La crisi del mondo moderno di René Guénon, (1927): recensione

In un’epoca in cui la parola “crisi” viene applicata indiscriminatamente a ogni aspetto della vita sociale, economica e ambientale, il saggio La crisi del mondo moderno di René Guénon – pubblicato nel 1927, ma sempre più attuale – restituisce a questo termine la sua valenza più profonda: non il semplice scarto tra una condizione stabile e una di turbamento, ma il punto di rottura ultimo di una lunga decadenza spirituale. Per Guénon, la crisi non è un accidente temporaneo del mondo moderno: ne è la forma finale, il risultato terminale di un processo degenerativo che ha radici antichissime e che si manifesta in un crollo dei princìpi metafisici su cui un tempo si fondavano le civiltà tradizionali.

La diagnosi guénoniana non è morale, ma ontologica. Non si tratta di un mondo divenuto semplicemente “peggiore”, ma di un mondo rovesciato, svuotato del suo asse trascendente. In questo senso, Guénon si distingue radicalmente sia dagli ottimisti del progresso, sia dai nostalgici del passato. La sua visione non indulge in sentimentalismi, ma si rivolge a chi è capace di scorgere nella crisi un segno escatologico, l’ultima fase di un ciclo cosmico, come quello del Kali Yuga nelle tradizioni induiste. In questo si avvicina, pur con presupposti molto differenti, a Oswald Spengler, il quale nella Decadenza dell’Occidente profetizza il tramonto ineluttabile della civiltà europea come esaurimento vitale di una forma culturale. Ma mentre Spengler parla in termini biologici e storicistici, Guénon adotta una prospettiva metafisica e trascendente: il mondo moderno è in crisi perché ha rotto il legame con l’Assoluto, con il Principio, con ciò che per secoli ha dato ordine e senso alle civiltà umane.

Da questa constatazione discende la sua radicale critica al mito del progresso, uno dei dogmi fondanti della modernità. Guénon smaschera l’idea di un’evoluzione storica costante e positiva come un’illusione pericolosa, frutto dell’inversione del tempo sacro, ciclico e fondato sul ritorno all’origine, con il tempo lineare e irreversibile della modernità. Il progresso, nella visione moderna, è legato a un’idea infantile di accumulo – di conoscenze, di ricchezze, di tecnologie – che però non comporta alcuna crescita interiore. Al contrario, è una regressione mascherata, una corsa verso la disintegrazione spirituale. Come scrive Guénon, “non si può uscire dalla decadenza se non salendo, non progredendo nel senso moderno, ma risalendo verso il Principio”.

Questo movimento discendente si manifesta in modo evidente nella frattura fra Oriente e Occidente. Guénon, che trascorse gli ultimi vent’anni della sua vita in Egitto convertito all’Islam e immerso nel sufismo, guarda con rispetto e ammirazione alle tradizioni orientali – soprattutto l’induismo, il taoismo e l’esoterismo islamico – come esempi di civiltà che hanno conservato un legame vivente con i princìpi metafisici. L’Oriente, per Guénon, non è un luogo geografico, ma una condizione dell’essere: quella in cui la conoscenza è ancora sacra, dove l’intelligenza è collegata all’Intelletto divino, e dove la società è strutturata secondo un ordine sacro, non profano. L’Occidente moderno, al contrario, ha smarrito il senso dell’Origine, ha distrutto i suoi ponti con il Cielo, ha sostituito la sapienza con l’intellettualismo, e la contemplazione con l’attivismo.

Uno dei sintomi più evidenti di questo deragliamento è ciò che Guénon definisce l’inversione tra quantità e qualità. È uno dei passaggi più lucidi e spietati del suo saggio. La modernità, ossessionata dalla misurazione, ha abbandonato il criterio qualitativo che era proprio delle civiltà tradizionali: la capacità di cogliere l’essenza, il valore intrinseco delle cose, il loro significato simbolico e spirituale. Tutto viene oggi valutato in base a numeri: la ricchezza, la potenza, l’influenza, la produttività. Il “quanto” ha preso il posto del “che cosa”. Il mondo moderno ha perso la capacità di giudicare con l’anima: è un mondo che calcola ma non comprende, misura ma non conosce.

Tutte queste deviazioni – il progresso illusorio, l’adorazione della quantità, la perdita della conoscenza sapienziale – sono per Guénon i segni di un mondo che ha rotto con la Tradizione, intesa in senso forte, con la “T” maiuscola. Questo è forse il concetto più difficile da comprendere con la mente moderna, proprio perché la Tradizione non è conservatorismo, non è folklore, non è attaccamento al passato: è, per Guénon, la trasmissione integrale di princìpi metafisici immutabili, che discendono dall’Alto, da una Rivelazione primordiale, e che strutturano tutte le autentiche civiltà sacre. Tradizione è connessione verticale, non orizzontale. È il filo che lega l’uomo al divino, la società al sacro, il mondo al Principio. Senza di essa, la civiltà non è che una carcassa svuotata di senso, destinata a dissolversi in una parodia di se stessa.

Così si configura, nelle parole di Guénon, la vera crisi dell’uomo moderno: non una crisi di ideologie, né solo una crisi etica, ma una crisi ontologica, una perdita dell’essere. Una civiltà che ha rifiutato l’Idea, la Verità, la Tradizione, non può che precipitare nel disordine, nella confusione e infine nella rovina. La sua analisi, a quasi un secolo dalla pubblicazione, conserva un’evidenza quasi profetica, in un mondo sempre più privo di centri simbolici e dominato dalla frammentazione. Eppure, sotto il tono austero e implacabile dell’autore, si intravede una via d’uscita: la possibilità, riservata a pochi, di ritrovare il Centro e di riallinearsi ai princìpi eterni. Per Guénon, questa è l’unica vera rivoluzione possibile. Tutto il resto è solo rumore.

La diagnosi impietosa che René Guénon offre nel suo La crisi del mondo moderno tocca nel profondo le strutture invisibili che reggono – o meglio, non reggono più – il mondo in cui viviamo. Se nella prima parte del suo saggio egli descrive l’origine metafisica della crisi, nella seconda affonda il bisturi in quelle che considera le sue conseguenze più disastrose: la scomparsa dell’autorità spirituale autentica, la glorificazione dell’individuo come fine ultimo, la riduzione del sapere a tecnica, la perdita del linguaggio simbolico, e infine la quasi impercettibile possibilità di un ritorno ai princìpi. È in questo segmento dell’opera che l’impianto teorico guénoniano assume toni quasi escatologici, senza mai cedere al catastrofismo: la fine, per lui, non è mai un disastro, ma un compimento. E come in ogni ciclo, anche il compimento porta con sé l’annuncio di un nuovo inizio, per chi sappia riconoscerlo.

Il primo e più visibile collasso, secondo Guénon, è quello dell’autorità spirituale. In tutte le civiltà tradizionali, essa occupava il vertice della gerarchia umana e cosmica: non per imposizione, ma per natura. L’autorità spirituale non era un potere, ma una presenza ordinante, che legittimava i poteri inferiori in quanto partecipava dell’ordine superiore. Nel mondo moderno, questo centro sacro è scomparso, e con esso la gerarchia è implosa. Al suo posto si sono insediati surrogati: l’autorità è oggi confusa con la forza, la guida spirituale con il carisma mediatico, la sapienza con l’opinione. Il risultato è una società che non obbedisce a nulla se non a se stessa, e dunque a nulla: un’anarchia travestita da libertà, dove il potere si legittima da sé e l’ordine è mantenuto non più dal sacro, ma dal controllo.

Questa degenerazione si collega direttamente a ciò che Guénon considera la vera patologia del mondo moderno: l’individualismo. Non nel senso etico della responsabilità personale, ma come ontologia dell’io separato. L’individuo, affrancato da ogni vincolo verticale e trascendente, diventa il proprio centro, misura di tutte le cose, principio e fine di ogni discorso. Ma così facendo, non solo perde il legame con il divino: perde anche il senso della propria appartenenza a un tutto. L’individuo guénoniano è una monade cieca, chiusa nel proprio guscio, incapace di partecipare a una realtà più grande. L’antica società organica, in cui ogni uomo aveva un posto e un significato nella totalità, viene così sostituita da un aggregato disarticolato di volontà individuali, in conflitto tra loro e incapaci di produrre un vero ordine.

Su questa frattura si innesta la critica radicale alla scienza moderna, che per Guénon non è vera conoscenza, ma solo accumulazione di dati empirici privi di significato trascendente. La scienza sperimentale, secondo lui, è incapace di cogliere l’essere perché non cerca più l’essenza delle cose, ma solo le loro manifestazioni sensibili. Essa analizza, scompone, misura, ma non comprende. È il trionfo della quantità sulla qualità, già denunciato nella prima parte del saggio. E soprattutto è una conoscenza senza soggetto, senza interiorità: non conosce per partecipazione o identificazione, ma per distacco e manipolazione. Guénon non nega l’utilità della scienza moderna in ambito pratico, ma la denuncia come insufficiente e usurpatrice se pretende di sostituirsi alla conoscenza metafisica.

Questa perdita della dimensione verticale della conoscenza si riflette nel declino del simbolismo. Per Guénon, i simboli non sono semplici metafore o immagini poetiche, ma veicoli reali di significati superiori. Ogni cosa, nel mondo tradizionale, era simbolo: il gesto rituale, il colore, la geometria, il mito. Il simbolo univa il visibile all’invisibile, il contingente all’eterno. Nel mondo moderno, al contrario, il simbolismo è stato svuotato, ridotto a superstizione, folclore o semplice ornamento. Non comprendiamo più i simboli perché abbiamo perso l’intuizione dell’essere. La parola non dice più la cosa, la forma non rimanda più all’Idea, il mondo è diventato opaco. Viviamo in un universo desacralizzato, muto, senza echi, dove ogni cosa è ciò che appare – e niente di più.

Eppure, Guénon non chiude il suo saggio nella disperazione. Per quanto austera e spietata, la sua visione non è nichilista. Al contrario, egli intravede, proprio nel fondo della crisi, la possibilità di una reintegrazione. Ma non si tratta di un ritorno nostalgico a un passato idealizzato: sarebbe ancora una forma di modernità. Si tratta piuttosto di un ritorno ai princìpi, a ciò che è fuori dal tempo e fonda ogni autentica civiltà. Questo ritorno non può avvenire collettivamente – Guénon non crede a rivoluzioni culturali né a riforme sociali – ma per via iniziatica, interiore, verticale. È una via riservata a pochi, ma sufficiente a mantenere in vita, anche in mezzo alle rovine, una scintilla di ordine. Perché la Tradizione non muore mai: può essere dimenticata, occultata, perseguitata, ma resta immutabile nel Principio, pronta a riemergere quando i cicli lo permetteranno.

Così si conclude La crisi del mondo moderno: con un monito e una speranza. Il monito è che il mondo in cui viviamo non è solo malato, ma rovesciato, disconnesso dal proprio asse. La speranza è che, riconoscendo la crisi per ciò che è – l’estrema lontananza dal centro – si possa, per negazione, risalire la corrente. Guénon non offre soluzioni politiche, né modelli sociali, ma una chiamata al risveglio. E se oggi la sua voce suona ancora remota, forse è proprio perché parla da un luogo che non appartiene al tempo, ma all’eterno. Chi sa ascoltarla, trova in essa non una condanna, ma un varco.

I Malavoglia di Giovanni Verga (1881): recensione

Nel panorama della letteratura italiana di fine Ottocento, I Malavoglia di Giovanni Verga rappresenta una delle più compiute espressioni del Verismo, corrente letteraria che si afferma nel clima culturale positivista postunitario, in un’Italia ancora profondamente divisa tra Nord e Sud, tra città e campagne, tra progresso industriale e arretratezza contadina. È un’epoca segnata da grandi speranze di modernizzazione e da altrettante delusioni, soprattutto nelle regioni meridionali, dove le promesse del Risorgimento sembrano rimanere inascoltate. In questo contesto, Verga abbandona le prime esperienze romantico-sentimentali per abbracciare una scrittura spietata, asciutta, rigorosa, influenzata dal naturalismo francese di Zola ma rielaborata in una forma tutta italiana, in cui il determinismo sociale si fonde con una visione profondamente tragica e disillusa dell’esistenza.

