Nel panorama della narrativa ucronica italiana, Occidente di Mario Farneti, pubblicato nel 2001 da Editrice Nord, occupa un posto di assoluto rilievo per audacia immaginativa, coerenza strutturale e potenza evocativa. L’ipotesi alla base del romanzo è tanto semplice quanto deflagrante: cosa sarebbe accaduto se il fascismo avesse vinto la Seconda guerra mondiale? La risposta di Farneti non si limita a una variazione storica, ma si spinge oltre, costruendo un intero universo parallelo in cui l’Italia – cuore di un Impero tecnocratico, militarizzato e profondamente ideologizzato – è diventata una superpotenza planetaria nel XXI secolo. Un gioco di specchi inquietante e provocatorio, che ha il merito di non indulgere mai nel revisionismo nostalgico, ma di esplorare con sguardo lucido e narrativamente potente le derive e i paradossi di un simile scenario.
Il fascino dell’ucronia in Occidente nasce proprio dall’originalità dell’ambientazione: Farneti non si limita a sostituire i vincitori della guerra, ma reimmagina radicalmente l’assetto del mondo contemporaneo. L’Italia fascista sopravvissuta è diventata una nazione dominatrice, ma anche chiusa, gerarchica, ossessionata dal controllo sociale e dalla purezza morale. Ciò che colpisce è la credibilità con cui questo universo alternativo viene tratteggiato: non una caricatura grottesca, bensì un meccanismo che funziona secondo una logica interna coerente e inquietante. L’Impero latino, esteso dall’Europa al Medio Oriente, è regolato da un sistema ferreo di caste, codici e rituali politici, in cui la modernità tecnologica convive con una visione arcaica dell’ordine e dell’autorità. La propaganda è pervasiva, il dissenso inesistente, l’identità nazionale assoluta. Eppure, questo mondo ci attrae proprio perché somiglia in modo sinistro al nostro, portando all’estremo tendenze che esistono – magari in forma latente – anche nella società reale.
Farneti adotta uno stile narrativo che rispecchia perfettamente l’urgenza e la tensione della storia che racconta. Il ritmo è serrato, quasi cinematografico, con capitoli brevi e azioni incalzanti. Il linguaggio è asciutto, concreto, privo di orpelli, ma al tempo stesso carico di dettagli tecnici e culturali che conferiscono profondità e verosimiglianza all’universo descritto. Il lettore è trascinato dentro un turbine di eventi – attentati, complotti, fughe, interrogatori, battaglie – che non danno tregua e alimentano una costante suspense. Farneti riesce nel difficile compito di rendere avvincente un romanzo fortemente ideologico, senza cadere mai nella pedanteria né nella semplificazione.
Al centro del romanzo si staglia la figura di Romano Tebaldi, ufficiale dei Servizi Segreti Imperiali, spietato, razionale, devoto al regime, eppure capace di emozioni e dubbi che ne incrinano l’apparente granitica fedeltà. Tebaldi è un personaggio ambiguo e affascinante, moderno nel suo pragmatismo ma arcaico nella sua concezione dell’onore e della disciplina. Non è un eroe positivo, né un mero esecutore: è l’uomo nuovo del fascismo, perfettamente addestrato a combattere il nemico esterno e quello interno, ma anche segnato da una tensione irrisolta tra il dovere e il pensiero critico. In lui si condensa la visione antropologica del regime, che punta a creare un individuo forte, risoluto, fedele, eppure profondamente solo.
Il mondo alternativo immaginato da Farneti si regge su una complessa rete di relazioni geopolitiche che riflettono le coordinate ideologiche del romanzo. Gli Stati Uniti, decadenti e corrotti, rappresentano l’Occidente “vero” da abbattere; la Russia è un colosso ancora minaccioso ma contenuto; l’Islam è stato domato e integrato nell’Impero latino. Le alleanze si stringono in base a interessi strategici e affinità ideologiche, in un gioco di potere che richiama alla mente la Guerra Fredda, ma anche i nuovi conflitti globali post-11 settembre. Farneti descrive una società gerarchica, guidata da un’élite tecnocratica e militare, in cui la meritocrazia convive con la delazione, la purezza con la repressione. La famiglia è sacralizzata, l’omosessualità criminalizzata, la cultura strettamente sorvegliata. Un sistema che appare efficiente, perfino seducente nella sua razionalità, ma che tradisce a ogni passo l’assenza di libertà e di vera umanità.
Particolarmente interessante è l’elaborazione del progresso tecnologico in un contesto autoritario. Farneti immagina un mondo in cui le conquiste scientifiche – dall’ingegneria genetica all’aeronautica avanzata, dai sistemi di sorveglianza alle armi futuristiche – sono poste al servizio di uno Stato che mira al dominio totale. La tecnologia non è neutrale: è strumento di potere, espressione della volontà imperiale di controllare ogni aspetto della vita umana. Eppure, proprio questa modernità “deviata” rende il romanzo ancora più inquietante, perché ci obbliga a chiederci quanto sia sottile il confine tra civiltà e barbarie quando la scienza viene piegata all’ideologia.
Farneti non scrive solo un romanzo ucronico, ma una vera e propria riflessione narrativa sul potere, sulla storia e sulle possibilità – anche mostruose – del futuro. Un’opera provocatoria e lucida, che merita di essere letta (e riletta) non solo per il piacere dell’intreccio, ma per l’intelligenza con cui rilegge le paure, i sogni e le ombre del nostro tempo.
