La neve cadeva leggera quella notte, posandosi silenziosa su ogni cosa, coprendo con il suo manto bianco le strade, le case, le colline ed i vigneti, e perfino i rami spogli degli alberi che circondavano il piccolo villaggio.
Le luci di Natale brillavano in ogni finestra, sfumate dalla bruma invernale e dalla neve che si accumulava sui vetri. In ogni casa si percepiva l’attesa, quella gioia febbrile e quasi palpabile che solo il Natale sa portare con sé.
Eppure, c’era qualcos’altro, un’ombra sottile che serpeggiava tra le strade deserte e le case addormentate, come un’inquietudine che, per un istante, faceva dimenticare a tutti la magia della festa.
Mia nonna mi aveva raccontato della leggenda del Guardiano della Notte Bianca, un essere che appariva sulle colline piacentine ogni anno proprio a Natale. Non era Babbo Natale, e nessun bambino sarebbe mai stato felice di incontrarlo.
La leggenda diceva che il Guardiano si aggirava tra le case quando tutto era silenzio, osservando le finestre illuminate, spiando i volti addormentati dietro i vetri appannati. Era una figura alta e magra, dai tratti gelidi, con occhi che riflettevano solo il bianco della neve e un sorriso che si allargava freddo e tagliente sul viso come una ferita.
I bambini più piccoli venivano ammoniti a non fare rumore la notte di Natale, a non scendere dal letto e, soprattutto, a non guardare fuori dalla finestra se udivano il suono di passi sulla neve.
All’inizio pensavo fosse solo una storia, una di quelle favole spaventose per tenere buoni i bambini. Ma poi, qualcosa iniziò a cambiare nel villaggio. Si cominciò a parlare di figure di neve che apparivano nei cortili, sagome indistinte che, al mattino, sembravano aver assunto sembianze quasi umane, con occhi vuoti e bocche contorte in smorfie inquietanti.
Oggetti piccoli e insignificanti sparivano dalle case: giocattoli, pupazzi, a volte persino piccoli oggetti che erano stati lasciati davanti alla finestra. Le persone trovavano impronte che non sapevano spiegarsi, tracce che partivano da un punto e si dissolvevano senza lasciare alcun indizio su dove fossero finite.
Poi, proprio la notte di Natale, accadde qualcosa che scosse l’intero villaggio. Il piccolo Marco, il figlio di una giovane coppia della nostra strada, scomparve senza lasciare traccia. I suoi genitori erano disperati, l’intero villaggio si mobilitò per cercarlo.
Entrai nella sua cameretta, chiamato dai genitori in cerca di risposte, e vidi una scena che ancora mi gela il sangue. Sul letto c’era un pacchetto regalo, strappato e vuoto, come se qualcosa lo avesse aperto dall’interno. Sul vetro della finestra, che dava sul cortile innevato, c’era un’impronta – una mano sottile e allungata, impressa nella condensa, lasciando solo l’ombra di un gelo innaturale.
Quella sera, incontrai il vecchio Jacopo, un anziano che viveva alla periferia del villaggio. Ricordo il suo sguardo, severo e pieno di un’angoscia antica. “Non lasciate porte o finestre aperte, neanche per un istante,” ci avvertì. “Ho visto il Guardiano della Notte Bianca, tanto tempo fa, e non è nulla che un uomo dovrebbe vedere. La sua mano è fredda come il ghiaccio e il suo sguardo… il suo sguardo ti congela l’anima. Non fate rumore, non chiamatelo. Restate chiusi in casa e sperate che non noti la vostra presenza.”
In quel momento capii che non si trattava più solo di una leggenda.
Ogni notte, al calare delle tenebre, il villaggio si faceva sempre più silenzioso, come se tutti gli abitanti trattenessero il respiro. Non era il silenzio placido della neve che cadeva, ma un silenzio carico di attesa e timore. Poi, allo scoccare della mezzanotte, un suono inaspettato squarciava quell’atmosfera sospesa: le campane della chiesa, che non dovevano suonare. Quel rintocco profondo si propagava nell’aria fredda come un richiamo arcano, un presagio che faceva rabbrividire chiunque fosse ancora sveglio.
Il vecchio Jacopo mi aveva detto che quel suono annunciava l’arrivo del Guardiano, e da allora ogni notte, quando sentivo quel cupo rintocco, non potevo fare a meno di tremare. Più di una volta mi sono svegliato nel cuore della notte, scosso da un senso di angoscia. Guardavo fuori dalla finestra, cercando di scorgere un movimento, un’ombra, qualsiasi cosa… e in lontananza, tra le case, mi sembrava di intravedere una figura, un’ombra sottile che avanzava nella neve.
Poi l’ultimo giorno dell’anno qualcosa di raccapricciante fu trovato nel bosco, appena fuori dal villaggio. Alcuni abitanti avevano visto delle figure strane, sagome congelate nella neve che sembravano formare una sorta di macabra composizione. Mi avvicinai e vidi ciò che loro avevano descritto: corpi di piccoli animali, congelati, disposti a formare disegni stilizzati che ricordavano figure umane. Le loro sagome tracciavano nella neve una danza inquietante, con volti che sembravano fissarci con espressioni di terrore. Uno dei disegni, il più grande, aveva un volto che mi parve stranamente familiare… il volto del piccolo Marco, il bambino scomparso.
Fu in quei giorni che qualcuno trovò il diario di un bambino scomparso molti anni prima. Le pagine erano ingiallite e fragili, ma le parole raccontavano una storia terribile. Il bambino scriveva di aver incontrato una figura durante la notte di Natale, una presenza che gli parlava dolcemente, come un amico immaginario. Lo chiamava “Il Guardiano”, e nelle prime pagine il bambino raccontava con entusiasmo di come quella figura lo osservasse dalla finestra e gli facesse cenni amichevoli. Ma, man mano che le pagine scorrevano, il tono cambiava. Il Guardiano appariva sempre più spesso, e il bambino iniziava a sentire freddo, anche nel sonno, un gelo che sembrava invadergli il cuore. Le ultime pagine del diario erano piene di scarabocchi e parole spezzate, interrotte da frasi come “È qui… non riesco a respirare” e “Non è un amico… vuole me”.
Alla vigilia dell’epifania, io e alcuni amici decidemmo che era giunto il momento di affrontare quella creatura, qualsiasi cosa fosse. Non potevamo lasciare che un’altra famiglia perdesse qualcuno. Ci armammo di coraggio, portando con noi solo delle torce e i nostri amuleti, quelli che ci avevano detto che avrebbero tenuto lontano il Guardiano. Ci posizionammo fuori dalle case, sul limite del bosco, e aspettammo in silenzio, con il fiato sospeso. Le campane iniziarono a suonare ancora, e in quel momento apparve lui.
Non era come lo immaginavo, eppure era anche peggio. La figura sembrava fatta di neve e ombre, alta, con occhi vuoti e gelidi che brillavano di una luce inquietante. Il suo volto sembrava muoversi, assumendo forme diverse come se stesse cercando qualcosa che riconoscessimo, qualcosa che ci facesse abbassare la guardia. Sentivo un freddo intenso, il gelo che sembrava provenire direttamente da lui. Ci guardava, come se sapesse esattamente chi fossimo, come se riconoscesse ogni nostra paura.