Il Verismo, nella poetica di Verga, non è mai semplice descrizione oggettiva del reale: è piuttosto la messa in scena di un mondo immobile, dominato da forze superiori – l’economia, la natura, l’ambiente sociale – che schiacciano l’individuo in una rete inestricabile di necessità. In I Malavoglia, primo romanzo del progettato Ciclo dei Vinti, questa concezione trova la sua espressione più coerente e dolorosa. Il “ciclo” avrebbe dovuto raccontare, attraverso una serie di romanzi, l’inutile corsa dell’uomo moderno verso l’ascesa sociale, dal pescatore al borghese, dall’operaio all’artista, per mostrare come ogni tentativo di emancipazione finisse per scontrarsi con una realtà immodificabile. Verga riuscì a completare soltanto i primi due tasselli, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, ma già in quest’opera iniziale si coglie tutta la forza e la radicalità del suo disegno ideologico e narrativo.

La vicenda della famiglia Toscano, detta Malavoglia, si configura sin dalle prime pagine come una discesa inarrestabile: la perdita della barca La Provvidenza, la morte del capofamiglia Padron ’Ntoni, la rovina economica, la dispersione dei membri della famiglia, l’irrimediabile frattura tra le generazioni. Ogni tentativo di reagire, di cambiare la propria condizione – come nel caso di ’Ntoni, il nipote ribelle e inquieto – conduce solo a nuove sconfitte. L’universo narrativo di Verga è governato da un fatalismo implacabile: l’umile non può che rimanere umile, e ogni deviazione dalla “roba”, dai valori tradizionali di parsimonia, onore e appartenenza alla comunità, è destinata al fallimento. Non c’è spazio per l’eroismo individuale, né per la redenzione morale: la modernità è un’illusione pericolosa, una forza centrifuga che allontana l’uomo dalle sue radici e lo conduce alla rovina.

Ciò che rende I Malavoglia così innovativo per il suo tempo è anche lo stile con cui Verga costruisce questa visione. Il romanzo rifiuta qualsiasi intervento diretto dell’autore. Non c’è un narratore onnisciente che commenta, giudica, indirizza il lettore: la storia si sviluppa attraverso il cosiddetto “discorso indiretto libero”, un impasto linguistico che fonde la voce del narratore con quella dei personaggi e della comunità. È il paese di Aci Trezza, quasi una coscienza collettiva, a parlare attraverso proverbi, frasi fatte, detti popolari, che scandiscono il ritmo della narrazione e ne diventano la cifra stilistica. L’impersonalità verghiana, ben diversa dall’oggettività scientifica del naturalismo francese, è una maschera dietro cui si cela una visione morale profondamente pessimista.

A questa scelta stilistica corrisponde una lingua altrettanto innovativa. Verga scrive in italiano, ma lo plasma su moduli espressivi che richiamano la parlata siciliana, senza mai ricorrere al dialetto vero e proprio. La lingua del romanzo è un “italiano regionalizzato”, che trasmette con straordinaria efficacia l’identità culturale e sociale dei personaggi. I proverbi – “chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia e non sa quel che trova” – diventano strumenti di coesione narrativa, ma anche chiavi di lettura per comprendere l’universo etico e simbolico del romanzo. È proprio questo uso sapiente e mai folcloristico della lingua a conferire a I Malavoglia quella densità realistica che ne ha fatto un’opera imprescindibile, non solo nella storia della letteratura italiana, ma anche nell’evoluzione del romanzo europeo.

Nel cuore pulsante del romanzo, c’è un luogo che trascende la funzione narrativa per farsi simbolo, reliquia, mito familiare: la casa del nespolo. Più di una semplice abitazione, essa incarna l’idea stessa di stabilità, continuità, radicamento. È lì che si raccoglie la famiglia dei Malavoglia, ed è attorno ad essa che ruotano i drammi, le speranze e le sconfitte. La casa del nespolo rappresenta la tradizione che si cerca di preservare, l’identità collettiva che si vuole tramandare. È il punto fermo in un mondo in frantumi, minacciato dal mare, dalle leggi del commercio, dall’indifferenza della modernità. Quando la casa viene persa, il trauma non è solo economico: è lacerazione dell’anima, disgregazione del nucleo affettivo, smarrimento simbolico. E il lento percorso per riaverla, che si consuma lungo tutto il romanzo, si conclude con un ritorno che non è mai un vero ritorno, perché nulla, dopo la catastrofe, può essere più com’era prima.

Questa logica di perdita e illusione di recupero è inscritto anche nella struttura circolare della narrazione, uno degli aspetti più raffinati e amari del romanzo. Si comincia con la famiglia unita nella casa del nespolo, si attraversa un vortice di sciagure, e si finisce, molti anni dopo, con Alessi – il più giovane e il meno segnato – che riesce infine a rientrare in possesso della casa. Ma quella che appare come una chiusura, come un cerchio che si richiude, è in realtà la testimonianza della definitiva dissoluzione di ciò che era. La parabola discendente non viene annullata: viene soltanto silenziata. Padron ’Ntoni è morto, ’Ntoni ha scelto l’esilio, gli altri si sono dispersi o perduti. Il recupero materiale della casa non equivale al recupero morale della famiglia. La stabilità è un’ombra, una facciata che nasconde l’irreversibilità del tempo e della rovina.

Su tutto questo grava, come una forza silenziosa ma onnipresente, il giudizio della comunità di Aci Trezza, una società arcaica, chiusa, osservatrice attenta e spietata. In Verga, la comunità non è mai sfondo neutro: è voce collettiva, coscienza diffusa, tribunale morale. Aci Trezza non perdona facilmente chi si allontana dalla norma, chi esce dal solco tracciato. La comunità sostiene, ma soprattutto condanna; accoglie, ma anche esclude. Chi cade – economicamente, moralmente – è spesso lasciato al proprio destino, quando non viene attivamente marchiato. I pettegolezzi, i proverbi, i mormorii hanno la funzione di rafforzare le regole non scritte del vivere comune: chi tradisce i valori dell’onore, della famiglia, della “roba”, è un corpo estraneo da respingere. In questo senso, la comunità è anche un meccanismo di conservazione e autodifesa, che si oppone a qualsiasi mutamento.

Ed è proprio ‘Ntoni, il nipote inquieto, a incarnare questa tensione tra appartenenza e rifiuto, tra radice e fuga. ‘Ntoni è il personaggio più moderno e, insieme, il più tragico. Il suo desiderio di “qualcosa di meglio” lo rende sospetto agli occhi della comunità, e lo conduce a uno scontro frontale con i valori familiari. Ma la sua ribellione non ha sbocchi: il mondo esterno, che pure intravede, non gli offre accoglienza né riscatto. ‘Ntoni non sa inserirsi nella nuova società, e allo stesso tempo non può più tornare indietro. È un personaggio lacerato, figlio di nessun luogo, escluso dalla tradizione e rifiutato dal progresso. La sua parabola si conclude nell’amarezza della rinuncia: il suo abbandono finale, lontano dalla casa del nespolo, è l’ultima testimonianza della frattura insanabile tra individuo e mondo.

Eppure, proprio in questa malinconica rassegnazione risiede l’attualità de I Malavoglia. L’Italia contemporanea è ancora attraversata da tensioni simili: la crisi economica, le disuguaglianze sociali, l’emigrazione, la frattura tra centro e periferia, tra tradizione e globalizzazione. Il romanzo di Verga parla ancora oggi a chi si trova ai margini, a chi fatica a rimanere ancorato alle proprie radici, a chi tenta – spesso invano – di costruirsi un futuro migliore. L’illusione dell’ascesa sociale, la crudeltà del giudizio collettivo, la fragilità dei legami familiari: tutto ciò che Verga osservava con spietata lucidità nel microcosmo di Aci Trezza si ripresenta, sotto nuove forme, nelle periferie del nostro presente. I Malavoglia, allora, non è soltanto un romanzo storico: è uno specchio che continua a riflettere le ombre del nostro tempo.

Salem’s Lot di Stephen King (1975): Recensione critica

Quando Stephen King pubblicò Salem’s Lot nel 1975, il successo del suo primo romanzo, Carrie, era ancora fresco, e molti si chiedevano se il giovane autore sarebbe riuscito a confermare il suo talento. La risposta arrivò con una storia che, pur rievocando l’archetipo gotico del vampiro, seppe radicarlo nella dimensione più inquietante: quella della quotidianità. King abbandona castelli nebbiosi e lande esotiche per concentrare l’orrore nella provincia americana, in una cittadina apparentemente serena, dove il vero mostro si annida non soltanto nei morti viventi, ma nella vita stessa.

L’orrore in Salem’s Lot si insinua senza clamore, come una muffa invisibile che corrode lentamente le fondamenta della normalità. Jerusalem’s Lot, con le sue case bianche, i suoi bar, la scuola e le chiacchiere da cortile, sembra all’inizio un luogo rassicurante, protetto dall’anonimato e dall’abitudine. Ma sotto la superficie, la città è già malata. Le relazioni sono permeate di ipocrisia, solitudine, rancore. Mariti che picchiano le mogli, bambini trascurati, vecchie faide mai sopite: è su questa terra arida che il male, incarnato dal vampiro Kurt Barlow, trova terreno fertile. King non rappresenta dunque l’arrivo del male come un’invasione violenta; al contrario, il male cresce dall’interno, coltivato dalle stesse fragilità, egoismi e corruzioni della comunità.

Questa idea è forse uno degli elementi più perturbanti del romanzo: il male, lungi dall’essere un’entità estranea, è già parte del tessuto sociale. Il vampiro diventa così una metafora potente, un catalizzatore di una decadenza morale già in atto. Barlow non fa altro che accelerare un processo di decomposizione etica che la cittadina aveva iniziato da sola molto tempo prima. I suoi poteri sovrannaturali sono meno spaventosi delle crepe che rivela nell’animo dei cittadini: l’avidità, l’invidia, la codardia. Il vampirismo in Salem’s Lot non è solo una condizione fisica, ma un fallimento spirituale, una resa dell’individuo e della collettività al lato più oscuro di sé.

A rendere ancora più potente questa narrazione è la scelta del protagonista, Ben Mears, uno scrittore che torna a Jerusalem’s Lot dopo anni di assenza. Il ritorno alle radici diventa per lui un viaggio nei propri traumi e nelle proprie paure più profonde. Non è solo la città ad essere cambiata: è lo stesso Ben a scoprire che i fantasmi che credeva di aver lasciato indietro non hanno mai smesso di vivere tra quelle strade. La memoria personale si intreccia con la memoria collettiva della comunità, e il ritorno non è una riconciliazione, ma un lento e doloroso disvelamento.

All’interno di questo affresco di corruzione e perdita, King dedica una particolare attenzione all’infanzia, rappresentata da personaggi come Mark Petrie. L’infanzia in Salem’s Lot non è un rifugio sicuro: al contrario, è una fase vulnerabile, dove il male può agire con maggiore crudeltà. Mark, con il suo coraggio precoce e la sua resilienza, si distingue dagli adulti troppo codardi o ciechi per reagire. Ma la sua lotta contro il male comporta inevitabilmente una perdita irreversibile dell’innocenza. King ci mostra come il contatto con l’orrore spezzi definitivamente il fragile guscio protettivo della giovinezza, lasciando spazio a una precoce e dolorosa consapevolezza della brutalità del mondo.

Salem’s Lot è dunque molto più di una semplice storia di vampiri: è una meditazione cupa e lucidissima sulla fragilità della civiltà, sulla facilità con cui il male può infiltrarsi e contaminare ogni cosa quando la memoria si fa debole, la comunità si sfalda e l’innocenza viene sacrificata.

