Attraversai le colline del Piacentino sotto un cielo opaco, il cui colore sembrava riflettere una volontà oscura e imperscrutabile. Gli alberi, scheletrici e piegati dal vento, parevano testimoni muti di segreti antichi. Quando la sagoma imponente di Rocca Valtenuta apparve davanti a me, il mio cuore si fermò per un istante: non era una costruzione, ma un colosso innaturale, un’entità che pareva emergere dalla terra stessa, rivestito di pietra muschiosa e denso di presagi.
Il castello mi attendeva con il silenzio severo di un giudice. Le sue torri si protendevano verso il cielo, come artigli di un essere pietrificato, mentre un’ombra inquietante aleggiava tra le sue mura. In quel luogo, la leggenda e la realtà sembravano sovrapporsi fino a confondersi, e l’aria stessa sapeva di antico e corrotto.
L’interno di Rocca Valtenuta era un enigma di pietra e velluto, impregnato di un’aura antica. I pavimenti in marmo riflettevano fioche luci tremolanti di candele disposte con cura, mentre le pareti, ornate di arazzi e dipinti, narravano scene di caccia e riti pagani con un’arte che sembrava sfuggire al tempo.
Fui accolto da un servitore il cui volto era inespressivo come una maschera funebre. Mi condusse senza una parola lungo corridoi ornati di arazzi sbiaditi e arredi che sembravano essere stati prelevati da un’epoca più antica del tempo. L’incontro con la padrona della dimora, la marchesa Lucrezia Maldracini, fu un evento che non dimenticherò mai.
Ella incarnava una bellezza che sfidava ogni legge naturale: il suo volto pallido, gli occhi di smeraldo che sembravano scrutare l’anima, e il suo portamento, che la faceva sembrare più una divinità che un essere umano. Quando parlò, le sue parole fluivano con una musicalità ipnotica, intrise di una grazia che celava un potere invisibile.
Lucrezia mi accolse nel salone principale con un sorriso caloroso e un calice di vino. La sua figura, slanciata e aggraziata, sembrava emergere dalla stessa oscurità che permeava il castello. Il vestito che indossava era nero come la pece, punteggiato da ricami dorati che parevano mutare alla luce delle fiamme.
“Ecco il nostro giovane esploratore,” disse, la voce un filo di seta che scivolava nell’aria. “Spero che Rocca Valtenuta non vi appaia troppo austera. È una dimora severa, ma ospitale, se le si concede il tempo di svelare i suoi segreti.”
Mi porse il calice, e i nostri occhi si incontrarono. Il suo sguardo aveva una profondità ipnotica, un misto di calore e di qualcosa di più oscuro, un’eco di una verità non detta.
“È… magnifico,” risposi, sorseggiando il vino. Era forte, denso, con un sapore che mi rimase sulla lingua come un sussurro di qualcosa di proibito.
Le sere trascorrevano in un’atmosfera di quieto incanto. Nella grande sala del castello, il fuoco del camino proiettava ombre danzanti sui soffitti alti, mentre Lucrezia mi intratteneva con racconti che sembravano emergere da un altro mondo. Mi parlò di antiche famiglie che avevano abitato la rocca, di patti segreti con forze sconosciute, e del giardino, un luogo che descriveva con una devozione quasi religiosa.
“Ogni pianta ha un’anima,” mi disse una sera, gli occhi fissi sulle fiamme. “E il giardino è il cuore pulsante di Rocca Valtenuta. È vivo, come voi o me, e richiede attenzioni particolari.”
“Avete un legame speciale con il giardino, marchesa?” azzardai, affascinato dalla sua voce e dalla calma magnetica con cui parlava.
“Oh, Pier Maria,” disse, ridendo sommessamente, “è un legame antico e sacro. Il giardino è il mio rifugio, la mia confessione, il mio specchio.”
Le sue parole erano carezze di miele, e il mio cuore, inesorabilmente, iniziava a battere al ritmo delle sue.
Quando finalmente mi concesse di accedere al giardino, fu come entrare in un altro regno. Il portale che conduceva al cortile interno era fiancheggiato da colonne intarsiate con simboli che mi sfuggivano: spirali intrecciate, serpenti stilizzati e figure umanoidi che sembravano emergere dalle radici degli alberi.
Oltre il portale, il giardino si aprì davanti a me come un incantesimo. Fiori dai colori impossibili si piegavano al vento, e rampicanti si intrecciavano in disegni elaborati, quasi fossero opera di un’artista folle. Il terreno era scuro, quasi nero, e aveva un odore pungente, metallico.
