Mafarka il futurista (1910) di Filippo Tommaso Marinetti: recensione critica

Quando Mafarka il futurista apparve nel 1910, l’Italia era ancora giovane, incerta e divisa tra l’eredità del passato e l’attrazione per una modernità che prometteva slanci, rivoluzioni, velocità. Nella temperie infiammata del primo Novecento, il romanzo di Filippo Tommaso Marinetti non fu soltanto un’opera letteraria, ma un atto di guerra culturale: un’esplosione di parole e immagini concepita per scuotere, offendere, scandalizzare. L’autore, già noto per il Manifesto del Futurismo (1909), non intendeva raccontare una storia nel senso tradizionale del termine, ma incarnare sulla pagina le pulsioni ideologiche del movimento che aveva fondato: un’estetica nuova, violenta, maschia, tutta proiettata verso il futuro.

L’Italia prebellica – agraria, clericale, ancora avvinghiata ai dettami della tradizione ottocentesca – faticava a tenere il passo con le grandi potenze europee. Gli intellettuali, inquieti e desiderosi di rottura, cercavano nuovi linguaggi e nuove mitologie. In questo contesto, Mafarka si impose come un’opera di rottura estrema, il primo romanzo autenticamente futurista: non un prodotto della letteratura, ma una “bomba a mano” lanciata contro la borghesia, l’umanesimo, la madre e il buon gusto. Marinetti non voleva scrivere un romanzo, ma fondare un nuovo mondo.

Il protagonista Mafarka – re africano, guerriero solitario, uomo fuori dalla storia e dalle emozioni – è il vessillo ideologico di questo nuovo mondo. La sua impresa titanica consiste nel rifiutare la procreazione naturale per creare, attraverso l’ingegno e la volontà, un figlio meccanico: Gazourmah. Questo essere post-umano, gigantesco e insensibile, vola sopra le città come una nuova divinità dell’acciaio. Non conosce la tenerezza, il desiderio, il dubbio. È la concretizzazione di una volontà di potenza pura, sterile, non contaminata dal sangue o dalla carne. Il confronto con il superuomo nietzschiano è inevitabile: se il superuomo di Nietzsche nasce dal superamento dell’uomo attraverso l’affermazione individuale del senso, Mafarka sembra volerlo superare a sua volta, cancellando anche il corpo, anche la biologia, per fondare un ordine post-organico, meccanico e imperituro. Dove Nietzsche filosofeggia, Marinetti delira – e il delirio è intenzionale, programmatico, artistico.

La macchina, in Mafarka, non è solo strumento, ma idolo, eros sublimato, proiezione fallica e oracolo del nuovo secolo. Essa incarna la rottura definitiva con la natura e con la donna, due presenze che il romanzo riduce a nemiche da estirpare. La macchina non è madre, ma padre generativo. Essa non si limita a servire l’uomo: diventa l’uomo stesso, nella sua forma più pura e violenta. Il culto della tecnologia è qui inscindibile dalla volontà di disumanizzazione: se l’uomo è fragile, caduco, desiderante, la macchina è invincibile, immortale, eretta. Gazourmah è il simbolo di questo nuovo orizzonte: non un robot al servizio dell’umanità, ma una nuova specie chiamata a sostituirla.

Non stupisce, dunque, che Mafarka provocò uno dei più clamorosi scandali letterari dell’epoca. Il processo per oscenità che colpì Marinetti nel 1910 lo consacrò al contempo come artista maledetto e agitatore culturale. La prosa del romanzo, colma di immagini sensuali e aggressive, fu accusata di pornografia, ma la questione era molto più complessa. Marinetti non voleva eccitare, ma turbare. L’erotismo del romanzo è freddo, astratto, quasi necrofilo. La donna è ridotta a caricatura, a tentazione molle da cui liberarsi. L’oscenità, più che nei corpi, è nel disegno: la negazione della maternità, la glorificazione dell’utero metallico, la violenza come creazione. Dove finisce la provocazione e dove comincia l’ideologia? Forse, in Marinetti, le due cose coincidono. L’offesa non è un incidente, ma un programma.

Tutto questo trova la sua espressione più compiuta nello stile, che è già di per sé una dichiarazione di guerra. La scrittura di Mafarka è incendiaria, iperbolica, marziale. Le frasi esplodono come raffiche. I verbi si accumulano, i sostantivi si deformano, i periodi si frantumano. Il ritmo è frenetico, martellante, quasi ossessivo. Marinetti rifiuta ogni moderazione borghese, ogni classicismo. Vuole un linguaggio che non accarezzi ma urli. Il risultato è una prosa che non si legge, ma si subisce. Il Manifesto del Futurismo vive in ogni riga del romanzo, che non si limita ad applicarne i principi, ma li incarna con furia visionaria.

In definitiva, Mafarka il futurista è un libro impossibile da ignorare. Repellente e affascinante, lucido e folle, è il sogno febbrile di un’epoca che credeva ancora nel potere dell’arte di rifondare il mondo. E forse, in qualche angolo remoto del nostro presente ipertecnologico, la voce di Mafarka – o di Gazourmah – continua a risuonare, disturbante, tra i relitti dell’umanesimo.

