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Il musicista Lucio Spaccanoci arrivò alla Locanda della Luna Nera a notte fonda, molto oltre l’orario di chiusura. Aveva prenotato.
La locandiera, una vecchia dai capelli grigi e con le mani rovinate dall’artrite, andò ad aprire di pessimo umore: detestava i ritardatari, odiava i musicisti, e non poteva sopportare i clienti che avanzavano troppe pretese. La sua era solo una locanda di campagna, amava dire per commiatarsi da quelli che gli avevano rotto troppo i coglioni, poco prima di ucciderli.
“Buonasera signora” si presentò Spaccanoci, senza sorridere.
“E’ notte fonda” replicò gelida la locandiera, guardandolo con disprezzo. Il suo volto era flaccido e giallognolo, solcato da profonde rughe.
“Vorrei un limone, e dell’acqua minerale, fresca naturalmente” disse lui con tono arrogante.
Il limone puoi ficcartelo nel culo, pensò la vecchia, poi guardandolo come fosse uno scarafaggio disse: “La colazione sarà servita domani mattina alle ore 9:00, adesso l’accompagno alla sua camera. Intanto mi consegni un documento, per la registrazione.”
Lucio Spaccanoci, un po’ sorpreso dalla rudezza della donna, recuperò la patente dai pantaloni e prima di porgerla alla signora precisò: “Devo fare colazione alle sette, le nove è troppo tardi.”
Certamente, vedrai che bella colazione ti servirò fottuto bastardo, mandò a mente la locandiera, poi senza guardare in faccia il fastidioso ospite, con voce calma, disse: “Attraversata la strada c’è un bar, quello apre alle 6:00. Adesso mi segua.”
La locandiera si avviò lentamente lungo una vecchia scala di legno che cigolando al suo passaggio saliva al piano superiore. L’ambiente era semiavvolto dall’oscurità, illuminato solo dalla fioca luce proveniente da una sgangherata lampadina appesa al muro del pianerottolo superiore. Spaccanoci la seguì contrariato, osservando con disappunto le vecchie pareti scrostate della locanda, e le ragnatele penzolanti dagli angoli del vetusto soffitto consunto dal tempo.
“Questa locanda ha più di quattrocento anni” commentò la vecchia, come se avesse indovinato i pensieri del musicista, “di qui sono passati in tanti, gente che va, gente che viene, alcuni rimangono: per sempre.”
“In che senso?” domandò il musicista senza capire, ed iniziando ad avvertire un indefinibile senso di disagio.
“Nel senso che lasciano un buon ricordo, che rimane nel tempo” spiegò la donna ansimando. Aveva già passato la settantina e la vecchia rampa di scale cigolanti cominciava ad essere una salita impegnativa.
Arrivata in cima si infilò nel corridoio che conduceva alle stanze degli ospiti. Erano contraddistinte con nomi, anziché numeri: camera delle rose, camera dei gerani, camera delle viole, camera dei tulipani, ed in fondo al corridoio quella preferita dalla vecchia, dove ci metteva sempre i clienti più odiati: la camera dei crisantemi.
“Come mai nomi di fiori?” domandò il musicista, guardandosi attorno con sospetto, sempre più inquieto.
“Mi piacciono i fiori” rispose la vecchia aprendo la porta della camera dei crisantemi, “più delle persone in verità. Profumano, Ti ascoltano, non parlano e soprattutto non danno fastidio a nessuno. E adesso si accomodi, prego.”
Il musicista infilò la testa nella camera per ispezionarla, ma senza oltrepassare l’uscio, trattenuto da un’invisibile istinto di conservazione.
Era arredata in modo spartano: un letto singolo, un comodino di legno devastato dalle tarme, uno specchio tondo appeso al muro pitturato di viola, una cassettiera malandata messa peggio del comodino. Sul pavimento ricoperto da un parquet di rovere scuro e antico non meno della locanda intera, era adagiato un grosso tappeto persiano dai colori sbiaditi e macchiato in più punti. Nella camera vi era una sola piccola finestra con gli scuri chiusi. Nessun’altra porta interna alla stanza.
