La Cruna dell’ago, di Ken Follet (1978) – Recensione Critica –

Quando La cruna dell’ago uscì nel 1978, Ken Follett non era ancora il romanziere-macchina da bestseller che oggi diamo quasi per scontato. Alle sue spalle c’erano anni di giornalismo, inchieste locali, un’attenzione quasi maniacale al dettaglio e una serie di romanzi minori che non avevano lasciato tracce significative nel panorama britannico. Eppure, tutto ciò che sarebbe diventato Ken Follett – l’autore-capitale, lo specialista del thriller storico, il costruttore di universi solidi e avvincenti – nasce precisamente qui, in queste pagine. È come se La cruna dell’ago avesse agito da catalizzatore: la scrittura giornalistica si innesta su una trama dal respiro globale, il realismo si mescola al ritmo della buona narrativa popolare, e il risultato è un romanzo che, ancora oggi, mantiene intatta la propria forza centrifuga.

Questa forza nasce soprattutto dal ritmo narrativo. Follett capisce che la tensione non è un accessorio, ma la spina dorsale del suo libro; e la costruisce con un’abilità quasi chirurgica. I capitoli sono brevi, secchi, talvolta ridotti a poche scene essenziali; ognuno termina con un’incrinatura, un’ombra, un elemento non risolto che costringe il lettore a procedere. È un procedimento mutuato in parte dal giornalismo – quell’arte di chiudere ogni paragrafo con una punta di curiosità ulteriore – e in parte dalla sceneggiatura cinematografica, che Follett assorbe per osmosi osservando il meccanismo dei film di tensione. Ne deriva un page-turner moderno, ancora efficacissimo: la suspense non conosce cali, e le accelerazioni improvvise sono calibrate con la precisione di un metronomo. La macchina ritmica del romanzo continua a funzionare perché ha un’architettura semplice, ma mai semplicistica: non esistono capitoli di riempimento, non esistono deviazioni arbitrarie. Tutto procede verso un unico, feroce punto di convergenza.

A rendere ancor più sorprendente questa struttura è il fatto che il protagonista reale del romanzo sia un antagonista. Henry Faber – “il Filo”, “il Needle” – è una delle creazioni più inquietanti del thriller storico: un uomo di straordinaria intelligenza, capace di freddezza assoluta, efficace in ogni gesto grazie a una logica interna che gli impedisce distrazioni e sentimenti. Eppure, proprio questa spietatezza lo rende, paradossalmente, affascinante: il lettore riconosce l’orrore delle sue azioni, ma ne sente l’ipnotico carisma. Faber è un villain che non cerca di piacere, e forse per questo finisce per conquistare. È un predatore di rara lucidità, un uomo che incarna la dedizione totale alla missione e che nella sua stessa coerenza trova la scintilla di un’oscura empatia. Follett non chiede al lettore di simpatizzare con lui; gli chiede, più sottilmente, di comprenderlo. E questa comprensione, in un contesto di guerra totale, è uno dei passaggi più destabilizzanti del romanzo.

La rappresentazione dello spionaggio è la naturale estensione di questa filosofia: La cruna dell’ago è una spy-story completamente priva di glamour. Non esistono gadget futuristici, automobili con armi nascoste o sequenze di acrobazie alla James Bond. L’inganno è fatto di travestimenti improvvisati, di codici che sembrano quasi rudimentali, di messaggi lasciati nel posto giusto al momento giusto. La violenza, quando irrompe, è rapida e brutale; non ha estetica né coreografia, dura pochi secondi e lascia il lettore scosso proprio perché non concede spettacolo. Il mondo dello spionaggio, come Follett lo intende, non è un luogo di avventure eleganti, ma un territorio cupo, fatto di solitudini, sospetti, paranoia. È un mestiere che consuma, non che esalta.

Su questo impianto narrativo già solido, si innesta un contesto storico potentissimo: l’Operazione Fortitude, la gigantesca operazione di depistaggio con cui gli Alleati riuscirono a confondere i servizi tedeschi prima dello sbarco in Normandia. Follett non la usa come semplice sfondo, bensì come motore della trama. La storia reale fornisce al romanzo un’ossatura di autenticità, ma anche un senso di destino ineluttabile: il lettore sa dove la storia andrà a finire, e tuttavia ne ignora completamente il percorso. Così, il romanziere riesce nel doppio intento di rimanere credibile e al tempo stesso amplificare la suspense: la Storia mette i paletti, ma la narrativa li trasforma in tensione pura. È forse in questo equilibrio tra fedeltà documentaria e potenza drammatica che il “metodo Follett” si definisce per la prima volta in maniera compiuta. E la sua efficacia, a distanza di decenni, non ha perso nulla della propria carica magnetica.

