L’ultimo segreto, di Dan Brown (2025): recensione critica

Nel nuovo romanzo di Dan Brown, L’ultimo segreto, ciò che colpisce immediatamente è il trattamento riservato a Robert Langdon, figura che da anni incarna l’archetipo del professore-eroe: colto, imperturbabile, dotato di un acume razionale che lo rende un Virgilio contemporaneo nel labirinto dei misteri occidentali. Eppure, in queste pagine, Langdon appare diverso. Non si tratta di una rivoluzione, ma di un progressivo assottigliamento della corazza che lo aveva protetto in Inferno e soprattutto in Origin. Se in quei romanzi la dimensione personale rimaneva un fondale lontano rispetto all’emergenza globale, qui acquisisce spessore: Langdon è più vulnerabile non tanto perché fallibile, quanto perché più consapevole dei limiti della mente umana di fronte all’ignoto. L’invecchiamento, le incertezze, il rapporto con il proprio ruolo nella modernità sono accennati con una delicatezza insolita per Brown, che tende storicamente a privilegiare la funzione narrativa rispetto alla psyché del protagonista. È come se Langdon, questa volta, non fosse soltanto il decodificatore di simboli, ma un uomo messo alla prova da una realtà che, per la prima volta, si dimostra più enigmatica della simbologia che lui stesso studia.

Questa trasformazione del personaggio si innesta perfettamente nel tema cardine del romanzo: la dialettica tra scienza e mistero, che Brown affronta con un rinnovato interesse per le neuroscienze e per quel campo a metà tra filosofia e ricerca empirica che definisce “noetica”, ovvero lo studio delle potenzialità ancora inesplorate della coscienza. Non è la prima volta che l’autore si muove in territori di confine, dove il rigore scientifico lambisce la speculazione filosofica; tuttavia, in L’ultimo segreto, tale commistione è più integrata nella trama e meno ornamentale. L’idea della noetica viene sviluppata come una lente attraverso cui osservare sia i comportamenti dei personaggi sia la natura del “segreto” che funge da motore della narrazione. È credibile? Dipende dal lettore. Brown non pretende di offrire teorie verificabili, ma costruisce un contesto sufficientemente documentato da rendere plausibile la sospensione dell’incredulità: la scienza diventa il terreno fertile su cui innestare interrogativi millenari. È un approccio che non tradisce le radici del thriller, ma tenta di superarne i confini, pur rimanendo, inevitabilmente, nella dimensione del verosimile narrativo più che in quella della ricerca accademica.

Il romanzo recupera anche in maniera decisa l’uso dei simboli e delle tradizioni esoteriche, da sempre la linfa del mondo langdoniano. Miti antichi, manoscritti dimenticati, iconografie ambigue e rituali ermetici costellano la storia con una presenza mai invasiva, più stratificata rispetto a quella, a tratti didascalica, de Il Codice da Vinci. Qui Brown abbandona l’impostazione quasi manualistica degli esordi e preferisce utilizzare il simbolismo come un sottotesto, come un tessuto sul quale far emergere tensioni narrative piuttosto che nozioni enciclopediche. La documentazione resta solida, ma l’esposizione è più morbida, più narrativa che divulgativa. Anche quando attinge a fonti reali, Brown non le espone come saggi brevi interposti nella trama, bensì come parti organiche di una riflessione più ampia sulla persistenza dell’archetipo e sulla nostra esigenza di attribuire significato a ciò che sfugge alla misurazione empirica.

Sul piano formale, L’ultimo segreto conserva gran parte dell’ossatura che ha reso celebre lo stile Brown: capitoli brevi, ritmo immediato, alternanza serrata tra rivelazioni e cliffhanger, costruzione a incastro di piste parallele che convergono solo nel finale. Tuttavia, c’è un tentativo—timido ma percepibile—di variare questa formula. Alcuni passaggi rallentano volutamente il passo per dare spazio alla dimensione interiore di Langdon; altri evitano l’effetto “tour guidato ad alta velocità” tipico di certi romanzi precedenti. Rimane, comunque, quella scorrevolezza cinematografica che rende i libri di Brown riconoscibili sin dalle prime pagine, frutto di un linguaggio asciutto, orientato alla visualità e al movimento.

Infine, le ambientazioni. Praga, Londra e New York non sono semplici sfondi, ma parti attive del racconto, riprese con un occhio che alterna la precisione documentaria alla volontà di evocare atmosfere. Praga, con il suo tessuto alchemico e il retaggio del mito golemico, si rivela il terreno ideale per esplorare l’intreccio fra scienza della mente e tradizioni esoteriche; Londra funziona come spazio di transizione, città in cui la modernità e la storia convivono in una tensione perfetta per la narrativa browniana; New York, infine, non è solo metropoli ma nodo simbolico del mondo contemporaneo, luogo in cui tecnologia e potere si sovrappongono. Brown riesce ancora una volta a costruire un “tour culturale” coinvolgente, anche se meno enciclopedico rispetto al passato: qui l’atmosfera conta più dell’elenco dei monumenti, la percezione più del dato storico.

Se si guarda a questa prima metà del romanzo come a un ritorno alle origini, il giudizio sarebbe parziale. L’ultimo segreto è piuttosto un tentativo di sintesi: riprende gli elementi più riconoscibili della formula Brown e li avvicina a un’idea narrativa più matura, in cui l’enigma non è solo un codice da decifrare, ma un modo per interrogare ciò che la scienza — e forse anche la letteratura — non riesce ancora a spiegare del tutto.