Ma il vero nucleo pulsante di Occidente risiede nella sua capacità di sollevare interrogativi morali scomodi, che superano la cornice della narrativa di genere e si insinuano nei gangli più profondi del nostro immaginario politico e civile. Farneti, con lucida spregiudicatezza, ci obbliga a confrontarci con una verità tanto sgradevole quanto reale: un regime totalitario può essere efficiente, può portare ordine, sicurezza, persino progresso. Il lettore si ritrova, quasi controvoglia, ad ammirare l’efficacia del sistema, la coerenza delle sue istituzioni, la solidità dei suoi apparati. Ma è proprio in questa ammirazione che si cela la trappola. Farneti non ci offre una distopia dichiarata, non ci presenta un mondo apertamente mostruoso: ci presenta un mondo che funziona. Ed è proprio questa efficienza a rendere più inquietante il suo racconto. Dove si colloca, allora, il discrimine tra giustizia e oppressione? Quanto siamo disposti a sacrificare della nostra libertà per ottenere sicurezza? È una domanda che attraversa in filigrana tutto il romanzo e che si riflette, senza forzature, sul presente.
Il confronto con la storia reale è inevitabile, e Farneti lo sa bene. In Occidente, la Storia ha preso un’altra piega: l’Italia ha sconfitto gli Alleati, Mussolini è sopravvissuto e l’Impero Latino domina mezza Europa e parte del Medio Oriente. L’autore gioca con una forma raffinata di anacronismo immaginativo, chiedendosi cosa sarebbe successo se certe decisioni, certe battaglie, certi uomini avessero avuto esiti differenti. Il risultato è un affresco che mette in discussione il nostro rapporto con la memoria storica. L’Italia reale del dopoguerra si è costruita sull’antifascismo, ma Occidente ci mostra un’Italia che si è costruita sull’orgoglio imperiale, sulla disciplina, sull’efficienza. La provocazione è chiara: la nostra identità nazionale è frutto di contingenze o di scelte morali? È un gioco di specchi inquietante, che ci restituisce una visione alternativa della nostra stessa civiltà, e ci costringe a chiederci quanto siano solide le fondamenta etiche su cui abbiamo costruito la democrazia.
In questo senso, Occidente si inserisce con autorevolezza in una tradizione letteraria e cinematografica che ha già esplorato la vertigine dell’ucronia totalitaria. Il riferimento più immediato è Fatherland di Robert Harris, con la sua Germania nazista sopravvissuta e perfettamente funzionante, ma non meno significativa è la vicinanza tematica con Il complotto contro l’America di Philip Roth, dove la democrazia statunitense viene gradualmente corrotta da un populismo fascistoide. Anche il cinema distopico – da Brazil di Gilliam a V per Vendetta, passando per Equilibrium – sembra riecheggiare nelle pagine di Farneti, per l’attenzione maniacale alla sorveglianza, alla ritualizzazione della vita pubblica, alla repressione camuffata da ordine superiore. Eppure, Farneti conserva una voce propria, ancorata alla specificità della storia italiana e capace di reinterpretarla con un coraggio narrativo raro nel panorama nazionale.
Occidente non è un’opera isolata: è il primo capitolo di una trilogia che trova negli episodi successivi, Attacco all’Occidente e Nuova Europa, uno sviluppo coerente e sempre più ambizioso. Farneti espande il suo universo con coerenza e precisione, mantenendo costante la tensione ideologica e la profondità della costruzione geopolitica. La trilogia, nel suo insieme, si configura come un affresco monumentale dell’”altro Novecento”, un lungo esperimento narrativo in cui l’autore non si limita a descrivere, ma analizza, sonda, mette in crisi. Ogni volume amplia lo spettro delle implicazioni politiche e morali, introducendo nuovi personaggi, nuove sfide, nuovi nodi da sciogliere. È una saga che, pur nell’aderenza al genere ucronico, si avvicina per ambizione e struttura a certi cicli della fantascienza classica, dove l’universo narrativo diventa un laboratorio per interrogare la natura dell’uomo e della civiltà.
Il successo di Occidente è stato accompagnato, com’era prevedibile, da un acceso dibattito culturale e politico. Il romanzo è stato spesso frainteso, accusato di simpatia per le ideologie che mette in scena. Ma questa lettura superficiale ne tradisce il senso più profondo. Farneti non scrive per compiacere o per educare: scrive per scuotere, per porre domande, per rimettere in discussione le certezze consolidate. La sua è una provocazione colta, perfettamente consapevole del rischio che corre, e proprio per questo meritoria. In un’epoca in cui il dibattito pubblico tende alla semplificazione, Occidente ha il coraggio di proporre una narrazione scomoda, stratificata, ambigua. E in questa ambiguità – inquietante, stimolante, a tratti insopportabile – risiede la sua forza. Non ci offre risposte, ma ci lascia con una domanda cruciale: se l’ordine, la potenza e il benessere venissero garantiti da un regime assoluto, saremmo davvero sicuri di volerli rifiutare?
È in questa tensione etica, politica e narrativa che Occidente trova la sua grandezza. Un romanzo che disturba, affascina, divide. Ma soprattutto, un romanzo che pensa. E che ci costringe a pensare.