Quella notte riuscii a malapena a scappare. Lo vidi avanzare, lento, con una mano tesa verso di me, e solo l’urlo di uno dei miei amici mi distolse da quello sguardo gelido. Riuscimmo a rifugiarci nelle nostre case, chiudendo porte e finestre, ascoltando in preda al terrore i suoi passi fuori, che si allontanavano.
Il mattino seguente, il villaggio sembrava tornato alla normalità. La neve copriva ogni cosa, e le case erano di nuovo tranquille. Ma quando uscii, trovai un piccolo giocattolo nel cortile, semi-sepolto nella neve, il giocattolo preferito di Marco. Solo allora capii che il Guardiano non sarebbe mai andato via.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.
Le colline piacentine sembravano sempre avvolte da un segreto, un respiro antico che sussurrava tra i filari di vite e i ruderi dimenticati. In autunno, soprattutto, una nebbia pesante calava su quei luoghi, come se il paesaggio stesso volesse nascondere qualcosa. Tra i contadini del luogo, quella stagione era anche la più temuta, perché portava con sé le storie su Elisabetta Terza di Rivergaro, una donna dal passato oscuro e avvolto in leggende di sangue e magia.
Elisabetta era stata una nobildonna fiera e impietosa, discendente di una famiglia ricca e influente. Era cresciuta circondata dal lusso, ma ciò che desiderava più di ogni altra cosa era il potere – un potere che, si diceva, avesse trovato nel vino delle sue vigne e nel sangue versato dai servi più fedeli. A ogni vendemmia, Elisabetta pretendeva tributi dai contadini: animali, oggetti preziosi e, quando le voci correvano più spaventose, anche sacrifici umani. Gli anziani narravano che la sua bellezza nascondesse un cuore corrotto, e che le sue terre prosperassero solo grazie a un patto oscuro che aveva stretto con forze che andavano oltre il mondo dei vivi.
Un giorno, quando i contadini provarono a ribellarsi alla sua crudeltà, Elisabetta rispose con una maledizione. Minacciò che chiunque attraversasse i suoi confini senza il dovuto tributo avrebbe subito una sorte terribile. Fu così che, una notte, le autorità del tempo la catturarono e la condannarono per stregoneria, trascinandola fuori dal suo castello e gettandola in un pozzo. Ma Elisabetta non si ribellò: aveva già oltrepassato il confine tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, e il suo ultimo respiro risuonò come un’eco nelle colline, promettendo vendetta e tenendo legata la sua anima a quei luoghi.
Da allora, nelle notti d’autunno, quando la nebbia si addensa, gli abitanti delle colline non escono di casa. Le famiglie locali lasciano piccoli tributi ai margini dei vigneti: monete d’argento, bicchieri di vino, perfino pezzi di pane avvolti in panni rossi. Alcuni dicono che questi doni siano l’unico modo per tenere lontana l’ombra di Elisabetta, che vaga tra i filari alla ricerca di chi ha osato sfidare il suo riposo.
Quella notte, due ragazzi di città, Lara e Filippo, si avventurarono tra quei vigneti, ridendo delle storie che avevano sentito. Lara era stata titubante, ma Filippo, il più scettico dei due, la aveva convinta a seguirlo. Erano cresciuti insieme, un’amicizia che col tempo aveva acquisito sfumature più profonde. Filippo scherzava sempre, cercando di far ridere Lara, ma quella notte, mentre camminavano tra i filari, si rese conto che la sua amica sembrava più inquieta del solito.
“E dai, sono solo storie! Sono state inventate per tenere lontani i curiosi come noi,” disse lui, con una risata forzata. Ma, in fondo, anche lui non riusciva a scrollarsi di dosso una strana sensazione. Lara, invece, sembrava ascoltare ogni suono attorno a loro, come se temesse di disturbare qualcosa di sacro. Teneva stretto un piccolo amuleto di giada verde, un dono della nonna, che le aveva detto di portarlo sempre con sé come protezione.
Il sentiero si fece più stretto mentre si avvicinavano al castello. L’aria era umida, e l’odore di foglie bagnate e di terra impregnata di rugiada li avvolgeva. Il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal vento lontano che fischiava tra le colline. La luna piena illuminava appena i ruderi del castello, che sembravano occhi vuoti, osservatori silenziosi e immutabili.
Quando giunsero al cancello, i due ragazzi si fermarono. Il castello era in rovina, le mura annerite dal tempo e coperte di rampicanti spogli. Filippo si avvicinò con passo deciso, aprendo il cancello con un cigolio che ruppe il silenzio. Fece cenno a Lara di seguirlo, e lei lo seguì, ma con un misto di apprensione e curiosità.
Si avvicinarono al cortile, dove una pergola antica si ergeva ancora, coperta da viti contorte e secche. In quell’oscurità, le radici sembravano affondare direttamente nella terra, nutrendosi di qualcosa di ben diverso dalla semplice acqua. Lara si fermò, posando il suo amuleto a terra come offerta, ricordando le storie che la nonna le aveva raccontato. Filippo, sorridendo per farsi coraggio, estrasse una vecchia moneta che portava in tasca, trovata in una vecchia cassa nella soffitta del nonno, e la lasciò accanto all’amuleto di Lara.
Per un istante tutto rimase immobile. Poi, il vento soffiò tra le rovine, e Lara si sentì stringere le budella. Una risata, sottile e crudele, sembrò risuonare nell’aria. I due ragazzi si guardarono, pallidi, sentendo di aver appena oltrepassato un confine che non avrebbero mai dovuto attraversare.
Lara e Filippo rimasero immobili nel cortile del castello, respirando a fatica nell’aria gelida che sembrava farsi più densa a ogni passo. Attorno a loro, il castello emergeva come un gigante scheletrico contro la luna, con mura annerite e finestre vuote come orbite prive di vita. Ogni angolo sembrava reclamare silenzio, un silenzio che soffocava anche i pensieri. Lara si voltò verso Filippo, il cuore accelerato, e sussurrò: “Forse dovremmo andare…”
Ma Filippo, affascinato dal mistero che si nascondeva tra quelle mura, si avvicinò all’entrata principale, richiamando Lara con uno sguardo. Avanzarono tra pietre sparse e tralci di vite contorti che sembravano mani scheletriche. Alcuni di quei rami sembravano animati, piegandosi come se cercassero di afferrarli. Il cortile era un deserto di rovine e foglie marce, ma l’odore della terra, umida e densa, era permeato da una strana dolcezza, come di uva fermentata da tempo.