Se nella prima parte del romanzo Dan Brown sembra concentrarsi soprattutto sulla tensione tra scienza, simbolo e identità personale, nella seconda metà emerge con maggiore forza la dimensione filosofica e morale dell’opera. L’ultimo segreto riflette, con una maturità inedita, su questioni che trascendono l’intrigo: il libero arbitrio, la natura della conoscenza, il rapporto tra coscienza e potere. Non sono temi nuovi nel panorama browniano — già Origin tentava un dialogo tra scienza e spiritualità — ma qui acquisiscono una coerenza più compatta. Brown non pretende certo di proporre un trattato filosofico, ma sullo sfondo dell’azione suggerisce interrogativi: quanto siamo responsabili delle nostre scelte quando non conosciamo davvero il funzionamento della nostra mente? È possibile manipolare la percezione della realtà in modo tanto sottile da influenzare ciò che chiamiamo “verità”? La riflessione non sempre raggiunge una profondità teorica, ma la sua forza narrativa risiede proprio nell’intuizione che la questione del libero arbitrio non appartenga solo ai filosofi, bensì al quotidiano di ciascuno di noi. Brown ci invita a considerare che la manipolazione della coscienza — anche solo potenziale — è una delle ultime frontiere del potere, e lo fa con una leggerezza apparente che maschera implicazioni inquietanti.

Il mistero centrale del romanzo, senza anticiparne i contenuti, si colloca in un territorio liminale, sospeso tra il mistico e lo scientifico, con punti di contatto anche con la geopolitica contemporanea. È un segreto che non riguarda solo un oggetto o un’informazione, ma una possibilità: qualcosa che potrebbe alterare il nostro modo di intendere l’essere umano e il suo rapporto con il mondo. Brown lo introduce gradualmente, con cenni quasi impercettibili disseminati nei primi capitoli, per poi costruirlo attraverso una progressione di indizi che si intrecciano con i conflitti interiori dei personaggi. Non è un mistero gridato, non si impone come un colpo di teatro: è un’ombra che prende forma pagina dopo pagina, mantenuta con un equilibrio che evita sia l’eccesso di retorica sia la banalizzazione. L’autore dimostra una notevole abilità nel far percepire al lettore la gravità della rivelazione senza mai mostrarla troppo presto, rendendo la tensione più psicologica che spettacolare.

Un terreno tradizionalmente problematico nella narrativa di Brown è la caratterizzazione dei personaggi secondari e degli antagonisti, spesso sacrificati in favore della trama. In L’ultimo segreto si coglie un tentativo di superare questo limite: l’antagonista non è un semplice meccanismo drammatico, ma un individuo motivato da un sistema di convinzioni che, per quanto discutibile, viene mostrato come coerente e radicato. Non è un villain monolitico, ma un personaggio che incarna un’idea pericolosa e affascinante al tempo stesso. I comprimari, pur non avendo la profondità dei protagonisti dei grandi romanzi corali, sono più funzionali rispetto al passato: non si ha mai la sensazione che esistano solo per porgere gli indizi a Langdon. Brown, pur rimanendo nei limiti del thriller mainstream, prova a dare ai personaggi di supporto un peso emotivo, o almeno un ruolo che non sia riducibile a un solo tratto caratteriale.

La plausibilità scientifica resta uno degli aspetti più delicati dell’opera. Brown si documenta con evidente rigore — le note e le fonti implicite sono percepibili — ma si prende anche le libertà narrative necessarie a rendere la materia più avvincente. Le neuroscienze e la ricerca sulla coscienza vengono trattate con un equilibrio interessante: abbastanza accurate per risultare credibili, abbastanza semplificate da diventare drammatiche. È chiaro che alcune tecnologie presentate nel romanzo sono proiettate in un futuro imminente o in una realtà leggermente piegata alle esigenze della storia, ma questo è un confine che Brown, fin dagli esordi, ha sempre attraversato con disinvoltura. La sua forza non sta nel rigore scientifico, bensì nella capacità di trasformare concetti complessi in strumenti narrativi accessibili, senza cadere nella pura fantascienza né pretendere di ergersi a divulgatore scientifico.

Giunti all’ultima parte della riflessione, la domanda inevitabile è: quale posto occupa L’ultimo segreto nella saga di Langdon? È un romanzo che rinnova la formula o la ripete con eleganza? La risposta si colloca nel mezzo. Brown non stravolge il proprio paradigma, né rinuncia al marchio di fabbrica che milioni di lettori riconoscono e cercano. Tuttavia, introduce una tonalità più introspettiva, un respiro più maturo che permette a Langdon di compiere un passo avanti nella sua evoluzione. Non si può parlare di un punto di svolta radicale, ma di un raffinamento: Langdon, pur restando simbolo dell’intellettuale moderno in lotta contro le ombre della storia, appare più umano, meno impermeabile, più coinvolto nel cuore pulsante del mistero. In questo senso, L’ultimo segreto contribuisce alla mitologia browniana con un equilibrio raro: conserva l’essenza della serie, ma la accompagna verso un orizzonte che non è solo avventura, ma anche interrogativo sul destino dell’essere umano nell’era della conoscenza incerta.


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