Pubblicato nel 1819, Il Vampiro di John William Polidori segna una svolta fondamentale nella storia della letteratura gotica, introducendo per la prima volta la figura del vampiro aristocratico che avrebbe influenzato generazioni di autori. Nato in un contesto leggendario, durante l’estate del 1816 trascorsa a Villa Diodati sulle rive del Lago di Ginevra, il racconto deve la sua genesi a una notte di temporali e al gioco letterario proposto da Lord Byron ai suoi compagni di viaggio. Polidori, medico personale di Byron e partecipe di quelle serate, trovò nell’ombra del celebre poeta una fonte di ispirazione complessa e ambigua.
Il racconto, inizialmente attribuito proprio a Byron, si lega indissolubilmente alla personalità del suo protagonista, Lord Ruthven. Questo vampiro, tanto elegante quanto spietato, rappresenta una netta rottura con la tradizione folklorica. Polidori abbandona l’immagine del vampiro come creatura demoniaca e ripugnante, tipica delle superstizioni rurali, per dare vita a un essere sofisticato, freddo e manipolatore, che si muove con disinvoltura nei salotti dell’alta società. Ruthven è più un predatore sociale che una creatura del mito: seduce, corrompe e distrugge le sue vittime con una disarmante eleganza, incarnando un male nascosto dietro l’apparenza del fascino e dello status.
Questa trasformazione non è solo stilistica, ma rivela un sottotesto morale e sociale profondo. Ruthven è il simbolo della decadenza dell’aristocrazia, un uomo che sfrutta il potere e il privilegio per soddisfare la sua sete di distruzione. Attraverso di lui, Polidori costruisce una critica implicita alla nobiltà del suo tempo, mettendo in evidenza il contrasto tra virtù e decadenza. Le vittime di Ruthven, come il giovane e innocente Aubrey, non sono solo individui, ma rappresentano l’intera società che soccombe alla corruzione morale mascherata da fascino e carisma.
L’influenza di Lord Byron, sia come ispirazione diretta per il protagonista sia come figura reale che aleggia sul racconto, è impossibile da ignorare. Polidori, che nutriva un rapporto conflittuale con il poeta, sembra aver riversato in Ruthven un ritratto deformato e maligno di Byron stesso, enfatizzandone i lati più oscuri: il magnetismo pericoloso, l’indifferenza per le conseguenze delle proprie azioni e l’attitudine a manipolare chiunque gli stia vicino. Questo rende Il Vampiro non solo una pietra miliare della narrativa gotica, ma anche una sorta di vendetta letteraria, in cui Polidori elabora la propria frustrazione verso una figura tanto ammirata quanto temuta.
Con questo racconto, Polidori non ha solo ridefinito la figura del vampiro, trasformandolo in un’icona letteraria sofisticata e inquietante, ma ha anche aperto una nuova strada per la narrativa dell’orrore. Il vampiro di Il Vampiro è molto più che un semplice mostro: è una metafora potente dei mali della società, una critica alla decadenza del privilegio e un’esplorazione dell’ambiguità morale. L’opera di Polidori, nata quasi per caso in una notte di giochi letterari, continua a risuonare nella cultura contemporanea come un archetipo immortale.
La struttura narrativa de Il Vampiro si distingue per la sua essenzialità e per un ritmo sorprendentemente rapido, soprattutto se confrontato con le lente e spesso prolisse narrazioni gotiche dell’epoca. Polidori costruisce una trama che, pur nella sua brevità, riesce a mantenere il lettore costantemente in tensione. L’uso della suspense è sapiente: l’inquietante presenza di Lord Ruthven domina il racconto, rendendolo un personaggio che si muove come un’ombra tra gli eventi, sempre al limite tra il visibile e l’ignoto. L’atmosfera gotica, alimentata da paesaggi esotici e cupi, non è mai sovrabbondante ma essenziale, creata con pochi dettagli evocativi che amplificano il senso di minaccia e mistero. Il ritmo serrato non sacrifica l’intensità emotiva e narrativa, ma la esalta, mantenendo viva l’attenzione del lettore fino alla tragica conclusione.
Uno dei temi centrali del racconto è il fascino e il terrore dell’immortalità, incarnati nella figura di Ruthven. La sua natura vampirica lo rende un essere che trascende i limiti umani, ma questa eternità non è priva di orrore. Polidori non descrive mai direttamente il peso dell’immortalità su Ruthven, ma il suo comportamento e la sua natura predatoria suggeriscono un’esistenza priva di scopo, animata solo dal perpetuo ciclo di distruzione. Questa immortalità è posta in netto contrasto con la fragilità di Aubrey, la giovane vittima umana che, nonostante la sua ingenuità e il suo fervore morale, si rivela impotente di fronte alla manipolazione e al male. Polidori, in questo modo, esplora il divario tra il desiderio umano di trascendere la morte e l’orrore di un’esistenza eterna svuotata di valori.
La relazione tra Ruthven e Aubrey è il cuore pulsante del racconto, un gioco di potere e seduzione che riflette la dinamica tra carnefice e vittima. Ruthven non usa mai la forza per piegare Aubrey; lo seduce, non in senso sessuale, ma psicologico. Il giovane è attratto dal fascino e dal carisma di Ruthven, senza rendersi conto di essere strumentalizzato. Questa dinamica di potere è particolarmente significativa: Ruthven rappresenta il predatore definitivo, capace di distruggere senza mai esporsi, lasciando che le sue vittime si perdano nella propria ingenuità e fiducia. Polidori traccia con grande finezza questo processo di annientamento, rendendo Ruthven un personaggio che affascina e spaventa in egual misura.
L’influenza de Il Vampiro sulla letteratura successiva non può essere sottovalutata. Sebbene spesso oscurato da opere più celebri come Dracula di Bram Stoker, il racconto di Polidori è il primo a consolidare l’archetipo del vampiro moderno. La figura di Ruthven, con il suo fascino aristocratico e la sua crudeltà raffinata, trova eco diretta in Dracula, così come in innumerevoli altre opere di narrativa e cinema. L’idea del vampiro come predatore elegante e sofisticato è una creazione di Polidori, che trasforma la figura folklorica in un’icona letteraria universale, capace di adattarsi ai contesti più disparati.
Ma Il Vampiro non è solo una pietra miliare della letteratura gotica; è anche una sottile critica alla società dell’epoca. Polidori dipinge un’aristocrazia corrotta e ipocrita, incarnata in Ruthven, che usa il suo potere non per proteggere o guidare, ma per distruggere. Dietro il fascino e il lusso dell’aristocrazia si nasconde un vuoto morale, un’inclinazione al male che riflette le tensioni sociali del tempo. Il contrasto tra apparenza e realtà è un tema ricorrente nel racconto, con Ruthven che simboleggia la facciata perfetta sotto cui si cela la corruzione più profonda.
Il Vampiro di Polidori è quindi molto più di un semplice racconto dell’orrore. È una riflessione sull’immortalità, sul potere, sulla corruzione e sulla vulnerabilità umana, racchiusa in una narrazione tanto breve quanto incisiva. Il suo impatto sulla letteratura e sulla cultura rimane innegabile, un testamento alla capacità di Polidori di catturare, in poche pagine, l’essenza del gotico e la complessità dell’animo umano.
Recensione del libro testimonianza di Piero Tarticchio.
Ci sono eventi della storia che, per lungo tempo, hanno abitato le ombre della memoria collettiva, relegati ai margini della narrazione ufficiale e riscoperti solo tardivamente. Il dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata rientra in questa categoria: una pagina di storia dolorosa, rimossa per decenni e oggi ancora oggetto di dibattiti accesi. Sono scesi i lupi dai monti, scritto da Piero Tarticchio, non è solo il racconto di un’esperienza personale, ma una testimonianza potente che restituisce voce a chi, per anni, è rimasto in silenzio. Attraverso una scrittura intima e incisiva, l’autore trasporta il lettore in un viaggio di memoria e dolore, che si intreccia con la tragedia collettiva di un intero popolo.
