Nel panorama del cinema italiano degli anni ’70, il giallo ha rappresentato un genere di punta, in grado di coniugare mistero, suspense e una certa dose di violenza visiva. Nessun altro regista ha saputo elevare il giallo a una forma d’arte visiva e narrativa come Dario Argento, e “Profondo Rosso”, uscito nel millenovecento settantacinque, ne rappresenta l’apice creativo. Con una sapiente miscela di suspense, estetica barocca e una colonna sonora che ha fatto scuola, il film è stato immediatamente riconosciuto come un capolavoro, confermando Argento come uno dei più grandi maestri del brivido.
La trama di “Profondo Rosso” si sviluppa attorno alla figura di Marcus Daly, un pianista inglese interpretato da David Hemmings, che diventa testimone di un efferato omicidio ai danni di una sensitiva, Helga Ulmann (Macha Méril). Spinto da un crescente interesse e dall’incapacità di dimenticare un dettaglio chiave, Marcus inizia un’indagine parallela a quella della polizia, affiancato dalla giornalista Gianna Brezzi, interpretata da Daria Nicolodi, musa e partner di Argento in quegli anni.
La sceneggiatura di Argento, co-scritta con Bernardino Zapponi, gioca abilmente con i temi del doppio, del trauma rimosso e della percezione distorta, tipici della psicanalisi freudiana. Il dettaglio che Marcus non riesce a cogliere si rivela essere la chiave di volta del mistero, in un climax che sfocia in una verità sconvolgente. Argento sfrutta al massimo i meccanismi del giallo classico, disseminando indizi che solo alla fine trovano una coerenza, ma lo fa aggiungendo la sua tipica propensione per l’horror visivo e per una violenza quasi coreografica, trasformando ogni omicidio in una sorta di raccapricciante performance.
Il tema del trauma è uno degli elementi centrali in “Profondo Rosso”, non solo come espediente narrativo, ma come vero e proprio motore psicologico del film. Marcus Daly si trova a dover ricostruire non solo l’enigma di un omicidio, ma anche la sua stessa percezione della realtà. La scena chiave, quella in cui Marcus assiste all’omicidio della sensitiva Helga, è un perfetto esempio di come Argento giochi con la rimozione del trauma: lo spettatore, proprio come il protagonista, vede qualcosa di cruciale, ma non riesce a elaborarlo fino a quando tutti i pezzi del puzzle non si ricompongono. Questo meccanismo rimanda direttamente alla psicanalisi freudiana, e suggerisce che il film non sia solo un viaggio fisico tra gli indizi, ma un’indagine psicologica che scava nel passato e nell’inconscio.
David Hemmings, già noto per il suo ruolo in “Blow-Up” di Michelangelo Antonioni, incarna un protagonista curioso ma vulnerabile, lontano dall’eroe infallibile tipico di molti thriller. La sua performance sobria e controllata crea un interessante contrasto con l’atmosfera surreale e violenta che lo circonda. Daria Nicolodi, al contrario, porta sullo schermo un personaggio vivace e ironico, la cui leggerezza bilancia i toni cupi del film, offrendo anche uno spunto di riflessione sul rapporto di genere, con Gianna che sfida apertamente il machismo di Marcus.
Un tema ricorrente nel cinema di Argento è la rappresentazione del femminile, spesso ambigua e controversa. In “Profondo Rosso”, i personaggi femminili sono centrali, ma si muovono in una costante ambivalenza tra forza ed estrema vulnerabilità. Da un lato, abbiamo Gianna Brezzi, interpretata da Daria Nicolodi, una donna emancipata e indipendente, che sfida continuamente le convenzioni di genere, dall’altro, le vittime femminili sono figure fragili, spesso ridotte a oggetti del desiderio o della violenza. Questa dicotomia tra forza e debolezza, emancipazione e pericolo, riflette le tensioni culturali dell’epoca, ma apre anche a una lettura critica del ruolo delle donne nei film di genere, in cui la loro rappresentazione oscilla tra progressismo e stereotipo.
Il resto del cast, pur ricoprendo ruoli secondari, contribuisce a creare quell’aura di mistero e inquietudine che caratterizza il film. Ogni personaggio sembra nascondere un segreto, e le interpretazioni volutamente sopra le righe di alcuni attori contribuiscono a rendere l’atmosfera ancora più disturbante e onirica.
La regia di Dario Argento in “Profondo Rosso” è il vero protagonista. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina è studiato per amplificare la tensione e disorientare lo spettatore. Argento utilizza long take mozzafiato, zoom improvvisi e carrellate che seguono i personaggi da angolazioni insolite, creando un senso di minaccia costante. Gli omicidi, coreografati con precisione maniacale, diventano veri e propri spettacoli di sangue e violenza estetizzata, ma mai gratuita. L’utilizzo di riflessi, specchi e superfici traslucide crea un gioco visivo in cui lo spettatore, come Marcus, è chiamato a decifrare ciò che vede, ma rischia sempre di essere tratto in inganno.
La fotografia di Luigi Kuveiller è un elemento fondamentale per il successo visivo del film. Kuveiller adopera una tavolozza di colori saturi e accesi, che richiamano l’estetica del cinema barocco italiano e si ispirano alle opere di registi come Mario Bava. Il rosso, come suggerisce il titolo, domina la scena, ma non è mai fine a sé stesso. Viene utilizzato per segnalare momenti chiave, sottolineare la violenza o anticipare l’orrore. La scelta di ambientazioni reali, come l’architettura decadente di Torino, conferisce al film una dimensione quasi gotica, dove il passato sembra intrappolare i personaggi in una spirale di morte e follia.
