Nel romanzo La ciociara, pubblicato da Alberto Moravia nel 1957, la guerra non è solo sfondo storico o cornice narrativa: è un’entità pervasiva, disumanizzante, capace di scardinare ogni ordine morale e relazionale. La brutalità del conflitto penetra nel corpo e nell’anima dei personaggi, e trova la sua espressione più atroce nell’evento centrale del romanzo: lo stupro di Cesira e della figlia Rosetta da parte dei soldati marocchini alleati. Non è un episodio marginale, ma il cuore oscuro di tutta la narrazione, il punto in cui la storia cessa di essere racconto di sopravvivenza e si trasforma in denuncia, in trauma collettivo. Le cosiddette “marocchinate”, documentate e tragicamente reali, vengono rappresentate da Moravia senza compiacimento né retorica, ma con la consapevolezza che la violenza sessuale in guerra non è una deviazione, bensì uno strumento di potere, un linguaggio di dominio sui corpi delle donne, e più in profondità, sull’identità culturale e sociale di un popolo.
La violenza subita da Rosetta non ha solo un effetto devastante sul suo corpo adolescente, ma ne frantuma anche l’identità: da ragazza sensibile e silenziosa, votata a una forma di spiritualità pura e quasi ingenua, Rosetta si trasforma in una creatura alienata, irriconoscibile, che cerca nei gesti e nelle parole dei soldati una surrogazione malata del proprio valore. Cesira, la madre, assiste impotente a questa mutazione, ma ne è anche, in parte, la testimone silenziosa e il catalizzatore emotivo. Perché La ciociara è anche un romanzo sul legame profondo e lacerante tra madre e figlia, un legame che la guerra mette a dura prova, costringendo entrambe ad affrontare non solo il dolore del presente, ma anche le illusioni e i fraintendimenti del passato.
Cesira è una donna concreta, pratica, di origini popolari ma dotata di un istinto materno assoluto. Moravia le affida la narrazione in prima persona, ed è attraverso i suoi occhi che assistiamo alla discesa nell’abisso. Rosetta, invece, è la creatura fragile, spirituale, educata nei collegi religiosi, quasi angelicata nella sua riservatezza. Eppure, sarà proprio lei a soccombere alla brutalità del mondo. Il trauma rompe definitivamente la possibilità di comunicazione tra le due: la madre che cerca di proteggere la figlia a ogni costo si trova davanti a un vuoto, a una presenza svuotata di senso. La maternità, così, non è celebrata ma messa in discussione: può una madre proteggere davvero? Può l’amore bastare?
Alla devastazione interiore di Rosetta si aggiunge la domanda senza risposta sul ruolo del divino. Il romanzo non offre rifugio nella religione, non si fa portatore di una visione consolatoria. Al contrario, nel momento del dolore più profondo, la fede crolla o si rivela muta. Rosetta, che pregava con fervore, dopo lo stupro si chiude in un silenzio che è anche apostasia, smarrimento. Cesira, che pure ha sempre guardato con un certo scetticismo al fervore religioso della figlia, si ritrova anch’essa priva di strumenti spirituali. La guerra, sembra suggerire Moravia, non ammette redenzione né giustizia. Se c’è un Dio, è assente. La colpa, invece, rimane, e grava come una condanna sulle vittime stesse, che si sentono sporche, segnate, svuotate.
Tutto questo si inserisce in un contesto storico preciso e fortemente documentato: l’Italia del 1943-1944, il collasso del regime fascista, l’occupazione tedesca, l’ingresso degli Alleati, l’ambiguità morale della Resistenza. Moravia non mitizza né idealizza. La Resistenza appare sullo sfondo, nei racconti degli uomini nascosti tra le montagne, ma non viene mai glorificata. È una realtà complessa, a volte contraddittoria. Il popolo è disorientato, stanco, sospeso tra fame e paura. L’Italia rappresentata è quella contadina e smarrita, lacerata da anni di propaganda e da un’improvvisa libertà che si manifesta più come caos che come riscatto.
Con La ciociara, Moravia ci obbliga a guardare in faccia l’orrore della storia, ma anche a interrogarci sulla fragilità degli affetti e sull’ambiguità della giustizia. Il romanzo non offre soluzioni, né speranza: solo una lucidità spietata e una compassione profonda, che non si traduce in pietismo, ma in partecipazione tragica. Cesira e Rosetta non sono solo due donne in fuga: sono due simboli di una nazione devastata, di una memoria che ancora oggi chiede di essere ascoltata.
Uno degli aspetti più incisivi de La ciociara è il linguaggio, che si presenta come uno strumento tagliente, spoglio, profondamente aderente alla materia narrata. Moravia sceglie un registro che rifiuta l’enfasi e la letterarietà, per abbracciare invece una forma espressiva asciutta, concreta, quasi brutale nella sua aderenza alla realtà. La voce narrante è quella di Cesira, e tutta la narrazione è filtrata attraverso la sua percezione del mondo. Questa scelta di focalizzazione interna non solo contribuisce a rafforzare l’autenticità della testimonianza, ma consente al lettore di entrare nella carne viva dell’esperienza, senza filtri ideologici o intellettualistici. Cesira non riflette in termini astratti: osserva, sente, reagisce, giudica secondo la propria esperienza quotidiana, e lo fa con un linguaggio immediato, popolare, che rispecchia il suo ceto sociale e la sua formazione. Ma è proprio in questa voce che si rivela la forza tragica del romanzo: nella semplicità del dolore, nella cruda constatazione dell’orrore.