È con l’arrivo sull’isola che La cruna dell’ago rivela la propria natura più inattesa. Dopo un lungo segmento dominato da fughe, omicidi, intercettazioni e inseguimenti, Follett sposta la storia in un microcosmo quasi sospeso, un frammento di mondo che sembra vivere fuori dal tempo bellico. Lì, la vita matrimoniale dei Rose — fatta di abitudini, frustrazioni, silenzi e tenerezze stanche — introduce una brusca variazione di ritmo. Non è un rallentamento, ma un cambio di prospettiva: la guerra, fino a quel momento impersonale e vasta, si restringe improvvisamente alla dimensione domestica, mostrando quanto profondamente anche gli spazi più marginali ne siano feriti. David, mutilato nel corpo e nell’identità, e Lucy, rimasta giovane mentre il matrimonio invecchiava prematuramente, incarnano una nazione che paga un prezzo invisibile, disgregata nelle sue relazioni più intime. L’ingresso di Faber in questo equilibrio fragile non è solo narrativamente esplosivo: è psicologicamente devastante. L’attrazione tra lui e Lucy, pericolosa e ambigua, si alimenta del vuoto emotivo che la guerra ha scavato dentro la donna. Il lettore non assiste a un semplice intreccio sentimentale, ma a una collisione di solitudini. E proprio Lucy, personaggio inizialmente marginale, finisce per diventare la figura tragica centrale del romanzo: l’unica a compiere una vera evoluzione, l’unica a pagare un prezzo emotivo e morale che la condurrà verso il sacrificio e la consapevolezza. È in questa torsione psicologica che il romanzo si trasforma da spy-story politica a thriller emotivo, e Follett dimostra come la dimensione privata possa esplodere con la stessa intensità della grande Storia.

In questo contesto intimo, la violenza assume una valenza ancora più perturbante. Follett evita ogni forma di spettacolarizzazione: la morte non è mai un set, mai un esercizio estetico, mai un pretesto per l’adrenalina. È improvvisa, asciutta, a volte quasi silenziosa. Una lama, un colpo secco, un gesto risoluto: finisce tutto lì, senza coreografia. La brutalità non appare come un elemento narrativo da esibire, ma come un fatto naturale nello spionaggio — ed è proprio questa naturalità che disturba. Il lettore percepisce che non c’è alcuna distanza di sicurezza: nessuna ironia, nessuna enfasi cinematografica. In questo realismo crudele, la morte pesa sempre. Ogni corpo che cade lascia una frattura, un senso di colpa, una vibrazione tetra che accomuna vittime e carnefici.

Quando il romanzo avanza verso il finale, l’architettura narrativa mostra tutta la sua precisione. Gli incastri sono talmente calibrati che si ha quasi la sensazione di assistere a un disegno geometrico che si chiude su sé stesso: ogni scelta compiuta dai personaggi nelle pagine precedenti ritorna, inevitabile, come un’ombra. Non c’è sensazione di artificio, ma di destino. A Follett non interessa sorprendere con un colpo di scena gratuito: vuole che il lettore senta l’inevitabilità tragica di ciò che sta per accadere. Lucy, ormai trasformata dalla consapevolezza e dal dolore, trova nel sacrificio un’unica forma di risposta possibile, un gesto che unisce amore e dovere in un’unica linea di forza. La sua lotta, quasi solitaria, possiede una dimensione catartica che trascende il puro intrattenimento. È un finale che rimane nella memoria non perché “spettacolare”, ma perché profondamente umano, segnato da una tristezza lucida che non concede sollievo.

Su questa traiettoria si innestano i temi morali che percorrono l’intero romanzo. La guerra, come Follett la racconta, è un luogo in cui il confine tra bene e male si assottiglia al punto da diventare permeabile. Quanto può essere giustificato in nome della patria? Quanti omicidi diventano “necessari”? Faber è terribile, eppure coerente: è forse l’unico personaggio integralmente onesto rispetto alla propria missione. Lucy, invece, si muove in un territorio scivoloso dove desiderio e dovere si contrappongono, dove l’essere moglie, amante e infine spia sembra imporle un’identità diversa in ogni scena. Questo gioco di specchi morali è uno dei grandi meriti del romanzo: non presenta figure immacolate, ma esseri umani attraversati da forze opposte, costretti a scegliere tra ciò che vorrebbero e ciò che devono fare.

Proprio questo intreccio di tensione, psicologia e Storia permette a La cruna dell’ago di diventare, retrospettivamente, un punto di svolta nel thriller storico. Molto prima che il genere diventasse una costante nelle classifiche internazionali, Follett dimostra che è possibile unire rigore documentario e scrittura popolare senza cadere né nell’erudizione sterile né nel puro intrattenimento. Da quel momento in poi, il thriller ambientato in un contesto bellico non è più percepito come nicchia, ma come un territorio fertile, capace di attirare un pubblico vastissimo. Follett sdogana la narrativa della guerra, restituendola all’immaginario collettivo non come epopea militare, ma come luogo di conflitti morali, passioni, sacrifici e crudeltà. Ed è forse in questa trasformazione culturale, oltre che nelle qualità del romanzo stesso, che si misura davvero la sua eredità.

