.

“E’ molto che Ti aspettavo, anzi da sempre, da tutta la vita” disse accendendosi una sigaretta.

“Ho sempre desiderato avere una ragazza come te, Dio mio Esmeralda, sei bellissima.”

Lei rimase immobile con il bicchiere in mano pieno di vino rosso di media qualità, fissando nel vuoto.

“Sai cosa mi piacerebbe farti dolcezza?”

Esmeralda non rispose.

“Mi piacerebbe metterti una catena al collo, frustarti la schiena con la mia cintura e poi prenderti da dietro, in modo selvaggio.”

La bambola non disse nulla.

Gino iniziò ad eccitarsi, buttò via la sigaretta, si alzò e si versò un bicchiere colmo di vino rosso, lo trangugiò ed andò a sedersi accanto ad Esmeralda.

“Sei la mia schiava negra” le sussurrò ad un orecchio, poi le afferrò la testa con violenza e la baciò sulla bocca.

La bocca di Esmeralda era morbida e le labbra profumavano di fragola.

Gino iniziò a spogliarla. Lei lasciò fare. Lui le piegò le braccia e poi le gambe sino a metterla nella posizione che preferiva. Il vino rosso di Esmeralda uscì dal bicchiere e si rovesciò sul pavimento.

Gino tirò fuori il suo arnese nodoso dalle mutande e la penetrò.

Durò un paio di minuti al massimo, ma fu l’orgasmo più intenso e lungo che lui avesse mai provato. Pensò che nessun’altro avesse mai goduto tanto prima di lui.

Gino stava con Esmeralda già da tre settimane ed era per lui una relazione molto piacevole.

Di giorno la teneva nuda incatenata in cantina, a quattro zampe dentro una cuccia per cani che aveva costruito apposta per lei. La sera la vestiva da cameriera e la metteva in ginocchio accanto alla sua poltrona, con un vassoio tra le mani sul quale appoggiava il posacenere ed una bottiglia di vino. Mentre guardava la televisione fumava e beveva con lei accanto, tutto il tempo in ginocchio sul pavimento e con il vassoio in mano. Qualche volta, se era di buon umore, le accarezzava la testa come avrebbe fatto con un pastore tedesco. Altre volte le legava i polsi al tavolo della cucina e le frustava la schiena dopo averla imbavagliata. La notte se la portava a letto, la spogliava e ci faceva sesso in tutte le posizioni del kamasutra.

Gino Manosvelta era felice, a suo modo amava Esmeralda e la sua vita di coppia era perfetta. Sino a quella sera del ventisettesimo giorno che stavano assieme.

Era una domenica, e tornato dopo un pomeriggio allo stadio, Gino scese in cantina per prendere Esmeralda, ma con sua grande sorpresa non la trovò come l’aveva lasciata.

Lei non stava più a quattro zampe e non aveva più la catena al collo. Era seduta sopra il tettuccio della cuccia con le sue belle gambe nere di silicone elegantemente accavallate.

“Che razza di scherzi sono questi!” protestò ad alta voce Gino.

Esmeralda aveva lo sguardo fisso nel vuoto, come sempre.

“Come cazzo hai fatto a liberarti?” balbettò lui, avvicinandosi alla bambola per ispezionarla.

“Brutta puttana!” le urlò.

Lei non reagì, restò lì come se nulla fosse, con le gambe accavallate.

“Ti sei tolta la catena dal collo? Hai osato fare questo stupida troia?”

Esmeralda non rispose.

Gino era fuori di sé e la colpì con uno schiaffo. Lei cadde a terra con un tonfo sordo, ammortizzato dal silicone di cui era fatta.

“Me la pagherai dannata sgualdrina” la minacciò, poi afferrò una scopa e cominciò a percuoterla colpendola con il manico di legno sulla faccia, sul petto, sugli stinchi, le diede anche due calci nel culo, poi quando fu stanco trascinò una vecchia sedia impagliata davanti a lei e ci si sedette sopra osservandola.

“Prova a liberarti ancora, e la prossima volta Ti faccio a pezzi sporca negra!”