L’opera si inserisce in un contesto storico preciso: alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con il crollo del fascismo e l’avanzata delle forze partigiane di Tito, il confine orientale dell’Italia divenne teatro di una violenta epurazione politica ed etnica. L’occupazione jugoslava delle terre istriane, dalmate e giuliane portò a una repressione feroce contro gli italiani, spesso accusati indiscriminatamente di essere collaborazionisti del regime mussoliniano. Le foibe divennero simbolo di questa tragedia: cavità carsiche in cui vennero gettati migliaia di uomini e donne, molti dei quali ancora vivi, colpevoli solo della loro identità nazionale. Contemporaneamente, l’esodo di massa di oltre 300.000 italiani segnò la fine di un mondo: intere comunità abbandonarono le loro case, le loro terre, le loro radici, portando con sé il peso dell’oblio e del pregiudizio. L’Italia, ancora sconvolta dalla guerra, accolse questi profughi con indifferenza o addirittura ostilità, contribuendo a soffocare per anni il ricordo di questa tragedia.
Dentro questa cornice storica si inserisce la vicenda personale di Piero Tarticchio, il cui padre fu una delle vittime infoibate nel 1945. Il libro è il racconto di una perdita irreparabile, di un’infanzia spezzata dalla brutalità della storia. A soli undici anni, Tarticchio fu costretto a confrontarsi con la sparizione del padre, un’assenza che si sarebbe trasformata in un’ombra permanente nella sua esistenza. Il trauma dell’esilio si aggiunge alla ferita del lutto: con la madre e i fratelli, il giovane Piero lascia la sua terra natale, senza sapere se mai vi farà ritorno. Il dolore non è solo quello della separazione forzata, ma anche della consapevolezza che il padre non è morto in guerra, non è caduto in battaglia, ma è stato brutalmente eliminato, vittima di una vendetta politica che non ha fatto distinzione tra colpevoli e innocenti.
Dal punto di vista stilistico, Sono scesi i lupi dai monti si colloca a metà strada tra il romanzo autobiografico e il diario personale, intrecciando con sapienza narrazione e testimonianza. La scelta di un registro intimo e coinvolgente permette al lettore di immergersi nel dramma vissuto dall’autore, senza filtri storicistici o analisi distaccate. Il libro non si limita a raccontare i fatti, ma li fa vivere attraverso la prospettiva di un bambino che assiste al crollo del suo mondo. Le descrizioni sono intense, a tratti liriche, e trasmettono con efficacia il senso di perdita e sradicamento. Il linguaggio è semplice ma evocativo, capace di restituire la crudezza degli eventi senza mai cadere nel sensazionalismo.
Il titolo stesso dell’opera è fortemente simbolico. I “lupi” che scendono dai monti non sono solo gli uomini armati che compiono gli eccidi, ma incarnano la brutalità cieca della storia, il caos che travolge le vite umane senza distinzione. La metafora dei lupi richiama un’immagine di ferocia primordiale, di predatori che attaccano senza pietà, evocando il senso di terrore che gli italiani istriani provarono in quei giorni. Ma il simbolismo va oltre: i lupi rappresentano anche l’oblio, la censura, il silenzio che ha avvolto per anni queste vicende, impedendo alle vittime di trovare giustizia e riconoscimento.
Un altro elemento di grande rilevanza nel libro è la rappresentazione dell’identità istriana, un’identità che, nonostante l’esodo, non è mai stata cancellata. Tarticchio ricostruisce con affetto e nostalgia il mondo della sua infanzia, fatto di tradizioni, lingua, cultura, un universo che l’esilio non è riuscito a spegnere. Il senso di appartenenza alla propria terra è uno dei temi portanti dell’opera: la perdita della casa non coincide con la perdita della memoria. Attraverso le sue parole, l’autore restituisce dignità a una comunità costretta a vivere in terra straniera, ma determinata a conservare le proprie radici. Il libro, in questo senso, è anche un atto di resistenza culturale, un modo per riaffermare che la storia degli istriani non si è conclusa con l’esodo, ma continua ancora oggi nelle voci di chi si rifiuta di dimenticare.
La memoria storica non è mai neutrale: è il frutto di un’elaborazione collettiva spesso influenzata da interessi politici, ideologici e geopolitici. Sono scesi i lupi dai monti di Piero Tarticchio si colloca nel difficile terreno del recupero della memoria delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, una tragedia che per decenni è stata sistematicamente rimossa o minimizzata, soprattutto da una parte della sinistra italiana. Questo oblio non fu casuale, ma il risultato di una precisa volontà politica, che affondava le radici nelle relazioni tra il Partito Comunista Italiano (PCI) e il regime di Tito.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Jugoslavia si presentò come un modello peculiare di comunismo nazionale, separato da Mosca, ma ancora vicino agli ideali marxisti-leninisti. Il PCI di Palmiro Togliatti, fortemente allineato con l’Unione Sovietica, sostenne per lungo tempo il leader jugoslavo, considerandolo un baluardo della rivoluzione socialista nei Balcani. Questo sostegno non fu solo teorico, ma si tradusse in una tacita accettazione delle violenze commesse dai partigiani titini contro gli italiani. Gli eccidi delle foibe furono in gran parte il risultato di una politica di epurazione politica ed etnica, volta a eliminare non solo ex fascisti, ma chiunque fosse ritenuto un ostacolo all’annessione di Istria, Dalmazia e Fiume alla Jugoslavia. Tra le vittime, oltre a funzionari del regime fascista, vi furono numerosi antifascisti italiani, sacerdoti, insegnanti, semplici cittadini accusati di “italianità”.
Il PCI, pur essendo ben consapevole di quanto accadeva al confine orientale, preferì non condannare le azioni titine. Anzi, molti esponenti comunisti italiani giustificarono apertamente le stragi, ritenendole una necessaria “resa dei conti” contro i crimini fascisti. Questo atteggiamento non si limitò alla propaganda: in alcune zone dell’Italia settentrionale, esponenti del PCI collaborarono attivamente con i partigiani jugoslavi nella deportazione e nell’eliminazione di italiani ritenuti ostili al nuovo ordine socialista. L’accusa di “fascismo” divenne un pretesto per colpire chiunque si opponesse alla dominazione jugoslava, e tra gli infoibati vi furono numerosi militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, avevano cercato di difendere la popolazione dalle violenze titine.
L’ostilità della sinistra italiana a riconoscere queste responsabilità si è protratta per decenni. Fino agli anni ’90, parlare delle foibe significava essere accusati di revisionismo o, peggio, di filo-fascismo. Il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004, venne accolto con freddezza da ampi settori della sinistra, che cercarono di ridimensionarne la portata, sostenendo che si trattasse di una “strumentalizzazione politica della destra”. Ancora oggi, esistono ambienti culturali e politici che minimizzano l’accaduto, riducendolo a una “vendetta antifascista” o contestualizzandolo in modo da diluirne la gravità. L’opera di Tarticchio si inserisce in questo dibattito con una forza dirompente, perché non si limita a denunciare i crimini titini, ma mette in luce anche il peso del silenzio e della complicità politica italiana.
Dal punto di vista emotivo, il libro ha un impatto devastante sul lettore. Il dolore di Tarticchio per la perdita del padre e per l’esilio forzato emerge con una potenza narrativa che rende impossibile rimanere indifferenti. C’è la nostalgia per una terra perduta, c’è la rabbia per l’ingiustizia subita, ma c’è anche una dignità profonda che attraversa ogni pagina. Il libro non indulge in toni di vendetta, né cerca di esasperare il pathos: racconta con lucidità e partecipazione, lasciando che siano i fatti a parlare. Questa è una delle grandi qualità dell’opera: riesce a trasmettere l’enormità della tragedia senza mai scadere nella retorica.
Nel confronto con altre opere sullo stesso tema, Sono scesi i lupi dai monti si distingue per il suo approccio autobiografico e intimista. Se libri come Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria di Gianni Oliva o Il lungo esodo di Raoul Pupo offrono un’analisi storica rigorosa, Tarticchio preferisce il linguaggio della memoria diretta. Questo lo avvicina, per certi versi, a Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani di Jan Bernas, che raccoglie testimonianze dell’esodo e delle violenze subite dagli istriani. Tuttavia, la differenza principale sta nel fatto che Tarticchio non si limita a raccontare i fatti, ma li vive in prima persona, trasportando il lettore nel suo dolore.
