La Cruna dell’ago, di Ken Follet (1978) – Recensione Critica –

Quando La cruna dell’ago uscì nel 1978, Ken Follett non era ancora il romanziere-macchina da bestseller che oggi diamo quasi per scontato. Alle sue spalle c’erano anni di giornalismo, inchieste locali, un’attenzione quasi maniacale al dettaglio e una serie di romanzi minori che non avevano lasciato tracce significative nel panorama britannico. Eppure, tutto ciò che sarebbe diventato Ken Follett – l’autore-capitale, lo specialista del thriller storico, il costruttore di universi solidi e avvincenti – nasce precisamente qui, in queste pagine. È come se La cruna dell’ago avesse agito da catalizzatore: la scrittura giornalistica si innesta su una trama dal respiro globale, il realismo si mescola al ritmo della buona narrativa popolare, e il risultato è un romanzo che, ancora oggi, mantiene intatta la propria forza centrifuga.

Questa forza nasce soprattutto dal ritmo narrativo. Follett capisce che la tensione non è un accessorio, ma la spina dorsale del suo libro; e la costruisce con un’abilità quasi chirurgica. I capitoli sono brevi, secchi, talvolta ridotti a poche scene essenziali; ognuno termina con un’incrinatura, un’ombra, un elemento non risolto che costringe il lettore a procedere. È un procedimento mutuato in parte dal giornalismo – quell’arte di chiudere ogni paragrafo con una punta di curiosità ulteriore – e in parte dalla sceneggiatura cinematografica, che Follett assorbe per osmosi osservando il meccanismo dei film di tensione. Ne deriva un page-turner moderno, ancora efficacissimo: la suspense non conosce cali, e le accelerazioni improvvise sono calibrate con la precisione di un metronomo. La macchina ritmica del romanzo continua a funzionare perché ha un’architettura semplice, ma mai semplicistica: non esistono capitoli di riempimento, non esistono deviazioni arbitrarie. Tutto procede verso un unico, feroce punto di convergenza.

A rendere ancor più sorprendente questa struttura è il fatto che il protagonista reale del romanzo sia un antagonista. Henry Faber – “il Filo”, “il Needle” – è una delle creazioni più inquietanti del thriller storico: un uomo di straordinaria intelligenza, capace di freddezza assoluta, efficace in ogni gesto grazie a una logica interna che gli impedisce distrazioni e sentimenti. Eppure, proprio questa spietatezza lo rende, paradossalmente, affascinante: il lettore riconosce l’orrore delle sue azioni, ma ne sente l’ipnotico carisma. Faber è un villain che non cerca di piacere, e forse per questo finisce per conquistare. È un predatore di rara lucidità, un uomo che incarna la dedizione totale alla missione e che nella sua stessa coerenza trova la scintilla di un’oscura empatia. Follett non chiede al lettore di simpatizzare con lui; gli chiede, più sottilmente, di comprenderlo. E questa comprensione, in un contesto di guerra totale, è uno dei passaggi più destabilizzanti del romanzo.

La rappresentazione dello spionaggio è la naturale estensione di questa filosofia: La cruna dell’ago è una spy-story completamente priva di glamour. Non esistono gadget futuristici, automobili con armi nascoste o sequenze di acrobazie alla James Bond. L’inganno è fatto di travestimenti improvvisati, di codici che sembrano quasi rudimentali, di messaggi lasciati nel posto giusto al momento giusto. La violenza, quando irrompe, è rapida e brutale; non ha estetica né coreografia, dura pochi secondi e lascia il lettore scosso proprio perché non concede spettacolo. Il mondo dello spionaggio, come Follett lo intende, non è un luogo di avventure eleganti, ma un territorio cupo, fatto di solitudini, sospetti, paranoia. È un mestiere che consuma, non che esalta.

Su questo impianto narrativo già solido, si innesta un contesto storico potentissimo: l’Operazione Fortitude, la gigantesca operazione di depistaggio con cui gli Alleati riuscirono a confondere i servizi tedeschi prima dello sbarco in Normandia. Follett non la usa come semplice sfondo, bensì come motore della trama. La storia reale fornisce al romanzo un’ossatura di autenticità, ma anche un senso di destino ineluttabile: il lettore sa dove la storia andrà a finire, e tuttavia ne ignora completamente il percorso. Così, il romanziere riesce nel doppio intento di rimanere credibile e al tempo stesso amplificare la suspense: la Storia mette i paletti, ma la narrativa li trasforma in tensione pura. È forse in questo equilibrio tra fedeltà documentaria e potenza drammatica che il “metodo Follett” si definisce per la prima volta in maniera compiuta. E la sua efficacia, a distanza di decenni, non ha perso nulla della propria carica magnetica.

