Sono scesi i lupi dai monti

Recensione del libro testimonianza di Piero Tarticchio.

Ci sono eventi della storia che, per lungo tempo, hanno abitato le ombre della memoria collettiva, relegati ai margini della narrazione ufficiale e riscoperti solo tardivamente. Il dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata rientra in questa categoria: una pagina di storia dolorosa, rimossa per decenni e oggi ancora oggetto di dibattiti accesi. Sono scesi i lupi dai monti, scritto da Piero Tarticchio, non è solo il racconto di un’esperienza personale, ma una testimonianza potente che restituisce voce a chi, per anni, è rimasto in silenzio. Attraverso una scrittura intima e incisiva, l’autore trasporta il lettore in un viaggio di memoria e dolore, che si intreccia con la tragedia collettiva di un intero popolo.

L’opera si inserisce in un contesto storico preciso: alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con il crollo del fascismo e l’avanzata delle forze partigiane di Tito, il confine orientale dell’Italia divenne teatro di una violenta epurazione politica ed etnica. L’occupazione jugoslava delle terre istriane, dalmate e giuliane portò a una repressione feroce contro gli italiani, spesso accusati indiscriminatamente di essere collaborazionisti del regime mussoliniano. Le foibe divennero simbolo di questa tragedia: cavità carsiche in cui vennero gettati migliaia di uomini e donne, molti dei quali ancora vivi, colpevoli solo della loro identità nazionale. Contemporaneamente, l’esodo di massa di oltre 300.000 italiani segnò la fine di un mondo: intere comunità abbandonarono le loro case, le loro terre, le loro radici, portando con sé il peso dell’oblio e del pregiudizio. L’Italia, ancora sconvolta dalla guerra, accolse questi profughi con indifferenza o addirittura ostilità, contribuendo a soffocare per anni il ricordo di questa tragedia.

Dentro questa cornice storica si inserisce la vicenda personale di Piero Tarticchio, il cui padre fu una delle vittime infoibate nel 1945. Il libro è il racconto di una perdita irreparabile, di un’infanzia spezzata dalla brutalità della storia. A soli undici anni, Tarticchio fu costretto a confrontarsi con la sparizione del padre, un’assenza che si sarebbe trasformata in un’ombra permanente nella sua esistenza. Il trauma dell’esilio si aggiunge alla ferita del lutto: con la madre e i fratelli, il giovane Piero lascia la sua terra natale, senza sapere se mai vi farà ritorno. Il dolore non è solo quello della separazione forzata, ma anche della consapevolezza che il padre non è morto in guerra, non è caduto in battaglia, ma è stato brutalmente eliminato, vittima di una vendetta politica che non ha fatto distinzione tra colpevoli e innocenti.

Dal punto di vista stilistico, Sono scesi i lupi dai monti si colloca a metà strada tra il romanzo autobiografico e il diario personale, intrecciando con sapienza narrazione e testimonianza. La scelta di un registro intimo e coinvolgente permette al lettore di immergersi nel dramma vissuto dall’autore, senza filtri storicistici o analisi distaccate. Il libro non si limita a raccontare i fatti, ma li fa vivere attraverso la prospettiva di un bambino che assiste al crollo del suo mondo. Le descrizioni sono intense, a tratti liriche, e trasmettono con efficacia il senso di perdita e sradicamento. Il linguaggio è semplice ma evocativo, capace di restituire la crudezza degli eventi senza mai cadere nel sensazionalismo.

Il titolo stesso dell’opera è fortemente simbolico. I “lupi” che scendono dai monti non sono solo gli uomini armati che compiono gli eccidi, ma incarnano la brutalità cieca della storia, il caos che travolge le vite umane senza distinzione. La metafora dei lupi richiama un’immagine di ferocia primordiale, di predatori che attaccano senza pietà, evocando il senso di terrore che gli italiani istriani provarono in quei giorni. Ma il simbolismo va oltre: i lupi rappresentano anche l’oblio, la censura, il silenzio che ha avvolto per anni queste vicende, impedendo alle vittime di trovare giustizia e riconoscimento.

Un altro elemento di grande rilevanza nel libro è la rappresentazione dell’identità istriana, un’identità che, nonostante l’esodo, non è mai stata cancellata. Tarticchio ricostruisce con affetto e nostalgia il mondo della sua infanzia, fatto di tradizioni, lingua, cultura, un universo che l’esilio non è riuscito a spegnere. Il senso di appartenenza alla propria terra è uno dei temi portanti dell’opera: la perdita della casa non coincide con la perdita della memoria. Attraverso le sue parole, l’autore restituisce dignità a una comunità costretta a vivere in terra straniera, ma determinata a conservare le proprie radici. Il libro, in questo senso, è anche un atto di resistenza culturale, un modo per riaffermare che la storia degli istriani non si è conclusa con l’esodo, ma continua ancora oggi nelle voci di chi si rifiuta di dimenticare.

