“Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca” di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky (1997)

Il crollo dell’Unione Sovietica ha rappresentato un punto di svolta non solo nella geopolitica globale, ma anche nella storiografia del comunismo occidentale. L’apertura degli archivi di Mosca ha permesso agli studiosi di accedere a una mole imponente di documenti inediti, gettando nuova luce sulle relazioni tra i partiti comunisti europei e il Cremlino. Tra i contributi più significativi emersi da questa documentazione vi è il saggio Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, che, attraverso un’analisi rigorosa delle fonti sovietiche, ridimensiona il mito dell’autonomia del Partito Comunista Italiano e ne ridefinisce il ruolo all’interno della strategia internazionale di Stalin.

Il valore storiografico di questa ricerca risiede nella capacità degli autori di smantellare vecchie narrazioni basate su fonti parziali o su interpretazioni ideologiche. Per decenni, la storiografia sul PCI ha oscillato tra due posizioni contrapposte: da un lato, la visione apologetica che dipingeva il partito come una forza indipendente e radicata nel contesto italiano, capace di adattare il marxismo-leninismo alla realtà nazionale; dall’altro, un’interpretazione più critica che metteva in evidenza la sua sostanziale subordinazione all’URSS. Il lavoro di Aga Rossi e Zaslavsky fornisce prove documentali che spostano l’ago della bilancia verso questa seconda lettura, mostrando come il PCI fosse, in realtà, un ingranaggio fondamentale della politica estera staliniana.

Al centro del saggio vi è la figura di Palmiro Togliatti, leader indiscusso del PCI dal 1927 fino alla sua morte nel 1964. La documentazione emersa dagli archivi sovietici rivela un Togliatti molto più vincolato alle direttive del Cremlino di quanto egli stesso abbia mai voluto ammettere. Se da un lato il segretario comunista riuscì a costruire un’immagine di grande statista, capace di mediare tra le esigenze del partito e le peculiarità del contesto italiano, dall’altro la sua fedeltà a Stalin appare innegabile. I telegrammi, le corrispondenze e i resoconti delle riunioni tra i dirigenti sovietici e quelli del PCI mostrano come Togliatti non solo ricevesse istruzioni precise, ma fosse anche consapevole dei limiti della propria azione politica. La domanda centrale che emerge dalla ricerca è dunque se Togliatti fosse un leader con margini di autonomia o un mero esecutore delle volontà di Mosca. Il saggio suggerisce che, pur avendo una certa abilità nel gestire le contingenze politiche italiane, il capo del PCI non poteva discostarsi troppo dalle direttive sovietiche senza compromettere la fiducia di Stalin e, con essa, le fondamenta del partito stesso.

Un aspetto cruciale analizzato dagli autori è l’influenza diretta di Stalin sulla politica italiana del dopoguerra. L’Unione Sovietica considerava il PCI un tassello importante nello scacchiere europeo e utilizzava il partito per esercitare pressione sull’Italia, che, pur rimanendo sotto l’egida occidentale, era vista come una possibile area di espansione dell’influenza comunista. Stalin non si limitava a fornire supporto ideologico e finanziario, ma interveniva direttamente nelle strategie del PCI, come dimostrano i documenti che attestano la sua partecipazione alle scelte più cruciali del partito. Il PCI agiva dunque nell’interesse dei lavoratori italiani o era uno strumento della politica estera sovietica? Aga Rossi e Zaslavsky propendono per la seconda ipotesi, evidenziando come le decisioni più rilevanti del PCI, dalla partecipazione al governo di unità nazionale alla successiva opposizione alla NATO, fossero in larga misura dettate da logiche geopolitiche più che da reali esigenze interne.

In questa prospettiva si inserisce la celebre svolta di Salerno del 1944, uno dei momenti più emblematici della storia del PCI e della politica italiana del dopoguerra. La decisione di Togliatti di sostenere il governo Badoglio e di rinunciare alla pregiudiziale repubblicana fu presentata all’epoca come una scelta strategica autonoma, finalizzata a garantire stabilità al paese e a rafforzare la presenza comunista nelle istituzioni. Tuttavia, gli archivi sovietici svelano una realtà ben diversa: la svolta non fu il frutto di un calcolo politico interno, ma una decisione imposta direttamente da Mosca. Stalin, impegnato nella gestione del conflitto mondiale e nei negoziati con gli Alleati, aveva interesse a evitare una destabilizzazione dell’Italia che avrebbe potuto compromettere i suoi piani per l’Europa orientale. Di conseguenza, ordinò a Togliatti di adottare una linea più moderata, accettando il compromesso con la monarchia e collaborando con le altre forze politiche antifasciste. Il saggio mostra come questa scelta abbia avuto conseguenze di lungo periodo, determinando l’inserimento del PCI nel quadro istituzionale italiano, ma anche sancendone, di fatto, la subalternità all’Unione Sovietica.