La bambola rimase tutto il tempo in silenzio, nuda, picchiata e gettata nella polvere, sul pavimento lurido della cantina di Gino Manosvelta.

Per evitare altre sorprese, decise di ammanettare i polsi di Esmeralda dietro la schiena, e di chiudere la catena che le aveva messo al collo con un grosso lucchetto. Poi la mise in ginocchio dentro alla cuccia per cani.

“Ora voglio proprio vedere se riesci ancora a liberarti” disse con tono di sfida, prima di andarsene.

Quella notte Gino dormì da solo, lasciando la bambola di silicone ammanettata ed incatenata in cantina.

Il giorno dopo, tornato presto dal lavoro, andò subito a vedere come stava Esmeralda, e per poco non gli prese un infarto.

Lei era senza manette, senza catene, seduta sul pavimento con le gambe divaricate in una posizione oscena. Persino il suo volto sembrava diverso, ed ora una specie di sorriso sciocco le conferiva un’espressione sarcastica, vagamente crudele.

“Lo hai fatto di nuovo” disse lui con voce tremante.

“Lo hai voluto tu, non dire che non ti avevo avvisato.”

Esmeralda si limitò a guardarlo, come sempre senza reagire.

Gino la portò in camera sua, la sdraiò sul letto a pancia in giù e le legò mani e piedi con delle corde alle gambe del letto. Andò in cucina, prese una bottiglia di vodka dalla dispensa e tornò in camera.

Guardò la bambola legata a quel modo, aprì l’armadio dove teneva una mazza da baseball, afferrò la mazza e cominciò a picchiarla. La picchiò sulla testa e sulla schiena, con violenza. Ad ogni mazzata sentiva il rumore inquietante del silicone sbattuto. Quando fu stanco le si sdraiò sopra e la prese contro natura.

Appena tutto fu finito la lasciò legata al letto, le si sedette accanto e cominciò a bere a canna dalla bottiglia di vodka.

Ad ogni sorsata le dava uno schiaffo sul culo, oppure le tirava i capelli o la prendeva a pugni all’altezza dei fianchi, insultandola.

Lei rimase immobile con lo sguardo perso nel vuoto e quel nuovo ghigno malvagio disegnato sul volto.

Quando Gino fu completamente ubriaco, finita la vodka, si sdraiò accanto ad Esmeralda e si addormentò.

Si svegliò dilaniato da un dolore lancinante dalle parti del pene. Non poteva muoversi: le sue braccia e le sue gambe erano ora legate al letto, al posto di Esmeralda.

Lei gli stava in piedi davanti con un coltellaccio da macellaio in una mano e ciò che restava del suo nodoso membro sanguinante nell’altra. E stava ridendo, in modo sadico.

Gino cominciò ad urlare per il dolore e a gridare:

“Cosa mi hai fatto maledetta troia? O no… non ci posso credere… mi hai tagliato il cazzo…”

E intanto urlava, urlava come un ossesso e il sangue zampillava fuori dai genitali amputati come fosse una fontana.

“Dannata negra bastarda… cosa hai fatto… cosa hai fatto?!?”

Gino urlava e gridava mentre lei continuava a ridere, e ridendo buttò il suo cazzo fuori dalla finestra.

“Prova a picchiarmi adesso” disse Esmeralda smettendo di ridere.

“Cosa? Ma tu… tu parli…”

“Non riesci a picchiarmi ora che ti ho evirato? Ti mancano le forze oppure il coraggio?”

“Cosa?”

“Ti piacevano le mie gambe, ed il mio corpo, ammettilo porco!”

“Si… Si… certo che adoravo il tuo corpo, ma tu mi hai tagliato il cazzo, dannata troia schifosa… come faccio adesso? Sto per morire sto morendo brutta puttana lo capisci questo? Aiutami… devo andare in ospedale… aiutami…”

Esmeralda si protese sopra di lui e gli mollò un ceffone in piena faccia, facendo dondolare le grosse mammelle di silicone.