Se l’aspetto psicanalitico domina il racconto, è l’estetica del colore a rendere “Profondo Rosso” un’opera visivamente rivoluzionaria. Il rosso, come suggerisce il titolo, è il colore cardine che non solo simboleggia il sangue e la violenza, ma diventa un segnale visivo che preannuncia momenti di scoperta o di pericolo. Argento, influenzato dal cinema di Mario Bava, utilizza il colore in modo espressionista, caricandolo di significati psicologici. Il contrasto tra i colori saturi e gli spazi oscuri riflette anche l’ambiguità morale dei personaggi e delle situazioni. Approfondire questo uso simbolico del colore ci permette di comprendere come Argento non si limiti a dirigere un thriller, ma costruisca un universo visivo denso di significati.
Il legame di Dario Argento con le arti visive è evidente in ogni scena di “Profondo Rosso”. Gli ambienti, spesso spazi vuoti o claustrofobici, sembrano riflettere lo stato mentale dei personaggi. L’uso di architetture reali, come la decadente villa torinese in cui si svolge uno degli omicidi, diventa parte integrante della narrazione, creando una dimensione gotica e surreale. Le inquadrature di Argento, che spesso enfatizzano angoli impossibili o riflessi distorti, creano un senso di disorientamento e isolamento. Interessante notare come alcuni interni richiamino opere pittoriche, in particolare il realismo freddo di Edward Hopper o il surrealismo di De Chirico. Gli spazi, dunque, non sono meri fondali, ma luoghi che amplificano la tensione emotiva e psichica del film.
Se “Profondo Rosso” è ricordato anche per un altro elemento, questo è sicuramente la colonna sonora dei Goblin. La collaborazione tra Argento e il gruppo guidato da Claudio Simonetti ha dato vita a uno dei temi musicali più iconici del cinema horror. Il mix di rock progressivo, sintetizzatori e melodie inquietanti accompagna perfettamente l’atmosfera del film, enfatizzando i momenti di tensione e diventando parte integrante dell’esperienza sensoriale dello spettatore. Il tema principale, con il suo ritmo ipnotico e incalzante, è diventato leggendario e ha influenzato numerosi compositori successivi.
Uno degli aspetti più affascinanti del cinema di Argento è il suo rapporto con lo spettatore, che in “Profondo Rosso” diventa a tutti gli effetti un co-detective. Attraverso l’uso di indizi visivi e inganni percettivi, Argento costringe il pubblico a partecipare attivamente alla risoluzione del mistero. Lo spettatore, come Marcus, si trova spesso ad essere disorientato e ingannato, con l’illusione di avere in mano la chiave per svelare il mistero, solo per scoprire alla fine di essere stato fuorviato. Questo meccanismo coinvolge lo spettatore su un piano emotivo e cognitivo, rendendo l’esperienza di visione unica nel suo genere.
Alla sua uscita nel millenovecento settantacinque, “Profondo Rosso” divise la critica. Da un lato, molti lo elogiarono per l’audacia visiva e la capacità di Argento di trasformare un giallo in un’opera d’arte, dall’altro, alcuni critici più conservatori lo trovarono troppo violento e stilizzato. Il pubblico, però, rispose con entusiasmo: il film divenne subito un successo commerciale, consolidando Argento come un maestro del genere.
Nel corso degli anni, il film ha guadagnato sempre più consensi, diventando un calt e influenzando una generazione di registi, tra cui John Carpenter, David Lynch e Quentin Tarantino. La sua estetica è stata ripresa in numerosi film horror successivi, e la colonna sonora dei Goblin ha continuato a ispirare musicisti di tutto il mondo.
Durante le riprese, uno degli episodi più curiosi riguarda proprio la casa in cui si svolge uno degli omicidi principali. Argento decise di girare in una villa abbandonata a Torino, che molti ritenevano infestata. La troupe riportò episodi strani e inspiegabili, contribuendo a creare un alone di mistero attorno al film. Inoltre, si racconta che Argento abbia voluto dirigere personalmente alcune delle scene di omicidio più cruente, come quella della decapitazione finale, per garantire la precisione visiva che aveva in mente.
“Profondo Rosso” è diventato un punto di riferimento non solo per il cinema di genere, ma per la cultura pop in generale. Ha aperto la strada a film come “Halloween” di Carpenter, che ha ripreso molti degli stilemi visivi e narrativi di Argento, e ha contribuito a ridefinire il ruolo della colonna sonora nell’horror, trattandola come un elemento diegetico tanto quanto le immagini.
Profondo Rosso” rappresenta un esempio perfetto di come il giallo italiano abbia saputo evolversi, ibridando il thriller psicologico con l’horror viscerale. Se da un lato il film segue le regole del giallo classico – un mistero da risolvere, un detective dilettante, una serie di indizi disseminati lungo la trama – dall’altro introduce elementi tipicamente horror, come la rappresentazione grafica della violenza e un’atmosfera costante di terrore latente. Questo connubio di generi ha influenzato pesantemente il successivo cinema horror, in particolare lo slasher americano, di cui “Profondo Rosso” può essere considerato un precursore.
In conclusione, “Profondo Rosso” è molto più di un giallo. È un’opera che, attraverso la sua estetica radicale, la sua colonna sonora avanguardista e la sua trama avvincente, ha saputo ridefinire i confini del cinema di genere, imponendosi come un classico senza tempo. Per chi ama il cinema dell’orrore, resta un’esperienza visiva e sensoriale imperdibile.
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Hai reso pienamente giustizia ad un autentico capolavoro. E’ uno dei miei film preferiti in assoluto.
Grazie. 🙂