È con l’arrivo sull’isola che La cruna dell’ago rivela la propria natura più inattesa. Dopo un lungo segmento dominato da fughe, omicidi, intercettazioni e inseguimenti, Follett sposta la storia in un microcosmo quasi sospeso, un frammento di mondo che sembra vivere fuori dal tempo bellico. Lì, la vita matrimoniale dei Rose — fatta di abitudini, frustrazioni, silenzi e tenerezze stanche — introduce una brusca variazione di ritmo. Non è un rallentamento, ma un cambio di prospettiva: la guerra, fino a quel momento impersonale e vasta, si restringe improvvisamente alla dimensione domestica, mostrando quanto profondamente anche gli spazi più marginali ne siano feriti. David, mutilato nel corpo e nell’identità, e Lucy, rimasta giovane mentre il matrimonio invecchiava prematuramente, incarnano una nazione che paga un prezzo invisibile, disgregata nelle sue relazioni più intime. L’ingresso di Faber in questo equilibrio fragile non è solo narrativamente esplosivo: è psicologicamente devastante. L’attrazione tra lui e Lucy, pericolosa e ambigua, si alimenta del vuoto emotivo che la guerra ha scavato dentro la donna. Il lettore non assiste a un semplice intreccio sentimentale, ma a una collisione di solitudini. E proprio Lucy, personaggio inizialmente marginale, finisce per diventare la figura tragica centrale del romanzo: l’unica a compiere una vera evoluzione, l’unica a pagare un prezzo emotivo e morale che la condurrà verso il sacrificio e la consapevolezza. È in questa torsione psicologica che il romanzo si trasforma da spy-story politica a thriller emotivo, e Follett dimostra come la dimensione privata possa esplodere con la stessa intensità della grande Storia.

In questo contesto intimo, la violenza assume una valenza ancora più perturbante. Follett evita ogni forma di spettacolarizzazione: la morte non è mai un set, mai un esercizio estetico, mai un pretesto per l’adrenalina. È improvvisa, asciutta, a volte quasi silenziosa. Una lama, un colpo secco, un gesto risoluto: finisce tutto lì, senza coreografia. La brutalità non appare come un elemento narrativo da esibire, ma come un fatto naturale nello spionaggio — ed è proprio questa naturalità che disturba. Il lettore percepisce che non c’è alcuna distanza di sicurezza: nessuna ironia, nessuna enfasi cinematografica. In questo realismo crudele, la morte pesa sempre. Ogni corpo che cade lascia una frattura, un senso di colpa, una vibrazione tetra che accomuna vittime e carnefici.

Quando il romanzo avanza verso il finale, l’architettura narrativa mostra tutta la sua precisione. Gli incastri sono talmente calibrati che si ha quasi la sensazione di assistere a un disegno geometrico che si chiude su sé stesso: ogni scelta compiuta dai personaggi nelle pagine precedenti ritorna, inevitabile, come un’ombra. Non c’è sensazione di artificio, ma di destino. A Follett non interessa sorprendere con un colpo di scena gratuito: vuole che il lettore senta l’inevitabilità tragica di ciò che sta per accadere. Lucy, ormai trasformata dalla consapevolezza e dal dolore, trova nel sacrificio un’unica forma di risposta possibile, un gesto che unisce amore e dovere in un’unica linea di forza. La sua lotta, quasi solitaria, possiede una dimensione catartica che trascende il puro intrattenimento. È un finale che rimane nella memoria non perché “spettacolare”, ma perché profondamente umano, segnato da una tristezza lucida che non concede sollievo.

Su questa traiettoria si innestano i temi morali che percorrono l’intero romanzo. La guerra, come Follett la racconta, è un luogo in cui il confine tra bene e male si assottiglia al punto da diventare permeabile. Quanto può essere giustificato in nome della patria? Quanti omicidi diventano “necessari”? Faber è terribile, eppure coerente: è forse l’unico personaggio integralmente onesto rispetto alla propria missione. Lucy, invece, si muove in un territorio scivoloso dove desiderio e dovere si contrappongono, dove l’essere moglie, amante e infine spia sembra imporle un’identità diversa in ogni scena. Questo gioco di specchi morali è uno dei grandi meriti del romanzo: non presenta figure immacolate, ma esseri umani attraversati da forze opposte, costretti a scegliere tra ciò che vorrebbero e ciò che devono fare.

Proprio questo intreccio di tensione, psicologia e Storia permette a La cruna dell’ago di diventare, retrospettivamente, un punto di svolta nel thriller storico. Molto prima che il genere diventasse una costante nelle classifiche internazionali, Follett dimostra che è possibile unire rigore documentario e scrittura popolare senza cadere né nell’erudizione sterile né nel puro intrattenimento. Da quel momento in poi, il thriller ambientato in un contesto bellico non è più percepito come nicchia, ma come un territorio fertile, capace di attirare un pubblico vastissimo. Follett sdogana la narrativa della guerra, restituendola all’immaginario collettivo non come epopea militare, ma come luogo di conflitti morali, passioni, sacrifici e crudeltà. Ed è forse in questa trasformazione culturale, oltre che nelle qualità del romanzo stesso, che si misura davvero la sua eredità.


Scopri di più da Racconti Brevi

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Lascia un commento