Superata l’entrata, i ragazzi si ritrovarono in un lungo corridoio in penombra, con muri che si sgretolavano e antichi arazzi ridotti a brandelli. Ogni passo faceva scricchiolare il pavimento di pietra, e Lara percepiva un’inquietante sensazione di occhi puntati su di loro. Proseguirono fino a raggiungere una stanza più ampia, quella che doveva essere stata una sala di ricevimento. Al centro, un antico lampadario pendeva dal soffitto, i cristalli rotti riflettevano la luce lunare in bagliori che parevano occhi vacui.
Poi, accadde qualcosa. Un movimento rapido, quasi impercettibile, al limite del loro campo visivo. Filippo si voltò di scatto, ma non c’era nulla. Solo un lieve sussurro tra le pareti. “Hai visto anche tu?” mormorò, cercando gli occhi di Lara. Lei annuì lentamente, incapace di trovare le parole. In quell’istante, un sussurro serpeggiò nell’aria: una lagnanza distante, come se qualcuno stesse parlando tra sé e sé, lamentele dolenti che si spegnevano nel silenzio.
Scossi, si spostarono verso una porta aperta alla fine della sala. Era socchiusa, come se li invitasse a entrare. Dietro quella porta si trovava una scalinata in pietra che scendeva ripida nel buio. Lara esitò, ma Filippo, con un’ultima occhiata rassicurante, si fece avanti, la mano stretta attorno a una piccola torcia che illuminava appena i gradini davanti a loro.
La cantina del castello era un intrico di corridoi e archi bassi, una volta usata probabilmente per conservare botti di vino. Adesso, era un labirinto silenzioso, con vecchie botti spaccate e residui di antiche travi annerite. Lara avvertiva una presenza pesante nell’aria; le sembrava quasi che il suo respiro rallentasse. Mentre si addentravano nella penombra, la torcia cominciò a vacillare, e nell’ombra intravidero delle figure: uomini e donne, volti trasfigurati dal terrore. Apparivano e svanivano in un battito di ciglia, ma ogni volto, ogni figura, portava i segni di una sofferenza antica.
“Li vedi anche tu?” sussurrò Lara, senza distogliere lo sguardo da quelle apparizioni spettrali. Filippo annuì, senza fiato. Una figura in particolare li fece gelare: una donna in abiti antichi, dagli occhi spenti e il volto consumato dall’odio. Era Elisabetta. Sembrava che stesse ripetendo un antico rituale, le mani alzate verso l’alto e un sorriso contorto sul volto. I suoi occhi si spostarono lentamente su di loro, e il suo sguardo li perforò come lame di ghiaccio.
All’improvviso, Lara si sentì trascinata altrove, come risucchiata in un ricordo non suo. Era come se stesse vivendo la vita di qualcun altro: si trovava davanti a Elisabetta, nel suo castello, circondata da servitori timorosi. In un lampo vide la nobildonna gettare polveri scure sul pavimento, mentre sussurrava parole in una lingua arcana. Intuì che Elisabetta stava invocando forze oscure, patti di sangue per mantenere il suo potere. Lara riuscì a sentire l’orrore dei servi che la osservavano, troppo terrorizzati per ribellarsi, troppo intimoriti per fuggire.
Un secondo dopo, era di nuovo nel presente, con Filippo che la scuoteva leggermente. “Lara, che ti succede?” chiese, la voce carica di paura. Ma Lara non riusciva a rispondere: la visione le aveva lasciato un senso di nausea e angoscia. Sentiva di essere stata toccata dall’oscurità stessa.
Le ombre nella cantina cominciarono a muoversi di nuovo. Una figura, un uomo pallido, avanzò verso di loro, con gli occhi vuoti e un sussurro che sembrava un lamento. “Non ci lascia andare… Nessuno… sfugge al suo potere…” Le sue parole sembravano uscire dal nulla, un sussurro privo di vita, eppure così dolorosamente reale.
Improvvisamente, un urlo straziante squarciò il silenzio. Lara e Filippo si voltarono di scatto, vedendo l’ombra di Elisabetta ingigantirsi contro il muro. Ora non era più una figura vaga: la sua forma era solida, i suoi occhi bruciavano di un odio intenso. Avanzava verso di loro, e ogni passo sembrava portare con sé il suono di vetri infranti e ossa spezzate.
“Tributi…” sibilò. “Non bastano mai…”
I ragazzi si voltarono e corsero, inciampando tra le botti e cercando disperatamente una via d’uscita. Ma il castello sembrava vivo, il percorso si perdeva in corridoi senza uscita, mentre il suono dei passi di Elisabetta si faceva sempre più vicino, quasi li soffocasse. Lara inciampò, e in quel momento la vide: Elisabetta, inginocchiata accanto a lei, con il volto distorto da un sorriso crudele. Lara strinse l’amuleto che ancora portava al collo, sussurrando una preghiera. Era l’ultima speranza.
Senza sapere come, riuscirono a trovare la scala e salirono, ma mentre raggiungevano la superficie, Lara si sentiva come se l’oscurità la seguisse. Uscirono dal castello e si lanciarono verso il sentiero, ma Elisabetta non li lasciava. Si voltò un’ultima volta, vedendo la sagoma di Elisabetta sfumare nella nebbia, con quel sorriso agghiacciante che le rimase impresso.
Tornarono al villaggio in silenzio, senza mai parlare di ciò che avevano visto. Ma la maledizione non finì con la fuga. Da quella notte, Lara iniziò a vedere ombre anche nella sua stanza, figure che si muovevano alle sue spalle. Filippo, invece, sentiva sussurri nell’oscurità, e ogni notte si svegliava col cuore in gola, come se una presenza gli stesse rubando l’anima a poco a poco.
Capirono troppo tardi che nessuno sfugge a Elisabetta.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Cosimo Santini, il professore, non era poi così santo. Certo, la città pensava di sì. Lo chiamavano “il chierico senza tonaca” per come andava in giro, sempre curvo sotto il peso della sua cartella di pelle marrone, che aveva visto più pioggia e polvere che giorni di gloria. Era un uomo di mezza età con la schiena piegata da libri troppo pesanti e il collo rigido per i troppi anni passati a guardare il cielo come se stesse cercando Dio o una scusa per mollare tutto. Ma non era un santo. No, non del tutto. Aveva un passato. E i santi non hanno passati, o almeno, non si fanno mai beccare a pensarci.
Il professor Santini viveva da solo in un appartamento che puzzava di muffa, in cima a un edificio che era già vecchio quando Garibaldi era ancora vivo. La porta cigolava come un cane ferito, e dentro c’era solo l’essenziale: una sedia, un tavolo, una branda più dura delle sue idee sul peccato e un Crocifisso appeso sopra una parete spelacchiata. Aveva una routine che seguiva con precisione quasi militare. Si svegliava alle sei, beveva un caffè nero come l’inchiostro e amaro come la sua visione della vita, e poi usciva per andare a scuola. Lì, spiegava i versi di Orazio e Virgilio a ragazzi che non gliene fregava un accidente. Tornava a casa la sera, recitava le preghiere come un automa, e si addormentava con il libro dei salmi aperto sul petto.