Tra i temi più intensi che Stephen King affronta in Salem’s Lot, un posto centrale è occupato dalla religione e dalla fede, esplorati con un taglio sorprendentemente cupo. Attraverso la figura tormentata di Padre Donald Callahan, King riflette sulla fragilità della fede quando si scontra con l’orrore autentico. Callahan non è un eroe senza macchia: è un uomo stanco, insicuro, che ha smarrito la purezza del suo credo tra i compromessi della vita quotidiana. Quando si trova faccia a faccia con il male incarnato, la sua fede si rivela più debole delle paure che lo divorano. King suggerisce così che la fede autentica richiede più di semplici rituali o proclami: richiede un coraggio interiore che pochi, realmente, possiedono. Il fallimento di Callahan non è solo personale, ma simbolico: rappresenta la crisi di una società che, di fronte al male, scopre di non credere davvero in nulla.

Questa lacerazione interiore si intreccia perfettamente con la straordinaria costruzione della suspense che King orchestra in tutto il romanzo. Salem’s Lot è un’opera di lenta combustione, dove l’orrore cresce in modo impercettibile, insinuandosi nelle pieghe della normalità. Il lettore percepisce un senso di minaccia già dalle prime pagine, ma la vera esplosione dell’orrore avviene soltanto quando il terreno è stato ampiamente preparato. King dosa gli eventi in modo chirurgico: sparizioni inspiegabili, comportamenti strani, atmosfere soffocanti. Ogni dettaglio è un colpo di scalpello che lavora nella mente del lettore, costruendo una tensione che diventa quasi insostenibile prima del crollo finale. Non ci sono effetti speciali o shock improvvisi: c’è, piuttosto, un inesorabile accumulo di paura, un lento strangolamento emotivo.

A questo senso di inquietudine contribuisce anche il tema dell’isolamento, che attraversa tutta la narrazione. Jerusalem’s Lot è fisicamente tagliata fuori dal mondo: una cittadina sperduta, difficile da raggiungere, dimenticata. Ma l’isolamento più tragico è quello interiore. Ognuno dei personaggi principali, da Ben a Susan, da Mark a Callahan, affronta la propria battaglia contro il male nella più totale solitudine, incapace di contare davvero sugli altri. Gli affetti sono deboli, le relazioni sono superficiali o spezzate. Il male, in Salem’s Lot, non solo distrugge, ma isola: e in questo isolamento, gli individui si frantumano, diventano più facili da sottomettere.

Non meno significativo è il modo in cui King costruisce i suoi personaggi: nessuno è immune dal peso della colpa. Gli errori del passato, i peccati piccoli o grandi, i compromessi accettati per quieto vivere, tornano a galla e si rivelano ferite aperte che il male può facilmente sfruttare. Ben è tormentato dal senso di colpa per il trauma infantile legato alla Marsten House. Padre Callahan è consumato dalla consapevolezza della propria ipocrisia. Persino i cittadini più semplici, come Eva Miller o il dottor Cody, sono prigionieri di errori e debolezze che li rendono vulnerabili. King dipinge così un’umanità fragile, divisa tra il desiderio di redenzione e la resa alla disperazione.

Infine, Salem’s Lot si inserisce consapevolmente nella grande tradizione del romanzo gotico, rendendo omaggio ai suoi predecessori pur innovandone la struttura. L’influenza di Dracula di Bram Stoker è evidente, non solo nella figura del vampiro aristocratico che corrompe una comunità, ma anche nell’uso di alcuni topoi narrativi come la casa maledetta, la lotta tra Bene e Male, la contaminazione della purezza. Tuttavia, King non si limita a ripetere formule collaudate: li trapianta nel cuore dell’America contemporanea, in un mondo fatto di televisioni, automobili e strade asfaltate. L’effetto è dirompente: il gotico si fa quotidiano, il mostro non abita più castelli in rovina ma case di legno dipinte di bianco, e il terrore si annida non nei cimiteri abbandonati, ma nelle strade familiari della nostra infanzia.

Con Salem’s Lot, King non si limita a riscrivere il romanzo dell’orrore: lo reinventa, dimostrando che il male non ha bisogno di varcare oceani o di attraversare epoche. Basta che trovi terreno fertile nella nostra indifferenza, nelle nostre paure, nei nostri sogni infranti.

La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci (2001): recensione

Recensire La rabbia e l’orgoglio significa entrare in un cratere ancora fumante della nostra storia recente, un punto di frattura tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro. Oriana Fallaci lo scrive, lo urla e lo incide con rabbia sulle pagine di questo pamphlet pubblicato nel 2001, a poche settimane dagli attentati dell’11 settembre. Ed è proprio quel giorno, con le Torri Gemelle che si sgretolano nel cuore di New York — la città che la scrittrice aveva eletto a rifugio e patria elettiva — a segnare il ritorno sulla scena di una voce che si era da tempo ritirata dal dibattito pubblico. La rabbia e l’orgoglio nasce come un articolo sul “Corriere della Sera”, ma diventa rapidamente un libro incendiario, spigoloso e divisivo, che inaugura una nuova stagione del pensiero polemico occidentale.

Fallaci torna a combattere, come lei stessa dichiara, non per dovere professionale, ma per istinto di sopravvivenza. Il testo si presenta fin dalle prime righe come un grido viscerale, un atto di difesa contro ciò che percepisce come una minaccia esistenziale. La rabbia, in questo caso, non è una postura retorica, ma una reazione fisica e personale: l’autrice, malata di cancro, sola, ormai distante dai circuiti dell’editoria e del giornalismo militante, si rialza come una figura tragica, più vicina a un personaggio da tragedia greca che a un intellettuale da salotto. Il suo ritorno non ha nulla di calcolato. È, come lei stessa scrive, un dovere dell’intelligenza e del coraggio, ma anche una forma di resistenza personale alla disillusione e al dolore.

La natura del testo riflette questa urgenza: La rabbia e l’orgoglio non è un saggio, non è un’inchiesta, non è un reportage. È un pamphlet nel senso più puro e letterario del termine, erede di una tradizione che va da Voltaire a Céline, passando per Karl Kraus. La struttura è volutamente caotica, discorsiva, carica di invettive, ripetizioni, allusioni e affondi personali. Il linguaggio si è trasformato rispetto alla prosa elegante e cesellata dei suoi reportage più celebri, come Lettera a un bambino mai nato o Un uomo: qui diventa tagliente, sarcastico, teatrale, quasi monologante. La Fallaci non argomenta: attacca. Non dimostra: afferma. Non chiede di essere compresa, ma pretende di essere ascoltata. È una scrittura che morde, che non cerca il consenso ma il risveglio, la scossa.

Al centro della sua polemica, come un asse di gravità permanente, si staglia lo scontro tra Islam e Occidente. Fallaci denuncia quella che chiama “colonizzazione islamica dell’Europa”, interpretando i flussi migratori, le rivendicazioni culturali e religiose, e il terrorismo jihadista come tappe di una guerra non dichiarata ma in atto. La sua visione si avvicina a quella di Samuel Huntington e alla celebre teoria dello “scontro di civiltà”, ma ne accentua gli aspetti più cupi e apocalittici. Dove Huntington parlava di sistemi culturali che si confrontano e si ridefiniscono, Fallaci vede un’Europa che si arrende senza combattere, una civiltà che ha smesso di credere in se stessa. Lo scontro, per lei, non è una possibilità: è già in corso. E l’Occidente, se non si sveglia, è destinato a soccombere.

Da qui deriva la sua furiosa critica al multiculturalismo, vissuto come la maschera dell’autodistruzione. La tolleranza, per la Fallaci, è diventata debolezza. Il dialogo, vigliaccheria. L’integrazione, un eufemismo per l’invasione. Usa parole dure, a volte brutali, che respingono il politicamente corretto con disprezzo. Eppure, nella sua violenza verbale, c’è anche una contraddizione bruciante: proprio lei, che in passato aveva difeso i diritti umani, le libertà civili, l’autodeterminazione dei popoli, ora sembra vedere nella diversità una minaccia più che una ricchezza. È un’inversione drammatica, che spiazza il lettore e interroga la coerenza della sua visione.

Non meno feroce è l’attacco alle élite occidentali: politici, intellettuali, giornalisti, artisti — tutti colpevoli, secondo lei, di complicità morale e culturale con il nemico. La Fallaci li chiama “imbelli”, “codardi”, “servi del pensiero unico”. È un attacco trasversale, che anticipa di anni l’ondata populista e il rigetto delle classi dirigenti che avrebbe travolto l’Europa nel decennio successivo. In questo senso, La rabbia e l’orgoglio si rivela anche profetico: coglie e incarna il malessere di un’epoca in cui la fiducia nelle istituzioni si sgretola, e la voce del dissenso si fa sempre più estrema e personalizzata.

Il risultato è un libro che si legge come uno sfogo ma si impone come un manifesto. Un testo che divide, accende, urta. E che, a vent’anni dalla sua uscita, continua a interrogare il lettore su cosa sia la libertà, dove finisca la tolleranza e quanto siamo disposti a cedere, in nome della pace, prima di accorgerci di non avere più nulla da difendere.

Nel cuore di La rabbia e l’orgoglio c’è una dichiarazione d’amore feroce e disperata per l’Occidente. Oriana Fallaci eleva la civiltà occidentale a un totem di valori irrinunciabili: la laicità, la libertà di parola, la democrazia, il diritto a pensare, criticare, persino bestemmiare. Questi principi, secondo l’autrice, non sono semplici conquiste politiche, ma la sostanza stessa dell’identità europea, e più in generale della civiltà illuminista e razionale. Tuttavia, questa difesa appassionata rischia a tratti di scivolare in una idealizzazione quasi mitologica: l’Occidente della Fallaci non è mai ambiguo, non è mai colpevole, non ha zone d’ombra. È una fortezza di verità assediata dai barbari, un luogo puro da salvare senza compromessi. Ma in questa visione, il rischio è quello di assolutizzare un modello e dimenticare che i valori che la scrittrice difende con tanto ardore — come il pensiero critico — non si sposano facilmente con la cieca adesione a un’identità rigida, monolitica, quasi sacrale. Si può difendere l’Occidente senza feticizzarlo? È possibile amare la libertà senza cadere nell’idolatria della propria cultura?

Le critiche che sono piovute su Fallaci, soprattutto a partire dalla pubblicazione di questo libro, non sono state tenere. L’accusa più ricorrente è quella di islamofobia. In effetti, il confine tra l’attacco politico all’integralismo e la condanna indiscriminata della cultura islamica viene spesso superato. Le generalizzazioni abbondano, le sfumature si rarefanno. L’Islam non è più una religione tra le altre, con le sue complessità e contraddizioni: è una minaccia monolitica, una massa indistinta e aggressiva che si infiltra, sovverte, distrugge. In questo senso, La rabbia e l’orgoglio fatica a distinguere tra l’estremismo e la pluralità del mondo musulmano. La Fallaci rifiuta la categoria dell’Islam politico come ambito specifico da criticare: preferisce sparare a grappolo, colpire tutto e tutti, convinta che sia inutile distinguere tra “buoni” e “cattivi”. Ma proprio questa scelta rende il libro più simile a una requisitoria ideologica che a un’analisi lucida. Dove finisce la libertà d’espressione e dove comincia il discorso d’odio? La risposta non è facile, ma ciò che è certo è che la forza emotiva della scrittura della Fallaci, unita al suo disprezzo per ogni forma di compromesso, rende la linea di demarcazione pericolosamente sottile.

Il clamore che seguì la pubblicazione fu immenso. In Italia, il libro divenne immediatamente un bestseller, con milioni di copie vendute, interviste, polemiche, condanne e idolatrie. A sinistra fu considerato un tradimento, un cedimento alla paranoia e alla xenofobia; a destra fu accolto come un grido di verità, un manifesto contro il pensiero unico, una difesa dell’identità europea. La rabbia e l’orgoglio fu brandito da leader politici, citato nei talk show, discusso nelle aule universitarie. La stessa Fallaci, che viveva ormai in solitudine, malata e ritirata dalla scena, fu investita da un’ondata di attenzione mediatica che la riportò violentemente al centro del dibattito pubblico. Alcuni videro in lei una profeta, altri una reazionaria. Nessuno, però, poté ignorarla.