Mi avvicinai a un albero dai tronchi gemelli che pulsavano di una luce dorata, come se dentro di essi scorresse sangue vivo. Ero estasiato e inquieto allo stesso tempo. C’erano dettagli che mi sfuggivano, ma che percepivo ai margini della mia coscienza: radici che si avvolgevano come artigli attorno alle rocce, ombre che si muovevano dove non dovevano esserci.
Lucrezia mi raggiunse nel giardino, la sua figura eterea che sembrava fluttuare tra le piante. Mi osservava come un falco, ma il suo sorriso era dolce, quasi protettivo.
“Vi piace?” mi chiese, il tono della sua voce basso, intimo.
“È… unico,” risposi, incapace di trovare parole migliori.
Lei si avvicinò, sfiorandomi la spalla con la mano. Il suo tocco era lieve, ma mi scosse come un fulmine.
“Siete speciale, Pier Maria,” disse. “Il giardino lo percepisce. Lo vedete, vero? Sentite la sua energia?”
Annuii, incapace di mentire. La mia mente era un turbine di emozioni contrastanti: meraviglia, desiderio e un terrore sottile che non riuscivo a definire.
Da quel momento, le nostre conversazioni divennero più intime. Mi parlava del suo passato, accennando a una sofferenza che la legava al giardino. Mi mostrava i segreti del castello: una cappella pagana nascosta nei sotterranei, un libro rilegato in pelle che sembrava scritto con un alfabeto alieno.
Ogni suo gesto, ogni sua parola, mi avvolgeva in un bozzolo di sogni febbrili. Era come se il castello, il giardino e la marchesa fossero parte di un unico, grande organismo, un’entità viva che mi osservava e mi valutava.
Una notte, mentre sedevamo vicini davanti al camino, mi confidò qualcosa che mi scosse.
“Pier Maria,” disse, le mani che stringevano una coppa di vino. “Non sono la donna che credete. Non sono una creatura libera. Sono legata al giardino come un’ombra al suo padrone.”
“Che cosa intendete?” chiesi.
“C’è una magia oscura in questo luogo, una maledizione antica. Il giardino si nutre della vita… e io sono solo un tramite.”
La sua voce si spezzò, e per un istante, vidi qualcosa nei suoi occhi: una disperazione profonda, viscerale. Non potevo credere che una donna così forte e magnetica fosse tormentata da qualcosa di così crudele.
“Posso aiutarvi,” dissi, avvicinandomi a lei. “Vi libererò da qualunque maledizione. Vi giuro che lo farò.”
Lei mi guardò a lungo, il suo volto una maschera di tristezza e gratitudine. Poi, sorrise.
“Pier Maria… siete troppo puro per questo mondo.”
Non sapevo allora quanto vere fossero le sue parole.
Le piante che crescevano in quel luogo sembravano aliene. I loro colori, violenti e innaturali, pulsavano come creature vive, mentre un odore dolciastro e opprimente saturava l’aria. Sentii il cuore sussultare quando notai come le radici di alcune di esse si immergevano in pozze dal colore scarlatto, come se la terra stessa sanguinasse.
“Straordinario, non è vero?” sussurrò la marchesa, posandosi accanto a me. Il suo sguardo non era diretto verso il giardino, ma verso di me, come se stesse osservando la mia reazione con un interesse affamato.
Non potevo parlare. Sentivo un’energia arcana permeare l’ambiente, una presenza maligna e insondabile che sussurrava nei recessi della mia mente. Tuttavia, la mia curiosità di botanico era troppo forte, e nonostante il terrore che mi divorava, accettai di rimanere e studiare.
Nei giorni successivi esplorai il giardino sotto la supervisione costante della marchesa. Notai come le piante sembrassero crescere e contorcersi, quasi rispondendo alla mia presenza. Ogni notte, sogni inquietanti mi tormentavano: visioni di radici che mi avviluppavano, di volti deformi che si dissolvano in un’oscurità senza fine.
Una sera, spinto da un impulso che non potevo controllare, tornai nel giardino da solo. La luna, nascosta dietro nuvole opprimenti, illuminava debolmente il sentiero. Mi addentrai fino al centro, dove sapevo che il segreto più oscuro della marchesa mi attendeva.
“Pier Maria,” disse una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi la marchesa, il suo volto distorto da una strana, mostruosa espressione di piacere e dolore. “Avete trovato il cuore del giardino. È magnifico, vero?”
La notte era spessa come il velluto, priva di stelle e più nera della pece. Il vento, che di solito cantava tra i rampicanti del giardino, si era fermato, come un animale che fiuta un predatore. Non c’era luce, se non quella di una lanterna che Lucrezia teneva alta davanti a sé, il chiarore fioco che creava ombre danzanti sui contorni delle piante.
Raggiungemmo un’area che non avevo mai visto, un cerchio perfetto dove le piante sembravano piegarsi verso un unico punto, come in adorazione.