L’attualità del libro è evidente. In un’epoca in cui il revisionismo storico è spesso strumentalizzato da entrambe le parti politiche, Sono scesi i lupi dai monti è un’opera che richiama alla necessità di una memoria onesta, libera da condizionamenti ideologici. La questione delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata non è solo un capitolo del passato, ma un tema ancora oggi divisivo, come dimostrano le polemiche che ogni anno accompagnano il Giorno del Ricordo. La difficoltà di ammettere le responsabilità della sinistra italiana è un problema che persiste: se da un lato vi è stata una progressiva apertura verso il riconoscimento delle vittime, dall’altro rimane una reticenza a fare i conti con il ruolo che il PCI e le sue ramificazioni ebbero in quegli anni. Il rifiuto di accettare questa parte della storia è il segno di una memoria ancora incompleta.
Dal punto di vista critico, il principale limite del libro potrebbe essere proprio la sua forte carica emotiva, che talvolta prevale sull’analisi storica. Tuttavia, questo non è un difetto intrinseco dell’opera, bensì una sua caratteristica: Sono scesi i lupi dai monti non è un saggio, ma una testimonianza personale, e come tale va letta e compresa. Il valore dell’opera sta nella sua autenticità, nella sua capacità di restituire voce a una vicenda che per troppo tempo è stata taciuta.
In conclusione, il libro di Piero Tarticchio è un contributo prezioso alla conoscenza di un dramma storico che non può più essere ignorato o sminuito. È un’opera che non si limita a raccontare il passato, ma interroga il presente, ponendo domande scomode su responsabilità, complicità e silenzi. In un momento storico in cui la memoria è sempre più fragile e selettiva, libri come questo ci ricordano che la verità storica non si misura con il colore politico, ma con la capacità di riconoscere le sofferenze e le ingiustizie, indipendentemente da chi le ha commesse.
La bottiglia di Gutturnio sul tavolo era quasi vuota, e la luce tremolante della lampada sembrava emanare un fremito vivo, come se anch’essa partecipasse al torpore innaturale che gravava sull’antica villa. Un gelo anomalo impregnava le stanze, una morsa crudele che sembrava strisciare lungo le pareti scrostate, come dita invisibili che tastassero i confini della mia sanità. Non era un freddo semplice, bensì un respiro latente, il bisbiglio di qualcosa di inimmaginabile che sfiorava i limiti del mio campo visivo.
Mi ero ritirato nel mio angolo prediletto, quella poltrona decrepita accanto alla finestra, con la stoffa logora intrisa di muffa e vecchie esalazioni di tabacco. Da lì, osservavo le colline che circondavano la villa come un anello di guardiani antichi. Di giorno, la loro presenza era scomoda, ma di notte si trasformavano in schiene contorte di bestie dormienti, una barriera tra il conosciuto e l’ignoto.
Quella notte, però, c’era qualcosa di nuovo. Le colline sembravano respirare, chiamarmi con un muto canto di abissi insondabili. Non avevo toccato laudano da settimane, ma le ombre si sfaldavano comunque ai margini del mio sguardo, un riflesso della mia mente stanca o, forse, di qualcosa di molto più oscuro. Con un gesto febbrile, passai una mano tra i capelli umidi e fissai il fondo del bicchiere, come se il liquido ambrato potesse rivelarmi i segreti che mi sfuggivano.
La prima volta che vidi Artemisia fu in sogno, ma non un sogno comune, bensì una visione tanto vivida da incidere nella mia mente come un marchio rovente. Mi trovavo in un campo d’erba secca e tagliente, dove il cielo pulsava di un viola innaturale, un’ombra pestilenziale di livore. Al centro di quel deserto si ergeva lei, una figura avvolta in un’oscura veste che ondeggiava senza vento. I suoi capelli argentei cadevano come un manto di fili sottili e freddi, scintillanti come catene lunari. Quando parlò, non fu con la voce umana, ma con un suono che riverberò nel mio cranio come un’onda impossibile da fermare.
«Riccardo.»
Non c’era dolcezza in quel richiamo, né compassione; solo un comando ineluttabile, un’eco che risuonava nelle profondità più intime della mia anima.
«Devi venire.»
E poi, il terreno si squarciò sotto i miei piedi. Non caddi, ma fui inghiottito da una voragine che sembrava fatta di fame e vuoto. Mi svegliai con un urlo che rimbalzò nei corridoi deserti della villa, un grido che pareva appartenere più a una bestia che a un uomo.
La villa era ormai un guscio vuoto, una carcassa abbandonata alla lenta corruzione del tempo. Una volta grandiosa, con i suoi soffitti alti e la biblioteca ricca, ora era solo un reliquiario di umidità e ombre. Evitavo la biblioteca da sempre, ma quella notte, guidato da una forza che non era la mia, vi entrai. L’odore era soffocante, un miscuglio di carta marcia e un vago sentore di carne decomposta. Camminai tra gli scaffali come un automa, le dita sfiorando i dorsi ammuffiti dei libri, fino a fermarmi davanti a un piccolo tavolo su cui giaceva un diario.
La copertina in pelle, screpolata e rigida, mostrava un simbolo inciso: un cerchio deformato da linee spezzate, come raggi contorti di un sole morente. Le pagine interne sembravano impregnate di oscurità, un inchiostro così nero da sembrare sangue rappreso. Mentre leggevo, una nausea crescente mi assalì.
“Questo luogo è maledetto. Il sangue della nostra famiglia ha nutrito la terra, e ora la terra reclama ciò che è suo.”
Frammenti di rituali blasfemi, invocazioni a divinità innominabili, simboli incomprensibili: tutto conduceva a un altare nascosto tra le colline, “là dove il primo canto del corvo squarcia il silenzio.”
Dopo quella notte, Artemisia non mi lasciò più. Tornava nei miei sogni, cambiando forma ma mantenendo intatta la sua aura spettrale. La sua presenza si insinuava nelle mie giornate, nei sussurri del vento e nelle ombre che sembravano muoversi al limitare del mio sguardo. Sapevo di essere perduto, ma una parte di me si aggrappava a quella follia, come un uomo che abbraccia la tempesta sapendo di non poterla sfuggire.
Quando finalmente vidi Artemisia sulla cima di una collina, immobile come una statua d’avorio, la mia mente si spezzò. Tornai alla villa, incapace di pensare, incapace di dormire. Il diario era ancora lì, e lo riaprii con mani tremanti. L’inchiostro sembrava brillare di una luce oscura, pulsante. Era una mappa verso la rovina, eppure non potevo distogliere lo sguardo.
Le colline, con il loro silenzioso richiamo, erano ormai inevitabili. Artemisia mi attendeva, e io, come uno strumento docile, rispondevo al suo richiamo. Nella notte gelida, con il cuore stretto dalla paura e dalla devozione, mi preparai a seguire il sentiero verso l’altare. Verso l’ignoto. Verso lei.
Quando le prime luci del giorno tinsero il cielo di un grigiore spettrale, sentii dentro di me un’unica certezza: avrei trovato quell’altare, o il mio corpo avrebbe marcito sulle colline che mi chiamavano.
Ritornai alla biblioteca della villa, che sembrava essersi fatta più ostile. L’odore, un tempo sopportabile, era diventato un miasma soffocante, un sentore di putrefazione antica e disperazione. Forse era solo una proiezione della mia anima. Non mi importava. Mi gettai con febbrile determinazione tra i libri ammuffiti e i documenti sparsi come ossa spolpate dal tempo.
Trovarlo fu sorprendentemente semplice. Una mappa, sepolta tra le pagine ingiallite di un vecchio registro, si rivelò come un segreto troppo a lungo celato. Le colline erano delineate con mano insicura, ma i simboli tracciati sopra erano inequivocabili. Una stella rossa marcava un punto specifico, un fulcro attorno al quale sembrava ruotare l’intera mappa. Mi persi a fissare quel disegno, come se un incantesimo legasse il mio sguardo ai segreti che conteneva.
Le mani mi tremavano mentre ripiegavo la carta con una cura ossessiva, infilandomela nella tasca del cappotto.
Quella notte fu priva di sogni. Artemisia non venne. Non c’era alcuna visione, alcun bisbiglio. Solo un silenzio così profondo che sembrava gravare sul mio petto, rendendo ogni respiro una sfida. L’universo tratteneva il fiato, come se fosse in attesa del passo fatale.
All’alba, con il diario sotto il braccio e la mappa salda nella mente, mi incamminai verso le colline. Quando il primo canto rauco di un corvo lacerò il silenzio del mattino, sentii un brivido, come se l’aria stessa si fosse caricata di un’oscura aspettativa.