L’ultimo segreto, di Dan Brown (2025): recensione critica

Nel nuovo romanzo di Dan Brown, L’ultimo segreto, ciò che colpisce immediatamente è il trattamento riservato a Robert Langdon, figura che da anni incarna l’archetipo del professore-eroe: colto, imperturbabile, dotato di un acume razionale che lo rende un Virgilio contemporaneo nel labirinto dei misteri occidentali. Eppure, in queste pagine, Langdon appare diverso. Non si tratta di una rivoluzione, ma di un progressivo assottigliamento della corazza che lo aveva protetto in Inferno e soprattutto in Origin. Se in quei romanzi la dimensione personale rimaneva un fondale lontano rispetto all’emergenza globale, qui acquisisce spessore: Langdon è più vulnerabile non tanto perché fallibile, quanto perché più consapevole dei limiti della mente umana di fronte all’ignoto. L’invecchiamento, le incertezze, il rapporto con il proprio ruolo nella modernità sono accennati con una delicatezza insolita per Brown, che tende storicamente a privilegiare la funzione narrativa rispetto alla psyché del protagonista. È come se Langdon, questa volta, non fosse soltanto il decodificatore di simboli, ma un uomo messo alla prova da una realtà che, per la prima volta, si dimostra più enigmatica della simbologia che lui stesso studia.

Questa trasformazione del personaggio si innesta perfettamente nel tema cardine del romanzo: la dialettica tra scienza e mistero, che Brown affronta con un rinnovato interesse per le neuroscienze e per quel campo a metà tra filosofia e ricerca empirica che definisce “noetica”, ovvero lo studio delle potenzialità ancora inesplorate della coscienza. Non è la prima volta che l’autore si muove in territori di confine, dove il rigore scientifico lambisce la speculazione filosofica; tuttavia, in L’ultimo segreto, tale commistione è più integrata nella trama e meno ornamentale. L’idea della noetica viene sviluppata come una lente attraverso cui osservare sia i comportamenti dei personaggi sia la natura del “segreto” che funge da motore della narrazione. È credibile? Dipende dal lettore. Brown non pretende di offrire teorie verificabili, ma costruisce un contesto sufficientemente documentato da rendere plausibile la sospensione dell’incredulità: la scienza diventa il terreno fertile su cui innestare interrogativi millenari. È un approccio che non tradisce le radici del thriller, ma tenta di superarne i confini, pur rimanendo, inevitabilmente, nella dimensione del verosimile narrativo più che in quella della ricerca accademica.

Il romanzo recupera anche in maniera decisa l’uso dei simboli e delle tradizioni esoteriche, da sempre la linfa del mondo langdoniano. Miti antichi, manoscritti dimenticati, iconografie ambigue e rituali ermetici costellano la storia con una presenza mai invasiva, più stratificata rispetto a quella, a tratti didascalica, de Il Codice da Vinci. Qui Brown abbandona l’impostazione quasi manualistica degli esordi e preferisce utilizzare il simbolismo come un sottotesto, come un tessuto sul quale far emergere tensioni narrative piuttosto che nozioni enciclopediche. La documentazione resta solida, ma l’esposizione è più morbida, più narrativa che divulgativa. Anche quando attinge a fonti reali, Brown non le espone come saggi brevi interposti nella trama, bensì come parti organiche di una riflessione più ampia sulla persistenza dell’archetipo e sulla nostra esigenza di attribuire significato a ciò che sfugge alla misurazione empirica.

Sul piano formale, L’ultimo segreto conserva gran parte dell’ossatura che ha reso celebre lo stile Brown: capitoli brevi, ritmo immediato, alternanza serrata tra rivelazioni e cliffhanger, costruzione a incastro di piste parallele che convergono solo nel finale. Tuttavia, c’è un tentativo—timido ma percepibile—di variare questa formula. Alcuni passaggi rallentano volutamente il passo per dare spazio alla dimensione interiore di Langdon; altri evitano l’effetto “tour guidato ad alta velocità” tipico di certi romanzi precedenti. Rimane, comunque, quella scorrevolezza cinematografica che rende i libri di Brown riconoscibili sin dalle prime pagine, frutto di un linguaggio asciutto, orientato alla visualità e al movimento.

