Nel romanzo L’avvocato del Diavolo di Andrew Neiderman, pubblicato nel 1990, l’antico mito del patto faustiano viene rielaborato in chiave contemporanea, con un’efficacia che non cede mai al compiacimento allegorico, ma anzi lo traveste di realismo psicologico e critica sociale. Il protagonista, Kevin Taylor, giovane e brillante avvocato penalista, non vende la propria anima in un atto formale: la cede un poco alla volta, sotto l’apparenza del merito, del successo, della libera scelta. È in questa graduale corruzione che si innesta la modernità del romanzo: il patto non è più un contratto rituale ma un processo mimetico, subdolo, che penetra nelle pieghe dell’ego e della vanità. Neiderman sembra dirci che Satana non compra le anime: semplicemente, si limita a non ostacolarne la svendita.
La figura del Diavolo, incarnata da John Milton – nome tutt’altro che casuale – non ha più nulla dell’arcaico demone fiammeggiante. È un uomo d’affari, un avvocato carismatico e sofisticato, dotato di un’intelligenza lucida e affilata, capace di leggere l’animo umano meglio di chiunque altro. È un maestro del linguaggio, un seduttore intellettuale, un manager dell’ambizione. E proprio questo è l’aspetto più disturbante della sua natura: non forza mai la mano. Al contrario, lascia che Kevin scelga, che desideri, che giustifichi ogni passo con il lessico della carriera. In questo senso, il romanzo solleva una domanda inquietante: quando si cade, chi ci ha spinto davvero? Il Male è esterno o è già stato introiettato, camuffato da desiderio legittimo?
L’ambiguità morale del successo è il vero centro incandescente della narrazione. Kevin non è un mostro, non è malvagio: è semplicemente ambizioso, determinato, affamato di riconoscimento. E in questo sta la sua fragilità. Ogni trionfo legale, ogni promozione, ogni lusinga ricevuta dal prestigioso studio Milton & Chadwick rappresenta un passo avanti nel vuoto. Ma lui non se ne accorge. Il lettore sì. Neiderman costruisce un crescendo inquietante, in cui la scalata sociale si trasforma lentamente in una discesa nell’inferno. E l’inferno, qui, non è un luogo metafisico, ma un paesaggio interiore: quello in cui si perde la capacità di distinguere il giusto dall’utile, il lecito dal necessario. Il vero peccato non è il crimine, ma l’autoassoluzione.
La giustizia, nel mondo di Neiderman, è una finzione. Il sistema legale appare come un meccanismo raffinato e implacabile, che trasforma l’etica in retorica, la verità in strategia. I tribunali non sono templi della legge, ma arene dove vince chi argomenta meglio, chi manipola più abilmente emozioni e prove. John Milton, in quanto eminenza oscura di questo sistema, non fa che esasperarne le logiche: non crea il Male, lo legalizza. E così la legge, da promessa di ordine, diventa uno strumento di dominio. Non è un caso che il titolo stesso del romanzo evochi un’oscura ironia: “l’avvocato del diavolo” è, letteralmente, colui che difende il male rendendolo ragionevole.
Ed è proprio qui che il romanzo si fa più disturbante: nella sua analisi della persuasione. Satana non impone nulla: suggerisce, accompagna, insinua. È maestro nell’arte dell’autoinganno. Kevin non è un burattino, ma un uomo il cui desiderio è stato previsto, compreso, orientato. La sua libertà è reale, ma profondamente condizionata. Satana non si serve della paura, ma della gratificazione. È una guida, un mentore, un modello. Ed è in questo rapporto apparentemente libero ma segretamente coercitivo che si consuma la tragedia. Kevin non perde il controllo in un momento, ma in un lungo processo di accettazione progressiva: accetta di vincere cause sporche, accetta la ricchezza, accetta la menzogna. E infine accetta se stesso, nella sua nuova forma. Una forma che è già perduta.
In questa prima parte, Neiderman costruisce un sofisticato romanzo morale, che rinuncia a ogni moralismo per mostrare quanto la corruzione possa essere elegante, convincente, quasi irresistibile. Un’opera che non demonizza il Diavolo, ma lo riconosce come parte del mondo, come sintesi estrema del successo disumano. La domanda che resta sospesa non è “chi è Satana?”, ma “chi siamo noi, quando lo ascoltiamo?”