Con l’inizio della Guerra Fredda, il PCI si trovò di fronte a un dilemma ancora più stringente: mantenere una certa indipendenza politica per conquistare il consenso di ampi settori della società italiana o restare fedele alle direttive sovietiche a costo di perdere spazio nel contesto democratico occidentale. Il libro di Aga Rossi e Zaslavsky chiarisce come il PCI abbia tentato di giocare su entrambi i fronti, cercando di proporsi come un partito di massa radicato nella democrazia, ma senza mai rompere il legame con Mosca. Questo equilibrio precario portò a contraddizioni evidenti, come l’appoggio a movimenti di protesta contro il Piano Marshall e la NATO, pur continuando a partecipare al gioco democratico. Il saggio suggerisce che, nonostante le apparenze, il PCI non fu mai realmente disposto a distaccarsi dall’Unione Sovietica, accettando di sacrificare la possibilità di una reale integrazione nella politica italiana pur di mantenere il sostegno del Cremlino.

In definitiva, Togliatti e Stalin offre una ricostruzione storica dettagliata e documentata di uno dei capitoli più complessi della storia politica italiana. L’analisi degli archivi sovietici permette di superare le letture ideologiche del passato e di comprendere meglio il ruolo del PCI nella politica italiana e internazionale. Il libro dimostra come, dietro la facciata di un partito autonomo e capace di interpretare le esigenze nazionali, si celasse una realtà ben diversa, fatta di obbedienza, compromessi e strategie dettate dall’Unione Sovietica.

Per decenni, l’autonomia del Partito Comunista Italiano è stata al centro di un acceso dibattito storico e politico. La narrazione ufficiale, alimentata dallo stesso PCI e da parte della storiografia vicina alla sinistra, ha cercato di accreditare l’idea di un partito indipendente, capace di sviluppare una propria strategia politica distinta dalle direttive sovietiche. Questo mito dell’autonomia ha resistito a lungo, in parte perché il PCI è riuscito a ritagliarsi uno spazio peculiare nel panorama europeo, promuovendo l’idea di un “comunismo nazionale” che avrebbe dovuto distinguersi dal modello imposto dall’URSS nei paesi del Patto di Varsavia. Tuttavia, il saggio di Aga Rossi e Zaslavsky, basandosi sulle carte degli archivi sovietici, dimostra in maniera inconfutabile come questa indipendenza fosse più una costruzione propagandistica che una realtà politica.

L’analisi dei documenti rivela che Mosca non solo finanziava il PCI, ma ne orientava direttamente le scelte strategiche, intervenendo nelle decisioni cruciali e dettandone la linea nei momenti più delicati della politica italiana. Il PCI, dunque, non era un partito realmente autonomo, ma un’estensione della politica estera sovietica, vincolato agli interessi di Stalin prima e ai suoi successori poi. Questa tesi, sebbene già emersa in studi precedenti, viene qui corroborata da prove documentali che mettono in discussione letture più indulgenti sul ruolo del PCI nel secondo dopoguerra. Alcuni storici, infatti, hanno sostenuto che, pur essendo legato all’URSS, il PCI abbia sviluppato una propria via al socialismo, cercando di conciliare la fedeltà ideologica con le esigenze della politica nazionale. Il saggio smonta questa interpretazione, mostrando come la leadership comunista italiana fosse costantemente sotto la supervisione del Cremlino e come ogni tentativo di divergenza venisse immediatamente ricondotto all’ordine.