La memoria storica non è mai neutrale: è il frutto di un’elaborazione collettiva spesso influenzata da interessi politici, ideologici e geopolitici. Sono scesi i lupi dai monti di Piero Tarticchio si colloca nel difficile terreno del recupero della memoria delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, una tragedia che per decenni è stata sistematicamente rimossa o minimizzata, soprattutto da una parte della sinistra italiana. Questo oblio non fu casuale, ma il risultato di una precisa volontà politica, che affondava le radici nelle relazioni tra il Partito Comunista Italiano (PCI) e il regime di Tito.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Jugoslavia si presentò come un modello peculiare di comunismo nazionale, separato da Mosca, ma ancora vicino agli ideali marxisti-leninisti. Il PCI di Palmiro Togliatti, fortemente allineato con l’Unione Sovietica, sostenne per lungo tempo il leader jugoslavo, considerandolo un baluardo della rivoluzione socialista nei Balcani. Questo sostegno non fu solo teorico, ma si tradusse in una tacita accettazione delle violenze commesse dai partigiani titini contro gli italiani. Gli eccidi delle foibe furono in gran parte il risultato di una politica di epurazione politica ed etnica, volta a eliminare non solo ex fascisti, ma chiunque fosse ritenuto un ostacolo all’annessione di Istria, Dalmazia e Fiume alla Jugoslavia. Tra le vittime, oltre a funzionari del regime fascista, vi furono numerosi antifascisti italiani, sacerdoti, insegnanti, semplici cittadini accusati di “italianità”.

Il PCI, pur essendo ben consapevole di quanto accadeva al confine orientale, preferì non condannare le azioni titine. Anzi, molti esponenti comunisti italiani giustificarono apertamente le stragi, ritenendole una necessaria “resa dei conti” contro i crimini fascisti. Questo atteggiamento non si limitò alla propaganda: in alcune zone dell’Italia settentrionale, esponenti del PCI collaborarono attivamente con i partigiani jugoslavi nella deportazione e nell’eliminazione di italiani ritenuti ostili al nuovo ordine socialista. L’accusa di “fascismo” divenne un pretesto per colpire chiunque si opponesse alla dominazione jugoslava, e tra gli infoibati vi furono numerosi militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, avevano cercato di difendere la popolazione dalle violenze titine.

L’ostilità della sinistra italiana a riconoscere queste responsabilità si è protratta per decenni. Fino agli anni ’90, parlare delle foibe significava essere accusati di revisionismo o, peggio, di filo-fascismo. Il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004, venne accolto con freddezza da ampi settori della sinistra, che cercarono di ridimensionarne la portata, sostenendo che si trattasse di una “strumentalizzazione politica della destra”. Ancora oggi, esistono ambienti culturali e politici che minimizzano l’accaduto, riducendolo a una “vendetta antifascista” o contestualizzandolo in modo da diluirne la gravità. L’opera di Tarticchio si inserisce in questo dibattito con una forza dirompente, perché non si limita a denunciare i crimini titini, ma mette in luce anche il peso del silenzio e della complicità politica italiana.

Dal punto di vista emotivo, il libro ha un impatto devastante sul lettore. Il dolore di Tarticchio per la perdita del padre e per l’esilio forzato emerge con una potenza narrativa che rende impossibile rimanere indifferenti. C’è la nostalgia per una terra perduta, c’è la rabbia per l’ingiustizia subita, ma c’è anche una dignità profonda che attraversa ogni pagina. Il libro non indulge in toni di vendetta, né cerca di esasperare il pathos: racconta con lucidità e partecipazione, lasciando che siano i fatti a parlare. Questa è una delle grandi qualità dell’opera: riesce a trasmettere l’enormità della tragedia senza mai scadere nella retorica.

Nel confronto con altre opere sullo stesso tema, Sono scesi i lupi dai monti si distingue per il suo approccio autobiografico e intimista. Se libri come Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria di Gianni Oliva o Il lungo esodo di Raoul Pupo offrono un’analisi storica rigorosa, Tarticchio preferisce il linguaggio della memoria diretta. Questo lo avvicina, per certi versi, a Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani di Jan Bernas, che raccoglie testimonianze dell’esodo e delle violenze subite dagli istriani. Tuttavia, la differenza principale sta nel fatto che Tarticchio non si limita a raccontare i fatti, ma li vive in prima persona, trasportando il lettore nel suo dolore.

L’attualità del libro è evidente. In un’epoca in cui il revisionismo storico è spesso strumentalizzato da entrambe le parti politiche, Sono scesi i lupi dai monti è un’opera che richiama alla necessità di una memoria onesta, libera da condizionamenti ideologici. La questione delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata non è solo un capitolo del passato, ma un tema ancora oggi divisivo, come dimostrano le polemiche che ogni anno accompagnano il Giorno del Ricordo. La difficoltà di ammettere le responsabilità della sinistra italiana è un problema che persiste: se da un lato vi è stata una progressiva apertura verso il riconoscimento delle vittime, dall’altro rimane una reticenza a fare i conti con il ruolo che il PCI e le sue ramificazioni ebbero in quegli anni. Il rifiuto di accettare questa parte della storia è il segno di una memoria ancora incompleta.

Dal punto di vista critico, il principale limite del libro potrebbe essere proprio la sua forte carica emotiva, che talvolta prevale sull’analisi storica. Tuttavia, questo non è un difetto intrinseco dell’opera, bensì una sua caratteristica: Sono scesi i lupi dai monti non è un saggio, ma una testimonianza personale, e come tale va letta e compresa. Il valore dell’opera sta nella sua autenticità, nella sua capacità di restituire voce a una vicenda che per troppo tempo è stata taciuta.

In conclusione, il libro di Piero Tarticchio è un contributo prezioso alla conoscenza di un dramma storico che non può più essere ignorato o sminuito. È un’opera che non si limita a raccontare il passato, ma interroga il presente, ponendo domande scomode su responsabilità, complicità e silenzi. In un momento storico in cui la memoria è sempre più fragile e selettiva, libri come questo ci ricordano che la verità storica non si misura con il colore politico, ma con la capacità di riconoscere le sofferenze e le ingiustizie, indipendentemente da chi le ha commesse.