Il rapporto con il suo pubblico storico, quello dei reportage dal Vietnam, delle interviste ai grandi della Terra, dei romanzi esistenziali e politici degli anni Settanta, fu bruscamente alterato. Molti lettori si sentirono traditi. Come poteva la Fallaci che aveva sfidato il potere, difeso i diritti delle donne, dialogato con i leader rivoluzionari del mondo, trasformarsi in una voce così aspra, così poco incline al dubbio? Ma forse non si trattò davvero di una metamorfosi. Forse fu solo l’estremizzazione di un tratto che era già presente in lei: l’individualismo assoluto, la passione cieca, la ricerca della verità vissuta come lotta e non come mediazione. In questo senso, più che tradire se stessa, Fallaci radicalizza la propria vocazione alla solitudine intellettuale, al disaccordo, al conflitto.

A vent’anni di distanza, rileggere La rabbia e l’orgoglio non è solo un esercizio storico. È una cartina di tornasole del nostro presente. Le paure che la Fallaci esprimeva con veemenza — la perdita di identità, il terrorismo islamico, il fallimento del multiculturalismo, la crisi della politica occidentale — sono ancora al centro del dibattito contemporaneo. Alcune si sono rivelate fondate, altre distorte. La crisi migratoria, gli attentati in Europa, le tensioni identitarie, l’ascesa del populismo e della destra radicale sono tutti fenomeni che sembrano dialogare, nel bene o nel male, con l’allarme lanciato da Fallaci. Ma allo stesso tempo, la sua voce resta unica: troppo personale per diventare una dottrina, troppo incendiaria per essere accettata senza riserve, troppo lucida in certi passaggi per essere liquidata come fanatismo. La rabbia e l’orgoglio è un libro che continua a dividere perché è scritto con il sangue, non con l’inchiostro. E in tempi come i nostri, in cui il dibattito si fa sempre più gridato e polarizzato, la sua eco, per quanto controversa, resta inquietantemente attuale.

Uno, nessuno e centomila (1925) di Luigi Pirandello: recensione

Nel panorama della letteratura novecentesca, Uno, nessuno e centomila rappresenta forse la più estrema e radicale riflessione sull’identità. Luigi Pirandello non si limita a mettere in dubbio la coerenza dell’io, ma lo disintegra con un gesto di disperata lucidità. Vitangelo Moscarda, il protagonista, è l’uomo comune che scopre l’abisso, il borghese ben inserito che inciampa nella più devastante delle rivelazioni: quella della propria inconsistenza. Tutto comincia con un’osservazione banale — il proprio naso leggermente storto — ma da quel dettaglio apparentemente insignificante si spalanca il vuoto. Se il mio naso non è quello che io credo, allora chi sono io per gli altri? E se gli altri vedono cento, mille immagini diverse di me, qual è quella vera?

Da questa domanda, il romanzo innesca una demolizione sistematica della soggettività. L’identità, che Moscarda credeva solida e autonoma, si rivela una costruzione altrui, un riflesso frammentato negli sguardi degli altri. La formula che dà il titolo all’opera – uno, nessuno e centomila – è una sintesi brutale: uno per sé, centomila per gli altri, nessuno in fondo, quando ci si accorge che quell’“uno” era solo un’illusione. Pirandello mette così in scena una crisi identitaria che precede di decenni la riflessione postmoderna sul sé come molteplice, fluido, sociale.

Il romanzo si muove come un’indagine paranoica, ma razionale, sull’essere e sull’apparire. Moscarda si osserva attraverso lo sguardo della moglie, degli amici, dei conoscenti: ognuno ha di lui un’immagine differente, nessuna delle quali corrisponde alla sua. E anche la sua, in fondo, è solo un’idea arbitraria, abitudine, autoconvinzione. Lo sguardo altrui diventa lo specchio deformante in cui l’io si moltiplica e si smarrisce. Pirandello anticipa qui con straordinaria acutezza molte delle domande che oggi agitano la sociologia dell’identità e la psicologia sociale: quanto di ciò che siamo è davvero nostro, e quanto è una maschera per gli altri?

Eppure, anche il linguaggio stesso – lo strumento teoricamente destinato a esprimere l’identità – viene messo sotto accusa. Le parole che usiamo per definirci e per definire il mondo non comunicano, tradiscono. Ogni etichetta – “marito”, “onesto”, “usuraio”, “caritatevole” – incasella, distorce, semplifica. Moscarda si rende conto che il linguaggio non è un ponte, ma una prigione: più cerchiamo di dire chi siamo, più ci allontaniamo da ciò che siamo davvero. Così Pirandello decostruisce non solo l’io, ma anche il codice attraverso cui l’io si rappresenta: il romanzo stesso, in quanto forma linguistica, diventa consapevole del proprio fallimento.

In questa progressiva spoliazione, la società non può che reagire con diffidenza e orrore. Moscarda, che smette di comportarsi come ci si aspetta da lui, viene etichettato come folle. Ma la sua è una follia che rivela le ipocrisie e le convenzioni degli altri, non un’allucinazione personale. In un mondo che si regge su ruoli, copioni, simulazioni condivise, chi smette di recitare appare come un pericolo, un perturbatore dell’ordine costituito. La sua “pazzia” è un atto di libertà estrema, il rifiuto di ogni forma predefinita. È un’uscita dalla scena, un dire “no” alla commedia sociale. E qui si pone la domanda cruciale: chi è il vero folle? Colui che rinuncia a ogni finzione o chi resta aggrappato a una maschera, incapace di guardare oltre?

Proprio il concetto di maschera, già centrale nel teatro pirandelliano, trova in questo romanzo la sua più radicale elaborazione. Non si tratta più solo di personaggi che indossano maschere sociali, ma della completa evaporazione del volto. Moscarda non si limita a cambiare ruolo: li smonta tutti, uno dopo l’altro, fino a scoprire che sotto non c’è nulla. L’io non è un’essenza nascosta dietro le maschere, ma un gioco di specchi, un’illusione nata dallo sguardo e dal linguaggio. In questo senso, Uno, nessuno e centomila è l’opera in cui Pirandello non solo mette a nudo il meccanismo delle identità fittizie, ma ne denuncia l’inconsistenza ontologica.

Il percorso di Moscarda è dunque un’ascesi alla rovescia: non verso un’identità autentica, ma verso la dissoluzione di ogni identità. E paradossalmente, in quella dissoluzione trova una sorta di pace, o almeno una quieta accettazione del nulla. Il romanzo si chiude non con una riconciliazione, ma con un silenzio. Un silenzio che suona come l’unica risposta possibile alla domanda: chi sono io?

Se Uno, nessuno e centomila si apre come un viaggio interiore, è anche, e forse soprattutto, un atto di accusa feroce contro la società borghese del primo Novecento, vista da Pirandello come un teatro di convenzioni vuote, di ruoli imposti e di ipocrisie strutturali. Vitangelo Moscarda è il figlio di un usuraio, cresciuto in una posizione sociale privilegiata, ma compromessa. È inserito in un mondo in cui contano l’apparenza, il rispetto delle forme, la reputazione. La sua crisi nasce anche da qui: dalla presa di coscienza che quel mondo è una costruzione artificiale, retta da un codice di finzioni, da interessi mascherati da valori, da obblighi camuffati da affetti. Ogni tentativo di Moscarda di sottrarsi a questo sistema viene immediatamente etichettato come stravaganza, poi come squilibrio, infine come malattia. La società, in Pirandello, non tollera l’eccezione, né la devianza: solo chi recita bene il proprio ruolo ha diritto di esistere.

La satira sociale, tuttavia, non si ferma alla superficie. Pirandello non si limita a ridicolizzare la borghesia; la smonta nei suoi meccanismi profondi. L’usura non è solo un mestiere ereditato dal padre, è una metafora della relazione umana nella società moderna: tutto è debito, scambio, credito morale o sociale. Anche la carità, che Moscarda tenta di esercitare per liberarsi dal suo ruolo di usuraio, è fraintesa e piegata a una logica di potere e apparenza. Il gesto gratuito non esiste: tutto viene assorbito e normalizzato dalle strutture del consenso. È la denuncia, amarissima, di un mondo dove non c’è più spazio per l’autenticità.

A sorreggere questa visione disillusa è un sostrato filosofico complesso, che affonda le radici nel pensiero europeo tra Otto e Novecento. Pirandello non è un filosofo sistematico, ma dialoga con le grandi inquietudini dell’epoca. In Uno, nessuno e centomila riecheggiano le intuizioni di Schopenhauer, con la sua idea della realtà come rappresentazione, dell’individuo come illusione fenomenica, destinata alla sofferenza. Ma ancor più forte è l’eco di Nietzsche: nella radicale messa in discussione della morale borghese, nella volontà di spezzare ogni maschera, nel gesto di affermare una libertà assoluta, anche se vuota. C’è qualcosa di tragico e insieme eroico nella figura di Moscarda, che – come l’Oltreuomo – sceglie di abbandonare le certezze della tradizione per abbracciare il caos del divenire. Ma a differenza del pensatore tedesco, Pirandello non intravede una ricostruzione possibile: non c’è un nuovo ordine, un nuovo valore, solo il fluire senza forma della vita.

E proprio in questo abbandono si tocca il cuore del nichilismo. Il protagonista rinuncia a tutto: al nome, alla carriera, all’amore, perfino al sé. È una caduta nel nulla? O è, come suggerisce il tono dell’ultima pagina, una forma paradossale di salvezza? Pirandello non risolve l’ambiguità. Da un lato, il vuoto che Moscarda abita è desolante: è il luogo in cui ogni significato si è dissolto. Dall’altro, è anche l’unico spazio in cui qualcosa di autentico può forse accadere. Un’esistenza fatta di attimi, senza più maschere, senza più ruoli. È un’esistenza minima, elementare, ma libera. Si può leggere questa rinuncia come un gesto mistico, una sorta di ascesi laica, oppure come la sconfitta finale dell’individuo nella modernità.

Anche per questo, il romanzo stesso si ribella alla forma. Uno, nessuno e centomila è un anti-romanzo: non ha una trama nel senso tradizionale, non ha sviluppo, conflitto, risoluzione. È piuttosto un monologo interiore, una lunga confessione, spesso frammentaria, interrotta, riflessiva. Moscarda non agisce, riflette. Non si muove nel mondo, lo decostruisce. In questo senso, il romanzo anticipa le sperimentazioni delle avanguardie europee, ma anche il modernismo di Joyce o Woolf, dove la coscienza prende il posto della narrazione. Pirandello mette in discussione non solo l’identità del personaggio, ma la stessa struttura della narrazione, rivelandone l’artificiosità.

Ma se tutto questo poteva sembrare allora una provocazione intellettuale, oggi risuona con inquietante attualità. Nell’era dei social network, dei profili digitali, degli avatar, Uno, nessuno e centomila sembra aver previsto la moltiplicazione dell’identità che ci riguarda tutti. Chi siamo su Instagram, su LinkedIn, in un commento anonimo? Siamo uno, centomila, o nessuno? Lo sguardo altrui continua a definirci, ma ora è moltiplicato all’infinito, potenzialmente globale. Le maschere non si tolgono, si accumulano. E la paura di non essere niente senza quelle maschere è diventata ansia diffusa, disagio generazionale.

Pirandello ci aveva avvertiti: l’identità è un’illusione necessaria, ma fragile. La sua decostruzione può portare alla follia o alla libertà, ma non lascia mai le cose come prima. Uno, nessuno e centomila non è solo un capolavoro della letteratura italiana, è una diagnosi spietata della modernità, che continua a parlarci con voce più viva che mai.

Carmilla, di Joseph Sheridan Le Fanu (1872): recensione

Joseph Sheridan Le Fanu, con Carmilla, anticipa molte delle caratteristiche che avrebbero reso celebre la figura del vampiro nella letteratura gotica. Pubblicata nel 1872, la novella precede di oltre due decenni Dracula di Bram Stoker, ma contiene già molti degli elementi che diventeranno fondamentali nella costruzione del mito vampirico moderno. La figura di Carmilla è quella di un vampiro sofisticato e seducente, che si inserisce nell’ambiente umano con grazia e astuzia, ma che porta con sé un’inevitabile minaccia. Questo intreccio tra fascino e pericolo, eros e morte, avrebbe profondamente influenzato Stoker e la tradizione letteraria successiva, trasformando il vampiro in un simbolo complesso, capace di rappresentare ansie culturali e desideri repressi.