“Non andrai da nessuna parte”

“Lasciami andare in ospedale ti prego… slegami, devo tamponare l’emorragia o Dio… sto per morire lo sento, sto per morire…”

Gino cominciò a piangere, poi la stanza iniziò a girare intorno a lui. Vide Esmeralda che si rivestiva poi svenne. Lei gli slegò i polsi e le caviglie, gli mise il coltello che aveva usato per evirarlo tra le mani, poi gli sedette accanto.

Il cadavere di Gino Manosvelta fu trovato dai carabinieri della stazione di Borgonovo Val Tidone. Accanto al corpo dissanguato dell’uomo fu trovata anche una bambola di silicone.

La bambola era vestita da cameriera, sedeva con le gambe accavallate sul bordo del letto e le labbra erano contratte in una smorfia cattiva, beffarda ed inquietante.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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La Padrona nazista

La padrona

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L’esploratore fascistissimo Rodolfo Navigato giaceva sul divano di casa completamente ubriaco. I suoi capelli color grigio acciaio brillavano sotto il sole di un caldo pomeriggio d’estate nell’anno del Signore 1946. Nella nuova Repubblica Italiana e democratica per Navigato non ci sarebbe stato spazio. I tempi in cui aveva conteso al leggendario Giuseppe Tucci le prime pagine dei giornali erano passati.

Ormai poteva vivere solo di ricordi e di rimpianti, esiliato nella sua dimora sperduta sulle colline piacentine, in quel di Pecorara.

“Brutti bastardi figli di puttana!” farfugliò cercando di sollevarsi per raggiungere il bagno e vomitare.

I suoi strali non erano rivolti alle potenze plutocratiche che avevano vinto la guerra, né ai sovietici che avevano occupato mezza Europa, e neppure ai partigiani comunisti che avevano stuprato e rapato zero la sua unica figlia facendola impazzire. No, a provocare l’ira di Rodolfo erano i ricordi di una donna, un ufficiale delle SS, la spietata Ilsa Von Forsher, il più grande amore della sua vita.

Dopo aver vomitato copiosamente, Navigato si trascinò a fatica sino alla vecchia dispensa dove trovò ancora un fiasco di vino rosso. Era l’ultima bottiglia e ci si attaccò a garganella. Prima che Navigato svenisse nuovamente stordito dalla sbornia, il ricordo di Ilsa gli passò davanti agli occhi come fosse stato al cinematografo. “Puttana!” biascicò mentre il suo corpo privo di sensi crollava sul pavimento.

Lui e Ilsa si erano conosciuti nel 1938 a bordo della nave tedesca Schwabenland, partita da Amburgo il 17 dicembre per una missione esplorativa in Antartide. Navigato era stato aggregato alla spedizione su richiesta del Duce e in qualità di esperto, avendo già partecipato nel 1926 alla trasvolata del Polo Nord a bordo del dirigibile Norge al comando di Umberto Nobile.

Ilsa invece faceva parte di un gruppo di scienziati delle SS ed era a capo di una missione segreta della Ahnenerbe, finalizzata ad individuare un passaggio di collegamento al centro della terra cava, come ipotizzato dall’americano John Cleves Symmes già nel 1881. La missione segreta di Ilsa e dei suoi uomini era sconosciuta al resto dell’equipaggio, compreso il comandante della nave, il capitano Alfred Ritscher.

La giovane Ilsa era di una bellezza giunonica, secondo i più rigidi canoni ariani: alta, robusta, bionda, con gli occhi azzurri ed un seno enorme. Aveva quattro lauree e parlava fluentemente cinque lingue, tra cui l’Italiano. Era anche di portamento altero ed oltre alla sua missione nascondeva un altro segreto, di natura molto più intima, e che gli avrebbe permesso di sedurre e soggiogare totalmente alla propria volontà il labile e lascivo Rodolfo. Anch’egli, infatti, nascondeva un terribile ed imbarazzante segreto che avrebbe preferito tenere nascosto, ma che la diabolica Ilsa riuscì a scoprire pochi giorni dopo che la Schwabenland aveva preso il largo.