E lì, vidi l’innominabile. Un albero dalle dimensioni colossali si ergeva su un altare naturale, le sue radici immerse in un liquido vermiglio che emanava un bagliore spettrale. Il tronco sembrava composto di una materia impossibile, in costante mutazione, mentre i suoi rami si agitavano con movimenti innaturali.
Una cavità al centro del tronco pulsava, emettendo un bagliore rosso che sembrava vivo. Mi avvicinai, attratto e terrorizzato allo stesso tempo, il suono del mio respiro amplificato nel silenzio irreale del luogo.
“È qui che tutto ha inizio,” disse Lucrezia, la sua voce un sussurro che pareva venire dall’albero stesso.
Le sue mani si posarono sul mio viso, e i suoi occhi si piantarono nei miei. Erano pieni di qualcosa di indefinibile: un misto di desiderio, rimpianto e una fame che mi fece indietreggiare, seppur di un passo.
“Il giardino non è come gli altri,” continuò. “È vivo. Respira, sente… e ha bisogno.”
“Di cosa?” chiesi, la mia voce più debole di quanto avrei voluto.
“Di sangue.”
Rimasi immobile, mentre le sue parole si insinuavano nella mia mente come un veleno lento. Mi parlò di un rituale antico, di un patto sigillato con entità che non osava nominare. Ogni fiore, ogni radice, ogni foglia del giardino era nutrito dalla vita stessa, estratta da coloro che vi erano stati portati.
“Ma voi,” disse, avvicinandosi ancora, “siete diverso. La vostra purezza, il vostro amore per ciò che è vivo, sono perfetti. Siete l’offerta che il giardino ha atteso per tanto tempo.”
“Non può essere vero,” balbettai, cercando di allontanarmi, ma le sue mani si strinsero attorno ai miei polsi con una forza che non avrei mai immaginato da lei.
“Non temete,” disse, con una dolcezza agghiacciante. “Sarete parte di qualcosa di eterno. Il giardino vi amerà come io vi amo.”
Prima che potessi reagire, mi tirò verso di sé e mi baciò. Fu un bacio feroce, disperato, come se stesse cercando di imprimere la sua anima nella mia. Mi avvolse, rubandomi ogni pensiero e lasciandomi solo il calore travolgente del suo corpo contro il mio.
Quando mi resi conto del pugnale, era già troppo tardi. Era un’arma cerimoniale, la lama sottile e curva che scintillava di un bagliore malvagio. Con un movimento fluido, Lucrezia me la conficcò nel petto, dritta al cuore.
Sentii il freddo dell’acciaio attraversarmi, seguito da un’esplosione di dolore che mi fece cadere in ginocchio. Il sangue iniziò a sgorgare, caldo e abbondante, bagnando il terreno sotto di me.
Le radici dell’albero si mossero, come serpenti attratti dal richiamo di una preda. Si avvolsero intorno al mio corpo, affondando nella terra e assorbendo ogni goccia del mio sangue.
Lucrezia si inginocchiò accanto a me, accarezzandomi il viso con una tenerezza che mi spezzò.
“Non odiatemi,” sussurrò. “Il nostro amore vivrà per sempre, qui. Sarete parte di questa bellezza immortale.”
Le sue parole si fusero con il battito del mio cuore che rallentava, e la mia vista si offuscò. L’ultima cosa che vidi fu il giardino che esplodeva in una fioritura soprannaturale, i colori che si accendevano in tonalità impossibili, e i fiori che si piegavano verso l’albero come discepoli davanti al loro dio.
Il giardino era un’esplosione di vita e colori che sfidavano ogni logica naturale. Ogni petalo sembrava pulsare di un’energia propria, come se la linfa che scorreva in quelle piante fosse più di semplice nutrimento: era memoria, volontà, forse persino anima. Le aiuole si fondevano in un arabesco ipnotico di tonalità impossibili, dal viola che brillava come ametista, al nero profondo e lucente come l’onice.
Un profumo dolce e penetrante saturava l’aria, denso come miele, eppure portava con sé una nota di marcio, una dissonanza che strisciava in profondità, quasi impercettibile. Era il respiro del giardino, e nel cuore di esso, troneggiava l’albero.
Dalla cavità pulsante del tronco, in una nuova forma avevo preso vita: un bocciolo rosso sangue, la cui superficie pareva contrarsi alla luce del sole. Era l’unica cosa che Lucrezia non osava toccare, il suo sguardo mi sfiorava con una sorta di timore riverenziale.
Lucrezia Maldracini si specchiava nell’acqua immobile di una fontana circolare, incorniciata da rampicanti dorati che sembravano piegarsi per abbracciarla. Il suo volto, ora privo di ogni traccia di tempo, rifletteva una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e i suoi occhi brillavano come quelli di una predatrice soddisfatta.