Un altro aspetto rilevante analizzato nel libro è il rapporto tra il PCI e le altre forze politiche italiane. Nella fase immediatamente successiva alla Seconda guerra mondiale, il PCI fu parte integrante del governo di unità nazionale, insieme alla Democrazia Cristiana, ai socialisti e ad altre forze antifasciste. Tuttavia, con l’inizio della Guerra Fredda e la conseguente espulsione dal governo nel 1947, il partito adottò una strategia di dura opposizione, che oscillava tra la ricerca di legittimazione democratica e l’intransigenza ideologica. Il PCI mantenne sempre un atteggiamento ambivalente nei confronti della DC: da un lato, cercava un dialogo per conquistare spazi di manovra all’interno del sistema istituzionale, dall’altro, alimentava un conflitto politico e sociale che contribuì a rendere l’Italia uno dei principali teatri della contrapposizione tra blocchi.

Il saggio evidenzia come la relazione con il Partito Socialista Italiano sia stata altrettanto complessa. Per anni, il PCI cercò di mantenere il PSI in una posizione subalterna, temendo che una sua autonomia potesse erodere il consenso comunista. La rottura definitiva avvenne con la svolta autonomista di Pietro Nenni e l’ingresso del PSI nel centrosinistra negli anni Sessanta, scelta che segnò la fine di ogni possibilità di egemonia comunista sulla sinistra italiana. Questa frammentazione contribuì all’instabilità politica del dopoguerra, rendendo impossibile qualsiasi progetto unitario che potesse rappresentare un’alternativa credibile alla Democrazia Cristiana.

Un elemento chiave del libro riguarda l’influenza dell’ideologia comunista sulle scelte strategiche del PCI. Se da un lato il partito cercò di presentarsi come una forza pragmatica, capace di interagire con le istituzioni democratiche, dall’altro non riuscì mai a liberarsi completamente da una visione dogmatica della politica. L’adesione alla linea sovietica, anche nei momenti più controversi – dalla repressione in Ungheria nel 1956 all’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 – dimostra come il PCI fosse incapace di distaccarsi realmente dal modello sovietico. Aga Rossi e Zaslavsky mostrano che il pragmatismo di facciata celava una rigida fedeltà ideologica che limitava le reali possibilità di evoluzione del partito. Anche quando Enrico Berlinguer, negli anni Settanta, cercò di promuovere l’idea del “compromesso storico” e di prendere le distanze dall’URSS, il PCI non riuscì mai a compiere un vero strappo, rimanendo vincolato a un’identità che lo rese incapace di diventare un partito di governo.

Il saggio ha suscitato un acceso dibattito storiografico e politico, dividendo gli studiosi tra chi ne ha apprezzato il rigore documentale e chi lo ha criticato per una presunta eccessiva insistenza sulla subordinazione del PCI a Mosca. Alcuni storici di orientamento progressista hanno sottolineato come il libro rischi di ridurre il PCI a un semplice strumento dell’URSS, trascurando le dinamiche interne al partito e la sua capacità di costruire una base di consenso indipendente in Italia. Tuttavia, le critiche più significative non mettono in discussione le prove presentate, ma piuttosto l’interpretazione che ne viene data. È innegabile che il PCI abbia avuto una forte identità nazionale, ma il saggio dimostra che questa non si tradusse mai in una reale autonomia politica.

Le implicazioni del libro sulla percezione storica del PCI e della sinistra italiana sono profonde. Se per anni il PCI è stato descritto come un partito radicato nella democrazia, il lavoro di Aga Rossi e Zaslavsky costringe a riconsiderare il suo ruolo alla luce delle influenze esterne. La sinistra italiana, erede di quella tradizione, ha dovuto fare i conti con questo passato, e la difficoltà di sciogliere definitivamente il nodo del rapporto con l’URSS è ancora evidente nel dibattito politico contemporaneo. Sebbene il PCI si sia dissolto nel 1991, la sua eredità continua a pesare sulla politica italiana, con molte delle sue ex componenti ancora attive nella vita pubblica.

Togliatti e Stalin rappresenta dunque un contributo fondamentale per la comprensione della storia del comunismo italiano e delle sue contraddizioni. L’accesso agli archivi sovietici ha permesso di chiarire aspetti a lungo oscuri e di offrire una visione più completa del ruolo del PCI nel contesto della Guerra Fredda. Se la memoria storica del partito è stata a lungo oggetto di una narrazione selettiva, questo saggio fornisce una base solida per una rilettura critica del suo operato e della sua effettiva capacità di influenzare la politica italiana al di là dei dettami di Mosca.