Era una fredda notte stellata quando Ilsa e Rodolfo si incontrarono casualmente sul ponte della nave. Nonostante la temperatura rigida avevano entrambi sentito l’esigenza di prendere un po’ d’aria fresca. Ne nacque una piacevole conversazione sui prodigi della tecnica e sulle conquiste che le nuove scoperte avrebbero reso possibile nei successivi decenni. Rodolfo era rimasto immediatamente affascinato dalle incredibili conoscenze e competenze tecnico-scientifiche della donna, ma soprattutto si sentiva incredibilmente attratto da quel corpo statuario e dalle sue forme esuberanti, a stento nascoste e contenute dalla divisa d’ordinanza.

Lei si accorse subito delle attenzioni dell’esploratore italiano, e decise di invitarlo nella propria cabina per approfondirne la conoscenza.

“Mi piacciono gli stalloni italiani” disse la donna iniziando a spogliarsi.

“Adoro le donne del Reich” disse lui, calandosi i pantaloni.

Da sotto i mutandoni, si scorgeva il suo sesso barzotto e Ilsa lo provocò passandogli una mano tra i capelli: “cosa sai fare stallone italiano, per adorare una donna del Reich?”

Rodolfo Navigato arrossì, abbassò lo sguardo e fissando i piedi nudi della donna sussurrò: “sono un’insaziabile succhiatore di alluci”

Un ghigno crudele si dipinse sul volto della donna, senza aggiungere parola colpì Rodolfo con uno schiaffo furibondo, tanto che le sue gigantesche mammelle ondeggiarono come un mare in tempesta.

Il volto offeso di Rodolfo arrossì ancora di più, per la vergogna, per l’umiliazione e per l’eccitazione. Il suo arnese spuntava ora dai mutandoni, turgido e pronto per l’uso.

Ilsa colpì nuovamente l’esploratore italiano con forza ancora maggiore, ed il suo volto crudele era ora una maschera beffarda e sadica: “inginocchiati e adora i mie piedi, schiavo italiano!”

Rodolfo obbedì. Si piegò sulle ginocchia mettendosi a quattro zampe come un cane, e poi iniziò a baciare, leccare e succhiare i piedi di Ilsa. L’umiliazione dell’uomo cresceva con il passare dei minuti, così come la sua eccitazione, mentre la diabolica nazista abusava di lui con insulti irriferibili e frustandolo sulla schiena e sulle terga con la cinghia in pelle della sua divisa.

Ilsa continuò a seviziare Rodolfo in questo modo per quasi mezzora, poi quando capì che lui non avrebbe potuto resistere ancora per molto gli ordinò di alzarsi, lo legò ad una sedia e lo imbavagliò.

“Aspettami qui, stallone italiano” gli disse ridacchiando. Poi indossò una vestaglia di flanella ed uscì dalla cabina.

Rodolfo cercò di liberarsi, ma le corde usate dalla donna per legarlo erano troppo strette ed ogni suo sforzo fu vano.

Dopo cinque minuti la donna rientrò nella cabina accompagnata da un giovane ed orrendo marinaio tedesco. I due si spogliarono ed iniziarono ad accoppiarsi selvaggiamente.

Rodolfo fu costretto ad assistere la splendida Ilsa con il suo magnifico seno ed i suoi sensualissimi piedi, mentre l’atroce marinaio la possedeva in ogni posizione. Questa nuova e più crudele umiliazione subita da Rodolfo accese la passione della sadica Ilsa, che guardandolo negli occhi mortificati urlò dal piacere raggiungendo un intenso orgasmo.

Nelle notti successive e per tutta la durata della spedizione, Rodolfo fu spesso convocato nella cabina della donna e costretto a subire le medesime sevizie. Ogni volta la bella nazista si accoppiava con un marinaio differente e si inventava nuove umiliazioni da infliggere al suo schiavo italiano.

Quando la Schwabenland tornò in Germania, Rodolfo si era totalmente innamorato di Ilsa Von Forsher. Avrebbe desiderato seguirla ovunque e continuare a leccare i piedi della sua padrona sino alla fine dei suoi giorni. Ma quando scesero dalla nave lei lo salutò e con un sorriso sarcastico gli disse addio.

Non si videro mai più, ma per tutta la vita Rodolfo Navigato non smise mai di amare la sua padrona nazista.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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