Infine, le ambientazioni. Praga, Londra e New York non sono semplici sfondi, ma parti attive del racconto, riprese con un occhio che alterna la precisione documentaria alla volontà di evocare atmosfere. Praga, con il suo tessuto alchemico e il retaggio del mito golemico, si rivela il terreno ideale per esplorare l’intreccio fra scienza della mente e tradizioni esoteriche; Londra funziona come spazio di transizione, città in cui la modernità e la storia convivono in una tensione perfetta per la narrativa browniana; New York, infine, non è solo metropoli ma nodo simbolico del mondo contemporaneo, luogo in cui tecnologia e potere si sovrappongono. Brown riesce ancora una volta a costruire un “tour culturale” coinvolgente, anche se meno enciclopedico rispetto al passato: qui l’atmosfera conta più dell’elenco dei monumenti, la percezione più del dato storico.

Se si guarda a questa prima metà del romanzo come a un ritorno alle origini, il giudizio sarebbe parziale. L’ultimo segreto è piuttosto un tentativo di sintesi: riprende gli elementi più riconoscibili della formula Brown e li avvicina a un’idea narrativa più matura, in cui l’enigma non è solo un codice da decifrare, ma un modo per interrogare ciò che la scienza — e forse anche la letteratura — non riesce ancora a spiegare del tutto.

Se nella prima parte del romanzo Dan Brown sembra concentrarsi soprattutto sulla tensione tra scienza, simbolo e identità personale, nella seconda metà emerge con maggiore forza la dimensione filosofica e morale dell’opera. L’ultimo segreto riflette, con una maturità inedita, su questioni che trascendono l’intrigo: il libero arbitrio, la natura della conoscenza, il rapporto tra coscienza e potere. Non sono temi nuovi nel panorama browniano — già Origin tentava un dialogo tra scienza e spiritualità — ma qui acquisiscono una coerenza più compatta. Brown non pretende certo di proporre un trattato filosofico, ma sullo sfondo dell’azione suggerisce interrogativi: quanto siamo responsabili delle nostre scelte quando non conosciamo davvero il funzionamento della nostra mente? È possibile manipolare la percezione della realtà in modo tanto sottile da influenzare ciò che chiamiamo “verità”? La riflessione non sempre raggiunge una profondità teorica, ma la sua forza narrativa risiede proprio nell’intuizione che la questione del libero arbitrio non appartenga solo ai filosofi, bensì al quotidiano di ciascuno di noi. Brown ci invita a considerare che la manipolazione della coscienza — anche solo potenziale — è una delle ultime frontiere del potere, e lo fa con una leggerezza apparente che maschera implicazioni inquietanti.

Il mistero centrale del romanzo, senza anticiparne i contenuti, si colloca in un territorio liminale, sospeso tra il mistico e lo scientifico, con punti di contatto anche con la geopolitica contemporanea. È un segreto che non riguarda solo un oggetto o un’informazione, ma una possibilità: qualcosa che potrebbe alterare il nostro modo di intendere l’essere umano e il suo rapporto con il mondo. Brown lo introduce gradualmente, con cenni quasi impercettibili disseminati nei primi capitoli, per poi costruirlo attraverso una progressione di indizi che si intrecciano con i conflitti interiori dei personaggi. Non è un mistero gridato, non si impone come un colpo di teatro: è un’ombra che prende forma pagina dopo pagina, mantenuta con un equilibrio che evita sia l’eccesso di retorica sia la banalizzazione. L’autore dimostra una notevole abilità nel far percepire al lettore la gravità della rivelazione senza mai mostrarla troppo presto, rendendo la tensione più psicologica che spettacolare.

Un terreno tradizionalmente problematico nella narrativa di Brown è la caratterizzazione dei personaggi secondari e degli antagonisti, spesso sacrificati in favore della trama. In L’ultimo segreto si coglie un tentativo di superare questo limite: l’antagonista non è un semplice meccanismo drammatico, ma un individuo motivato da un sistema di convinzioni che, per quanto discutibile, viene mostrato come coerente e radicato. Non è un villain monolitico, ma un personaggio che incarna un’idea pericolosa e affascinante al tempo stesso. I comprimari, pur non avendo la profondità dei protagonisti dei grandi romanzi corali, sono più funzionali rispetto al passato: non si ha mai la sensazione che esistano solo per porgere gli indizi a Langdon. Brown, pur rimanendo nei limiti del thriller mainstream, prova a dare ai personaggi di supporto un peso emotivo, o almeno un ruolo che non sia riducibile a un solo tratto caratteriale.

La plausibilità scientifica resta uno degli aspetti più delicati dell’opera. Brown si documenta con evidente rigore — le note e le fonti implicite sono percepibili — ma si prende anche le libertà narrative necessarie a rendere la materia più avvincente. Le neuroscienze e la ricerca sulla coscienza vengono trattate con un equilibrio interessante: abbastanza accurate per risultare credibili, abbastanza semplificate da diventare drammatiche. È chiaro che alcune tecnologie presentate nel romanzo sono proiettate in un futuro imminente o in una realtà leggermente piegata alle esigenze della storia, ma questo è un confine che Brown, fin dagli esordi, ha sempre attraversato con disinvoltura. La sua forza non sta nel rigore scientifico, bensì nella capacità di trasformare concetti complessi in strumenti narrativi accessibili, senza cadere nella pura fantascienza né pretendere di ergersi a divulgatore scientifico.

