Le colline piacentine sembravano sempre avvolte da un segreto, un respiro antico che sussurrava tra i filari di vite e i ruderi dimenticati. In autunno, soprattutto, una nebbia pesante calava su quei luoghi, come se il paesaggio stesso volesse nascondere qualcosa. Tra i contadini del luogo, quella stagione era anche la più temuta, perché portava con sé le storie su Elisabetta Terza di Rivergaro, una donna dal passato oscuro e avvolto in leggende di sangue e magia.
Elisabetta era stata una nobildonna fiera e impietosa, discendente di una famiglia ricca e influente. Era cresciuta circondata dal lusso, ma ciò che desiderava più di ogni altra cosa era il potere – un potere che, si diceva, avesse trovato nel vino delle sue vigne e nel sangue versato dai servi più fedeli. A ogni vendemmia, Elisabetta pretendeva tributi dai contadini: animali, oggetti preziosi e, quando le voci correvano più spaventose, anche sacrifici umani. Gli anziani narravano che la sua bellezza nascondesse un cuore corrotto, e che le sue terre prosperassero solo grazie a un patto oscuro che aveva stretto con forze che andavano oltre il mondo dei vivi.
Un giorno, quando i contadini provarono a ribellarsi alla sua crudeltà, Elisabetta rispose con una maledizione. Minacciò che chiunque attraversasse i suoi confini senza il dovuto tributo avrebbe subito una sorte terribile. Fu così che, una notte, le autorità del tempo la catturarono e la condannarono per stregoneria, trascinandola fuori dal suo castello e gettandola in un pozzo. Ma Elisabetta non si ribellò: aveva già oltrepassato il confine tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, e il suo ultimo respiro risuonò come un’eco nelle colline, promettendo vendetta e tenendo legata la sua anima a quei luoghi.
Da allora, nelle notti d’autunno, quando la nebbia si addensa, gli abitanti delle colline non escono di casa. Le famiglie locali lasciano piccoli tributi ai margini dei vigneti: monete d’argento, bicchieri di vino, perfino pezzi di pane avvolti in panni rossi. Alcuni dicono che questi doni siano l’unico modo per tenere lontana l’ombra di Elisabetta, che vaga tra i filari alla ricerca di chi ha osato sfidare il suo riposo.
Quella notte, due ragazzi di città, Lara e Filippo, si avventurarono tra quei vigneti, ridendo delle storie che avevano sentito. Lara era stata titubante, ma Filippo, il più scettico dei due, la aveva convinta a seguirlo. Erano cresciuti insieme, un’amicizia che col tempo aveva acquisito sfumature più profonde. Filippo scherzava sempre, cercando di far ridere Lara, ma quella notte, mentre camminavano tra i filari, si rese conto che la sua amica sembrava più inquieta del solito.
“E dai, sono solo storie! Sono state inventate per tenere lontani i curiosi come noi,” disse lui, con una risata forzata. Ma, in fondo, anche lui non riusciva a scrollarsi di dosso una strana sensazione. Lara, invece, sembrava ascoltare ogni suono attorno a loro, come se temesse di disturbare qualcosa di sacro. Teneva stretto un piccolo amuleto di giada verde, un dono della nonna, che le aveva detto di portarlo sempre con sé come protezione.
Il sentiero si fece più stretto mentre si avvicinavano al castello. L’aria era umida, e l’odore di foglie bagnate e di terra impregnata di rugiada li avvolgeva. Il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal vento lontano che fischiava tra le colline. La luna piena illuminava appena i ruderi del castello, che sembravano occhi vuoti, osservatori silenziosi e immutabili.
Quando giunsero al cancello, i due ragazzi si fermarono. Il castello era in rovina, le mura annerite dal tempo e coperte di rampicanti spogli. Filippo si avvicinò con passo deciso, aprendo il cancello con un cigolio che ruppe il silenzio. Fece cenno a Lara di seguirlo, e lei lo seguì, ma con un misto di apprensione e curiosità.