Le colline erano sempre state lì, indifferenti e immobili, come guardiani silenziosi di segreti che non appartenevano al mondo degli uomini. Ma quel giorno, mentre seguivo il sentiero delineato dalla mappa, sentivo il loro sguardo su di me. Il vento portava con sé un odore dolciastro e nauseabondo, come quello del sangue antico o della carne lasciata a decomporsi sotto un sole impietoso.
Il sentiero era quasi invisibile, una ferita dimenticata nella terra coperta d’erba alta. Ogni passo che facevo sembrava spingermi più lontano dal mondo conosciuto. I suoni familiari del bosco – il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle foglie – si mescolavano con altri rumori più ambigui: uno scricchiolio distante, un battito d’ali che pareva appartenere a una creatura troppo grande per essere reale.
La prima radura che incontrai era un cerchio di erba schiacciata, apparentemente privo di significato. Eppure, il silenzio che lo avvolgeva era innaturale, un vuoto che sembrava assorbire ogni suono e ogni pensiero. Mi inginocchiai per esaminare il terreno e notai segni tracciati con una precisione inquietante, linee sottili che si intrecciavano a formare un simbolo che mi risultava familiare eppure incomprensibile.
«Non toccare.»
La voce giunse come una frustata, facendomi sobbalzare. Mi voltai di scatto e incontrai una figura che sembrava appartenere più a un incubo che alla realtà. Era una vecchia, curva e decrepita, la pelle ridotta a pergamena bruciata. Indossava una sciarpa scura che nascondeva parte del volto, ma i suoi occhi, neri come abissi, brillavano di una luce maligna.
«Non è per te,» disse con un tono che sembrava racchiudere l’autorità di secoli.
«Chi sei?» chiesi, la voce incrinata da un tremito che non riuscivo a mascherare.
«Una vecchia,» rispose con semplicità, «come mi vedi.»
C’era qualcosa di profondamente sbagliato in lei, un’aura di certezza che sfidava ogni logica umana. Lasciò cadere ai miei piedi un piccolo oggetto: un amuleto fatto di legno intrecciato e ciocche di capelli che non avrei voluto esaminare più da vicino.
«Portalo con te,» mormorò. «Non ti proteggerà, ma ti farà comprendere.»
Prima che potessi replicare, si voltò e scomparve tra gli alberi, lasciandomi solo con il suono del mio respiro affannoso e l’amuleto che pulsava debolmente sotto la luce fioca. Lo raccolsi con esitazione e lo infilai in tasca, riprendendo il cammino con una sensazione di oppressione crescente.
Il sentiero si fece più ripido e il terreno mutò, diventando duro e sterile, come se anche la natura stessa avesse abbandonato quel luogo. Quando incontrai la seconda figura, il cuore mi balzò in gola. Era un uomo, o almeno una parodia di un uomo: alto e magro, con una barba selvaggia e capelli intrecciati di radici.
«Ti aspettavo,» disse, la voce un sussurro che sembrava emergere dal terreno stesso.
«Non credo.»
Rise, ma il suono era alieno, un sussurro corrotto. «Stai cercando l’altare,» proseguì.
«Come lo sai?» chiesi, cercando di mascherare la mia inquietudine.
«Non è difficile.» I suoi occhi affondati sembravano trapassarmi, leggendo ogni mio pensiero. «Tutti cercano qualcosa, ma nessuno torna con ciò che sperava.»
«Non posso tornare indietro.»
Lui annuì, come se avesse previsto quella risposta. «Lo so. Buona fortuna. Non servirà.»
Proseguì e si dissolse nel nulla, lasciandomi solo con l’oscurità che calava.
Quando raggiunsi l’ultima radura, il sole stava tramontando, e l’aria si era fatta gelida. Gli alberi si piegavano verso il centro del cerchio, come se tentassero di celarlo. Al centro si ergevano pietre antiche, disposte in un disegno che sembrava sfidare ogni geometria razionale. L’altare era lì, e con esso l’inizio della fine.
Mi avvicinai con cautela, il diario stretto tra le mani tremanti, cercando disperatamente di intrecciare i segni che ora scorgevo sulle pietre con i criptici simboli che avevo decifrato tra le pagine ingiallite. Quei glifi, scolpiti con una precisione che sfidava il tempo, sembravano pulsare di una vitalità oscura, come se fossero stati tracciati non da mani umane, ma da entità il cui pensiero sfugge alla comprensione mortale. Mi chinai, ogni muscolo teso, e nel momento in cui sfiorai quelle incisioni, il mondo sembrò trattenere il respiro.
Fu allora che udii il suono.
Non era un suono naturale, ma qualcosa di più primordiale e terrificante: un rimbombo basso e profondo, più simile a una vibrazione che a un rumore. Penetrò nelle ossa, scuotendo ogni fibra del mio essere. Mi resi conto, con un terrore strisciante, che proveniva dal terreno sotto di me. Mi ritrassi, alzandomi di scatto, il respiro spezzato e gli occhi febbrili che scrutavano il buio circostante.
«Sei vicino.»
La voce era quella di Artemisia, chiara come un campanello d’argento, eppure nessuna figura si scorgeva intorno a me. Mi voltai, il cuore martellante, ma trovai solo le ombre degli alberi, più lunghe, più distorte, come se seguissero geometrie aliene. Mi immersi nel sentiero con passo incerto, il diario stretto come un talismano contro il buio che sembrava avvolgermi, stringermi. Non sapevo dove stessi andando, ma sentivo che le colline mi chiamavano, che ogni passo risuonava di un destino già scritto.
Infine, giunsi a un punto in cui il sentiero si interruppe bruscamente. Davanti a me si spalancava una scalinata scavata nella roccia, scendendo nell’abisso. Un gelo senza nome mi avvolse, ma sapevo di non poter tornare indietro. Presi un respiro profondo e iniziai a discendere.
Fu allora che la pioggia cominciò.
Sottile, quasi impercettibile, sembrava cadere senza peso né suono, come un sudario trasparente calato sul mondo. Era iniziata mentre scendevo i gradini, ma non cessò nemmeno quando cercai rifugio sotto le radici contorte di un albero il cui tronco sembrava piegarsi in un’agonia silente. Non era una pioggia ordinaria. Era come se il cielo stesso trasudasse la sostanza dei sogni più nefasti, un’acqua che non bagnava ma penetrava, insinuandosi fino all’anima.
Il terreno sotto i miei piedi sembrava cedere, o forse ero io a scivolare su qualcosa d’invisibile. Mi pareva di muovermi in cerchio, anche se ogni curva del sentiero rivelava un nuovo orrore. Sopra di me, il cielo era una distesa grigia e uniforme, come un’immensa tela logora che nascondeva qualcosa di vivo, qualcosa che si muoveva appena oltre il velo.
Fu in quel momento che scorsi la figura.
All’inizio, la confusi con una roccia o un albero contorto. Era piegata in un’angolazione innaturale, un’essenza che sfuggiva alla definizione. Quando mi avvicinai, i suoi contorni sembrarono mutare, come se la realtà stessa si piegasse intorno a lei. «Chi sei?» balbettai, ma la mia voce si spezzò nel nulla. La figura non rispose, ma la testa – o ciò che presi per tale – si voltò leggermente. Mi fissò con occhi che non erano occhi, ma pozzi neri e insondabili. Poi, con un orrore strisciante, semplicemente svanì, come se non fosse mai stata lì.
Avanzando, mi accorsi che il mondo attorno a me si deformava. Le ombre si allungavano in modo impossibile, e gli alberi, vivi in un modo che sfidava la natura, sembravano protendersi verso di me con rami scheletrici, come arti ossuti di qualche essere affamato.
E Artemisia era ovunque.
La sua voce mi giungeva in sussurri persistenti, ora dolci come il miele, ora taglienti come lame. «Non fermarti, Riccardo.» Era un comando che mi trascinava avanti, anche quando il mio stesso istinto mi supplicava di fermarmi. La vidi più volte, o credetti di vederla, sempre ai margini della mia visione. Era una figura oscura, con capelli argentati che ondeggiavano come se danzassero in un vento invisibile.
Quando giunsi alla capanna, pensai, per un attimo, di essere arrivato alla fine. Era una costruzione angusta, eretta con legno annerito e avvolta da un’aura di rovina. All’interno, non c’era nulla se non un tavolo e una sedia, e il silenzio pesava come piombo.