Giunti all’ultima parte della riflessione, la domanda inevitabile è: quale posto occupa L’ultimo segreto nella saga di Langdon? È un romanzo che rinnova la formula o la ripete con eleganza? La risposta si colloca nel mezzo. Brown non stravolge il proprio paradigma, né rinuncia al marchio di fabbrica che milioni di lettori riconoscono e cercano. Tuttavia, introduce una tonalità più introspettiva, un respiro più maturo che permette a Langdon di compiere un passo avanti nella sua evoluzione. Non si può parlare di un punto di svolta radicale, ma di un raffinamento: Langdon, pur restando simbolo dell’intellettuale moderno in lotta contro le ombre della storia, appare più umano, meno impermeabile, più coinvolto nel cuore pulsante del mistero. In questo senso, L’ultimo segreto contribuisce alla mitologia browniana con un equilibrio raro: conserva l’essenza della serie, ma la accompagna verso un orizzonte che non è solo avventura, ma anche interrogativo sul destino dell’essere umano nell’era della conoscenza incerta.

L’avvocato del Diavolo di Andrew Neiderman (1990): recensione critica

Nel romanzo L’avvocato del Diavolo di Andrew Neiderman, pubblicato nel 1990, l’antico mito del patto faustiano viene rielaborato in chiave contemporanea, con un’efficacia che non cede mai al compiacimento allegorico, ma anzi lo traveste di realismo psicologico e critica sociale. Il protagonista, Kevin Taylor, giovane e brillante avvocato penalista, non vende la propria anima in un atto formale: la cede un poco alla volta, sotto l’apparenza del merito, del successo, della libera scelta. È in questa graduale corruzione che si innesta la modernità del romanzo: il patto non è più un contratto rituale ma un processo mimetico, subdolo, che penetra nelle pieghe dell’ego e della vanità. Neiderman sembra dirci che Satana non compra le anime: semplicemente, si limita a non ostacolarne la svendita.

La figura del Diavolo, incarnata da John Milton – nome tutt’altro che casuale – non ha più nulla dell’arcaico demone fiammeggiante. È un uomo d’affari, un avvocato carismatico e sofisticato, dotato di un’intelligenza lucida e affilata, capace di leggere l’animo umano meglio di chiunque altro. È un maestro del linguaggio, un seduttore intellettuale, un manager dell’ambizione. E proprio questo è l’aspetto più disturbante della sua natura: non forza mai la mano. Al contrario, lascia che Kevin scelga, che desideri, che giustifichi ogni passo con il lessico della carriera. In questo senso, il romanzo solleva una domanda inquietante: quando si cade, chi ci ha spinto davvero? Il Male è esterno o è già stato introiettato, camuffato da desiderio legittimo?

L’ambiguità morale del successo è il vero centro incandescente della narrazione. Kevin non è un mostro, non è malvagio: è semplicemente ambizioso, determinato, affamato di riconoscimento. E in questo sta la sua fragilità. Ogni trionfo legale, ogni promozione, ogni lusinga ricevuta dal prestigioso studio Milton & Chadwick rappresenta un passo avanti nel vuoto. Ma lui non se ne accorge. Il lettore sì. Neiderman costruisce un crescendo inquietante, in cui la scalata sociale si trasforma lentamente in una discesa nell’inferno. E l’inferno, qui, non è un luogo metafisico, ma un paesaggio interiore: quello in cui si perde la capacità di distinguere il giusto dall’utile, il lecito dal necessario. Il vero peccato non è il crimine, ma l’autoassoluzione.

La giustizia, nel mondo di Neiderman, è una finzione. Il sistema legale appare come un meccanismo raffinato e implacabile, che trasforma l’etica in retorica, la verità in strategia. I tribunali non sono templi della legge, ma arene dove vince chi argomenta meglio, chi manipola più abilmente emozioni e prove. John Milton, in quanto eminenza oscura di questo sistema, non fa che esasperarne le logiche: non crea il Male, lo legalizza. E così la legge, da promessa di ordine, diventa uno strumento di dominio. Non è un caso che il titolo stesso del romanzo evochi un’oscura ironia: “l’avvocato del diavolo” è, letteralmente, colui che difende il male rendendolo ragionevole.

