Recensire La rabbia e l’orgoglio significa entrare in un cratere ancora fumante della nostra storia recente, un punto di frattura tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro. Oriana Fallaci lo scrive, lo urla e lo incide con rabbia sulle pagine di questo pamphlet pubblicato nel 2001, a poche settimane dagli attentati dell’11 settembre. Ed è proprio quel giorno, con le Torri Gemelle che si sgretolano nel cuore di New York — la città che la scrittrice aveva eletto a rifugio e patria elettiva — a segnare il ritorno sulla scena di una voce che si era da tempo ritirata dal dibattito pubblico. La rabbia e l’orgoglio nasce come un articolo sul “Corriere della Sera”, ma diventa rapidamente un libro incendiario, spigoloso e divisivo, che inaugura una nuova stagione del pensiero polemico occidentale.
Fallaci torna a combattere, come lei stessa dichiara, non per dovere professionale, ma per istinto di sopravvivenza. Il testo si presenta fin dalle prime righe come un grido viscerale, un atto di difesa contro ciò che percepisce come una minaccia esistenziale. La rabbia, in questo caso, non è una postura retorica, ma una reazione fisica e personale: l’autrice, malata di cancro, sola, ormai distante dai circuiti dell’editoria e del giornalismo militante, si rialza come una figura tragica, più vicina a un personaggio da tragedia greca che a un intellettuale da salotto. Il suo ritorno non ha nulla di calcolato. È, come lei stessa scrive, un dovere dell’intelligenza e del coraggio, ma anche una forma di resistenza personale alla disillusione e al dolore.
La natura del testo riflette questa urgenza: La rabbia e l’orgoglio non è un saggio, non è un’inchiesta, non è un reportage. È un pamphlet nel senso più puro e letterario del termine, erede di una tradizione che va da Voltaire a Céline, passando per Karl Kraus. La struttura è volutamente caotica, discorsiva, carica di invettive, ripetizioni, allusioni e affondi personali. Il linguaggio si è trasformato rispetto alla prosa elegante e cesellata dei suoi reportage più celebri, come Lettera a un bambino mai nato o Un uomo: qui diventa tagliente, sarcastico, teatrale, quasi monologante. La Fallaci non argomenta: attacca. Non dimostra: afferma. Non chiede di essere compresa, ma pretende di essere ascoltata. È una scrittura che morde, che non cerca il consenso ma il risveglio, la scossa.
Al centro della sua polemica, come un asse di gravità permanente, si staglia lo scontro tra Islam e Occidente. Fallaci denuncia quella che chiama “colonizzazione islamica dell’Europa”, interpretando i flussi migratori, le rivendicazioni culturali e religiose, e il terrorismo jihadista come tappe di una guerra non dichiarata ma in atto. La sua visione si avvicina a quella di Samuel Huntington e alla celebre teoria dello “scontro di civiltà”, ma ne accentua gli aspetti più cupi e apocalittici. Dove Huntington parlava di sistemi culturali che si confrontano e si ridefiniscono, Fallaci vede un’Europa che si arrende senza combattere, una civiltà che ha smesso di credere in se stessa. Lo scontro, per lei, non è una possibilità: è già in corso. E l’Occidente, se non si sveglia, è destinato a soccombere.
Da qui deriva la sua furiosa critica al multiculturalismo, vissuto come la maschera dell’autodistruzione. La tolleranza, per la Fallaci, è diventata debolezza. Il dialogo, vigliaccheria. L’integrazione, un eufemismo per l’invasione. Usa parole dure, a volte brutali, che respingono il politicamente corretto con disprezzo. Eppure, nella sua violenza verbale, c’è anche una contraddizione bruciante: proprio lei, che in passato aveva difeso i diritti umani, le libertà civili, l’autodeterminazione dei popoli, ora sembra vedere nella diversità una minaccia più che una ricchezza. È un’inversione drammatica, che spiazza il lettore e interroga la coerenza della sua visione.
Non meno feroce è l’attacco alle élite occidentali: politici, intellettuali, giornalisti, artisti — tutti colpevoli, secondo lei, di complicità morale e culturale con il nemico. La Fallaci li chiama “imbelli”, “codardi”, “servi del pensiero unico”. È un attacco trasversale, che anticipa di anni l’ondata populista e il rigetto delle classi dirigenti che avrebbe travolto l’Europa nel decennio successivo. In questo senso, La rabbia e l’orgoglio si rivela anche profetico: coglie e incarna il malessere di un’epoca in cui la fiducia nelle istituzioni si sgretola, e la voce del dissenso si fa sempre più estrema e personalizzata.
Il risultato è un libro che si legge come uno sfogo ma si impone come un manifesto. Un testo che divide, accende, urta. E che, a vent’anni dalla sua uscita, continua a interrogare il lettore su cosa sia la libertà, dove finisca la tolleranza e quanto siamo disposti a cedere, in nome della pace, prima di accorgerci di non avere più nulla da difendere.