Se c’è un’assenza che grida in Mafarka il futurista, è quella della donna. Non una semplice omissione, ma una cancellazione volontaria, feroce, sistematica. Il romanzo non si limita a ignorare il femminile: lo riduce, lo deride, lo elimina come principio di generazione e come soggetto creativo. Nella visione di Marinetti, la donna è l’antitesi del futuro: è passività, carne molle, madre terrestre, madre umana, legata al ciclo biologico che il protagonista intende spezzare. Mafarka non vuole un erede che esca da un ventre, ma da una volontà. La creazione di Gazourmah non è solo un atto prometeico: è una guerra dichiarata contro l’utero. L’ingegno sostituisce il grembo, la fucina prende il posto della placenta. La carne femminile è considerata debole, inaffidabile, corrotta dalla sensualità. La vera creazione, quella pura, è metallica, non umida: nasce dall’attrito tra l’acciaio e il sole, non dal sangue e dal dolore del parto.

In questa logica, ogni forma di maternità naturale è svilita e demonizzata. L’eros viene distillato in un’energia che non cerca l’altro, ma si chiude su se stessa: una masturbazione cosmica della volontà. Non c’è amore, non c’è relazione, non c’è intimità. Solo volontà di potenza, euforica autogenerazione, orgoglio solitario. In questo senso, Mafarka rappresenta una forma estrema di misoginia non tanto sessuale quanto cosmologica: è il rifiuto totale del principio femminile come motore del mondo. È il sogno – o l’incubo – di un universo generato dall’acciaio e dalla mente, non dalla carne.

Ma a ben vedere, proprio in questa esaltazione assoluta si cela il germe di un’ambiguità profonda. Mafarka è davvero una celebrazione? Oppure, nella sua parossistica tensione verso l’alto, rivela il vuoto di un’ideologia che si consuma nella propria hybris? Letto con occhi contemporanei, il romanzo può apparire come una distopia ante litteram, un viaggio nel cuore oscuro di una civiltà che rifiuta i limiti umani fino a perdere ogni umanità. La figura di Gazourmah – priva di desideri, affetti, debolezze – può essere interpretata come la parodia estrema dell’ideale futurista. Non è forse un mostro, un Golem privo di anima? Il sogno dell’onnipotenza maschile si trasforma in un’allucinazione di isolamento assoluto, dove perfino la morte non ha più senso, perché non c’è più nulla da perdere.

In questo scenario apocalittico, Mafarka stesso assume il ruolo di artista-demiurgo: colui che non rappresenta la realtà, ma la rifonda. Non c’è più natura, non c’è più Dio: c’è solo l’uomo che crea. E non crea per amore, né per bisogno, ma per il piacere arrogante di sfidare l’ordine cosmico. In questa figura si riflette lo stesso Marinetti, che attraverso la scrittura vuole distruggere la letteratura ottocentesca, la tradizione, la psicologia, il romanzo borghese. Mafarka è il suo alter ego mitico, l’incarnazione di un’estetica della distruzione che si pretende generativa. Ma il risultato è una creazione sterile, priva di senso, quasi liturgica. Il demiurgo non è Dio: è un pazzo che gioca con le scintille dell’apocalisse.

Tutto questo si coagula in un sistema simbolico martellante e coerente. Il fuoco, il volo, la luce abbagliante, l’acciaio: questi sono gli elementi fondamentali dell’universo mafarkiano. Il fuoco purifica e distrugge. Il volo è elevazione, distacco, superiorità. La luce è verità assoluta, rivelazione improvvisa, cecità voluta. L’acciaio è la carne nuova, inossidabile, pura. In questo scenario, Gazourmah non è solo una creatura artificiale: è un’allegoria del futuro come divinità, del progresso come religione. Egli non è né figlio né macchina: è un’icona, un totem. La sua esistenza stessa è un sacrilegio e un’adorazione. Come tale, egli rappresenta anche la deriva del mito moderno: la tentazione di credere che l’uomo possa salvarsi da solo, con i propri strumenti, ignorando la carne, la fragilità, la compassione.

Oggi, a più di un secolo dalla sua pubblicazione, Mafarka il futurista resta un testo che divide e inquieta. All’epoca fu accolto con scandalo e repulsione, ma anche con attenzione da parte degli avanguardisti. Alcuni lo considerarono un’opera folle, altri un profetico saggio sulla modernità. Oggi possiamo leggerlo con il filtro della storia, cogliendo sia la sua follia visionaria sia la sua pericolosa ambiguità. In un’epoca in cui si parla di intelligenze artificiali, post-umanesimo, transumanesimo, di corpi potenziati e sessualità virtuali, la figura di Gazourmah sembra emergere dal passato con un sorriso sinistro. Il sogno di Marinetti – superare l’uomo – non è poi così lontano da alcune delle ossessioni contemporanee.

E allora ci si chiede: Mafarka è un romanzo da condannare o da rivalutare? Forse nessuna delle due. Forse è, semplicemente, un oggetto letterario estremo, insopportabile e necessario. Un testo che ci costringe a riflettere non tanto su ciò che siamo, ma su ciò che potremmo diventare se perdessimo il contatto con la nostra fragilità. Un romanzo che – nel suo rifiuto di ogni tenerezza – ci ricorda quanto la tenerezza sia, dopotutto, rivoluzionaria.


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