«Aspetti qualcuno?» La voce mi fece sobbalzare. Mi voltai, trovandomi davanti a un uomo che sembrava scolpito nella stessa sostanza dei miei incubi. Era magro, con occhi troppo grandi e un sorriso che rivelava denti neri e scheggiati.
«Chi sei?» domandai, la mia voce ridotta a un filo.
Lui sorrise, un’espressione che sembrava contorcersi in un modo disumano. «Non importa chi sono. Importa cosa stai cercando.»
E allora capii, con un orrore che sfidava la ragione, che ciò che cercavo non era altro che il principio di una fine che non avrei potuto comprendere, né tantomeno fermare.
Quella notte, trovai un’altra radura, diversa da tutte le altre che avevo attraversato nel mio cammino tormentato. Era come se il bosco stesso l’avesse celata agli occhi degli estranei, un luogo che non avrebbe dovuto esistere. Al centro della radura, eretta come un’antica sentinella dimenticata, sorgeva una pietra alta e sottile, coperta di simboli incisi. Quei segni non appartenevano a nessun alfabeto terrestre; avevano una qualità al contempo aliena e primordiale, come se contenessero il linguaggio delle stelle o il mormorio degli abissi insondabili.
Mi inginocchiai, spinto da una forza che non riuscivo a controllare, e avvicinai il viso alla superficie scabra della pietra. Più li osservavo, più quei simboli sembravano sfuggirmi, muovendosi in un modo che sfidava la logica. Linee che mutavano forma, curve che si torcevano su sé stesse come per beffarsi della mia percezione.
Poi, la pietra parlò.
Non usò parole come le intendiamo noi, ma un coro di suoni che si insinuarono nella mia mente come dita gelide. Era una melodia dissonante, un rumore che non proveniva dalle mie orecchie ma dalla mia stessa coscienza. Le mani mi corsero istintivamente alle orecchie per bloccare quell’orrore, ma fu inutile. Il suono continuava, penetrante, insidioso, fino a far vibrare ogni pensiero nella mia testa.
«Non puoi scappare.»
La voce di Artemisia. O almeno così mi sembrava. Non sapevo più distinguere la realtà dalla follia. Mi alzai vacillando, il cuore martellante e il respiro spezzato, e in quell’istante mi accorsi che la pietra era sparita. Al suo posto, il terreno era coperto da una pozzanghera scura, una macchia liquida che rifletteva la luce in un modo innaturale. Mi chinai per guardare, e ciò che vidi mi fece gelare il sangue.
Era il mio volto, ma non era il mio volto. L’immagine riflessa era più vecchia, scavata, con occhi spenti che tradivano un’esistenza divorata dalla disperazione. «Chi sei?» sussurrai, ma il riflesso non rispose. Rimase lì, immobile, osservandomi con una fissità che mi fece dubitare di ogni cosa.
Ripresi a camminare, spinto da una forza che non potevo combattere. Sentivo che mi stavo avvicinando a qualcosa, anche se non sapevo cosa. Ogni passo mi avvolgeva in un buio più profondo, un’oscurità che sembrava strisciare dentro di me, corrodendo ciò che restava della mia sanità. Non volevo ammetterlo, ma sapevo che le colline mi stavano cambiando. O forse stavano solo rivelando la mia vera natura.
Il tempo perse significato. Potevano essere passati giorni o ore; la mia mente era un vortice di frammenti sconnessi, intrappolata in un ciclo di paura e confusione. Mi trovai infine davanti a un’apertura nel bosco, una radura che sembrava essere comparsa dal nulla. Non c’era stato alcun avvertimento, nessun segnale del cambiamento. Il silenzio che vi regnava era così assoluto da risultare opprimente, come se l’intero mondo avesse smesso di respirare.
Al centro della radura, giaceva l’altare.
Era una lastra di pietra scura, screpolata dal tempo ma non indebolita, come una reliquia di una civiltà dimenticata. Simboli erano incisi attorno ad essa, tracciati nel terreno con una precisione così perfetta da sembrare il lavoro di mani divine o infernali. La luce non proveniva dal cielo – un cielo grigio e immutabile, privo di sole o stelle – ma dall’altare stesso. Un bagliore tenue, inquietante, come un riflesso di qualcosa che bruciava in un’altra dimensione.
Mi avvicinai, i piedi affondando nella terra molle. Ogni passo sembrava un atto di volontà impossibile, come se l’aria stessa mi trattenesse. Quando fui di fronte all’altare, riconobbi i simboli incisi sulla sua superficie. Erano gli stessi del diario, gli stessi che avevo visto nelle mie visioni. Linee e curve che sfidavano ogni principio della geometria terrena.
E poi sentii la sua voce.
«Finalmente.»
Mi voltai di scatto, e la vidi. Artemisia era lì, reale come non lo era mai stata. La sua figura era avvolta in una veste nera che si muoveva come fumo nell’aria immobile. I suoi capelli, lunghi e argentati, scintillavano come fili di luna, e i suoi occhi – due abissi insondabili – mi catturavano, obbligandomi a fissarli.
«Sei arrivato,» disse, con un sorriso che trasudava una sinistra combinazione di sollievo e predazione.
«Sei reale?» chiesi, la mia voce incrinata.
Lei inclinò la testa, un movimento che sembrava al contempo affascinante e spaventoso. «Più reale di quanto tu sia mai stato.»
Mi voltai verso l’altare, il suo bagliore che sembrava attirarmi e respingermi allo stesso tempo. Artemisia avanzò fino a posare le mani sulla pietra. «Questo è il cuore di tutto,» disse, la sua voce come un sussurro che scivolava dentro di me. «Qui inizia e finisce il tormento della tua famiglia.»
Non potevo distogliere lo sguardo. Le sue parole pesavano sulla mia mente come catene, e sapevo che non c’era via di fuga. L’altare pulsava sotto le sue mani, vivo, affamato. Non ero più certo di cosa fossi disposto a sacrificare, ma sentivo che la scelta mi avrebbe consumato per sempre.
Mi sollevai con la lentezza di un’anima gravata da innumerevoli eoni di tormento. Ogni fibra del mio essere pareva intrisa di un’inerzia innaturale, e il silenzio attorno a me non era semplice assenza di suono, ma un’entità tangibile, pulsante, che mi soffocava con il suo peso opprimente. L’aria nella radura era densa, quasi viscida; respirarla era come ingerire un veleno invisibile, un’essenza corrotta che s’insinuava nei polmoni e nel sangue.
Attorno all’altare si addensava un’atmosfera arcana, un’energia indescrivibile che permeava la terra sotto i miei piedi. Il suolo vibrava impercettibilmente, un ritmo lento e sinistro che sembrava risuonare con il battito del mio cuore. Sapevo, senza più alcun dubbio, che l’altare non era una costruzione morta: respirava, pulsava, viveva. O, peggio ancora, ospitava una presenza che non avrebbe dovuto esistere.
Il diario tremava nelle mie mani, le sue pagine ingiallite e lise animate da un movimento che non apparteneva a questo mondo. Le parole incise in quell’inchiostro scuro, che sembrava quasi sanguinare dalla carta, si stagliavano con una nitidezza inquietante, come se implorassero di essere lette. Non era la prima volta che scorrevo quelle righe, ma ora esse sembravano gravide di un significato che andava oltre la comprensione umana. Erano più che istruzioni: erano un comando, una legge ineluttabile.
Il rituale, nella sua crudele semplicità, chiedeva solo ciò che ogni anima teme: sangue, terra, volontà. Non c’erano formule ornate né reliquie sacre; solo carne e spirito, offerti senza riserve. Tirai fuori il coltello che avevo portato con me, un oggetto ordinario che, nella sua banale freddezza, ora sembrava emanare un’aura minacciosa. Il metallo ghiacciato contro la mia pelle era una realtà insopportabilmente tangibile, un contrasto crudele con il mondo che stava lentamente dissolvendosi attorno a me.
Esitai per un istante, il tempo di un respiro che parve un’eternità. Poi premetti la lama contro il palmo della mia mano. La carne cedette con un dolore acuto e bruciante, e il sangue sgorgò con una vividezza che sembrava sfidare la notte stessa. Ogni goccia che colpiva la pietra dell’altare si raccoglieva in minuscole pozze che parevano muoversi da sole, spingendosi verso le incisioni che ora brillavano con un’intensità crescente.