Uno degli aspetti più innovativi di Carmilla è l’ambiguità sessuale che permea la relazione tra la protagonista Laura e la vampira. La connessione tra le due donne è intrisa di tensione erotica, un elemento che Le Fanu sviluppa con delicatezza e sottigliezza, forse per aggirare le rigide convenzioni morali dell’epoca vittoriana. Carmilla è una figura di desiderio proibito, che attrae e corrompe con la sua presenza. La sua vicinanza a Laura è allo stesso tempo protettiva e predatoria, creando una dinamica ambigua che sfida le norme di genere e sessualità dell’epoca. Questa ambivalenza erotica non solo arricchisce il testo di sfumature psicologiche, ma lo rende anche un esempio precoce di come la letteratura gotica possa esplorare tematiche marginali e trasgressive attraverso il filtro dell’orrore.

L’atmosfera gotica di Carmilla è uno degli elementi che più contribuiscono alla sua perenne fascinazione. Le Fanu crea un’ambientazione di isolamento e mistero, centrata su un castello remoto immerso in un paesaggio nebbioso e inquietante. Questo spazio diventa il teatro perfetto per i sogni angoscianti di Laura e per le apparizioni soprannaturali di Carmilla. L’uso sapiente di elementi come il silenzio opprimente, le ombre minacciose e i rituali arcani rafforza il senso di estraneità e pericolo. Ogni dettaglio è calibrato per immergere il lettore in un mondo sospeso tra realtà e incubo, dove il confine tra il razionale e l’irrazionale si dissolve.

La figura di Carmilla rappresenta una straordinaria incarnazione del potere femminile, ma anche della sua demonizzazione. Come vampira, Carmilla è una forza predatoria e autonoma, che si contrappone alle convenzioni di un mondo dominato dagli uomini. Allo stesso tempo, però, è vittima di un ordine patriarcale che la considera una minaccia da eliminare. La sua duplice natura — predatrice e perseguitata — rende Carmilla un personaggio complesso, capace di riflettere sia il fascino che il timore suscitati dalle donne indipendenti nell’epoca vittoriana. Attraverso di lei, Le Fanu esplora le paure culturali legate alla sessualità femminile e alla rottura delle norme sociali, creando una figura al contempo inquietante e profondamente tragica.

La struttura narrativa di Carmilla aggiunge un ulteriore livello di complessità al testo. Presentata come un “manoscritto ritrovato”, la storia è narrata in prima persona da Laura, che ricostruisce gli eventi con una prospettiva personale e, talvolta, inaffidabile. Questo espediente narrativo crea un equilibrio tra la soggettività del racconto e il mistero che avvolge i fatti, lasciando al lettore il compito di discernere tra ciò che è reale e ciò che è frutto della percezione distorta della protagonista. La scelta di Le Fanu di utilizzare questa tecnica conferisce alla novella un senso di intimità e immediatezza, rendendo l’orrore ancora più tangibile e coinvolgente.

Con Carmilla, Joseph Sheridan Le Fanu non solo getta le basi per il mito letterario del vampiro, ma crea anche un’opera che, attraverso il linguaggio dell’orrore gotico, interroga profondamente le ansie sociali e culturali della sua epoca. La sua capacità di fondere il soprannaturale con il dramma psicologico e la critica sociale rende questa novella un capolavoro intramontabile, ancora oggi capace di affascinare e inquietare i lettori.

In Carmilla, il tema del doppio è uno degli elementi più affascinanti e ricchi di significato. Laura e Carmilla rappresentano due poli opposti che si riflettono l’uno nell’altro: da un lato, l’innocenza e la purezza di Laura; dall’altro, la seduzione e il mistero di Carmilla. Questo dualismo è alla base della tensione narrativa, in quanto Carmilla non è solo un’altra presenza nella vita di Laura, ma una sorta di specchio oscuro che riflette desideri repressi e paure inconfessabili. La loro relazione è profondamente ambigua: mentre Laura è attratta dalla figura di Carmilla, prova anche un senso di disagio e di minaccia. Questo dualismo si traduce in un gioco costante tra vita e morte, eros e thanatos, che eleva la narrazione da una semplice storia di vampiri a un dramma psicologico complesso.

Il simbolismo del sangue in Carmilla è centrale e profondamente legato ai temi della vita, della morte e della sessualità. Il sangue non è soltanto la fonte della sopravvivenza per il vampiro, ma anche un veicolo di intimità e di connessione. Ogni attacco di Carmilla contro Laura assume un connotato sessuale e al contempo predatorio, sottolineando il legame tra desiderio e violenza. Il sangue è inoltre un simbolo di corruzione: il progressivo indebolimento di Laura riflette non solo la perdita fisica di vitalità, ma anche la contaminazione della sua innocenza. Le Fanu utilizza il simbolismo del sangue per esplorare il confine labile tra piacere e dolore, vita e distruzione, rafforzando il carattere perturbante della sua opera.

Un altro tema chiave che attraversa Carmilla è la critica alla società patriarcale. Il controllo maschile si manifesta chiaramente nel ruolo degli uomini che cercano di “ristabilire l’ordine” e liberare Laura dall’influenza della vampira. Carmilla è una minaccia non solo per la vita di Laura, ma anche per l’equilibrio sociale dominato dagli uomini. La sua presenza sconvolge le norme stabilite, incarnando una ribellione contro il potere patriarcale. La decisione finale di uccidere Carmilla non è solo un atto di sopravvivenza, ma anche un tentativo simbolico di riaffermare il dominio maschile, eliminando una figura femminile autonoma e sovversiva. Questo tema evidenzia come Le Fanu utilizzi l’orrore gotico per esplorare le dinamiche di genere e la repressione sociale dell’epoca.

L’elemento onirico e il subconscio giocano un ruolo cruciale nella narrazione, contribuendo a creare un senso di ambiguità e disorientamento. I sogni di Laura sono carichi di immagini inquietanti e simboliche, che sembrano anticipare la rivelazione della vera natura di Carmilla. Questi sogni, spesso al confine tra il reale e l’immaginario, fungono da canale attraverso il quale si manifestano le paure e i desideri repressi della protagonista. L’uso del sogno come strumento narrativo non solo amplifica l’atmosfera gotica, ma richiama anche temi psicanalitici che diventeranno fondamentali nella letteratura del XX secolo. Le visioni di Laura, intrise di erotismo e angoscia, sono uno specchio delle sue lotte interiori, rendendo il testo un’opera ricca di stratificazioni psicologiche.

Infine, Carmilla trae una parte significativa della sua forza dall’influenza del folklore europeo sui vampiri. Le Fanu rielabora miti e leggende del Vecchio Continente, adattandoli al contesto letterario vittoriano e creando un’opera che è sia profondamente radicata nella tradizione che innovativa. Il vampiro come aristocratico decaduto, la predazione notturna e l’immortalità sono tutti elementi che affondano le loro radici nel folklore dell’Europa orientale, ma che Le Fanu trasforma in strumenti per esplorare temi universali come la mortalità, il desiderio e la paura dell’ignoto. La scelta di un ambiente isolato e intriso di mistero amplifica il fascino di questi elementi folklorici, creando un senso di atemporalità che contribuisce alla longevità dell’opera.

Con la sua combinazione di temi psicologici, simbolismo potente e radici folkloriche, Carmilla si distingue come una delle opere più significative della letteratura gotica. Le Fanu non si limita a scrivere una storia di vampiri, ma crea un testo che, attraverso il linguaggio dell’orrore, indaga le profondità dell’animo umano e le contraddizioni di una società in transizione. Questo lo rende un capolavoro immortale, capace di affascinare i lettori di ogni epoca.

La donna sulla luna (2002) di Giulio Leoni: recensione

Nel romanzo La donna sulla Luna, Giulio Leoni ci trasporta nella Berlino tardo-weimariana con una precisione atmosferica che ha il potere di evocare non solo un luogo e un tempo, ma uno stato d’animo collettivo, sospeso tra vertigine e declino. La capitale tedesca del 1929 è un crocevia incandescente di opposti: da un lato l’esplosione culturale, il fervore delle avanguardie artistiche, le notti febbrili animate da cabaret, cinema e musica, e dall’altro l’inquietudine ideologica, l’eco sempre più pressante di un nazionalismo che si riorganizza nei bassifondi del malcontento sociale. Leoni ricostruisce questa Berlino con uno sguardo che è insieme storico e letterario, mescolando documentazione minuziosa e sensibilità narrativa. Non si limita a descrivere l’ambiente: lo fa respirare, lo fa parlare attraverso i suoi protagonisti, i loro pensieri e le loro paure, in un continuo dialogo tra l’apparenza di modernità e la sotterranea regressione che prepara il crollo.

Al centro di questa tempesta culturale c’è il cinema, e in particolare l’UFA, la grande casa di produzione tedesca che fu il cuore pulsante del cinema espressionista. In La donna sulla Luna, Leoni ci porta dietro le quinte dell’omonimo film di Fritz Lang, un’opera che anticipa la fantascienza cinematografica e che, allo stesso tempo, riflette la tensione dell’epoca tra razionalità scientifica e pulsioni mitiche. Lang è già regista affermato, reduce dal successo di Metropolis, ma è anche un uomo inquieto, diviso tra l’ambizione artistica e l’ombra sempre più minacciosa del nuovo ordine politico. Il suo personaggio emerge nel romanzo come figura ambigua e affascinante, un artista che tenta di mantenere il controllo sulla finzione mentre il reale inizia a sfuggirgli da sotto i piedi. Giulio Leoni lo tratteggia con mano abile, evitando tanto l’agiografia quanto la caricatura: Lang è un uomo di sguardi e silenzi, che osserva più di quanto dica, consapevole che nel mondo che lo circonda l’immagine ha ormai preso il sopravvento sulla parola.

Ma La donna sulla Luna non è soltanto un affresco storico e culturale: è anche un romanzo giallo, attraversato da un’indagine che si insinua tra le pieghe del reale e dell’illusione. Quando una collaboratrice della troupe viene trovata morta, l’indagine viene affidata — in modo tutt’altro che ufficiale — a Egon Meinecke, ex investigatore e ora responsabile della sicurezza dell’UFA. Il suo percorso è quello classico dell’investigatore che scava nell’ambiguità dei segni e delle intenzioni, ma in questo caso si muove su un terreno particolarmente instabile, dove l’immagine cinematografica si confonde con la realtà, e il crimine sembra il riflesso di una realtà più grande e pericolosa. Leoni costruisce l’indagine come una progressiva discesa in un mondo fatto di illusioni, suggestioni ipnotiche e oscuri presagi, orchestrando il racconto con il passo incalzante del noir, ma arricchendolo di una densità simbolica che rimanda al gotico e al visionario.

E qui entra in scena Erik Jan Hanussen, l’illusionista, il veggente, l’uomo che sostiene di vedere il futuro — e che, storicamente, fu realmente vicino agli ambienti nazisti, tanto da essere considerato il profeta non ufficiale del Terzo Reich. La sua figura nel romanzo è sfuggente e magnetica, ponte tra due mondi: quello razionale della scienza e quello oscuro della magia. Hanussen non è solo un comprimario del racconto, ma una chiave interpretativa del romanzo stesso, simbolo di un’epoca in cui la realtà si lascia affascinare dal mito, e il pensiero critico cede spesso alla seduzione del mistero. La sua presenza trasforma l’indagine in qualcosa di più profondo: una ricerca sul confine tra visibile e invisibile, tra ciò che può essere spiegato e ciò che si preferisce credere.

Attraverso questo intreccio di cinema, storia, mistero e occultismo, Giulio Leoni costruisce un’opera che è molto più di un semplice romanzo d’intrattenimento. È una riflessione sul potere delle immagini, sulla fragilità della razionalità umana, e sull’inquietante facilità con cui intere società possono smarrirsi inseguendo illusioni. Un viaggio nell’ombra di un secolo che si preparava a sprofondare.