Con un gesto lento, accarezzò la superficie dell’acqua. “Pier Maria,” sussurrò. Il nome scivolò via dalle sue labbra, mescolandosi al canto sommesso delle piante.
Dietro di lei, il castello era vivo di suoni. Musica, risate, e il tintinnio di calici si mescolavano in una sinfonia che si riversava dalle grandi finestre. Gli ospiti erano tornati a frotte, attratti dalla fama di Lucrezia e del suo giardino leggendario.
Una giovane donna con un abito azzurro si avvicinò alla fontana, portando con sé un vassoio di coppe di cristallo.
“Marchesa,” disse, con tono rispettoso, ma venato di un timore sottile. “I vostri ospiti vi attendono.”
Lucrezia si voltò lentamente, il sorriso sulle sue labbra una maschera che tradiva nulla di ciò che ribolliva nel suo animo. “Arriverò presto. Dite loro di godersi il giardino.”
La serva annuì, ma prima di andarsene, il suo sguardo scivolò sull’albero. Un tremito le percorse il corpo, e il bicchiere sul vassoio tintinnò piano.
“Qualcosa non va, cara?” chiese Lucrezia, il suo tono apparentemente gentile.
“N-niente, marchesa,” rispose la ragazza. “Solo… quel fiore. Mi sembra di sentirlo sussurrare.”
Lucrezia rise, un suono cristallino che rimbalzò tra le fronde. “Oh, cara, i miei fiori sono vivi. È solo il giardino che vi parla.”
Nessuno parlava apertamente della mia scomparsa. Coloro che si ricordavano di me, giovani nobili che mi avevano conosciuto a Parma, mi menzionavano solo accennando a una presunta partenza improvvisa per un viaggio di studio.
Eppure, nelle notti più silenziose, quando il vento smetteva di soffiare e il castello si addormentava, alcuni giuravano di udire qualcosa. Era un sussurro, debole come un respiro, che sembrava provenire dall’albero al centro del giardino. Un nome, ripetuto all’infinito, un mormorio che scivolava tra le foglie come un lamento disperato: “Lucrezia…”
Il giardiniere, un vecchio che aveva visto più primavere di quante ne potesse ricordare, si fermava spesso davanti all’albero, osservando quel bocciolo rosso sangue con un’espressione di cupa reverenza. Quella notte, mentre stava legando dei rampicanti su un arco vicino, il mio sussurrare divenne più forte. Egli lasciò cadere il filo di spago e indietreggiò, tremando.
“Tornerà,” sussurrò tra sé, senza sapere se lo credeva o lo temeva.
Nel grande salone del castello, gli ospiti si muovevano tra candelabri scintillanti e tappeti di velluto. I vini più rari scorrevano come fiumi, e i musicisti suonavano una melodia che pareva nata dalle stesse pietre di Rocca Valtenuta.
Lucrezia dominava la sala, la sua figura elegante in un abito nero con ricami d’oro che parevano brillare di luce propria. Gli uomini la circondavano, bevendo le sue parole come nettare, mentre le donne cercavano invano di catturare uno spiraglio della sua grazia.
“Marchesa,” disse un giovane conte, il viso arrossato dal vino. “Il vostro giardino è… semplicemente divino. Non ho mai visto niente di simile.”
“È unico,” rispose lei, sorseggiando il suo vino con un sorriso che sapeva di veleno dolce.
“E quell’albero al centro,” continuò l’uomo, “è… è come se avesse una presenza, quasi umana.”
Lucrezia lo fissò, i suoi occhi che lo trapassavano. “Il giardino riflette ciò che gli viene donato,” disse. “E ciò che gli viene donato, vive per sempre.”
L’uomo ridacchiò, imbarazzato, e alzò il calice. “Alla vostra eterna bellezza, marchesa!”
Ma Lucrezia non rispose. Il suo sguardo si era perso tra le ombre del giardino, dove, tra le fronde scosse da un vento che nessuno poteva sentire, sembrava muoversi qualcosa.
Quando la festa terminò e l’ultimo ospite lasciò il castello, Lucrezia tornò al giardino. La luna era alta e il suo bagliore argenteo rendeva il luogo ancora più irreale. Si fermò davanti all’albero, ed io sotto forma di bocciolo rosso pulsavo lentamente, come un cuore addormentato.
“Pier Maria,” mormorò.
Dal vento tra le foglie, giunse una risposta. Debole, spezzata, ma inconfondibile.
“Lucrezia…”
Lei sorrise, ma il sorriso tremava. Per un istante, il giardino non fu più un rifugio, ma una prigione. Eppure, era l’unico luogo dove il suo amore potesse vivere.
Per sempre.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.
Scritto da Anonimo Piacentino
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