In L’avvocato del Diavolo, New York non è soltanto lo sfondo, ma un personaggio occulto, parte integrante del disegno diabolico. La metropoli si erge come un nuovo inferno verticale, fatto non di fiamme ma di vetro, acciaio e cemento. Le torri altissime che svettano sull’isola di Manhattan sembrano proiezioni architettoniche dell’ambizione, specchi neri che riflettono un cielo senza luce. È qui che si consuma la vera dannazione: nella spersonalizzazione, nella frenesia, nell’indifferenza di un mondo che si muove senza pietà e senza pause. Gli uffici dello studio Milton & Chadwick – labirintici, impersonali, spietatamente eleganti – somigliano più a un tempio del profitto che a uno studio legale. Neiderman suggerisce che l’inferno moderno non ha più bisogno di fuoco e zolfo: basta un ascensore che porta ai piani alti del potere, dove le anime si perdono sorridendo.
In questo scenario asettico e disumano, si svolge la lenta frattura dell’identità del protagonista. Kevin Taylor entra a New York come giovane avvocato affamato di successo e ne esce, se ne esce, come un uomo svuotato. Il conflitto tra l’immagine che ha di sé e l’uomo che sta diventando si fa via via più lacerante. La figura del doppio emerge in tutta la sua potenza simbolica nel momento in cui si scopre la verità sull’identità di John Milton: non solo mentore, ma anche padre biologico. Il legame di sangue si sovrappone a quello spirituale, il conflitto edipico si fonde con quello faustiano. Kevin è, letteralmente, il figlio del Diavolo. Eppure, proprio in questo groviglio di relazioni e proiezioni, si rivela una delle domande centrali del romanzo: è possibile sfuggire al proprio destino, o il Male si trasmette come un’eredità genetica, un vizio d’origine? La crisi identitaria diventa dunque crisi ontologica: chi è Kevin Taylor, se non la somma delle sue scelte e delle sue ombre?
Accanto a lui, quasi relegata in un angolo ma mai davvero assente, si consuma la tragedia silenziosa di Mary Ann, sua moglie. Figura fragile, sensibile, acuta nel percepire il disordine che si cela dietro l’apparenza, Mary Ann rappresenta l’intuizione ferita, il femminile sacrificato sull’altare del potere. La sua progressiva discesa nella follia – o forse nella lucidità spirituale – è uno degli elementi più disturbanti del romanzo. Mentre Kevin si afferma, lei si frantuma. Mentre lui stringe la mano al Diavolo, lei vede gli angeli caduti. È la sola che intuisce l’orrore, che ne subisce le vibrazioni sottili. Il suo corpo, la sua mente, il suo sguardo diventano il campo di battaglia invisibile tra realtà e menzogna. E quando cede, quando crolla, il lettore non assiste solo alla perdita di un personaggio, ma alla distruzione simbolica della coscienza profonda, dell’umanità ferita. In questo senso, il romanzo mette in scena anche la devastazione del principio femminile: empatia, intuizione, amore vengono sacrificati alla logica fallica del dominio.
Sotto la superficie della trama legale, Neiderman dissemina simboli religiosi, riferimenti esoterici e suggestioni cabalistiche. Il nome stesso di John Milton richiama l’autore di Paradise Lost, e l’intero romanzo sembra costruito come una contro-teologia perversa. Il Diavolo, qui, non si presenta come negazione del divino, ma come sua parodia perfetta. Non distrugge, ma corrompe. Non impone, ma seduce. Gli ambienti dello studio ricordano templi, i colloqui con Milton hanno la solennità di riti iniziatici, e la retorica usata è spesso di matrice biblica: redenzione, sacrificio, peccato, scelta. Anche l’albero della conoscenza è presente, ma camuffato da curriculum, da successo, da competizione. E la mela che viene offerta non è velenosa: è dolcissima, e sa di giustizia.
La struttura del romanzo si chiude con un colpo di scena che ha il sapore dell’eterno ritorno. Kevin sembra tornare all’inizio, ma lo fa con una consapevolezza nuova, come se avesse vissuto tutto in un sogno lucido, un’allucinazione morale. Eppure, proprio quando pare aver scelto diversamente, ecco che il Diavolo ritorna, con un volto diverso, ma la stessa voce. L’ultima battuta, beffarda e ambigua, lascia intendere che il gioco non è mai finito, che la scelta non è mai libera davvero, e che il Male non ha bisogno di ripresentarsi due volte: basta solo cambiare maschera. La struttura circolare del romanzo non è un ritorno alla salvezza, ma una spirale che si stringe. La possibilità di redenzione è lasciata aperta, ma è fragile, sottile, forse illusoria. Neiderman sembra volerci dire che l’Inferno non è una destinazione: è un’abitudine. Una scelta quotidiana. E che spesso lo attraversiamo senza nemmeno accorgercene.
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