Ma c’era qualcosa di storto in lui, qualcosa che lo teneva sveglio nel cuore della notte. Quando il mondo dormiva e la sua città di pietra taceva, lui si trovava a fissare il soffitto, sudato e in ansia, come se un demone invisibile lo stesse tormentando. Magari era il ricordo di sua moglie morta troppo presto, o il fatto che gli anni migliori li aveva sprecati a insegnare grammatica latina a ragazzi che preferivano tirarsi palle di carta in testa. O magari era semplicemente che si sentiva vivo solo quando soffriva.
Violetta era come un’esplosione in un vicolo buio. Una di quelle ragazze che nascono sapendo di essere belle e passano la vita a usarlo come un’arma. I suoi capelli scendevano come onde scure e i suoi occhi sembravano due lame affilate pronte a squarciare chiunque si mettesse sulla sua strada. Si muoveva con una sicurezza che non era affatto naturale per i suoi diciotto anni, come se ogni passo fosse una dichiarazione di guerra al mondo intero.
Era la figlia di un mercante di stoffe che aveva più soldi che buon senso. Uno di quei tipi che pregano la domenica mattina e tradiscono la moglie il lunedì sera. Quando Violetta non passava il tempo a litigare con suo padre o a provocare i ragazzi del quartiere, si annoiava. E per una ragazza come lei, l’ozio era pericoloso. La noia la spingeva a cercare guai, e li trovava sempre.
Il padre, stanco dei suoi capricci, aveva deciso che era tempo di darle qualcosa da fare. E quale miglior modo di distrarla se non con delle lezioni private? Così aveva chiesto al parroco chi fosse il miglior insegnante in città. La risposta era stata immediata: Cosimo Santini
Quando Violetta arrivò alla porta del professore per la prima volta, lui era già preparato a riceverla. Indossava il suo abito migliore – che comunque sembrava uscito da un cassonetto – e aveva lucidato le lenti dei suoi occhiali rotondi finché non sembravano due specchi. Ma quando aprì la porta e la vide, qualcosa in lui si spezzò. Lei era tutto quello che aveva cercato di evitare per tutta la vita: il peccato incarnato.
Indossava un vestito leggero che sembrava fatto apposta per metterlo a disagio. Quando si sedette alla sua scrivania, accavallando le gambe con una grazia che sapeva di veleno, Santini capì che queste lezioni non sarebbero state come tutte le altre.
“Allora, professore,” disse lei con un sorriso che sembrava un coltello. “Da dove cominciamo?”
Lui si schiarì la gola, cercando di ignorare il fatto che il cuore gli batteva troppo forte. “Inizieremo con il latino. È la base di ogni cultura.”
“Ah, il latino,” disse lei, lasciandosi andare sulla sedia. “Una lingua morta per una mente viva. Interessante.”
Cosimo si strinse nelle spalle e cominciò a spiegare, ma ogni parola usciva più faticosamente della precedente. Violetta lo fissava come se volesse divorarlo, e non in senso figurato. Ogni tanto si sporgeva troppo vicino, fingendo di voler vedere meglio il libro. Oppure lasciava cadere la penna sul pavimento e si chinava a raccoglierla, troppo lentamente, lasciando che il silenzio riempisse la stanza come una tensione elettrica.
Quando la lezione finì, Santini si sentiva svuotato, come se avesse combattuto una battaglia e perso.
“Allora, professore,” disse lei mentre si infilava il cappotto, “ci vediamo domani?”
Lui annuì, troppo stanco per rispondere. Quando Violetta uscì, Cosimo chiuse la porta e si lasciò cadere sulla sedia. Prese il Crocifisso che teneva sulla scrivania e lo strinse forte, come se fosse un’ancora. “Dio mio,” mormorò. “Perché mi hai mandato questa prova?”
Ma Dio non rispose. O forse lo fece, e Cosimo Santini non era abbastanza santo per sentirlo.
Le notti successive furono peggiori delle prime. Ogni lezione era una danza, un duello tra lui e Violetta. Lei sorrideva e scherzava, trovando sempre nuovi modi per metterlo a disagio. Lui cercava di mantenere la sua compostezza, ma ogni giorno sentiva la sua resistenza indebolirsi. Non era solo la bellezza di Violetta a tormentarlo, ma la sua mente. Era brillante, sarcastica, crudele. Era come una versione più giovane di tutte le cose che aveva cercato di evitare per tutta la vita.
E così, giorno dopo giorno, Cosimo Santini si ritrovò a combattere contro qualcosa che non poteva vincere. Violetta era il caos, e lui era solo un uomo. Un uomo che, nel profondo, desiderava ancora sentire il sangue correre caldo nelle vene, anche se non voleva ammetterlo.
Ma non sapeva che Violetta non era lì solo per imparare. Lei aveva un piano, e lui ne faceva parte.
Le lezioni divennero un appuntamento fisso, un rituale quasi sacro. Ma non c’era nulla di sacro in quello che succedeva nella testa di Cosimo ogni volta che Violetta varcava la porta del suo studio. Lei si presentava sempre in ritardo, con quel sorriso che sembrava dire “Non ho bisogno di scusarmi.” E ogni volta aveva addosso qualcosa di peggio: un vestito troppo corto, una camicetta che lasciava intravedere più pelle di quanto fosse necessario, o una gonna che sembrava aver litigato con le sue gambe e perso.
Lui non diceva mai niente. Non era il tipo che affrontava le cose a voce alta. No, Cosimo Santini era uno di quelli che ingoiavano tutto, come un vecchio ubriacone con il suo bicchiere di whisky. Ma ogni volta che lei si sedeva davanti a lui e cominciava a giocherellare con una penna o a sistemarsi i capelli, sentiva la gola chiudersi e il sangue andargli alla testa.
“Allora, professore,” disse lei un pomeriggio, “oggi mi insegnerà qualcosa di interessante o dobbiamo continuare con le solite noiose declinazioni?”
Cosimo si sistemò gli occhiali e fece finta di non aver sentito il tono provocatorio. “Il latino non è mai noioso,” rispose. “È la lingua delle radici, delle origini.”
“Ah, le origini,” disse Violetta, piegando la testa di lato come una bambina curiosa. “Le mie origini non le vedo certo nel latino. Piuttosto nel caos.”
Cosimo Santini si fermò, le dita rigide sulla pagina del libro. Non c’era una risposta a quel genere di commento. Violetta non cercava risposte. Cercava reazioni. E lui gliele stava dando, anche senza volerlo.
“Legga questa frase,” disse infine, spingendo il libro verso di lei.
Violetta prese il libro e si sporse in avanti, tanto che Cosimo non poté fare a meno di notare il modo in cui la camicetta si tendeva sul suo petto. Era come un colpo basso, e lei lo sapeva. Gli occhi gli caddero sulla pagina per salvarsi, ma le parole latine non offrivano rifugio.
“‘Amor vincit omnia,’” lesse lei lentamente, calcando sulle parole. “L’amore vince tutto. Davvero, professore? Anche lei ci crede?”
“È una citazione,” rispose lui, cercando di mantenere un tono neutro. “Virgilio.”