Un ronzio basso e profondo iniziò a risuonare, un suono che non proveniva da alcuna fonte visibile, ma che sembrava emergere dall’interno della terra e delle stelle stesse. Poi, con un lampo che non era né luce né tenebra, venne la visione.
Mi ritrovai in una distesa di terra sterile, oscura come la pece. Intorno a me, alberi scheletrici si ergevano come monumenti funebri deformi, le loro radici contorte protese verso un cielo innaturale. Era un cielo vivo, un vortice pulsante di rosso e nero, che respirava e gemeva come una creatura ferita. Nell’oscurità lontana, sagome si muovevano con andature innaturali, i loro corpi spezzati in forme che sfidavano ogni legge della fisica. Sebbene non avessero occhi, sentivo il peso del loro sguardo su di me, un’attenzione divorante che trascendeva la carne.
E allora apparve Artemisia.
Non era più la donna che conoscevo, ma qualcosa di infinitamente più grande e terribile. La sua figura, avvolta in un manto di ombre vorticanti, torreggiava su di me, e i suoi occhi erano pozzi di luce bruciante, due soli neri che trapassavano la mia anima. Ogni passo che compiva risuonava come il rintocco di un giudizio cosmico.
«Riccardo,» pronunciò il mio nome con una voce che era un sussurro e un grido al contempo, echeggiando nelle profondità della mia mente.
«Cosa sta accadendo?» balbettai, ma le parole mi uscirono come un lamento spezzato.
«Questo è ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà,» rispose lei. «Tu sei parte di tutto questo.»
La visione mutò con la violenza di un fulmine. Ora mi trovavo nella villa, ma non in quello stato di decadimento che conoscevo. Le stanze brillavano di una luce impossibile, le pareti ornate di quadri che parevano fissarmi con occhi vivi. Uomini e donne in abiti eleganti danzavano al ritmo di una musica che si insinuava nel mio spirito, dolce e perversa.
Poi la luce svanì, lasciando il posto a un abisso. Le risate si mutarono in urla lancinanti, e le figure eleganti si contorsero in forme grottesche, mentre il sangue colava dai muri come una piaga biblica. Cercai di fuggire, ma ogni porta conduceva a un’altra stanza identica, in un incubo di specchi e illusioni.
Alla fine mi ritrovai di nuovo davanti all’altare, ma quello che vidi mi fece gelare il sangue. Davanti a me stava una versione più vecchia e spezzata di me stesso, le sue mani sporche di sangue. Artemisia lo osservava, con un sorriso enigmatico che racchiudeva promesse di orrore eterno.
«Ora sai,» disse lei.
E poi, tornai. Il freddo della pietra sotto le mie mani mi svegliò dalla visione, ma sapevo che nulla era finito. Sentivo una presenza attorno a me, un’ombra vasta e infinita che mi scrutava con un’intelligenza inumana.
«Devi decidere,» sussurrò Artemisia, il suo volto emergendo dall’oscurità come un riflesso distorto.
E nel coro di mille voci che si levava dall’altare, compresi che la mia scelta avrebbe sigillato il mio destino e quello del mondo stesso.
Mi osservai le mani, tremanti e macchiate di un’essenza scura che non era sangue. Era qualcosa di più vischioso, una sostanza oleosa e fredda che sembrava pulsare di vita propria. Tentai di strofinarla via, ma era inutile: si aggrappava alla mia pelle come un parassita. Fu allora che lo compresi, in un lampo di orrore che mi lacerò l’anima. L’altare aveva preso ciò che voleva. Ma cosa, in cambio, mi aveva lasciato?
Non c’era trionfo, né catarsi. Quando il rituale si concluse, l’altare era soltanto un blocco di pietra inerte, il terreno sotto i miei piedi un semplice pantano. L’aria, un tempo così pesante e viva, si era ritirata come un’onda che lascia dietro di sé una spiaggia desolata. Rimasi lì, immobile, il suono del mio respiro affannato e il battito irregolare del mio cuore come un metronomo di un incubo ancora in corso.
Guardai di nuovo le mie mani. La sostanza scura si era seccata, formando una crosta fragile che si sgretolava a ogni movimento. Rimasi fermo, aspettando che qualcosa accadesse: un lampo, un segno, qualsiasi cosa che giustificasse l’orrore che avevo affrontato. Ma il nulla mi accolse con il suo silenzio implacabile.
«È tutto qui?» chiesi, la mia voce ridotta a un sussurro roco, rivolgendomi all’altare come a un idolo muto e sordo. Nessuna risposta giunse. Nessuna presenza, nessun sussurro. Artemisia era sparita. Non c’era traccia di lei, né ombra né voce che potesse guidarmi in quel momento di smarrimento.
Mi voltai verso il sentiero, ogni passo un’impresa titanica. La terra pareva trattenere i miei piedi con una forza invisibile, ma sapevo di non poter restare lì. Camminare era l’unico modo per sottrarmi alla follia. Eppure, con ogni passo, la foresta intorno a me si trasformava. Gli alberi, simili a sentinelle contorte, sembravano piegarsi verso di me, le loro ombre deformi allungandosi come artigli sul terreno. Era solo il tramonto, mi dissi, ma non potevo ignorare la sensazione di essere osservato.
Quando raggiunsi una radura, crollai. Il mio corpo, sfinito e scosso fino alle ossa, non poteva sopportare altro. Mi accasciai contro un tronco nodoso, chiudendo gli occhi nella vana speranza di sfuggire a quella realtà. Ma il buio dietro le palpebre non mi portò sollievo. Anche lì, Artemisia mi attendeva. Vedevo il suo volto, il suo sorriso enigmatico, e vedevo me stesso inginocchiato davanti all’altare, mentre il sangue si mescolava alla terra come un tributo profano.
«Non è reale,» mormorai, ma le parole suonarono vuote. E se non lo fosse stato? Se tutto fosse stato solo un inganno, un’illusione creata dalla mia mente? L’altare, Artemisia, le visioni: erano così vivide, così tangibili, eppure ora sembravano sogni in frantumi. Ma i sogni svaniscono. Questo, invece, restava.
Mi passai una mano sul viso, cercando di scacciare il turbine di pensieri che mi tormentava. Le immagini nella mia mente si sovrapponevano, si spezzavano, si ricomponevano in modi che sfidavano ogni logica. La villa, l’altare, la foresta: tutto era intrecciato in un flusso confuso e disturbante che minacciava di trascinarmi via.
«Cosa sta succedendo a me?» La mia voce si spezzò, ridotta a un gemito disperato. Non so quanto tempo rimasi lì, seduto nella radura. Quando finalmente mi alzai, il mondo intorno a me sembrava identico e al tempo stesso irrevocabilmente mutato. Nulla era cambiato – gli alberi erano gli stessi, il cielo ancora grigio – ma percepivo tutto come estraneo, ostile. Come se fossi un intruso in un luogo proibito.
Ripresi a camminare, ma non ero solo. Lo capii dai sussurri che si alzavano nel vento, dal ridacchiare spettrale che si perdeva tra gli alberi. Mi voltavo, ma non c’era nessuno. Poi apparvero le figure.
La prima la intravidi con la coda dell’occhio: un’ombra fugace che svanì prima che potessi metterla a fuoco. Poi un volto emerse tra i rami, un volto senza occhi che mi osservava con una fissità intollerabile. Le sagome si fecero più frequenti, più tangibili. Una forma curva che mi seguiva a distanza, un’altra che si muoveva tra i tronchi come un serpente di fumo.
«Chi siete?» gridai, ma il mio grido si perse nell’abisso silente della foresta. Nessuna risposta, solo il vento che trasportava il suo carico di voci indistinte.
Raggiunsi un torrente e mi inginocchiai per bere, ma l’acqua limpida aveva un retrogusto metallico che mi fece sputare. Mi guardai intorno, cercando un riferimento, ma ogni cosa sembrava uguale: una prigione di ombre e silenzi. Poi mi chinai di nuovo sull’acqua e il gelo mi percorse la schiena.
Il riflesso che mi fissava non era mio. Era un volto familiare, ma consumato dal tempo e dalla follia, scavato da linee profonde e occhi che brillavano di una luce malata. Le labbra del riflesso si mossero, e una voce estranea ruppe il silenzio.