Si avvicinarono al cortile, dove una pergola antica si ergeva ancora, coperta da viti contorte e secche. In quell’oscurità, le radici sembravano affondare direttamente nella terra, nutrendosi di qualcosa di ben diverso dalla semplice acqua. Lara si fermò, posando il suo amuleto a terra come offerta, ricordando le storie che la nonna le aveva raccontato. Filippo, sorridendo per farsi coraggio, estrasse una vecchia moneta che portava in tasca, trovata in una vecchia cassa nella soffitta del nonno, e la lasciò accanto all’amuleto di Lara.
Per un istante tutto rimase immobile. Poi, il vento soffiò tra le rovine, e Lara si sentì stringere le budella. Una risata, sottile e crudele, sembrò risuonare nell’aria. I due ragazzi si guardarono, pallidi, sentendo di aver appena oltrepassato un confine che non avrebbero mai dovuto attraversare.
Lara e Filippo rimasero immobili nel cortile del castello, respirando a fatica nell’aria gelida che sembrava farsi più densa a ogni passo. Attorno a loro, il castello emergeva come un gigante scheletrico contro la luna, con mura annerite e finestre vuote come orbite prive di vita. Ogni angolo sembrava reclamare silenzio, un silenzio che soffocava anche i pensieri. Lara si voltò verso Filippo, il cuore accelerato, e sussurrò: “Forse dovremmo andare…”
Ma Filippo, affascinato dal mistero che si nascondeva tra quelle mura, si avvicinò all’entrata principale, richiamando Lara con uno sguardo. Avanzarono tra pietre sparse e tralci di vite contorti che sembravano mani scheletriche. Alcuni di quei rami sembravano animati, piegandosi come se cercassero di afferrarli. Il cortile era un deserto di rovine e foglie marce, ma l’odore della terra, umida e densa, era permeato da una strana dolcezza, come di uva fermentata da tempo.
Superata l’entrata, i ragazzi si ritrovarono in un lungo corridoio in penombra, con muri che si sgretolavano e antichi arazzi ridotti a brandelli. Ogni passo faceva scricchiolare il pavimento di pietra, e Lara percepiva un’inquietante sensazione di occhi puntati su di loro. Proseguirono fino a raggiungere una stanza più ampia, quella che doveva essere stata una sala di ricevimento. Al centro, un antico lampadario pendeva dal soffitto, i cristalli rotti riflettevano la luce lunare in bagliori che parevano occhi vacui.
Poi, accadde qualcosa. Un movimento rapido, quasi impercettibile, al limite del loro campo visivo. Filippo si voltò di scatto, ma non c’era nulla. Solo un lieve sussurro tra le pareti. “Hai visto anche tu?” mormorò, cercando gli occhi di Lara. Lei annuì lentamente, incapace di trovare le parole. In quell’istante, un sussurro serpeggiò nell’aria: una lagnanza distante, come se qualcuno stesse parlando tra sé e sé, lamentele dolenti che si spegnevano nel silenzio.
Scossi, si spostarono verso una porta aperta alla fine della sala. Era socchiusa, come se li invitasse a entrare. Dietro quella porta si trovava una scalinata in pietra che scendeva ripida nel buio. Lara esitò, ma Filippo, con un’ultima occhiata rassicurante, si fece avanti, la mano stretta attorno a una piccola torcia che illuminava appena i gradini davanti a loro.
La cantina del castello era un intrico di corridoi e archi bassi, una volta usata probabilmente per conservare botti di vino. Adesso, era un labirinto silenzioso, con vecchie botti spaccate e residui di antiche travi annerite. Lara avvertiva una presenza pesante nell’aria; le sembrava quasi che il suo respiro rallentasse. Mentre si addentravano nella penombra, la torcia cominciò a vacillare, e nell’ombra intravidero delle figure: uomini e donne, volti trasfigurati dal terrore. Apparivano e svanivano in un battito di ciglia, ma ogni volto, ogni figura, portava i segni di una sofferenza antica.