In questo contesto, lo stile si fa specchio della realtà stessa. Non c’è spazio per la metafora o la lirica: ogni parola pesa, ogni descrizione incide. L’uso del dialetto, delle espressioni idiomatiche, delle frasi sospese o brusche, restituisce la durezza della vita durante la guerra e al tempo stesso la dignità di chi la affronta. Il tono, pur rimanendo sempre realistico, non cade mai nella cronaca sterile. La voce di Cesira è parte integrante della verità morale che il romanzo intende comunicare.
La divisione tra città e campagna, tra Roma e la Ciociaria, è un altro dei grandi temi del romanzo. Moravia costruisce una contrapposizione netta tra l’urbanità decadente della capitale — luogo della modernità, ma anche della corruzione e del disfacimento sociale — e il mondo arcaico, quasi immobile, della campagna. Cesira, pur essendo originaria della Ciociaria, è ormai una donna “di città”, commerciante autonoma, abituata a una certa modernità. Il suo ritorno forzato tra i monti assume i contorni di un viaggio nel tempo, ma anche in una realtà altra, dove il senso della comunità è ancora forte ma dove la povertà, la superstizione e l’ignoranza regnano sovrane. I contadini sono al tempo stesso ospitali e diffidenti, sottomessi al potere militare ma capaci di gesti di resistenza quotidiana. Moravia non li idealizza, ma nemmeno li condanna: li osserva con occhio critico, attento alle dinamiche sociali, alle diseguaglianze strutturali che la guerra rende ancora più evidenti.
Il corpo femminile, in La ciociara, diventa terreno di conquista e distruzione. È il luogo dove si esercita il potere maschile, militare, politico. La violenza subita da Cesira e Rosetta non è solo un atto fisico: è la simbolica distruzione della loro identità. Il corpo della donna, in questo contesto, è oggetto e campo di battaglia, strumento per umiliare l’altro — l’italiano sconfitto, il nemico, il “diverso”. Moravia mette in scena questa dimensione con spietata lucidità, senza mai cadere nel voyeurismo o nel pietismo. Il corpo femminile violato diventa simbolo della nazione stessa, occupata, sfruttata, devastata. Eppure, proprio in quel corpo martoriato sopravvive, anche se fragile e incrinata, una scintilla di dignità.
La guerra, in Moravia, è soprattutto spaesamento. Nessuno dei personaggi ha un vero controllo sul proprio destino. La fuga, l’attesa, l’adattamento passivo alla brutalità degli eventi, segnano l’intero percorso narrativo. Cesira, pur volitiva e combattiva, non può far altro che reagire, mai davvero agire. Rosetta, da parte sua, è una figura sempre più disarmata, preda di un mondo che non comprende e che la schiaccia. La guerra non è solo una catastrofe esterna, ma una condizione interiore di alienazione, in cui ogni certezza crolla e l’identità si frantuma. È il fatalismo — tratto tipico dell’universo moraviano — che domina, un senso di impotenza che si traduce in rassegnazione muta, in dolore trattenuto.
Nel 1960, La ciociara ha conosciuto una trasposizione cinematografica divenuta celebre grazie alla regia di Vittorio De Sica e all’interpretazione intensa di Sophia Loren, che valse all’attrice l’Oscar. Il film mantiene la struttura di base del romanzo, ma compie alcune scelte narrative e stilistiche significative. Prima fra tutte, la maggiore enfasi emotiva, che se da un lato rende più accessibile la storia al grande pubblico, dall’altro attenua in parte la spietata sobrietà della scrittura moraviana. La Loren, pur straordinaria, porta sullo schermo una Cesira più affascinante e carismatica rispetto alla figura più dimessa e concreta del romanzo. Inoltre, la dimensione della spiritualità di Rosetta viene trattata in modo più sfumato, quasi eluso. La violenza, nel film, pur rappresentata con coraggio per l’epoca, viene in parte stilizzata, e perde qualcosa della sua funzione di denuncia strutturale.
Eppure, nonostante queste differenze, il film riesce a conservare la potenza emotiva dell’originale, e anzi contribuisce a fissare nell’immaginario collettivo una memoria visiva della tragedia. Moravia stesso riconobbe il valore dell’adattamento, pur mantenendo la consapevolezza che il linguaggio del cinema non può sostituire quello della letteratura. Il romanzo, con la sua voce narrante intima, spoglia, inesorabile, continua a offrire una testimonianza unica, necessaria, che ci costringe a riflettere sul significato della guerra, sulla condizione femminile e sulla disumanità che si nasconde dietro le grandi narrazioni storiche.
La ciociara è, in definitiva, un romanzo che non si limita a raccontare: interroga, denuncia, ferisce. E lo fa con la forza della parola semplice, con la verità nuda della sofferenza. In un mondo che tende a dimenticare, la voce di Cesira continua a parlare — e a inquietarci.
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