«Non appartieni a questo luogo.»
Balzai indietro, terrorizzato, cadendo nel fango. Quando guardai di nuovo nell’acqua, il riflesso era svanito. Ma le parole, come una maledizione, continuavano a risuonare nella mia mente.
Non appartieni a questo luogo.
Il sussurro, appena percepibile, sembrava provenire dalle profondità stesse della terra, un’eco di qualcosa di antico e dimenticato. Mi ridestai con un sobbalzo, il cuore che batteva come se rispondesse a un richiamo oscuro. Attorno a me, gli alberi s’erano serrati, i rami intrecciandosi sopra il mio capo in una gabbia opprimente. Un gelo innaturale pervadeva l’aria.
«Lasciatemi in pace!» gridai, ma le mie parole sembravano dissolversi prima ancora di infrangere quel silenzio opprimente. E le voci—oh, quelle voci!—continuavano, sussurrando frammenti di un idioma sconosciuto, come se creature invisibili tramassero appena al di là del velo della realtà.
Alla vista della villa, un sollievo effimero mi travolse, un’onda che si spezzò subito contro le rocce della percezione. Era lì, la villa, con le sue mura scrostate e le finestre che sembravano orbite vuote; immutata, eppure… diversa. Più mi avvicinavo, più un’inquietudine primordiale si insinuava nel mio animo. La porta, aperta, mi attendeva come un’ombra spalancata.
L’interno era freddo, glaciale, come se ogni briciola di calore fosse stata divorata da qualcosa di invisibile. Ogni passo rimbombava nei corridoi vuoti, un suono che sembrava risuonare in un’eco senza fine.
«C’è qualcuno?» chiesi, la mia voce debole, quasi soffocata dall’aria densa. Nessuna risposta.
Mi diressi alla biblioteca, quella stanza che aveva custodito il diario. Doveva tornare lì, al suo posto, come se quel gesto potesse riparare una crepa invisibile nel tessuto della realtà.
Quando lo sollevai, un brivido mi attraversò. Il peso… non era giusto. Troppo leggero. Aprii il libro con mani tremanti e trovai… il nulla.
Pagine vuote, bianche come ossa sbiancate dal tempo. Sfogliai con crescente frenesia, un panico muto che mi serrava il petto. Nessun simbolo, nessuna parola, nessun segno che attestasse la sua esistenza. Solo quel vuoto sardonico che pareva sogghignare da ogni foglio immacolato.
«No… non è possibile,» mormorai, la voce un sibilo estraneo anche a me stesso. Gettai il libro sul tavolo, e per un istante lo vidi: nello specchio incrinato accanto alla finestra, un volto. Il mio volto. Eppure… non mio.
La biblioteca sembrava respirare, le ombre animandosi come viscere oscure. Gli scaffali traboccavano di tomi che non ricordavo di aver mai visto, eppure mi erano disturbantemente familiari. In un angolo, lo specchio incrinato continuava a osservarmi con il suo riflesso deformato, come un occhio che non poteva chiudersi.
Chiusi gli occhi, tentando di scacciare i ricordi che cominciavano a sgorgare, viscosi e inarrestabili. Artemisia. Il suo nome era un veleno che scorreva nella mia mente, un’ossessione che mi aveva consumato e spinto oltre il limite.
Ma quando riaprii gli occhi, la biblioteca era vuota, un guscio cavo che echeggiava della mia follia. Oltre le finestre, le colline si stagliavano sotto un cielo plumbeo, guardandomi con indifferenza cosmica.
Un pensiero mi colpì, freddo come una lama. Artemisia non era mai stata reale. Era un’eco, un’illusione che avevo creato per riempire il vuoto che avevo scavato nel mio cuore. Oppure… era reale, e la sua realtà mi era stata strappata, consumata da qualcosa di molto più grande di me.
Mi alzai, i passi lenti, guidati da una volontà che non sentivo più mia. Attraversai i corridoi, le fotografie appese ai muri distorte come in un incubo. Nelle immagini sbiadite, volti che conoscevo e che non conoscevo mi fissavano, i loro occhi pieni di accuse e segreti.
Quando tornai nella biblioteca, la stanza sembrava pulsare. La bottiglia sul tavolo era un richiamo tentatore, ma non bevvi. Non osai. L’aria vibrava, e un rumore sottile mi fece voltare.
Nell’angolo più oscuro, qualcosa si mosse.
Il volto che mi guardava non era il mio, non del tutto. Gli occhi brillavano di un’oscurità insondabile, e il sorriso… oh, quel sorriso! Era l’abisso stesso che mi fissava.
«Non appartieni a questo luogo,» disse la voce, e questa volta, non c’era dubbio. Non era solo una frase. Era una sentenza.
E sapevo che non sarei mai uscito da quel luogo. Da quella villa. Da me stesso.
Mi destai in un letto estraneo, circondato da un ambiente che emanava una sensazione di distacco e freddezza che sembrava permeare fino al mio stesso midollo. L’odore pungente del disinfettante graffiava le narici, sconcertante e innaturale, come se ogni molecola d’aria fosse stata sterilizzata fino a perdere ogni traccia di vita. Le lenzuola erano rigide, quasi abrasive, e il cuscino sotto la mia testa pareva riempito di pietre levigate da mani senza pietà.
Ogni movimento era una sfida. Un dolore sordo e persistente percorreva le ossa, non semplice affaticamento ma un peso che sembrava radicato nel profondo della mia carne, come se qualcosa di innaturale vi si fosse annidato.
La stanza era spoglia, le pareti bianche come un obitorio, illuminate da una luce fredda e impietosa che pareva trarre forza dal nulla. Un ronzio basso, ipnotico, percorreva l’aria, un rumore monotono che poteva appartenere a un condizionatore o a un dispositivo medico nascosto nelle ombre. Dall’eco distante di voci mi giunsero parole indistinte, poi un dialogo:
«È sveglio?» «Dategli un momento. Ha avuto un episodio intenso.»
Il mio corpo obbedì a fatica quando cercai di sollevarmi. Mi sedetti lentamente, il respiro affannoso mentre cercavo di scacciare la nebbia mentale che sembrava avvolgermi come una seconda pelle. Quando i miei occhi si sollevarono, incontrarono due figure.
Davanti a me stavano una donna, il cui camice bianco contrastava con la sua compostezza professionale, e un uomo alto, dal portamento rigido e severo, avvolto in un completo scuro che sembrava grottescamente fuori luogo in quell’ambiente asettico. Gli occhi della donna erano scrutatori, carichi di qualcosa che oscillava tra la compassione e il distacco.
«Come si sente, Riccardo?» domandò lei, la voce carezzevole ma segnata da un’inflessione di artificiosa pazienza.
Non risposi subito, lasciando che il mio sguardo vagasse nella stanza spoglia, sterile come un sogno al margine del reale. Le pareti erano interrotte solo da un orologio che scandiva ogni secondo con un ticchettio implacabile, una condanna costante al passaggio del tempo.
«Dove sono?» mormorai, la voce roca e spezzata, come se fossi stato in silenzio per anni.
La donna scambiò uno sguardo rapido con l’uomo, che annuì lentamente, un movimento che sembrava pesato come un giudizio.
«Sei in un ospedale psichiatrico, Riccardo,» disse, con una morbidezza che pareva mascherare una verità molto più tagliente.
Quelle parole penetrarono come un pugnale gelido, svuotando la mia mente e lasciando un silenzio che echeggiava con forza disumana.
«Cosa?» balbettai, il fiato che mi si strozzava in gola.
L’uomo parlò allora, la sua voce profonda e autoritaria come un martello che colpiva una campana vuota: «Ti abbiamo trovato vagare sulle colline, ferito e disidratato. Parlavi di un altare e di una donna… Artemisia, se non erro.»
Il suono di quel nome squarciò il velo della mia memoria, liberando visioni torbide e sconnesse. L’altare. Artemisia. Il sangue che impregnava la terra sotto di me. Ma erano reali? La confusione e il gelo si insinuarono nel mio petto come artigli.
«Non capisco,» mormorai, la mente che si arrampicava invano per trovare un punto d’appiglio.
La donna si avvicinò, sedendosi accanto al letto. La sua presenza era calma, ma nella sua compostezza c’era un’inquietudine appena percettibile. «Riccardo, hai vissuto isolato troppo a lungo. La villa, la solitudine… tutto questo ha avuto un impatto su di te. La tua mente… ha cercato di riempire i vuoti.»