Nel cuore di La rabbia e l’orgoglio c’è una dichiarazione d’amore feroce e disperata per l’Occidente. Oriana Fallaci eleva la civiltà occidentale a un totem di valori irrinunciabili: la laicità, la libertà di parola, la democrazia, il diritto a pensare, criticare, persino bestemmiare. Questi principi, secondo l’autrice, non sono semplici conquiste politiche, ma la sostanza stessa dell’identità europea, e più in generale della civiltà illuminista e razionale. Tuttavia, questa difesa appassionata rischia a tratti di scivolare in una idealizzazione quasi mitologica: l’Occidente della Fallaci non è mai ambiguo, non è mai colpevole, non ha zone d’ombra. È una fortezza di verità assediata dai barbari, un luogo puro da salvare senza compromessi. Ma in questa visione, il rischio è quello di assolutizzare un modello e dimenticare che i valori che la scrittrice difende con tanto ardore — come il pensiero critico — non si sposano facilmente con la cieca adesione a un’identità rigida, monolitica, quasi sacrale. Si può difendere l’Occidente senza feticizzarlo? È possibile amare la libertà senza cadere nell’idolatria della propria cultura?
Le critiche che sono piovute su Fallaci, soprattutto a partire dalla pubblicazione di questo libro, non sono state tenere. L’accusa più ricorrente è quella di islamofobia. In effetti, il confine tra l’attacco politico all’integralismo e la condanna indiscriminata della cultura islamica viene spesso superato. Le generalizzazioni abbondano, le sfumature si rarefanno. L’Islam non è più una religione tra le altre, con le sue complessità e contraddizioni: è una minaccia monolitica, una massa indistinta e aggressiva che si infiltra, sovverte, distrugge. In questo senso, La rabbia e l’orgoglio fatica a distinguere tra l’estremismo e la pluralità del mondo musulmano. La Fallaci rifiuta la categoria dell’Islam politico come ambito specifico da criticare: preferisce sparare a grappolo, colpire tutto e tutti, convinta che sia inutile distinguere tra “buoni” e “cattivi”. Ma proprio questa scelta rende il libro più simile a una requisitoria ideologica che a un’analisi lucida. Dove finisce la libertà d’espressione e dove comincia il discorso d’odio? La risposta non è facile, ma ciò che è certo è che la forza emotiva della scrittura della Fallaci, unita al suo disprezzo per ogni forma di compromesso, rende la linea di demarcazione pericolosamente sottile.
Il clamore che seguì la pubblicazione fu immenso. In Italia, il libro divenne immediatamente un bestseller, con milioni di copie vendute, interviste, polemiche, condanne e idolatrie. A sinistra fu considerato un tradimento, un cedimento alla paranoia e alla xenofobia; a destra fu accolto come un grido di verità, un manifesto contro il pensiero unico, una difesa dell’identità europea. La rabbia e l’orgoglio fu brandito da leader politici, citato nei talk show, discusso nelle aule universitarie. La stessa Fallaci, che viveva ormai in solitudine, malata e ritirata dalla scena, fu investita da un’ondata di attenzione mediatica che la riportò violentemente al centro del dibattito pubblico. Alcuni videro in lei una profeta, altri una reazionaria. Nessuno, però, poté ignorarla.
Il rapporto con il suo pubblico storico, quello dei reportage dal Vietnam, delle interviste ai grandi della Terra, dei romanzi esistenziali e politici degli anni Settanta, fu bruscamente alterato. Molti lettori si sentirono traditi. Come poteva la Fallaci che aveva sfidato il potere, difeso i diritti delle donne, dialogato con i leader rivoluzionari del mondo, trasformarsi in una voce così aspra, così poco incline al dubbio? Ma forse non si trattò davvero di una metamorfosi. Forse fu solo l’estremizzazione di un tratto che era già presente in lei: l’individualismo assoluto, la passione cieca, la ricerca della verità vissuta come lotta e non come mediazione. In questo senso, più che tradire se stessa, Fallaci radicalizza la propria vocazione alla solitudine intellettuale, al disaccordo, al conflitto.
A vent’anni di distanza, rileggere La rabbia e l’orgoglio non è solo un esercizio storico. È una cartina di tornasole del nostro presente. Le paure che la Fallaci esprimeva con veemenza — la perdita di identità, il terrorismo islamico, il fallimento del multiculturalismo, la crisi della politica occidentale — sono ancora al centro del dibattito contemporaneo. Alcune si sono rivelate fondate, altre distorte. La crisi migratoria, gli attentati in Europa, le tensioni identitarie, l’ascesa del populismo e della destra radicale sono tutti fenomeni che sembrano dialogare, nel bene o nel male, con l’allarme lanciato da Fallaci. Ma allo stesso tempo, la sua voce resta unica: troppo personale per diventare una dottrina, troppo incendiaria per essere accettata senza riserve, troppo lucida in certi passaggi per essere liquidata come fanatismo. La rabbia e l’orgoglio è un libro che continua a dividere perché è scritto con il sangue, non con l’inchiostro. E in tempi come i nostri, in cui il dibattito si fa sempre più gridato e polarizzato, la sua eco, per quanto controversa, resta inquietantemente attuale.
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