“Ma è vero?” insistette lei, appoggiando il mento sulla mano e fissandolo con quegli occhi che sembravano sapere troppo. “L’amore vince davvero tutto?”
“Non siamo qui per discutere di filosofia,” disse lui, spegnendo la conversazione con la stessa facilità con cui avrebbe spento una candela.
Ma Violetta non si arrendeva mai. Era come una gatta che gioca con il topo. Quando si accorgeva che Cosimo Santini stava riuscendo a sfuggirle, trovava sempre un nuovo modo per prenderlo alla sprovvista.
Un giorno, si presentò con un abito così stretto che sembrava disegnato direttamente sulla sua pelle. Si mise a leggere un testo, ma continuava a sbagliare le parole.
“Professore, non riesco a concentrarmi,” disse, portando una mano alla fronte in un gesto teatrale.
“Perché non riesce?” chiese lui, sospirando.
“Fa troppo caldo qui dentro,” rispose lei, sventolandosi con il quaderno. “Non trova anche lei?”
“No,” rispose lui rapidamente, troppo rapidamente.
Lei rise, una risata morbida, quasi musicale. Poi, senza preavviso, si alzò e si tolse il cardigan, rimanendo in una camicetta che sembrava fatta di carta velina. “Ecco, molto meglio,” disse, tornando a sedersi.
Cosimo si voltò verso la finestra, cercando di distrarsi con il panorama, ma fuori c’era solo la piazza deserta e un gatto randagio che dormiva sotto una panchina. Quando tornò a guardarla, Violetta stava giocherellando con la sua penna, facendola ruotare tra le dita.
“Professore,” disse con tono innocente, “posso farle una domanda personale?”
“Preferirei di no,” rispose lui, ma lei continuò comunque.
“Lei è mai stato innamorato?”
Cosimo Santini sentì il cuore fermarsi per un istante. Non sapeva cosa rispondere. “Non è rilevante,” disse infine.
“Ma è vero,” insistette lei, appoggiandosi alla scrivania con le mani. “È mai successo che… l’amore vincesse tutto?”
“Questa è una lezione di latino,” rispose lui, cercando di chiudere la discussione.
“Ah, certo,” disse Violetta, alzandosi e camminando verso lo scaffale dei libri. “Ma il latino è pieno d’amore, no? Catullo, Ovidio… non sono forse loro a parlare di passione?”
“Torni a sedersi,” disse Cosimo, ma la sua voce tremava.
Violetta prese un libro dallo scaffale e lo aprì a caso. “Catullo,” lesse. “‘Vivamus, mea Lesbia, atque amemus.’ Viviamo, mia Lesbia, e amiamo.” Si voltò verso di lui con un sorriso. “Era un bel tipo, Catullo, vero? Deciso. Sapeva quello che voleva.”
“Le consiglio di tornare alla sua sedia,” disse Cosimo, ma non c’era più autorità nella sua voce.
Lei tornò a sedersi, ma solo per provocarlo ancora. Durante tutta la lezione continuò a lanciargli occhiate, a sporgersi troppo, a giocherellare con i capelli. E quando finalmente se ne andò, Santini si ritrovò a fissare la porta chiusa come un uomo che ha appena visto passare un uragano e si chiede come sia ancora in piedi.
Quella notte, non riuscì a dormire. I suoi pensieri erano un groviglio di rimpianti, desideri e sensi di colpa. Perché si lasciava coinvolgere? Perché non riusciva a respingerla come avrebbe dovuto? Si alzò dal letto e andò a inginocchiarsi davanti al Crocifisso, ma le preghiere non avevano più il potere di calmarlo.
Violetta continuava a spingerlo sempre più in là, e lui sapeva che, prima o poi, qualcosa si sarebbe rotto. Eppure, non riusciva a fermarla. E forse, nel profondo, non voleva farlo. Forse voleva vedere fino a dove sarebbe arrivata. E fino a dove sarebbe caduto lui.
C’era qualcosa di strano nell’aria quella sera. Non era né freddo né caldo, solo un limbo di umidità che ti si appiccicava addosso come un peccato. Santini aveva passato l’intera giornata cercando di concentrarsi sul lavoro, sulle sue lezioni, sul Crocifisso appeso sopra la scrivania. Ma niente aveva funzionato. Violetta continuava a occupare ogni angolo della sua mente, come un’ombra che non se ne va.
Quando bussò alla porta, lui era già in piedi, con i pugni stretti e la mascella serrata. Non sapeva perché fosse così agitato, ma sapeva che qualcosa sarebbe successo. E quando aprì la porta e vide Violetta, capì che non c’era via di fuga.
Lei indossava un abito nero aderente, semplice ma devastante. Non c’era trucco sul suo viso, solo la sicurezza di chi sa di non averne bisogno. Entrò senza aspettare un invito, portandosi dietro il profumo dolciastro di qualche fiore che Cosimo non riuscì a identificare.
“Buonasera, professore,” disse con quel tono basso e morbido che ormai conosceva troppo bene.
Cosimo si schiarì la gola e chiuse la porta dietro di lei. “È… puntuale.”
“Stasera sono stata brava,” rispose, lanciandogli uno sguardo che sembrava una sfida.
Lei si sedette alla scrivania come sempre, ma qualcosa nei suoi movimenti era diverso. Non c’era la solita teatralità, quella leggerezza che usava per stuzzicarlo. No, questa volta era calma, metodica.
“Che studiamo oggi?” chiese, appoggiando il mento sulla mano.
Santini aprì un libro senza nemmeno guardare la copertina. “Abbiamo ancora molto da fare sulle traduzioni.”
“Traduzioni,” ripeté lei, come se la parola fosse un concetto alieno. “Sempre così serio, professore. Non le capita mai di… improvvisare?”
Lui si fermò. Le mani gli tremavano appena, ma abbastanza perché lei se ne accorgesse. Violetta si alzò, lentamente, e si avvicinò alla finestra. Si mise a guardare fuori, ma Cosimo sapeva che non le importava nulla del panorama.
“Lei vive sempre così, professore? Rigoroso, metodico. Mai una deviazione, mai un passo falso?”
“Non vedo il motivo di fare passi falsi,” rispose lui, con un tono che voleva essere fermo ma suonava solo stanco.
Lei si voltò, e il suo sorriso era un’arma affilata. “Forse non ha mai trovato il motivo giusto.”
Il silenzio che seguì era pesante, come se la stanza stessa trattenesse il respiro. Violetta tornò a sedersi, ma questa volta lo fece accanto a lui, non di fronte. Santini si irrigidì, sentendo la sua vicinanza.
“Professore,” disse, piegandosi leggermente verso di lui. “Lei mi piace.”
Quelle parole colpirono Cosimo come un pugno allo stomaco. ” Violetta,” iniziò, ma lei lo interruppe.
“Non mi fraintenda,” disse, e c’era una strana sincerità nella sua voce. “Lei mi piace davvero. È diverso. Gli altri… beh, sono prevedibili. Ma lei… lei è un enigma.”
“Non so di cosa stia parlando,” disse lui, ma la sua voce tremava.