Scossi la testa, una negazione disperata. «No, non capite. Io ho visto Artemisia. Lei era reale. Mi ha parlato.»
La donna non si mosse, ma il suo sguardo si fece più grave, come se ogni parola che pronunciava fosse una sentenza. «Riccardo, non c’era nessuna Artemisia. Nessun altare. Quando ti hanno trovato, il sangue sulle tue mani era il tuo. Ti sei ferito da solo.»
Quelle parole scavarono nel mio petto una voragine. L’aria sembrò svanire dalla stanza, e le pareti, quelle pareti bianche, si avvicinarono inesorabilmente, come se volessero inghiottirmi.
«Non è possibile,» sussurrai, un mantra vuoto di significato.
La donna scambiò un’altra occhiata con l’uomo, che rimase immobile, una figura incombente che sembrava più un simulacro che un essere umano. Lei parlò ancora, la voce un filo di acciaio mascherato da velluto: «La tua mente ha creato Artemisia. Ha preso i frammenti di ciò che hai vissuto—di chi hai perduto—e li ha trasformati in un simbolo. Ma è tutto qui, Riccardo: un simbolo, un’illusione.»
Il nome che pronunciò allora, Maria, squarciò i ricordi come un fulmine. Le immagini si riversarono nella mia mente: il suo viso, la sua voce, i litigi e il bicchiere infranto. E quella notte… quella notte eterna.
«No,» dissi, la voce rotta. «Non voglio ricordare.»
Ma il ricordo non si lasciò ignorare. Era lì, un mostro che mi divorava dall’interno. E con esso, una consapevolezza terribile: non c’era mai stata Artemisia. Solo Maria. E me stesso, con la mia incapacità di affrontare ciò che avevo fatto.
Il ronzio nella stanza crebbe, assorbendo ogni altro suono, finché non sembrò provenire direttamente dalle viscere della terra. O forse… dalla mia mente. E allora la vidi.
Nell’angolo più buio della stanza, avvolta in ombre pulsanti, c’era Artemisia. O forse Maria. Non aveva più importanza. Mi fissava, e nei suoi occhi c’era l’abisso.
Il suo sorriso era l’ultima cosa che vidi prima che il mio mondo si spezzasse definitivamente.
La mente è un abisso insondabile, un recesso di intricati meandri e pulsioni che solo pochi osano esplorare. La dottoressa parlava con una calma irreale, un tono che pareva studiato per infondere una tranquillità artificiosa, mentre ogni sua parola scivolava come un veleno mellifluo.
«Quando subisce traumi,» disse, i suoi occhi che sembravano scrutarmi ma senza vedermi, «la mente può rifugiarsi in immagini familiari, costruendo un labirinto di realtà alternative per proteggersi dal dolore.»
La sua spiegazione era come un coltello smussato che scava senza pietà. Mi trovavo seduto sulla sedia di fronte alla sua scrivania, avvolto dalla luce grigia e spenta che filtrava dalla finestra. Anche il sole, pensai, sembrava stanco di tutto questo.
«E se quelle immagini non fossero semplici illusioni?» domandai, la voce ridotta a un sussurro, come se la domanda stessa potesse attirare qualcosa di oscuro e invisibile.
La dottoressa sorrise allora, un sorriso vuoto e professionale, tanto misurato quanto fragile. «Lavoreremo insieme per distinguere la realtà dalla fantasia.»
Sorrisi a mia volta, ma il mio era un sorriso carico di disperazione, un gesto beffardo che mascherava il vuoto che mi divorava. «E se non volessi distinguere?»
Per un istante, il suo volto si incrinò, il sorriso sparì come una maschera troppo a lungo indossata. «La tua guarigione dipende da questo,» disse infine, ma le sue parole suonavano come un’eco vuota, priva di reale convinzione.
Guarigione? No, non era quello che cercavo. L’idea di accettare una realtà in cui Artemisia non fosse mai esistita, in cui l’altare e le incisioni non fossero altro che frutti avvelenati della mia immaginazione, mi pareva una condanna più crudele di qualsiasi visione infernale.
Così iniziai a cercarla.
I corridoi dell’ospedale, un tempo semplici e monotoni, si trasformarono in un dedalo di ombre e silenzi. Ogni svolta sembrava condurmi più lontano dalla sanità mentale, ogni angolo nascondeva una minaccia indefinita. Le porte socchiuse rivelavano scorci di altri mondi, e talvolta udivo il suo nome—Artemisia—nei bisbigli delle infermiere o nei rintocchi cadenzati dei miei stessi passi.
Fu una notte, in una stanza comune, che la vidi di nuovo. Era seduta su una delle sedie accanto alla finestra, la sua figura avvolta in una luce lunare spettrale che la rendeva più reale di qualsiasi altra cosa in quel luogo.
«Artemisia,» chiamai, la mia voce tremante e rotta, come se pronunciare quel nome fosse già un rituale proibito.
Lei si voltò lentamente. I suoi occhi, scuri e insondabili, mi trafissero con la forza di mille incubi. Non c’era rabbia in quel volto, né amore, ma solo un vuoto cosmico, un abisso che sembrava tirarmi verso di lei con una gravità irresistibile.
«Riccardo,» mormorò, la sua voce lieve come un soffio, eppure piena di un’autorità primordiale. «Sai cosa devi fare.»
«Non so più cosa è reale,» risposi, e le lacrime che scivolavano sul mio viso erano tanto fredde quanto il tocco della morte.
Lei non rispose. Mi osservò con un sorriso enigmatico, un gesto che conteneva tutto: pietà, saggezza e una conoscenza che sfidava la comprensione umana.
Quella notte, la realtà si spezzò come un cristallo infranto. Artemisia tornò mentre giacevo nel letto della mia stanza. Prima udii il suo respiro, un sussurro che sembrava emergere direttamente dalle ombre. Poi, lentamente, la sua figura si delineò ai piedi del mio letto, avvolta in un mantello di tenebre che sembrava scivolare e pulsare come un’entità vivente.
«Devi venire con me,» disse, la sua voce come un canto funebre.
«Dove?» chiesi, le parole un tremito privo di volontà.
«All’altare,» rispose, e quelle due parole risuonarono nella stanza come un eco di antichi rituali.
Mi alzai, incapace di oppormi, e la seguii. Ma i corridoi non erano più quelli dell’ospedale. Le pareti bianche e asettiche erano svanite, sostituite da pietre grezze e sudice che sembravano vibrare di una vita propria. Il pavimento era umido sotto i miei piedi nudi, e l’aria aveva un odore di terra antica, mescolata a qualcosa di indefinibilmente dolciastro e putrido.
Quando raggiungemmo la radura, l’altare era lì, come un monolite dimenticato da un’epoca primordiale. La luce della luna illuminava le incisioni sulla sua superficie, rune che pulsavano di un bagliore spettrale, come vene attraverso cui scorreva una linfa ultraterrena.
Artemisia si voltò verso di me, i suoi occhi ardenti di un’intensità che mi immobilizzò. «Questa è la tua verità, Riccardo. L’unica verità che ti resta.»
Mi inginocchiai di fronte all’altare, le mani che sfioravano la pietra fredda e ruvida, sentendo il peso di millenni gravare sulle mie spalle. Il mondo intorno a me si dissolveva; le voci dell’ospedale, gli echi della razionalità, tutto svaniva come un sogno al risveglio.
«Sono pronto,» sussurrai, benché non sapessi a cosa stessi offrendo me stesso.
Artemisia si avvicinò allora, le sue mani eteree che si posarono sulle mie, un tocco che mi riempì di gelo e riverenza. «Allora ricominciamo,» disse, e il suo sorriso fu l’ultima cosa che vidi prima che tutto si spegnesse.
Mi svegliai nel letto dell’ospedale, il corpo sudato e sfinito, ma la mente in un silenzio opprimente. La stanza era vuota, eppure un piccolo oggetto sul tavolino attirò il mio sguardo.
Era un amuleto, intrecciato con legno antico e corde consunte. Lo stesso amuleto che la vecchia nel bosco mi aveva donato, o forse un altro. Era reale?
Lo afferrai con mani tremanti, e capii con una chiarezza terribile, che il cerchio non si sarebbe mai chiuso.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.