Il cuore simbolico del romanzo pulsa intorno a un progetto tanto visionario quanto carico di ambiguità: il viaggio sulla Luna. In un’epoca in cui l’umanità sembra sul punto di affrancarsi dai limiti della terra, Giulio Leoni coglie la portata filosofica e politica di un’ossessione collettiva per il progresso. La donna sulla Luna – inteso qui anche come il film di Fritz Lang – incarna la fiducia cieca nella razionalità, nella tecnica, nella conquista. Ma dietro il sogno della corsa verso il cielo si cela un presagio cupo, una deriva possibile del moderno: l’idea che il progresso non sia necessariamente emancipazione, ma possa diventare strumento di controllo, di sopraffazione, di distruzione. La Luna non è solo un corpo celeste da raggiungere, è uno specchio che riflette le ansie di una civiltà che, mentre guarda verso le stelle, non vede il baratro che si apre sotto i suoi piedi.

Questo senso di vertigine è il tratto più inquietante del romanzo. La scienza, l’ingegno, la tecnica – tutte queste forze che dovrebbero redimere il mondo – sembrano invece convergere verso un futuro disumanizzante. Berlino è percorsa da correnti oscure: il linguaggio si fa più aggressivo, i volti più duri, le parole d’ordine più inquietanti. E Leoni dissemina con finezza, mai con didascalismo, i segni premonitori dell’ascesa del nazismo. Le conversazioni nei salotti, gli sguardi di certi personaggi minori, le divise che iniziano a circolare con sempre meno pudore: ogni dettaglio contribuisce a costruire un senso di soffocamento ineluttabile. L’illusione dell’arte, del progresso, persino dell’amore, si scontra con una realtà che si indurisce, si fa monolitica, e prepara la scena a un’ideologia che trasformerà la Germania in un laboratorio dell’orrore.

Nel cuore di questo scenario perturbante, la figura femminile assume un ruolo enigmatico e centrale. Il titolo del romanzo – La donna sulla Luna – va letto non solo come riferimento al film di Lang, ma come cifra simbolica dell’intero racconto. Chi è, davvero, la donna sulla luna? È la collaboratrice uccisa? È la Luna stessa, intesa come principio femminile, alterità irraggiungibile, sogno tradito? Leoni gioca con questi piani di lettura, lasciando che il lettore si muova tra tracce e allusioni. Le donne del romanzo, pur marginali nel numero, sono decisive nella sostanza: sono portatrici di intuizione, di ambiguità, di rivelazione. Ma sono anche vittime predestinate in una società che si avvia a celebrare la forza, la virilità, la marcia. La morte della donna non è solo un delitto da risolvere: è il simbolo di una perdita più vasta, di un’intera sensibilità umana condannata all’estinzione.

La scrittura di Giulio Leoni si distingue per un equilibrio raro tra rigore e evocazione. Il suo stile è netto, essenziale, ma mai asciutto: ogni frase sembra portare con sé un’eco, un rimando, una sottile vibrazione. La documentazione storica è impeccabile, ma non invade mai il flusso narrativo. È semmai la base solida su cui poggia un’invenzione letteraria che si muove con libertà, senza mai tradire la verosimiglianza. Leoni non ha bisogno di spiegare, di mostrare compiaciutamente il proprio sapere: lascia che i dettagli parlino, che le ambientazioni respirino, che i dialoghi portino in superficie ciò che è stato frutto di attenta ricerca e di sensibilità immaginativa. Il risultato è un romanzo che non solo si legge, ma si attraversa, come un sogno in chiaroscuro o una pellicola in bianco e nero che torna a muoversi sotto i nostri occhi.

E in fondo, La donna sulla Luna è anche un’opera sulla natura stessa del racconto, sulla possibilità di fondere realtà e finzione in una narrazione che sia più vera del vero. Le figure di Lang e Hanussen, le trame politiche, i progetti spaziali, le indagini oscure: tutto ha una base storica, tutto è realmente accaduto o documentato. Ma Leoni inserisce nel reale uno spirito romanzesco che non distorce, ma amplifica. E così facendo, ci costringe a riflettere su quanto le nostre visioni del passato – come del presente – siano sempre un misto di fatti e immaginazione. Il romanzo si chiude lasciando un senso di inquietudine sospesa, come dopo un film muto in cui le immagini, pur finite, continuano a vivere nello sguardo di chi guarda. E in quell’ombra che resta, in quel silenzio, c’è forse la vera luna su cui nessuno è mai davvero sbarcato.

A volte ritornano di Stephen Edwin King (1978): recensione critica

Quando nel 1978 Stephen King pubblica Night Shift, tradotto in italiano con il titolo A volte ritornano, ha già all’attivo due romanzi fondamentali – Carrie e Shining – che lo hanno consacrato come nuova voce del terrore americano. Ma è con questa raccolta di racconti, scritti in buona parte negli anni precedenti e pubblicati su riviste e magazine, che il lettore ha per la prima volta la possibilità di osservare da vicino la varietà, l’ampiezza e la duttilità del suo immaginario. A volte ritornano è un campionario dell’orrore in tutte le sue forme, ma anche un testamento precoce del talento proteiforme di King: l’autore riesce a spaziare con naturalezza dall’horror gotico alla fantascienza distopica, dal weird più sottile al pulp a tinte forti, mantenendo sempre una voce riconoscibile e un’anima profondamente americana.

Già il racconto d’apertura, Jerusalem’s Lot, è una dichiarazione d’intenti. Scritto con uno stile epistolare che richiama direttamente i grandi classici del gotico ottocentesco – da Stoker a Poe – questo racconto è un omaggio esplicito a Lovecraft, di cui rievoca l’universo fatto di culti perduti, grimori impuri e genealogie maledette. Ma, al di là delle citazioni e degli omaggi, ciò che colpisce è la naturalezza con cui King riesce a rievocare le atmosfere cupe del gotico americano, innestandole in una narrazione modernamente ritmata, inquietante senza essere mai caricaturale. All’estremo opposto della raccolta si trova Camion, racconto breve e fulminante in cui l’orrore non è più ancestrale ma meccanico, industriale, pulsante di metallo e ruggine. Qui, i protagonisti sono assediati da camion animati da una volontà propria, in un mondo che sembra aver subito una silenziosa, apocalittica inversione dei ruoli tra uomo e macchina. Due racconti distanti, eppure figli dello stesso autore: segno di una versatilità che non è solo tecnica, ma soprattutto immaginativa.

King non ha bisogno di castelli, cripte o lande desolate per evocare l’orrore. Gli bastano una scuola, una lavanderia industriale, l’ufficio di un consulente per smettere di fumare, una stanza da letto buia. È qui che si insinua una delle cifre più riconoscibili del suo stile: la capacità di rendere il quotidiano profondamente inquietante. L’America che emerge da A volte ritornano è fatta di periferie e cittadine, di fast food e stazioni di servizio, di piccoli drammi e vite spezzate dalla noia o dal rimpianto. Ma proprio in questi contesti ordinari – anzi, proprio grazie a questi contesti – l’irruzione dell’orrore assume una potenza dirompente. È quando l’incubo bussa alla porta della normalità che King dà il meglio di sé, trasformando ciò che ci è familiare in qualcosa di improvvisamente ostile, deformato, irreversibile.

In molti racconti della raccolta, i mostri non sono solo presenze tangibili o creature immaginarie. Sono incarnazioni delle paure che ci abitano: la perdita dell’identità, la vendetta che cova per decenni, la solitudine che si fa allucinazione. Il baubau, forse uno dei racconti più celebri, si apre con una seduta psichiatrica apparentemente banale, ma affonda subito nella paura archetipica del bambino che teme il mostro nell’armadio. Solo che King, con la sua consueta crudeltà, lo rende reale – e lo lega indissolubilmente al trauma, alla colpa, al senso di impotenza. In A volte ritornano, il passato ritorna letteralmente a reclamare vendetta: compagni di scuola morti che si fanno vivi, incubi scolastici che si trasformano in persecuzioni. Non è solo l’orrore della morte, ma quello di ciò che abbiamo lasciato incompiuto, di ciò che ci siamo lasciati alle spalle credendo fosse sepolto.

L’influenza di Lovecraft, già evidente in Jerusalem’s Lot, riaffiora anche in Grano nero, in cui un giovane uomo scopre che la propria stirpe nasconde un’eredità impura, collegata a un culto antico e indicibile. Qui l’orrore si costruisce sul non detto, sul sussurrato, sull’inconoscibile che vive ai margini della razionalità. È l’orrore cosmico, quello che non si può combattere né comprendere, ma solo osservare – con terrore. King assimila questi stilemi con rispetto, ma senza mai rinunciare alla propria voce: il racconto non è una semplice imitazione, ma una rielaborazione personale, capace di integrarsi perfettamente nel suo universo narrativo.

Un ultimo elemento cruciale, spesso trascurato ma centrale in questa raccolta, è il ruolo dell’infanzia e dell’adolescenza. I bambini, in A volte ritornano, non sono mai semplici comparse: sono testimoni privilegiati dell’orrore, o le sue vittime predilette. Che si tratti del piccolo Lester in Il baubau, dello sfortunato fratello in Il cornicione, o del protagonista adolescente dell’omonimo racconto, King mostra una sensibilità straordinaria nel catturare le angosce dell’età più fragile – e forse proprio per questo più permeabile al soprannaturale. Ma non è mai un’innocenza banale, idealizzata: i bambini di King sono vulnerabili, certo, ma anche capaci di ferocia, di ambiguità, di un’intelligenza che spesso gli adulti non riescono a comprendere. E, talvolta, proprio per questo sono i soli a sopravvivere.

Con A volte ritornano, King non si limita a raccogliere racconti: disegna una mappa del terrore contemporaneo, capace di abbracciare l’immaginario gotico, la paranoia tecnologica, l’inquietudine quotidiana e il trauma psichico. Un laboratorio dell’orrore in cui ogni racconto è una scheggia, autonoma ma parte di un disegno più ampio. E proprio per questo, a distanza di quasi cinquant’anni, continuano a tornare.

Uno dei tratti più ossessivi e ricorrenti di A volte ritornano è il tema del trauma che riemerge, come un corpo mal sepolto che continua a spingere contro la terra smossa. I racconti di King sono spesso storie di ritorni: ritorni del rimosso, del colpevole, del passato che non ha mai smesso di reclamare attenzione. Il racconto eponimo della raccolta, A volte ritornano, è un manifesto di questa dinamica: un insegnante di liceo, vittima in gioventù di un trauma legato alla morte violenta del fratello e al bullismo subito, vede letteralmente i suoi carnefici ritornare dalla morte e presentarsi nella sua classe. Non è solo una storia di vendetta soprannaturale; è una parabola disturbante sull’impossibilità di chiudere i conti con il dolore, sull’inadeguatezza della razionalità adulta di fronte ai traumi infantili. Il protagonista non riesce a lasciarsi il passato alle spalle perché, in fondo, non l’ha mai davvero affrontato: e così il passato ritorna, più forte, più crudele, più vero della realtà.

Ma è in Quitters, Inc. che King esplora con tono grottesco e sadico il medesimo meccanismo di colpa e controllo. Un uomo decide di smettere di fumare rivolgendosi a un’agenzia specializzata, scoprendo troppo tardi che il prezzo del cambiamento sarà la minaccia costante di dolore – fisico e psicologico – inflitto ai suoi cari. Anche qui il passato pesa, ma in un modo più subdolo: è la compulsione, l’ossessione, l’autodistruttività di un vizio che si è radicato nella carne e nello spirito. Il protagonista si trova prigioniero di una promessa che non può infrangere, perché ogni sgarro costerebbe caro a chi ama. Il trauma diventa qui istituzionalizzato, trasformato in metodo, in azienda, in controllo sociale.