Lei rise, una risata bassa e calda che sembrava fatta per metterlo a disagio. Poi allungò una mano e la posò sul suo braccio. “Non deve essere così rigido, professore. Non con me.”
Santini si alzò di scatto, come se il contatto bruciasse. “Credo che questa lezione sia finita.”
Violetta non si mosse. Lo guardava dal basso, con quegli occhi che sembravano scavargli dentro. Poi, lentamente, si alzò anche lei e si avvicinò.
“Perché ha così tanta paura di me?” chiese.
“Non ho paura,” rispose lui, ma la voce era un sussurro.
“Allora dimostriamolo,” disse lei.
E prima che potesse dire qualcosa, lei lo baciò.
Fu un bacio breve, ma travolgente. Cosimo rimase immobile, incapace di reagire, mentre ogni fibra del suo essere gridava di fermarsi e andare via. Ma non lo fece. Quando Violetta si allontanò, lui rimase lì, con il respiro corto e gli occhi chiusi.
“Non è così terribile, vero?” disse lei, sorridendo.
“Non deve farlo mai più,” disse lui, ma c’era poca convinzione nella sua voce.
“Perché no?” chiese, avvicinandosi di nuovo.
“Perché… non è giusto.”
“Giusto,” ripeté lei, come se fosse una parola senza significato. “Chi decide cos’è giusto, professore?”
Questa volta, fu lui a baciarla.
Era una resa, totale e inevitabile. Tutte le barriere, le regole, le preghiere, si sgretolarono in un istante. Per la prima volta in anni, Cosimo sentì il fuoco che aveva cercato di soffocare per tutta la vita.
E quando tutto finì, quando il mondo tornò a essere silenzioso e immobile, lui si sedette sul bordo della sedia, con il viso tra le mani. Violetta lo guardava, sorridendo ancora, come se avesse appena vinto una partita.
“Non deve sentirsi in colpa,” disse, allungando una mano per accarezzargli la schiena.
“Se ne vada,” disse lui, senza guardarla.
Lei rise di nuovo, quella risata che ormai gli faceva male più di un colpo di frusta. “Come vuole, professore.”
E se ne andò, lasciandolo solo con il suo silenzio e il peso di ciò che aveva fatto. Ma anche con qualcosa di peggiore: il desiderio di rifarlo.
Santini si alzò la mattina dopo con una testa pesante e un nodo nello stomaco. La luce del giorno filtrava dalla finestra, impietosa, svelando il disordine del suo piccolo studio: la sedia rovesciata, i libri sparsi a terra, il Crocifisso storto sulla parete. Tutto sembrava fuori posto, come lui. Non c’era preghiera che potesse sistemare quel casino. Non c’era redenzione in vista.
Passò la mattinata a girare nervosamente per la stanza, accendendo e spegnendo la lampada sulla scrivania, sfogliando un libro che non leggeva davvero, sorseggiando un caffè ormai freddo. Ogni tanto, guardava verso la porta, aspettandosi che Violetta entrasse come sempre, con quel sorriso che gli scavava dentro e quei modi che lo facevano sentire un uomo e una bestia allo stesso tempo.
Ma lei non arrivò.
A mezzogiorno, incapace di sopportare il silenzio, uscì di casa. Il sole picchiava forte sulla città, rendendo l’aria densa e appiccicosa. Cosimo camminava con il passo incerto di un uomo che non sapeva dove stesse andando, le mani infilate nelle tasche e lo sguardo perso.
Finì davanti a un caffè all’aperto, uno di quei posti dove la gente si sedeva per guardare il mondo passare, parlando di niente con voci troppo alte. Si sedette a un tavolo d’angolo, cercando di tenersi lontano dagli sguardi curiosi. Ordinò un bicchiere d’acqua e si mise a fissare il vuoto.
Ed è lì che la vide.
Violetta era seduta dall’altra parte del caffè, con una ragazza che non riconosceva. Ridevano, con i capelli che brillavano al sole e le mani che gesticolavano animate. Violetta aveva l’aria di chi aveva appena vinto la lotteria, con quel sorriso luminoso e lo sguardo pieno di soddisfazione.
Cosimo avrebbe dovuto andarsene. Avrebbe dovuto alzarsi, pagare l’acqua che non aveva nemmeno toccato, e tornare a casa a pregare per un perdono che sapeva di non meritare. Ma non lo fece.
Si alzò, invece, e si avvicinò al loro tavolo, senza sapere esattamente perché. Le gambe lo portarono come se avessero una volontà propria. Si fermò a pochi passi da loro, abbastanza vicino da sentire cosa stavano dicendo, ma abbastanza lontano da non essere notato.
“Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero,” disse l’altra ragazza, ridendo.
“Ti avevo detto che avrei vinto,” rispose Violetta, con quel tono malizioso che Santini conosceva fin troppo bene.
“Ma… il professore? Seriamente? Voglio dire, è così… noioso.”
Violetta rise, una risata breve e tagliente. “Proprio per questo. Era una sfida. Non potevo lasciarmela sfuggire.”
L’altra ragazza si inclinò verso di lei, abbassando la voce. “E allora? Com’è stato? Com’è andata?”
Cosimo sentì il mondo crollargli in testa. Restò immobile, come un uomo che guarda un treno venirgli addosso e non riesce a muoversi.
“Facile,” disse Violetta, con un gesto disinvolto della mano. “Gli uomini come lui sono i più prevedibili. Una piccola dose di attenzione, qualche parola dolce, e sono tuoi.”
L’altra ragazza scoppiò a ridere. “Quindi, hai vinto la scommessa. Che cosa avevamo detto? Una cena al ristorante più costoso della città?”
“Esatto,” rispose Violetta, alzando il bicchiere come per brindare. “E tu paghi.”
Santini avvampò di vergogna. Era come se ogni parola fosse una lama che lo colpiva al cuore, tagliando via strati di dignità e lasciandolo a nudo, ferito e vulnerabile. Non era solo la rabbia o l’umiliazione a consumarlo. Era la realizzazione che era stato usato, manipolato, ridotto a un giocattolo per il divertimento di una ragazza troppo giovane e troppo crudele.
Fece un passo indietro, quasi inciampando, e si voltò. Non poteva affrontarla. Non lì, non in quel momento. Uscì dal caffè, camminando veloce per le strade, con il sole che lo bruciava e i pensieri che lo divoravano.
Quando arrivò a casa, si lasciò cadere sulla sedia e fissò il Crocifisso sulla parete. “Dio mio,” mormorò, la voce rotta, “come ho potuto essere così cieco?”
Ma non c’era risposta.
Non quella sera, almeno.
Cosimo passò la notte a pensare. E più pensava, più la rabbia cresceva. Non solo verso Violetta, ma verso se stesso, per aver permesso che accadesse. Per aver abbassato la guardia, per essersi lasciato ingannare da un sorriso e da un paio di occhi che promettevano mondi che non avrebbero mai consegnato.
E allora prese una decisione. Non poteva lasciarla vincere. Non così facilmente.