Ed è proprio qui che il romanzo si fa più disturbante: nella sua analisi della persuasione. Satana non impone nulla: suggerisce, accompagna, insinua. È maestro nell’arte dell’autoinganno. Kevin non è un burattino, ma un uomo il cui desiderio è stato previsto, compreso, orientato. La sua libertà è reale, ma profondamente condizionata. Satana non si serve della paura, ma della gratificazione. È una guida, un mentore, un modello. Ed è in questo rapporto apparentemente libero ma segretamente coercitivo che si consuma la tragedia. Kevin non perde il controllo in un momento, ma in un lungo processo di accettazione progressiva: accetta di vincere cause sporche, accetta la ricchezza, accetta la menzogna. E infine accetta se stesso, nella sua nuova forma. Una forma che è già perduta.

In questa prima parte, Neiderman costruisce un sofisticato romanzo morale, che rinuncia a ogni moralismo per mostrare quanto la corruzione possa essere elegante, convincente, quasi irresistibile. Un’opera che non demonizza il Diavolo, ma lo riconosce come parte del mondo, come sintesi estrema del successo disumano. La domanda che resta sospesa non è “chi è Satana?”, ma “chi siamo noi, quando lo ascoltiamo?”

In L’avvocato del Diavolo, New York non è soltanto lo sfondo, ma un personaggio occulto, parte integrante del disegno diabolico. La metropoli si erge come un nuovo inferno verticale, fatto non di fiamme ma di vetro, acciaio e cemento. Le torri altissime che svettano sull’isola di Manhattan sembrano proiezioni architettoniche dell’ambizione, specchi neri che riflettono un cielo senza luce. È qui che si consuma la vera dannazione: nella spersonalizzazione, nella frenesia, nell’indifferenza di un mondo che si muove senza pietà e senza pause. Gli uffici dello studio Milton & Chadwick – labirintici, impersonali, spietatamente eleganti – somigliano più a un tempio del profitto che a uno studio legale. Neiderman suggerisce che l’inferno moderno non ha più bisogno di fuoco e zolfo: basta un ascensore che porta ai piani alti del potere, dove le anime si perdono sorridendo.

In questo scenario asettico e disumano, si svolge la lenta frattura dell’identità del protagonista. Kevin Taylor entra a New York come giovane avvocato affamato di successo e ne esce, se ne esce, come un uomo svuotato. Il conflitto tra l’immagine che ha di sé e l’uomo che sta diventando si fa via via più lacerante. La figura del doppio emerge in tutta la sua potenza simbolica nel momento in cui si scopre la verità sull’identità di John Milton: non solo mentore, ma anche padre biologico. Il legame di sangue si sovrappone a quello spirituale, il conflitto edipico si fonde con quello faustiano. Kevin è, letteralmente, il figlio del Diavolo. Eppure, proprio in questo groviglio di relazioni e proiezioni, si rivela una delle domande centrali del romanzo: è possibile sfuggire al proprio destino, o il Male si trasmette come un’eredità genetica, un vizio d’origine? La crisi identitaria diventa dunque crisi ontologica: chi è Kevin Taylor, se non la somma delle sue scelte e delle sue ombre?

Accanto a lui, quasi relegata in un angolo ma mai davvero assente, si consuma la tragedia silenziosa di Mary Ann, sua moglie. Figura fragile, sensibile, acuta nel percepire il disordine che si cela dietro l’apparenza, Mary Ann rappresenta l’intuizione ferita, il femminile sacrificato sull’altare del potere. La sua progressiva discesa nella follia – o forse nella lucidità spirituale – è uno degli elementi più disturbanti del romanzo. Mentre Kevin si afferma, lei si frantuma. Mentre lui stringe la mano al Diavolo, lei vede gli angeli caduti. È la sola che intuisce l’orrore, che ne subisce le vibrazioni sottili. Il suo corpo, la sua mente, il suo sguardo diventano il campo di battaglia invisibile tra realtà e menzogna. E quando cede, quando crolla, il lettore non assiste solo alla perdita di un personaggio, ma alla distruzione simbolica della coscienza profonda, dell’umanità ferita. In questo senso, il romanzo mette in scena anche la devastazione del principio femminile: empatia, intuizione, amore vengono sacrificati alla logica fallica del dominio.

Sotto la superficie della trama legale, Neiderman dissemina simboli religiosi, riferimenti esoterici e suggestioni cabalistiche. Il nome stesso di John Milton richiama l’autore di Paradise Lost, e l’intero romanzo sembra costruito come una contro-teologia perversa. Il Diavolo, qui, non si presenta come negazione del divino, ma come sua parodia perfetta. Non distrugge, ma corrompe. Non impone, ma seduce. Gli ambienti dello studio ricordano templi, i colloqui con Milton hanno la solennità di riti iniziatici, e la retorica usata è spesso di matrice biblica: redenzione, sacrificio, peccato, scelta. Anche l’albero della conoscenza è presente, ma camuffato da curriculum, da successo, da competizione. E la mela che viene offerta non è velenosa: è dolcissima, e sa di giustizia.