King padroneggia come pochi l’arte di raccontare l’orrore non solo con le immagini, ma con la voce. La scelta tra prima e terza persona, l’intonazione del narratore, il ritmo con cui vengono rivelate le informazioni: tutto concorre a costruire una tensione che non è mai gratuita, ma funzionale allo sviluppo del tema. Nei racconti in prima persona – come Il baubau o A volte ritornano – la voce narrante è spesso inaffidabile, emotivamente coinvolta, frammentaria, e proprio per questo più inquietante. È come ascoltare la confessione di un sopravvissuto che non ha ancora fatto i conti con l’orrore. Nei racconti in terza persona, invece, King gioca con la distanza: l’ironia, il cinismo, la freddezza apparente diventano strumenti per raccontare l’assurdo come fosse normale, e proprio così facendo ne amplificano la potenza. In entrambi i casi, la scrittura di King si distingue per una lucidità psicologica e una capacità di rendere credibili anche le situazioni più assurde: che si tratti di un giocattolo da guerra che prende vita (Campo di battaglia) o di un compressore che sviluppa un’ossessione omicida (Il compressore), l’autore riesce sempre a dare corpo e coerenza all’incubo.

In diversi momenti, la raccolta si colora di un’ironia nera e crudele, che sfiora il grottesco e lo abbraccia senza timore. Quitters, Inc. è una farsa nera sulla società della performance e del controllo; Campo di battaglia è una perla di umorismo macabro che trasforma un assassinio su commissione in una guerra privata tra un killer professionista e un plotone di soldatini giocattolo, in un crescendo di assurdità che sfocia in un finale tanto brutale quanto esilarante. È una risata che gela il sangue: perché anche quando ridiamo, King ci ricorda che il terrore è dietro l’angolo, e che spesso è proprio la comicità a preparare il terreno al colpo finale.

Non manca, in questa raccolta, un’attenzione inquieta e profetica per il ruolo della tecnologia e della macchina. Camion prefigura un mondo in cui la rivolta degli oggetti inanimati non è più soltanto una fantasia infantile, ma un incubo sistemico: i camion che si ribellano, schiavizzando gli uomini, sembrano anticipare con lucidità le angosce dell’automazione, della dipendenza tecnologica, della disumanizzazione dell’ambiente moderno. Il compressore spinge oltre questa idea, presentando una macchina da lavanderia animata da un istinto omicida, quasi sessuale, capace di fagocitare corpi e coscienze. L’uomo, in questi racconti, perde il controllo su ciò che ha creato: e non perché la tecnologia sia malvagia in sé, ma perché riflette ed esaspera le sue ossessioni e le sue manie. È una tecnologia posseduta, che amplifica le pulsioni umane fino a renderle mostruose.

Difficile sopravvalutare l’impatto che A volte ritornano ha avuto sulla cultura horror contemporanea. Non solo perché molti dei racconti sono stati adattati per il cinema e la televisione – alcuni con risultati memorabili, altri con esiti più discutibili – ma perché la raccolta rappresenta una vera e propria cassetta degli attrezzi narrativa per chiunque voglia scrivere (o leggere) storie dell’orrore. In questi racconti si trovano già in nuce molti dei temi, delle atmosfere, dei dispositivi narrativi che King svilupperà nei suoi romanzi successivi. È una sorta di laboratorio creativo, in cui lo scrittore sperimenta con forme brevi ciò che poi declinerà in modo più articolato nei suoi capolavori futuri.

Ma A volte ritornano è anche qualcosa di più: è una dichiarazione poetica, un’enciclopedia sentimentale della paura, un’indagine sulle ombre che ci portiamo dentro. Racconti che, come suggerisce il titolo, continuano a tornare. Forse perché ci somigliano troppo. O forse perché, in fondo, siamo noi che li chiamiamo.

La Ciociara di Alberto Moravia (1957): recensione critica

Nel romanzo La ciociara, pubblicato da Alberto Moravia nel 1957, la guerra non è solo sfondo storico o cornice narrativa: è un’entità pervasiva, disumanizzante, capace di scardinare ogni ordine morale e relazionale. La brutalità del conflitto penetra nel corpo e nell’anima dei personaggi, e trova la sua espressione più atroce nell’evento centrale del romanzo: lo stupro di Cesira e della figlia Rosetta da parte dei soldati marocchini alleati. Non è un episodio marginale, ma il cuore oscuro di tutta la narrazione, il punto in cui la storia cessa di essere racconto di sopravvivenza e si trasforma in denuncia, in trauma collettivo. Le cosiddette “marocchinate”, documentate e tragicamente reali, vengono rappresentate da Moravia senza compiacimento né retorica, ma con la consapevolezza che la violenza sessuale in guerra non è una deviazione, bensì uno strumento di potere, un linguaggio di dominio sui corpi delle donne, e più in profondità, sull’identità culturale e sociale di un popolo.

La violenza subita da Rosetta non ha solo un effetto devastante sul suo corpo adolescente, ma ne frantuma anche l’identità: da ragazza sensibile e silenziosa, votata a una forma di spiritualità pura e quasi ingenua, Rosetta si trasforma in una creatura alienata, irriconoscibile, che cerca nei gesti e nelle parole dei soldati una surrogazione malata del proprio valore. Cesira, la madre, assiste impotente a questa mutazione, ma ne è anche, in parte, la testimone silenziosa e il catalizzatore emotivo. Perché La ciociara è anche un romanzo sul legame profondo e lacerante tra madre e figlia, un legame che la guerra mette a dura prova, costringendo entrambe ad affrontare non solo il dolore del presente, ma anche le illusioni e i fraintendimenti del passato.

Cesira è una donna concreta, pratica, di origini popolari ma dotata di un istinto materno assoluto. Moravia le affida la narrazione in prima persona, ed è attraverso i suoi occhi che assistiamo alla discesa nell’abisso. Rosetta, invece, è la creatura fragile, spirituale, educata nei collegi religiosi, quasi angelicata nella sua riservatezza. Eppure, sarà proprio lei a soccombere alla brutalità del mondo. Il trauma rompe definitivamente la possibilità di comunicazione tra le due: la madre che cerca di proteggere la figlia a ogni costo si trova davanti a un vuoto, a una presenza svuotata di senso. La maternità, così, non è celebrata ma messa in discussione: può una madre proteggere davvero? Può l’amore bastare?

Alla devastazione interiore di Rosetta si aggiunge la domanda senza risposta sul ruolo del divino. Il romanzo non offre rifugio nella religione, non si fa portatore di una visione consolatoria. Al contrario, nel momento del dolore più profondo, la fede crolla o si rivela muta. Rosetta, che pregava con fervore, dopo lo stupro si chiude in un silenzio che è anche apostasia, smarrimento. Cesira, che pure ha sempre guardato con un certo scetticismo al fervore religioso della figlia, si ritrova anch’essa priva di strumenti spirituali. La guerra, sembra suggerire Moravia, non ammette redenzione né giustizia. Se c’è un Dio, è assente. La colpa, invece, rimane, e grava come una condanna sulle vittime stesse, che si sentono sporche, segnate, svuotate.

Tutto questo si inserisce in un contesto storico preciso e fortemente documentato: l’Italia del 1943-1944, il collasso del regime fascista, l’occupazione tedesca, l’ingresso degli Alleati, l’ambiguità morale della Resistenza. Moravia non mitizza né idealizza. La Resistenza appare sullo sfondo, nei racconti degli uomini nascosti tra le montagne, ma non viene mai glorificata. È una realtà complessa, a volte contraddittoria. Il popolo è disorientato, stanco, sospeso tra fame e paura. L’Italia rappresentata è quella contadina e smarrita, lacerata da anni di propaganda e da un’improvvisa libertà che si manifesta più come caos che come riscatto.

Con La ciociara, Moravia ci obbliga a guardare in faccia l’orrore della storia, ma anche a interrogarci sulla fragilità degli affetti e sull’ambiguità della giustizia. Il romanzo non offre soluzioni, né speranza: solo una lucidità spietata e una compassione profonda, che non si traduce in pietismo, ma in partecipazione tragica. Cesira e Rosetta non sono solo due donne in fuga: sono due simboli di una nazione devastata, di una memoria che ancora oggi chiede di essere ascoltata.

Uno degli aspetti più incisivi de La ciociara è il linguaggio, che si presenta come uno strumento tagliente, spoglio, profondamente aderente alla materia narrata. Moravia sceglie un registro che rifiuta l’enfasi e la letterarietà, per abbracciare invece una forma espressiva asciutta, concreta, quasi brutale nella sua aderenza alla realtà. La voce narrante è quella di Cesira, e tutta la narrazione è filtrata attraverso la sua percezione del mondo. Questa scelta di focalizzazione interna non solo contribuisce a rafforzare l’autenticità della testimonianza, ma consente al lettore di entrare nella carne viva dell’esperienza, senza filtri ideologici o intellettualistici. Cesira non riflette in termini astratti: osserva, sente, reagisce, giudica secondo la propria esperienza quotidiana, e lo fa con un linguaggio immediato, popolare, che rispecchia il suo ceto sociale e la sua formazione. Ma è proprio in questa voce che si rivela la forza tragica del romanzo: nella semplicità del dolore, nella cruda constatazione dell’orrore.

In questo contesto, lo stile si fa specchio della realtà stessa. Non c’è spazio per la metafora o la lirica: ogni parola pesa, ogni descrizione incide. L’uso del dialetto, delle espressioni idiomatiche, delle frasi sospese o brusche, restituisce la durezza della vita durante la guerra e al tempo stesso la dignità di chi la affronta. Il tono, pur rimanendo sempre realistico, non cade mai nella cronaca sterile. La voce di Cesira è parte integrante della verità morale che il romanzo intende comunicare.

La divisione tra città e campagna, tra Roma e la Ciociaria, è un altro dei grandi temi del romanzo. Moravia costruisce una contrapposizione netta tra l’urbanità decadente della capitale — luogo della modernità, ma anche della corruzione e del disfacimento sociale — e il mondo arcaico, quasi immobile, della campagna. Cesira, pur essendo originaria della Ciociaria, è ormai una donna “di città”, commerciante autonoma, abituata a una certa modernità. Il suo ritorno forzato tra i monti assume i contorni di un viaggio nel tempo, ma anche in una realtà altra, dove il senso della comunità è ancora forte ma dove la povertà, la superstizione e l’ignoranza regnano sovrane. I contadini sono al tempo stesso ospitali e diffidenti, sottomessi al potere militare ma capaci di gesti di resistenza quotidiana. Moravia non li idealizza, ma nemmeno li condanna: li osserva con occhio critico, attento alle dinamiche sociali, alle diseguaglianze strutturali che la guerra rende ancora più evidenti.

Il corpo femminile, in La ciociara, diventa terreno di conquista e distruzione. È il luogo dove si esercita il potere maschile, militare, politico. La violenza subita da Cesira e Rosetta non è solo un atto fisico: è la simbolica distruzione della loro identità. Il corpo della donna, in questo contesto, è oggetto e campo di battaglia, strumento per umiliare l’altro — l’italiano sconfitto, il nemico, il “diverso”. Moravia mette in scena questa dimensione con spietata lucidità, senza mai cadere nel voyeurismo o nel pietismo. Il corpo femminile violato diventa simbolo della nazione stessa, occupata, sfruttata, devastata. Eppure, proprio in quel corpo martoriato sopravvive, anche se fragile e incrinata, una scintilla di dignità.

La guerra, in Moravia, è soprattutto spaesamento. Nessuno dei personaggi ha un vero controllo sul proprio destino. La fuga, l’attesa, l’adattamento passivo alla brutalità degli eventi, segnano l’intero percorso narrativo. Cesira, pur volitiva e combattiva, non può far altro che reagire, mai davvero agire. Rosetta, da parte sua, è una figura sempre più disarmata, preda di un mondo che non comprende e che la schiaccia. La guerra non è solo una catastrofe esterna, ma una condizione interiore di alienazione, in cui ogni certezza crolla e l’identità si frantuma. È il fatalismo — tratto tipico dell’universo moraviano — che domina, un senso di impotenza che si traduce in rassegnazione muta, in dolore trattenuto.