La vendetta, pensò, è una lezione che anche i più giovani possono imparare. E lui era ancora un insegnante, dopotutto.
Cosimo Santini si svegliò il giorno dopo con una chiarezza che non sentiva da anni. Non c’erano più tremori nelle mani, né ombre nella mente. Era strano sentirsi così lucido dopo giorni di tormento, ma quella mattina il dolore si era trasformato in una cosa diversa, una lama affilata che non vedeva l’ora di usare.
La scommessa, il tradimento, quella risata sprezzante: tutto si era sedimentato dentro di lui come veleno. E come ogni veleno, aveva bisogno di trovare una via d’uscita. Violetta aveva vinto la sua piccola partita, ma non sapeva ancora che il gioco era appena cominciato.
Cosimo passò l’intera mattina a prepararsi. Ogni gesto era calcolato, ogni pensiero preciso come un colpo di scalpello su un blocco di marmo. Il suo appartamento era pieno di vecchi libri e manoscritti, una collezione accumulata negli anni con la pazienza di un monaco. E fu proprio lì, in quella pila di testi dimenticati, che trovò ciò che cercava: un antico manoscritto dalla copertina consunta, il cui contenuto era vago e facilmente interpretabile.
Lo prese, lo sfogliò distrattamente per assicurarsi che fosse abbastanza convincente, poi si sedette alla scrivania con carta e penna. Quella che scrisse non era una lezione di latino, ma una storia. Una storia crudele, beffarda, e con un messaggio che avrebbe colpito Violetta dove faceva più male.
Quando ebbe finito, rise tra sé e sé. Era una risata bassa, ruvida, come il rumore di un motore che si accende dopo anni di ruggine.
La sera, Santini si presentò alla casa di Violetta con il manoscritto avvolto in un panno di velluto nero. La servitù lo fece entrare senza battere ciglio, abituata alla sua presenza. La famiglia era riunita nel grande salone per una cena formale, con ospiti importanti e un’aria di finta eleganza che lo disgustava.
Quando entrò, Violetta era lì, radiosa come sempre, ma questa volta con un sorriso che sembrava più amaro. Forse pensava che lui fosse venuto per affrontarla, per supplicarla, per implorare un qualche tipo di perdono. Ma Cosimo non era quel tipo di uomo. Non più.
“Professore!” esclamò Violetta, alzandosi dalla sedia. “Che sorpresa! Non mi aspettavo di vederla qui stasera.”
“Un dono,” disse lui, stringendo il pacco di velluto tra le mani. “Per lei e la sua famiglia. Un manoscritto antico. Una piccola curiosità letteraria che penso troverete… interessante.”
Gli occhi di Violetta si strinsero, sospettosi, ma il fascino della sua voce e il mistero del pacco bastarono a dissipare ogni dubbio. “Un manoscritto? Ma che gentilezza, professore. La prego, si unisca a noi.”
Santini scosse la testa. “No, devo andare. Ho altre… faccende.”
E con un sorriso freddo, se ne andò, lasciando il pacco sul tavolo come un regalo avvelenato.
Più tardi quella sera, quando la cena era finita e gli ospiti erano nel pieno della conversazione, Violetta prese il manoscritto e lo mostrò con orgoglio. “Il mio professore di latino mi ha portato questo,” disse con tono altezzoso. “Un testo antico. Forse una vecchia storia. Leggiamolo insieme, potrebbe essere divertente.”
Gli altri risero e applaudirono, già eccitati all’idea di un po’ di intrattenimento. Violetta aprì il manoscritto e cominciò a leggere.
La storia parlava di un giovane principe ingenuo e di una donna astuta e manipolatrice. Lei lo aveva sedotto per gioco, promettendogli amore e dedizione, solo per rivelare poi che tutto era stato uno scherzo crudele. Ma la storia non finiva lì. Il principe, umiliato e ridicolizzato, si vendicava in modo tanto spietato quanto efficace, svelando i segreti più oscuri e imbarazzanti della donna davanti a tutta la corte.
Man mano che Violetta leggeva, le parole cominciarono a rallentare. La risata della stanza si spense, sostituita da un silenzio teso. Era chiaro a tutti che quella non era solo una storia. Era un attacco diretto, un’allegoria trasparente. Ogni frase, ogni descrizione, alludevano a lei, alla giovane Violetta.
“Chi ha scritto questa porcheria?” esclamò il padre della ragazza, rompendo il silenzio.
Violetta lasciò cadere il manoscritto sul tavolo, il viso rosso di rabbia e vergogna. Sapeva benissimo chi l’aveva scritto. E sapeva anche che non poteva fare nulla.
Cosimo, intanto, era tornato al suo appartamento. Si sedette alla sua scrivania, con un bicchiere di vino rosso, un Gutturnio Superiore dei Colli Piacentini, davanti a sé, e guardò il Crocifisso appeso alla parete.
“Non era proprio cristiano, lo so,” mormorò, alzando il bicchiere in un brindisi silenzioso. “Ma certe lezioni non si imparano in chiesa.”
E per la prima volta in mesi, il professor Santini si sentì in pace. Non un santo, certo. Ma nemmeno un uomo da prendere in giro.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Emily Brontë, con Cime tempestose, ci ha regalato uno dei romanzi più potenti e contraddittori della letteratura inglese, un’opera in cui l’amore e l’odio si mescolano in maniera indissolubile, come due facce della stessa moneta. Il legame tra i protagonisti, Heathcliff e Catherine, è il cuore pulsante di questa storia, una passione che scardina le convenzioni sociali, sfida la morte stessa e che sembra inseparabile dal sentimento di vendetta che Heathcliff nutre verso tutti coloro che ritiene abbiano ostacolato il suo destino. Questa fusione tra amore e odio definisce un’intera generazione di lettori, portandoci a domandarci cosa significhi davvero amare e quali siano i limiti della vendetta.
Heathcliff, in particolare, rappresenta un enigma che Emily Brontë lascia intenzionalmente irrisolto. Il suo amore per Catherine è al contempo una fonte di redenzione e di dannazione, e il suo desiderio di vendetta, che prende corpo nella sua manipolazione delle generazioni successive, è tanto implacabile quanto doloroso. Heathcliff è un anti-eroe nel vero senso della parola: una figura tormentata che non aspira alla redenzione, ma piuttosto alla distruzione di tutto ciò che lo circonda, incapace di separare il suo amore da una rabbia devastante. Quella di Heathcliff è una discesa nell’abisso in cui la vendetta diventa l’unico modo per perpetuare un legame che la morte di Catherine avrebbe altrimenti spezzato.
A fare da sfondo a questa tragedia è un ambiente non meno selvaggio e feroce dei protagonisti stessi: le brughiere dello Yorkshire. Queste lande desolate, sferzate dal vento e prive di colori vivaci, incarnano perfettamente la solitudine e l’intensità dei personaggi di Brontë. La natura è qui un riflesso dell’anima umana, uno specchio delle passioni che agitano i protagonisti e che sembrano radicati nel paesaggio stesso. Le brughiere non sono solo uno sfondo statico, ma un’entità viva, che respira e accoglie i tormenti di Heathcliff e Catherine. La loro relazione appare così inevitabile, come parte di quel paesaggio crudele e selvaggio che rifiuta ogni compromesso.