La struttura del romanzo si chiude con un colpo di scena che ha il sapore dell’eterno ritorno. Kevin sembra tornare all’inizio, ma lo fa con una consapevolezza nuova, come se avesse vissuto tutto in un sogno lucido, un’allucinazione morale. Eppure, proprio quando pare aver scelto diversamente, ecco che il Diavolo ritorna, con un volto diverso, ma la stessa voce. L’ultima battuta, beffarda e ambigua, lascia intendere che il gioco non è mai finito, che la scelta non è mai libera davvero, e che il Male non ha bisogno di ripresentarsi due volte: basta solo cambiare maschera. La struttura circolare del romanzo non è un ritorno alla salvezza, ma una spirale che si stringe. La possibilità di redenzione è lasciata aperta, ma è fragile, sottile, forse illusoria. Neiderman sembra volerci dire che l’Inferno non è una destinazione: è un’abitudine. Una scelta quotidiana. E che spesso lo attraversiamo senza nemmeno accorgercene.

Il Codice Rebecca di Ken Follett (1980): recensione.

Nel cuore infuocato del Nord Africa, in un Egitto sospeso tra le ombre dell’Impero britannico e i venti di guerra che soffiano dall’Europa, Il codice Rebecca di Ken Follett affonda le sue radici in un contesto storico sorprendentemente preciso e suggestivo. Il Cairo degli anni Quaranta, fulcro nevralgico della campagna del deserto, viene restituito con vividezza sensoriale: le strade polverose brulicanti di mercanti e spie, le ville coloniali dei funzionari britannici, le stanze afose dei quartier generali militari e il sottobosco di nazionalisti arabi che serpeggia sotto la superficie. Follett non si limita a costruire un fondale per la sua narrazione; lo abita con cura, incrociando l’arco della grande Storia con i destini individuali, e restituendo una città attraversata da tensioni politiche, ambiguità morali e zone d’ombra che vanno ben oltre i confini del fronte.

In questo scenario denso di polvere e sospetto si muove Alex Wolff, l’antagonista carismatico del romanzo, figura che incarna perfettamente l’ambiguità dello spionaggio in tempo di guerra. Wolff non è soltanto un agente del Terzo Reich, ma un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Conrad: multiforme, seducente, dotato di una mente affilata e di un autocontrollo spietato. La sua freddezza non è glaciale, ma lucidamente calcolata; la violenza che esercita, benché efferata, è spesso motivata da ragioni operative, mai impulsive. C’è in lui una sofisticazione intellettuale, un gusto per la strategia, ma anche un fondo oscuro che lo separa dall’umanità. La sua maschera è quella dell’uomo di mondo, dell’intellettuale trilingue, dell’affabulatore irresistibile. Eppure, sotto il fascino, cova il veleno della cieca fedeltà alla causa nazista e un narcisismo che lo rende tanto brillante quanto pericoloso.

A dargli la caccia, in una partita mortale giocata sul filo della tensione, è il maggiore William Vandam, ufficiale britannico d’intuito acuto e morale incrollabile. Vandam non ha il fascino esotico del suo rivale, né la sua raffinata crudeltà, ma si impone per la sua determinazione silenziosa, la pazienza da segugio, la capacità di leggere i segnali deboli. È un eroe quasi classico, più che moderno, e proprio in questo sta la sua forza narrativa: nella coerenza morale che lo guida, nel rigore con cui conduce la sua indagine anche quando tutto sembra crollare attorno a lui. In un mondo dominato dal caos e dal doppio gioco, Vandam rappresenta un barlume di razionalità e giustizia, senza però mai scivolare nella stereotipia.

Tra questi due poli si colloca Elene Fontana, figura femminile complessa e stratificata, che sfugge fin da subito al ruolo passivo di pedina nella trama. Elene è attrice e resistente, madre e amante, spia e vittima, ma soprattutto è una donna che rifiuta di essere definita soltanto dai ruoli che le circostanze le impongono. Il suo coinvolgimento nella vicenda non è mai secondario: agisce, sceglie, rischia. In un romanzo dominato da figure maschili, Elene è l’unico personaggio che riesce ad attraversare tutte le zone d’ombra con lucidità e passione, incarnando forse la dimensione più tragicamente umana del racconto. La sua bellezza non è fine a sé stessa, ma uno strumento che impara a usare. La sua fragilità non è debolezza, ma consapevolezza del rischio.

Infine, il codice “Rebecca” che dà il titolo al romanzo introduce una suggestiva intersezione tra fiction e realtà. Follett costruisce attorno al celebre romanzo di Daphne du Maurier un dispositivo narrativo che è allo stesso tempo omaggio e trovata ingegnosa: il libro, usato come chiave cifrata per trasmettere informazioni ai nazisti, diventa un simbolo del doppio, della dissimulazione, della voce che si cela sotto le parole. La scelta non è casuale: Rebecca, nella sua inquietudine gotica, nella sua ambiguità narrativa, risuona come un’eco della trama di spionaggio. È letteratura che nasconde, che traveste, che si fa cifra. In questo senso, Follett non costruisce solo una spy story di grande efficacia, ma una storia che riflette sulla potenza dei testi e sulla loro capacità di mascherare, ingannare e – talvolta – salvare.

