La crisi del mondo moderno di René Guénon, (1927): recensione

In un’epoca in cui la parola “crisi” viene applicata indiscriminatamente a ogni aspetto della vita sociale, economica e ambientale, il saggio La crisi del mondo moderno di René Guénon – pubblicato nel 1927, ma sempre più attuale – restituisce a questo termine la sua valenza più profonda: non il semplice scarto tra una condizione stabile e una di turbamento, ma il punto di rottura ultimo di una lunga decadenza spirituale. Per Guénon, la crisi non è un accidente temporaneo del mondo moderno: ne è la forma finale, il risultato terminale di un processo degenerativo che ha radici antichissime e che si manifesta in un crollo dei princìpi metafisici su cui un tempo si fondavano le civiltà tradizionali.

La diagnosi guénoniana non è morale, ma ontologica. Non si tratta di un mondo divenuto semplicemente “peggiore”, ma di un mondo rovesciato, svuotato del suo asse trascendente. In questo senso, Guénon si distingue radicalmente sia dagli ottimisti del progresso, sia dai nostalgici del passato. La sua visione non indulge in sentimentalismi, ma si rivolge a chi è capace di scorgere nella crisi un segno escatologico, l’ultima fase di un ciclo cosmico, come quello del Kali Yuga nelle tradizioni induiste. In questo si avvicina, pur con presupposti molto differenti, a Oswald Spengler, il quale nella Decadenza dell’Occidente profetizza il tramonto ineluttabile della civiltà europea come esaurimento vitale di una forma culturale. Ma mentre Spengler parla in termini biologici e storicistici, Guénon adotta una prospettiva metafisica e trascendente: il mondo moderno è in crisi perché ha rotto il legame con l’Assoluto, con il Principio, con ciò che per secoli ha dato ordine e senso alle civiltà umane.

Da questa constatazione discende la sua radicale critica al mito del progresso, uno dei dogmi fondanti della modernità. Guénon smaschera l’idea di un’evoluzione storica costante e positiva come un’illusione pericolosa, frutto dell’inversione del tempo sacro, ciclico e fondato sul ritorno all’origine, con il tempo lineare e irreversibile della modernità. Il progresso, nella visione moderna, è legato a un’idea infantile di accumulo – di conoscenze, di ricchezze, di tecnologie – che però non comporta alcuna crescita interiore. Al contrario, è una regressione mascherata, una corsa verso la disintegrazione spirituale. Come scrive Guénon, “non si può uscire dalla decadenza se non salendo, non progredendo nel senso moderno, ma risalendo verso il Principio”.

Questo movimento discendente si manifesta in modo evidente nella frattura fra Oriente e Occidente. Guénon, che trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita in Egitto convertito all’Islam e immerso nel sufismo, guarda con rispetto e ammirazione alle tradizioni orientali – soprattutto l’induismo, il taoismo e l’esoterismo islamico – come esempi di civiltà che hanno conservato un legame vivente con i princìpi metafisici. L’Oriente, per Guénon, non è un luogo geografico, ma una condizione dell’essere: quella in cui la conoscenza è ancora sacra, dove l’intelligenza è collegata all’Intelletto divino, e dove la società è strutturata secondo un ordine sacro, non profano. L’Occidente moderno, al contrario, ha smarrito il senso dell’Origine, ha distrutto i suoi ponti con il Cielo, ha sostituito la sapienza con l’intellettualismo, e la contemplazione con l’attivismo.

Uno dei sintomi più evidenti di questo deragliamento è ciò che Guénon definisce l’inversione tra quantità e qualità. È uno dei passaggi più lucidi e spietati del suo saggio. La modernità, ossessionata dalla misurazione, ha abbandonato il criterio qualitativo che era proprio delle civiltà tradizionali: la capacità di cogliere l’essenza, il valore intrinseco delle cose, il loro significato simbolico e spirituale. Tutto viene oggi valutato in base a numeri: la ricchezza, la potenza, l’influenza, la produttività. Il “quanto” ha preso il posto del “che cosa”. Il mondo moderno ha perso la capacità di giudicare con l’anima: è un mondo che calcola ma non comprende, misura ma non conosce.

Tutte queste deviazioni – il progresso illusorio, l’adorazione della quantità, la perdita della conoscenza sapienziale – sono per Guénon i segni di un mondo che ha rotto con la Tradizione, intesa in senso forte, con la “T” maiuscola. Questo è forse il concetto più difficile da comprendere con la mente moderna, proprio perché la Tradizione non è conservatorismo, non è folklore, non è attaccamento al passato: è, per Guénon, la trasmissione integrale di princìpi metafisici immutabili, che discendono dall’Alto, da una Rivelazione primordiale, e che strutturano tutte le autentiche civiltà sacre. Tradizione è connessione verticale, non orizzontale. È il filo che lega l’uomo al divino, la società al sacro, il mondo al Principio. Senza di essa, la civiltà non è che una carcassa svuotata di senso, destinata a dissolversi in una parodia di se stessa.

Così si configura, nelle parole di Guénon, la vera crisi dell’uomo moderno: non una crisi di ideologie, né solo una crisi etica, ma una crisi ontologica, una perdita dell’essere. Una civiltà che ha rifiutato l’Idea, la Verità, la Tradizione, non può che precipitare nel disordine, nella confusione e infine nella rovina. La sua analisi, a quasi un secolo dalla pubblicazione, conserva un’evidenza quasi profetica, in un mondo sempre più privo di centri simbolici e dominato dalla frammentazione. Eppure, sotto il tono austero e implacabile dell’autore, si intravede una via d’uscita: la possibilità, riservata a pochi, di ritrovare il Centro e di riallinearsi ai princìpi eterni. Per Guénon, questa è l’unica vera rivoluzione possibile. Tutto il resto è solo rumore.