Tuttavia, il tormento di Heathcliff è aggravato anche dalle differenze di classe e di status sociale, temi che Emily Brontë introduce con astuzia e precisione. Heathcliff è inizialmente un trovatello, un outsider la cui stessa origine misteriosa suscita sospetti e odio, rendendolo un bersaglio ideale per l’ostilità di Hindley Earnshaw, fratello di Catherine. La sua ascesa sociale, ottenuta con mezzi spesso manipolatori, è la risposta alla discriminazione che ha subito; ma, alla fine, il suo desiderio di vendetta contro la società che lo ha respinto si ritorce contro di lui, lasciandolo in una solitudine tanto amara quanto la sua ambizione. Catherine stessa è divisa tra l’amore per Heathcliff e l’ambizione di salire nella scala sociale, e il suo matrimonio con Edgar Linton rappresenta la scelta di una vita stabile, benché vuota di quella passione viscerale che solo Heathcliff può suscitare.
Un altro aspetto che contribuisce alla profondità di Cime tempestose è la struttura narrativa complessa, che utilizza voci differenti per raccontare la storia. Il racconto è incorniciato dalla narrazione di Mr. Lockwood, un estraneo giunto a Wuthering Heights, la cui prospettiva distaccata si intreccia con quella di Nelly Dean, la governante che narra gran parte della storia attraverso i suoi ricordi. Questo intreccio di voci aggiunge un ulteriore livello di ambiguità: i lettori sono costretti a chiedersi quanto ci si possa fidare della prospettiva di Nelly e quanto la sua interpretazione dei fatti abbia influenzato il modo in cui percepiamo Heathcliff e Catherine. La scelta di Brontë di costruire una narrazione stratificata non solo aumenta il mistero, ma ci obbliga a riflettere sui limiti della conoscenza e sulla natura soggettiva del racconto.
In conclusione, Cime tempestose è un’opera che ci lascia con domande più che con risposte. La storia di Heathcliff e Catherine è una di quelle in cui amore e odio si fondono in una miscela che non conosce redenzione, e la narrazione frammentata e complessa di Brontë sottolinea quanto sia impossibile conoscere appieno il cuore umano.
Emily Brontë, nel costruire Cime tempestose, attinge a piene mani dal repertorio gotico, imbevendo la narrazione di atmosfere cupe e di presenze inquietanti che trascendono la realtà quotidiana. Il soprannaturale emerge come un elemento ineludibile del romanzo, rendendo ancor più tragica la vicenda di Heathcliff e Catherine. L’apparizione del fantasma di Catherine, che Heathcliff invoca e attende fino alla morte, non è solo una manifestazione di dolore, ma una sfida diretta ai confini tra vita e morte. Questo legame che persiste oltre il mondo terreno conferisce al romanzo un carattere quasi rituale, che non è solo gotico ma profondamente romantico e disperato. In queste apparizioni, Brontë sembra voler dire che la passione vera, se esiste, è destinata a trascendere ogni confine, in un crescendo di tensione che non lascia spazio alla redenzione.
A questa atmosfera gotica si aggiungono le dinamiche familiari tossiche che governano la vita dei personaggi, gettando una luce oscura sull’idea di famiglia. Le famiglie Earnshaw e Linton rappresentano due mondi opposti ma ugualmente disfunzionali, dove l’amore genitoriale è spesso distorto o assente, e le relazioni sono dominate dal rancore e dalla gelosia. Heathcliff, adottato come outsider dalla famiglia Earnshaw, è sempre trattato con diffidenza e inferiorità, una condizione che lo segna profondamente, radicando in lui un desiderio di vendetta che non si estingue mai. La famiglia Linton, d’altro canto, è simbolo di rigida rispettabilità e controllo, incapace di comprendere le passioni che sconvolgono i protagonisti e cercando invano di imbrigliarle. La tossicità di queste dinamiche si perpetua nelle generazioni successive, come se il dolore e l’odio fossero ereditarietà inevitabili, cicatrici invisibili che segnano il destino dei giovani Cathy e Linton.
Il concetto di vendetta è forse l’elemento più dirompente e autodistruttivo del romanzo. Heathcliff, dopo la perdita di Catherine, consacra la sua esistenza a un piano di vendetta totale che non lascia scampo. Non si accontenta di vendicarsi dei suoi rivali diretti, ma estende il suo odio anche ai loro figli, in un meccanismo che annulla qualsiasi forma di compassione. La vendetta diviene per Heathcliff una missione sacra, un’opera di distruzione che rivolge soprattutto contro se stesso. Nel processo di annientamento delle famiglie Earnshaw e Linton, egli consuma la propria vita, vivendo per distruggere e non per creare. Heathcliff diventa così il simbolo di un uomo divorato dal rancore, un personaggio tragico che incarna il prezzo dell’odio portato alle estreme conseguenze.
In questo contesto, il concetto di amore eterno acquisisce un significato quasi mortale. Heathcliff e Catherine non sono legati da un amore ordinario: il loro è un vincolo ossessivo che li spinge a oltrepassare la dimensione terrena. Per Heathcliff, Catherine è un’idea, un fantasma che persiste e lo condanna. La loro unione non trova pace nella vita, ma solo nella morte, come se solo allora potessero diventare una cosa sola. Quest’idea di amore eterno, che sopravvive alla morte e sfida la morale, ha un fascino oscuro, un eros che si trasforma in thanatos. La storia dei due amanti diventa il prototipo di un amore impossibile, assoluto, che nella sua inaccessibilità esercita un fascino inesauribile sui lettori.
Alla sua pubblicazione nel 1847, Cime tempestose ricevette critiche contrastanti. Considerato eccessivamente cupo e immorale, il romanzo non trovò un immediato successo, ma fu solo con il passare degli anni che la potenza narrativa di Brontë venne riconosciuta. La critica dell’epoca, abituata a una rappresentazione convenzionale dell’amore, non seppe apprezzare l’audacia con cui l’autrice esplorava temi come l’odio, la vendetta e l’autodistruzione. Fu solo in seguito che Cime tempestose venne riconosciuto come un capolavoro gotico e romantico, uno dei testi fondamentali della letteratura inglese.
L’impatto culturale di Cime tempestose è oggi innegabile. La storia d’amore tra Heathcliff e Catherine ha influenzato profondamente la letteratura e il cinema, ispirando intere generazioni di autori e registi. Da opere come Rebecca, la prima moglie di Daphne du Maurier alle moderne reinterpretazioni della narrativa gotica, il romanzo di Brontë ha lasciato un’eredità indelebile. Cime tempestose ha cambiato per sempre il modo in cui concepiamo l’amore nella letteratura, dimostrando che le passioni umane, nella loro complessità, non sono né bianche né nere, ma intrinsecamente legate alle ombre che le alimentano.