Nel panorama della letteratura novecentesca, Uno, nessuno e centomila rappresenta forse la più estrema e radicale riflessione sull’identità. Luigi Pirandello non si limita a mettere in dubbio la coerenza dell’io, ma lo disintegra con un gesto di disperata lucidità. Vitangelo Moscarda, il protagonista, è l’uomo comune che scopre l’abisso, il borghese ben inserito che inciampa nella più devastante delle rivelazioni: quella della propria inconsistenza. Tutto comincia con un’osservazione banale — il proprio naso leggermente storto — ma da quel dettaglio apparentemente insignificante si spalanca il vuoto. Se il mio naso non è quello che io credo, allora chi sono io per gli altri? E se gli altri vedono cento, mille immagini diverse di me, qual è quella vera?
Da questa domanda, il romanzo innesca una demolizione sistematica della soggettività. L’identità, che Moscarda credeva solida e autonoma, si rivela una costruzione altrui, un riflesso frammentato negli sguardi degli altri. La formula che dà il titolo all’opera – uno, nessuno e centomila – è una sintesi brutale: uno per sé, centomila per gli altri, nessuno in fondo, quando ci si accorge che quell’“uno” era solo un’illusione. Pirandello mette così in scena una crisi identitaria che precede di decenni la riflessione postmoderna sul sé come molteplice, fluido, sociale.
Il romanzo si muove come un’indagine paranoica, ma razionale, sull’essere e sull’apparire. Moscarda si osserva attraverso lo sguardo della moglie, degli amici, dei conoscenti: ognuno ha di lui un’immagine differente, nessuna delle quali corrisponde alla sua. E anche la sua, in fondo, è solo un’idea arbitraria, abitudine, autoconvinzione. Lo sguardo altrui diventa lo specchio deformante in cui l’io si moltiplica e si smarrisce. Pirandello anticipa qui con straordinaria acutezza molte delle domande che oggi agitano la sociologia dell’identità e la psicologia sociale: quanto di ciò che siamo è davvero nostro, e quanto è una maschera per gli altri?
Eppure, anche il linguaggio stesso – lo strumento teoricamente destinato a esprimere l’identità – viene messo sotto accusa. Le parole che usiamo per definirci e per definire il mondo non comunicano, tradiscono. Ogni etichetta – “marito”, “onesto”, “usuraio”, “caritatevole” – incasella, distorce, semplifica. Moscarda si rende conto che il linguaggio non è un ponte, ma una prigione: più cerchiamo di dire chi siamo, più ci allontaniamo da ciò che siamo davvero. Così Pirandello decostruisce non solo l’io, ma anche il codice attraverso cui l’io si rappresenta: il romanzo stesso, in quanto forma linguistica, diventa consapevole del proprio fallimento.
In questa progressiva spoliazione, la società non può che reagire con diffidenza e orrore. Moscarda, che smette di comportarsi come ci si aspetta da lui, viene etichettato come folle. Ma la sua è una follia che rivela le ipocrisie e le convenzioni degli altri, non un’allucinazione personale. In un mondo che si regge su ruoli, copioni, simulazioni condivise, chi smette di recitare appare come un pericolo, un perturbatore dell’ordine costituito. La sua “pazzia” è un atto di libertà estrema, il rifiuto di ogni forma predefinita. È un’uscita dalla scena, un dire “no” alla commedia sociale. E qui si pone la domanda cruciale: chi è il vero folle? Colui che rinuncia a ogni finzione o chi resta aggrappato a una maschera, incapace di guardare oltre?
Proprio il concetto di maschera, già centrale nel teatro pirandelliano, trova in questo romanzo la sua più radicale elaborazione. Non si tratta più solo di personaggi che indossano maschere sociali, ma della completa evaporazione del volto. Moscarda non si limita a cambiare ruolo: li smonta tutti, uno dopo l’altro, fino a scoprire che sotto non c’è nulla. L’io non è un’essenza nascosta dietro le maschere, ma un gioco di specchi, un’illusione nata dallo sguardo e dal linguaggio. In questo senso, Uno, nessuno e centomila è l’opera in cui Pirandello non solo mette a nudo il meccanismo delle identità fittizie, ma ne denuncia l’inconsistenza ontologica.
Il percorso di Moscarda è dunque un’ascesi alla rovescia: non verso un’identità autentica, ma verso la dissoluzione di ogni identità. E paradossalmente, in quella dissoluzione trova una sorta di pace, o almeno una quieta accettazione del nulla. Il romanzo si chiude non con una riconciliazione, ma con un silenzio. Un silenzio che suona come l’unica risposta possibile alla domanda: chi sono io?