La diagnosi impietosa che René Guénon offre nel suo La crisi del mondo moderno tocca nel profondo le strutture invisibili che reggono – o meglio, non reggono più – il mondo in cui viviamo. Se nella prima parte del suo saggio egli descrive l’origine metafisica della crisi, nella seconda affonda il bisturi in quelle che considera le sue conseguenze più disastrose: la scomparsa dell’autorità spirituale autentica, la glorificazione dell’individuo come fine ultimo, la riduzione del sapere a tecnica, la perdita del linguaggio simbolico, e infine la quasi impercettibile possibilità di un ritorno ai princìpi. È in questo segmento dell’opera che l’impianto teorico guénoniano assume toni quasi escatologici, senza mai cedere al catastrofismo: la fine, per lui, non è mai un disastro, ma un compimento. E come in ogni ciclo, anche il compimento porta con sé l’annuncio di un nuovo inizio, per chi sappia riconoscerlo.

Il primo e più visibile collasso, secondo Guénon, è quello dell’autorità spirituale. In tutte le civiltà tradizionali, essa occupava il vertice della gerarchia umana e cosmica: non per imposizione, ma per natura. L’autorità spirituale non era un potere, ma una presenza ordinante, che legittimava i poteri inferiori in quanto partecipava dell’ordine superiore. Nel mondo moderno, questo centro sacro è scomparso, e con esso la gerarchia è implosa. Al suo posto si sono insediati surrogati: l’autorità è oggi confusa con la forza, la guida spirituale con il carisma mediatico, la sapienza con l’opinione. Il risultato è una società che non obbedisce a nulla se non a se stessa, e dunque a nulla: un’anarchia travestita da libertà, dove il potere si legittima da sé e l’ordine è mantenuto non più dal sacro, ma dal controllo.

Questa degenerazione si collega direttamente a ciò che Guénon considera la vera patologia del mondo moderno: l’individualismo. Non nel senso etico della responsabilità personale, ma come ontologia dell’io separato. L’individuo, affrancato da ogni vincolo verticale e trascendente, diventa il proprio centro, misura di tutte le cose, principio e fine di ogni discorso. Ma così facendo, non solo perde il legame con il divino: perde anche il senso della propria appartenenza a un tutto. L’individuo guénoniano è una monade cieca, chiusa nel proprio guscio, incapace di partecipare a una realtà più grande. L’antica società organica, in cui ogni uomo aveva un posto e un significato nella totalità, viene così sostituita da un aggregato disarticolato di volontà individuali, in conflitto tra loro e incapaci di produrre un vero ordine.

Su questa frattura si innesta la critica radicale alla scienza moderna, che per Guénon non è vera conoscenza, ma solo accumulazione di dati empirici privi di significato trascendente. La scienza sperimentale, secondo lui, è incapace di cogliere l’essere perché non cerca più l’essenza delle cose, ma solo le loro manifestazioni sensibili. Essa analizza, scompone, misura, ma non comprende. È il trionfo della quantità sulla qualità, già denunciato nella prima parte del saggio. E soprattutto è una conoscenza senza soggetto, senza interiorità: non conosce per partecipazione o identificazione, ma per distacco e manipolazione. Guénon non nega l’utilità della scienza moderna in ambito pratico, ma la denuncia come insufficiente e usurpatrice se pretende di sostituirsi alla conoscenza metafisica.

Questa perdita della dimensione verticale della conoscenza si riflette nel declino del simbolismo. Per Guénon, i simboli non sono semplici metafore o immagini poetiche, ma veicoli reali di significati superiori. Ogni cosa, nel mondo tradizionale, era simbolo: il gesto rituale, il colore, la geometria, il mito. Il simbolo univa il visibile all’invisibile, il contingente all’eterno. Nel mondo moderno, al contrario, il simbolismo è stato svuotato, ridotto a superstizione, folclore o semplice ornamento. Non comprendiamo più i simboli perché abbiamo perso l’intuizione dell’essere. La parola non dice più la cosa, la forma non rimanda più all’Idea, il mondo è diventato opaco. Viviamo in un universo desacralizzato, muto, senza echi, dove ogni cosa è ciò che appare – e niente di più.

Eppure, Guénon non chiude il suo saggio nella disperazione. Per quanto austera e spietata, la sua visione non è nichilista. Al contrario, egli intravede, proprio nel fondo della crisi, la possibilità di una reintegrazione. Ma non si tratta di un ritorno nostalgico a un passato idealizzato: sarebbe ancora una forma di modernità. Si tratta piuttosto di un ritorno ai princìpi, a ciò che è fuori dal tempo e fonda ogni autentica civiltà. Questo ritorno non può avvenire collettivamente – Guénon non crede a rivoluzioni culturali né a riforme sociali – ma per via iniziatica, interiore, verticale. È una via riservata a pochi, ma sufficiente a mantenere in vita, anche in mezzo alle rovine, una scintilla di ordine. Perché la Tradizione non muore mai: può essere dimenticata, occultata, perseguitata, ma resta immutabile nel Principio, pronta a riemergere quando i cicli lo permetteranno.

Così si conclude La crisi del mondo moderno: con un monito e una speranza. Il monito è che il mondo in cui viviamo non è solo malato, ma rovesciato, disconnesso dal proprio asse. La speranza è che, riconoscendo la crisi per ciò che è – l’estrema lontananza dal centro – si possa, per negazione, risalire la corrente. Guénon non offre soluzioni politiche, né modelli sociali, ma una chiamata al risveglio. E se oggi la sua voce suona ancora remota, forse è proprio perché parla da un luogo che non appartiene al tempo, ma all’eterno. Chi sa ascoltarla, trova in essa non una condanna, ma un varco.


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