“Li vedi anche tu?” sussurrò Lara, senza distogliere lo sguardo da quelle apparizioni spettrali. Filippo annuì, senza fiato. Una figura in particolare li fece gelare: una donna in abiti antichi, dagli occhi spenti e il volto consumato dall’odio. Era Elisabetta. Sembrava che stesse ripetendo un antico rituale, le mani alzate verso l’alto e un sorriso contorto sul volto. I suoi occhi si spostarono lentamente su di loro, e il suo sguardo li perforò come lame di ghiaccio.
All’improvviso, Lara si sentì trascinata altrove, come risucchiata in un ricordo non suo. Era come se stesse vivendo la vita di qualcun altro: si trovava davanti a Elisabetta, nel suo castello, circondata da servitori timorosi. In un lampo vide la nobildonna gettare polveri scure sul pavimento, mentre sussurrava parole in una lingua arcana. Intuì che Elisabetta stava invocando forze oscure, patti di sangue per mantenere il suo potere. Lara riuscì a sentire l’orrore dei servi che la osservavano, troppo terrorizzati per ribellarsi, troppo intimoriti per fuggire.
Un secondo dopo, era di nuovo nel presente, con Filippo che la scuoteva leggermente. “Lara, che ti succede?” chiese, la voce carica di paura. Ma Lara non riusciva a rispondere: la visione le aveva lasciato un senso di nausea e angoscia. Sentiva di essere stata toccata dall’oscurità stessa.
Le ombre nella cantina cominciarono a muoversi di nuovo. Una figura, un uomo pallido, avanzò verso di loro, con gli occhi vuoti e un sussurro che sembrava un lamento. “Non ci lascia andare… Nessuno… sfugge al suo potere…” Le sue parole sembravano uscire dal nulla, un sussurro privo di vita, eppure così dolorosamente reale.
Improvvisamente, un urlo straziante squarciò il silenzio. Lara e Filippo si voltarono di scatto, vedendo l’ombra di Elisabetta ingigantirsi contro il muro. Ora non era più una figura vaga: la sua forma era solida, i suoi occhi bruciavano di un odio intenso. Avanzava verso di loro, e ogni passo sembrava portare con sé il suono di vetri infranti e ossa spezzate.
“Tributi…” sibilò. “Non bastano mai…”
I ragazzi si voltarono e corsero, inciampando tra le botti e cercando disperatamente una via d’uscita. Ma il castello sembrava vivo, il percorso si perdeva in corridoi senza uscita, mentre il suono dei passi di Elisabetta si faceva sempre più vicino, quasi li soffocasse. Lara inciampò, e in quel momento la vide: Elisabetta, inginocchiata accanto a lei, con il volto distorto da un sorriso crudele. Lara strinse l’amuleto che ancora portava al collo, sussurrando una preghiera. Era l’ultima speranza.
Senza sapere come, riuscirono a trovare la scala e salirono, ma mentre raggiungevano la superficie, Lara si sentiva come se l’oscurità la seguisse. Uscirono dal castello e si lanciarono verso il sentiero, ma Elisabetta non li lasciava. Si voltò un’ultima volta, vedendo la sagoma di Elisabetta sfumare nella nebbia, con quel sorriso agghiacciante che le rimase impresso.
Tornarono al villaggio in silenzio, senza mai parlare di ciò che avevano visto. Ma la maledizione non finì con la fuga. Da quella notte, Lara iniziò a vedere ombre anche nella sua stanza, figure che si muovevano alle sue spalle. Filippo, invece, sentiva sussurri nell’oscurità, e ogni notte si svegliava col cuore in gola, come se una presenza gli stesse rubando l’anima a poco a poco.
Capirono troppo tardi che nessuno sfugge a Elisabetta.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Scritto da Anonimo Piacentino
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