Nel 1960, La ciociara ha conosciuto una trasposizione cinematografica divenuta celebre grazie alla regia di Vittorio De Sica e all’interpretazione intensa di Sophia Loren, che valse all’attrice l’Oscar. Il film mantiene la struttura di base del romanzo, ma compie alcune scelte narrative e stilistiche significative. Prima fra tutte, la maggiore enfasi emotiva, che se da un lato rende più accessibile la storia al grande pubblico, dall’altro attenua in parte la spietata sobrietà della scrittura moraviana. La Loren, pur straordinaria, porta sullo schermo una Cesira più affascinante e carismatica rispetto alla figura più dimessa e concreta del romanzo. Inoltre, la dimensione della spiritualità di Rosetta viene trattata in modo più sfumato, quasi eluso. La violenza, nel film, pur rappresentata con coraggio per l’epoca, viene in parte stilizzata, e perde qualcosa della sua funzione di denuncia strutturale.

Eppure, nonostante queste differenze, il film riesce a conservare la potenza emotiva dell’originale, e anzi contribuisce a fissare nell’immaginario collettivo una memoria visiva della tragedia. Moravia stesso riconobbe il valore dell’adattamento, pur mantenendo la consapevolezza che il linguaggio del cinema non può sostituire quello della letteratura. Il romanzo, con la sua voce narrante intima, spoglia, inesorabile, continua a offrire una testimonianza unica, necessaria, che ci costringe a riflettere sul significato della guerra, sulla condizione femminile e sulla disumanità che si nasconde dietro le grandi narrazioni storiche.

La ciociara è, in definitiva, un romanzo che non si limita a raccontare: interroga, denuncia, ferisce. E lo fa con la forza della parola semplice, con la verità nuda della sofferenza. In un mondo che tende a dimenticare, la voce di Cesira continua a parlare — e a inquietarci.

L’investitore intelligente (titolo originale: The Intelligent Investor) di Benjamin Graham

Nel 1949, quando The Intelligent Investor di Benjamin Graham venne pubblicato per la prima volta, il mondo usciva lentamente da una delle fasi più turbolente e contraddittorie della sua storia economica. L’euforia post-bellica conviveva con la memoria ancora vivida della Grande Depressione, che tra il 1929 e i primi anni Trenta aveva scosso le fondamenta del capitalismo mondiale, distruggendo ricchezze, alimentando disoccupazione e gettando un’ombra lunga e sinistra sul futuro dei mercati finanziari. In quegli anni si era spezzato definitivamente il mito della “crescita infinita” che aveva caratterizzato i ruggenti anni Venti, e la crisi aveva messo a nudo tutta la fragilità di un sistema fondato spesso più su entusiasmo speculativo che su solidi fondamentali economici.

In questo scenario, l’approccio di Graham si configura come una risposta lucida, razionale e profondamente etica al caos del capitalismo finanziario. The Intelligent Investor non è semplicemente un manuale di investimento: è un invito a un diverso modo di pensare il denaro, la ricchezza, il rischio e, in ultima analisi, la natura umana. Scrivere un libro del genere nel 1949 significava parlare al cuore ferito di un’epoca che aveva conosciuto sia la rovina economica che la guerra totale, offrendo una bussola morale in un contesto ancora incerto e fragile. L’investitore saggio, per Graham, è colui che non si lascia sedurre dalle sirene del profitto facile, ma cerca la verità economica dietro i numeri, la sostanza dietro le mode, il valore reale dietro il prezzo di mercato.

Benjamin Graham, classe 1894, era un uomo forgiato dalle tempeste. Di origine britannica ma cresciuto a New York, aveva vissuto in prima persona gli eccessi di Wall Street e il loro crollo devastante. Professore alla Columbia Business School, non fu soltanto un teorico dell’investimento, ma anche un pratico acuto e rigoroso. La sua figura ha influenzato generazioni di investitori, ma su tutti ha brillato l’allievo più celebre: Warren Buffett. È stato proprio Buffett a definire The Intelligent Investor “di gran lunga il miglior libro sull’investimento mai scritto”. E non è difficile capire perché: il pensiero di Graham si fonda su una visione dell’investimento come attività razionale, ponderata, quasi stoica. Investire, per lui, non è un atto emotivo, ma un esercizio di pazienza, analisi e autocontrollo. È un lavoro di comprensione profonda del valore, non una corsa al rialzo, né un salto nel buio.

Uno dei pilastri teorici del saggio è la distinzione tra investimento e speculazione, che Graham traccia con chiarezza chirurgica. L’investimento, nella sua definizione, comporta un’analisi approfondita, la sicurezza del capitale e un rendimento adeguato. Tutto ciò che non risponde a questi criteri è, per definizione, speculazione. Oggi, in un’epoca dominata da piattaforme di trading gamificate, da criptovalute volatili e da mode finanziarie effimere, questa distinzione appare più attuale che mai. La mentalità speculativa, spinta da euforia e paura, tende a sovrastare la voce pacata dell’analisi. Ma Graham ci ricorda che la vera intelligenza finanziaria non sta nell’indovinare il prossimo rally di mercato, bensì nel sapere quando rimanere fermi.

A dare forma concreta a questa prudenza è il celebre concetto di margine di sicurezza. Per Graham, ogni investimento sensato dovrebbe prevedere un margine tra il prezzo pagato e il valore reale dell’attività acquistata. È una regola aurea, semplice e potentissima: acquistare con uno sconto, mantenendo un cuscinetto contro l’errore umano, l’imprevedibilità del mercato e l’impatto delle emozioni. In un’epoca come la nostra, dove la velocità di esecuzione ha preso il posto della riflessione e dove il mercato sembra premiare l’audacia impulsiva, il margine di sicurezza appare come un antidoto non solo alla volatilità, ma anche all’avidità.

Infine, una delle immagini più brillanti e durature del libro è quella di Mr. Market, una metafora che ha fatto scuola. Graham lo descrive come un socio immaginario, lunatico e irrazionale, che ogni giorno bussa alla porta dell’investitore per offrirgli di vendere o comprare azioni a un certo prezzo. A volte è ottimista e offre prezzi esorbitanti, altre volte è depresso e svende i titoli. Ma sta a noi decidere se ascoltarlo o ignorarlo. Mr. Market non è altro che il riflesso delle emozioni collettive: l’incarnazione dell’instabilità, dell’umore oscillante del mercato. Comprenderlo significa non farsi travolgere dalla sua frenesia. In un mondo in cui l’informazione corre alla velocità della luce e le fluttuazioni di mercato sono amplificate da algoritmi e reazioni istintive, la lezione di Graham resta viva e bruciante: il mercato è uno strumento, non un oracolo. E il nostro compito non è assecondarne ogni capriccio, ma dominarlo con disciplina e intelligenza.

Nel rileggere oggi The Intelligent Investor, ciò che colpisce non è soltanto la solidità dei suoi princìpi, ma la loro profonda umanità. Graham non era un freddo matematico, ma un pensatore attento alla psicologia, al comportamento, alla morale dell’investitore. E in questo, il suo libro è più che un manuale: è un’opera letteraria della finanza, un breviario filosofico per chi voglia orientarsi nel labirinto del capitale senza perdere la bussola della ragione.

In The Intelligent Investor, Benjamin Graham delinea con straordinaria chiarezza due archetipi dell’investitore: il “difensivo” e l’“intraprendente”. Due modi diversi di affrontare il mercato, due filosofie che riflettono non solo scelte tecniche, ma vere e proprie visioni del mondo. L’investitore difensivo è colui che cerca di preservare il capitale, evitando rischi eccessivi, adottando strategie semplici, diversificate, basate su strumenti solidi come obbligazioni e azioni di grandi società con bilanci robusti. È un investitore che sa di non sapere: consapevole dei propri limiti, si affida a un metodo prudente, disciplinato, quasi ascetico. L’investitore intraprendente, invece, è disposto a impegnarsi attivamente nello studio dei mercati, a cercare occasioni di valore nascosto, a muoversi con cautela ma con decisione laddove il mercato offre prezzi distorti.

È interessante chiedersi, oggi, quale di questi due profili sia più adatto al nostro tempo. In un’epoca dominata dall’incertezza economica globale, da inflazione altalenante, da shock geopolitici e dalla rapidità con cui le notizie (e le paure) si diffondono, il modello difensivo sembra tornare di moda. L’idea di costruire un portafoglio semplice, ben diversificato, fatto di ETF a basso costo o di titoli solidi e affidabili, risuona fortemente con una generazione stanca di vivere sull’orlo del collasso. Ma anche l’investitore intraprendente, se ben formato, può trovare spazi in un mercato dominato dalla disinformazione e dalle bolle speculative: le occasioni ci sono, ma richiedono uno sguardo lungo e una dedizione costante.

Ciò che accomuna entrambi i profili, tuttavia, è l’importanza dell’analisi fondamentale. Graham è stato un convinto sostenitore dell’idea che ogni investimento debba poggiare su una solida base di dati reali: bilanci, utili, dividendi, flussi di cassa. Nella sua visione, l’investitore non è un indovino, ma un contabile che ragiona. Lungi dal lasciarsi sedurre dai grafici e dagli oscillatori dell’analisi tecnica – che Graham guardava con una certa ironia – l’investitore intelligente si immerge nei numeri, nel valore intrinseco delle aziende, nella loro capacità di generare profitto nel tempo.

Oggi, questo approccio appare quasi rivoluzionario nella sua semplicità. In un mondo dove l’algoritmo detta il ritmo e dove il tempo medio di detenzione di un’azione si misura in giorni, l’analisi fondamentale è passata in secondo piano. Eppure, proprio per questo, torna ad assumere un valore quasi etico. È un invito a rallentare, a conoscere ciò che si possiede, a non delegare completamente le proprie decisioni a strumenti opachi o a flussi automatici di dati.

Al cuore di tutto ciò c’è una consapevolezza che attraversa ogni pagina del libro: investire è un atto psicologico. Graham lo sa, e lo dice con chiarezza disarmante: non è l’intelligenza a determinare il successo di un investitore, ma il carattere. La capacità di non farsi travolgere dall’euforia, di non cedere al panico, di restare lucidi quando tutto il mercato urla. L’autocontrollo, la disciplina, la pazienza sono le virtù cardinali di chi investe con saggezza. È qui che Graham diventa più filosofo che economista: il suo libro è, in fondo, un esercizio di educazione morale, un addestramento alla temperanza in un mondo che premia l’eccesso.

Non stupisce, dunque, che The Intelligent Investor abbia avuto una fortuna editoriale così longeva. Dalla sua prima pubblicazione nel 1949, il libro è stato ristampato decine di volte, tradotto in numerose lingue e aggiornato in edizioni che cercano di dialogare con i lettori contemporanei. Particolarmente significativa è l’edizione annotata da Jason Zweig, giornalista finanziario del Wall Street Journal, che accompagna il testo di Graham con commenti puntuali, esempi moderni e riferimenti al mondo odierno. Grazie a Zweig, il lettore può leggere Graham alla luce degli scandali contabili degli anni Duemila, della crisi dei mutui subprime, dell’esplosione del trading algoritmico e dell’ascesa delle criptovalute. Ma ciò che colpisce è quanto poco debba essere aggiornato il messaggio originale: come i classici della letteratura, anche The Intelligent Investor resta valido perché parla all’essere umano, prima che all’economia.

E proprio come un classico, il libro resiste al tempo anche nell’era digitale. Certo, i mercati sono cambiati. Gli strumenti a disposizione dell’investitore sono oggi infinitamente più numerosi e complessi. Gli ETF hanno rivoluzionato il modo di costruire portafogli, l’intelligenza artificiale ha invaso il campo dell’analisi, e l’automazione ha reso il mercato un’arena in cui l’uomo fatica a mantenere il controllo. Ma è proprio in questo scenario che la voce di Graham si fa più necessaria. In mezzo al frastuono della speculazione digitale, alla corsa sfrenata al profitto immediato, al culto del “tutto e subito”, The Intelligent Investor è un invito a pensare, a dubitare, a valutare.

A distanza di oltre settant’anni, il libro non ha perso il suo fascino né la sua utilità. Al contrario: oggi più che mai abbiamo bisogno di mentori sobri, di pensieri lenti, di strategie fondate sulla realtà e non sul desiderio. Graham ci insegna che investire non è solo una questione di tecnica, ma di virtù. E forse è questa, in fondo, la sua più grande eredità: averci ricordato che l’intelligenza, quella vera, è fatta di pazienza, di modestia e di coraggio silenzioso.