Lo spionaggio, in Il codice Rebecca, non è solo l’asse portante della trama, ma il motore costante della tensione narrativa. Follett costruisce il conflitto come una partita a scacchi, dove ogni mossa dei personaggi produce una reazione immediata, spesso imprevedibile. La suspense non nasce da colpi di scena plateali, quanto piuttosto da un’attenta orchestrazione delle informazioni: il lettore sa quasi sempre qualcosa che gli altri personaggi ignorano, ma mai tutto, e questa parzialità genera un’attesa inquieta e vibrante. L’intreccio si stringe con precisione meccanica, alternando capitoli brevi, dialoghi serrati e un uso sapiente della narrazione parallela. Più che una semplice spy story, il romanzo tende verso il thriller psicologico, in cui il vero campo di battaglia è la mente dei personaggi: la paranoia, il dubbio, il sospetto si insinuano ovunque, tanto tra i nemici quanto tra gli alleati.

Questa tensione è resa ancora più profonda dallo sviluppo del tema del doppio e dell’identità, che attraversa l’intera narrazione come una vena sotterranea. Quasi tutti i personaggi principali conducono vite parallele, indossano maschere, celano verità inconfessabili. Wolff è l’emblema stesso del travestimento: vive sotto falsa identità, si muove tra più lingue e più culture, manipola la realtà al punto da rendere incerto persino il suo passato. Ma anche Elene, attrice e spia, si muove tra i ruoli con inquietante disinvoltura, mentre lo stesso Vandam, pur essendo la figura più lineare, si trova costretto a compiere scelte che mettono in discussione la sua integrità. In tempo di guerra, l’identità diventa instabile, fragile, un territorio da difendere o da sacrificare. L’ambiguità diventa necessità, e la menzogna una forma di sopravvivenza.

Lo stile di Ken Follett è, come sempre, diretto e funzionale. Non si perde in digressioni, non indulge nella prosa ricercata: preferisce la chiarezza dell’azione, la forza dell’intreccio, la precisione del dettaglio storico. La struttura del romanzo si basa su un’alternanza regolare tra i punti di vista di Wolff e Vandam, un montaggio quasi cinematografico che restituisce ritmo e tensione. Questo doppio sguardo, che segue l’agente e il suo inseguitore, permette al lettore di vivere entrambi i lati della partita, ma anche di entrare nelle zone grigie della moralità, senza trovare rifugi sicuri. La narrazione non perde mai il passo: ogni scena ha una funzione, ogni dialogo spinge avanti la storia, ogni descrizione è al servizio dell’atmosfera. Follett non scrive per stupire, ma per incalzare.

Ed è proprio attraverso questo stile asciutto, privo di orpelli, che il romanzo riesce a porre domande tutt’altro che banali sul concetto di bene e male. In un conflitto totale come quello della Seconda guerra mondiale, le categorie morali tradizionali si sfaldano. Vandam, pur combattendo dalla parte “giusta”, si trova a torturare prigionieri e a ricattare alleati. Wolff, per quanto ideologicamente aberrante, appare spesso più lucido e coerente di molti dei suoi avversari. Elene stessa si muove in uno spazio etico mobile, dove le scelte si fanno nel buio, spesso senza sapere se si salverà qualcuno o se si condannerà qualcun altro. La guerra, suggerisce Follett, è il teatro perfetto dell’ambiguità, e la giustizia, in questo teatro, è una recita che spesso non ha spettatori.

Confrontando Il codice Rebecca con altre opere di Follett, in particolare con La cruna dell’ago, si nota come l’autore prediliga l’intreccio storico al servizio della suspense, e come i suoi migliori romanzi siano quelli in cui riesce a fondere la documentazione con il ritmo del thriller. La cruna dell’ago è forse più compatto, più claustrofobico, ma Il codice Rebecca ha una dimensione corale e un’esotica eleganza che lo rendono altrettanto potente. Rispetto alla produzione successiva di Follett, più orientata verso i romanzi storici di grande respiro (I pilastri della Terra, La caduta dei giganti), questo libro rappresenta una fase diversa, ma non per questo minore: un perfetto esempio di narrativa di genere capace di interrogare la storia con intelligenza e di intrattenere senza mai rinunciare alla complessità.

In definitiva, Il codice Rebecca è un romanzo denso, preciso, godibile. Un thriller d’atmosfera che non si limita a far battere il cuore, ma che costringe anche a riflettere, con discrezione, su ciò che resta dell’identità, della verità e dell’umanità quando tutto intorno è guerra.