Se Uno, nessuno e centomila si apre come un viaggio interiore, è anche, e forse soprattutto, un atto di accusa feroce contro la società borghese del primo Novecento, vista da Pirandello come un teatro di convenzioni vuote, di ruoli imposti e di ipocrisie strutturali. Vitangelo Moscarda è il figlio di un usuraio, cresciuto in una posizione sociale privilegiata, ma compromessa. È inserito in un mondo in cui contano l’apparenza, il rispetto delle forme, la reputazione. La sua crisi nasce anche da qui: dalla presa di coscienza che quel mondo è una costruzione artificiale, retta da un codice di finzioni, da interessi mascherati da valori, da obblighi camuffati da affetti. Ogni tentativo di Moscarda di sottrarsi a questo sistema viene immediatamente etichettato come stravaganza, poi come squilibrio, infine come malattia. La società, in Pirandello, non tollera l’eccezione, né la devianza: solo chi recita bene il proprio ruolo ha diritto di esistere.
La satira sociale, tuttavia, non si ferma alla superficie. Pirandello non si limita a ridicolizzare la borghesia; la smonta nei suoi meccanismi profondi. L’usura non è solo un mestiere ereditato dal padre, è una metafora della relazione umana nella società moderna: tutto è debito, scambio, credito morale o sociale. Anche la carità, che Moscarda tenta di esercitare per liberarsi dal suo ruolo di usuraio, è fraintesa e piegata a una logica di potere e apparenza. Il gesto gratuito non esiste: tutto viene assorbito e normalizzato dalle strutture del consenso. È la denuncia, amarissima, di un mondo dove non c’è più spazio per l’autenticità.
A sorreggere questa visione disillusa è un sostrato filosofico complesso, che affonda le radici nel pensiero europeo tra Otto e Novecento. Pirandello non è un filosofo sistematico, ma dialoga con le grandi inquietudini dell’epoca. In Uno, nessuno e centomila riecheggiano le intuizioni di Schopenhauer, con la sua idea della realtà come rappresentazione, dell’individuo come illusione fenomenica, destinata alla sofferenza. Ma ancor più forte è l’eco di Nietzsche: nella radicale messa in discussione della morale borghese, nella volontà di spezzare ogni maschera, nel gesto di affermare una libertà assoluta, anche se vuota. C’è qualcosa di tragico e insieme eroico nella figura di Moscarda, che – come l’Oltreuomo – sceglie di abbandonare le certezze della tradizione per abbracciare il caos del divenire. Ma a differenza del pensatore tedesco, Pirandello non intravede una ricostruzione possibile: non c’è un nuovo ordine, un nuovo valore, solo il fluire senza forma della vita.
E proprio in questo abbandono si tocca il cuore del nichilismo. Il protagonista rinuncia a tutto: al nome, alla carriera, all’amore, perfino al sé. È una caduta nel nulla? O è, come suggerisce il tono dell’ultima pagina, una forma paradossale di salvezza? Pirandello non risolve l’ambiguità. Da un lato, il vuoto che Moscarda abita è desolante: è il luogo in cui ogni significato si è dissolto. Dall’altro, è anche l’unico spazio in cui qualcosa di autentico può forse accadere. Un’esistenza fatta di attimi, senza più maschere, senza più ruoli. È un’esistenza minima, elementare, ma libera. Si può leggere questa rinuncia come un gesto mistico, una sorta di ascesi laica, oppure come la sconfitta finale dell’individuo nella modernità.
Anche per questo, il romanzo stesso si ribella alla forma. Uno, nessuno e centomila è un anti-romanzo: non ha una trama nel senso tradizionale, non ha sviluppo, conflitto, risoluzione. È piuttosto un monologo interiore, una lunga confessione, spesso frammentaria, interrotta, riflessiva. Moscarda non agisce, riflette. Non si muove nel mondo, lo decostruisce. In questo senso, il romanzo anticipa le sperimentazioni delle avanguardie europee, ma anche il modernismo di Joyce o Woolf, dove la coscienza prende il posto della narrazione. Pirandello mette in discussione non solo l’identità del personaggio, ma la stessa struttura della narrazione, rivelandone l’artificiosità.
Ma se tutto questo poteva sembrare allora una provocazione intellettuale, oggi risuona con inquietante attualità. Nell’era dei social network, dei profili digitali, degli avatar, Uno, nessuno e centomila sembra aver previsto la moltiplicazione dell’identità che ci riguarda tutti. Chi siamo su Instagram, su LinkedIn, in un commento anonimo? Siamo uno, centomila, o nessuno? Lo sguardo altrui continua a definirci, ma ora è moltiplicato all’infinito, potenzialmente globale. Le maschere non si tolgono, si accumulano. E la paura di non essere niente senza quelle maschere è diventata ansia diffusa, disagio generazionale.
Pirandello ci aveva avvertiti: l’identità è un’illusione necessaria, ma fragile. La sua decostruzione può portare alla follia o alla libertà, ma non lascia mai le cose come prima. Uno, nessuno e centomila non è solo un capolavoro della letteratura italiana, è una diagnosi spietata della modernità, che continua a parlarci con voce più viva che mai.