“E il bagno?” domandò il musicista, ostentando un’espressione della faccia sempre più insoddisfatta e preoccupata.
“In fondo al corridoio, proprio qui a fianco” spiegò la vecchia, sfidandolo con uno sguardo torvo e assassino.
“Non ha una stanza con il bagno privato e in camera?”
“No! Se vuole il Grand Hotel a cinque stelle può proseguire sino a Piacenza, questa è solo una locanda di campagna.”
“Non credo di voler restare allora, questa bettola inospitale non soddisfa le mie aspettative.”
“La Signora Beretta qui presente però soddisfa certamente le mie” disse la locandiera sadica, tirando fuori una pistola calibro 9 da sotto il grembiule e puntandola in faccia al musicista.
“Ma.. ma lei è pazza” cercò di protestate Spaccanoci balbettando.
“E tu sei un rompicoglioni di prima categoria. Ora entra in questa camera o ti faccio un secondo buco nel culo, faccia di merda” ordinò la vecchia, mentre la bocca rugosa le si contraeva in un ghigno terrificante.
Spaccanoci entrò tremando all’interno della stanza, il volto era divenuto cereo, e anche la palpebra dell’occhio destro iniziò a sussultare ritmicamente.
“Mettiti lì al centro, sopra al tappeto.”
Spaccanoci eseguì. Quando lui raggiunse il punto indicato, la diabolica locandiera aprì uno sportellino ubicato vicino alla porta, vi infilò la mano artritica sino ad afferrare una leva dall’impugnatura in avorio, e fece forza tirandola verso di sé.
Un orribile stridore di catene proveniente da sotto il tappeto fu accompagnato dall’urlo disperato di Spaccanoci, mentre il suo corpo precipitava nel vuoto, risucchiato nella botola azionata dalla perfida vecchia.
L’insopportabile musicista sprofondò per circa sei di metri come in una foiba infernale, sino a schiantarsi sul pavimento in terra battuta della cantina. Si ruppe sul colpo una caviglia, un braccio e un paio di costole, svenendo per il dolore.
Quando riprese i sensi si ritrovò legato ad una sedia con un limone di plastica dura infilato nella bocca e la locandiera sadica armata di cesoie che lo osservava con fare malvagio e pericoloso. I suoi occhi erano fissi in quelli di Lucio, truci e gelidi come una tomba profanata.
Un pungente ed insopportabile fetore di morte e carne in putrefazione pervadeva la maleodorante cantina, illuminata solo dal riflesso di una pallida luna grigia, che pigramente filtrava attraverso una grata arrugginita vicino al soffitto.
Per prima cosa lei gli amputò le dita delle mani, una ad una, sogghignando divertita, mentre il musicista cercava di urlare piangendo e dimenandosi in prede alla disperazione, dilaniato dall’orribile dolore.
Le falangi saltavano via con un rumore fastidioso come di ossa di pollo spezzate, e lunghi fiotti di sangue raggiungevano il pavimento trasformandosi in fetido fango a contatto con l’umido terriccio del pavimento.
“Scommetto che adesso il bagno in camera, la colazione alle 7:00, il limone e l’acqua fresca non son poi tanto importanti, non è vero stupido bastardo?”
Lui era ormai esausto e stava nuovamente per svenire.
Lei gli tagliò via l’ultima falange superstite, prima che perdesse i sensi: quella del mignolo della mano sinistra.
Poi si piegò a raccogliere le dita maciullate cadute sul pavimento, sfoggiando un inquietante sorriso infernale.
“Le userò per il pranzo di domani” disse con voce malvagia.
Fu l’ultima cosa che il musicista riuscì a vedere, prima di addormentarsi tra le fredde braccia della morte. Spirò poco prima dell’alba, defunto per dissanguamento.
Il giorno dopo, alla Locanda della Luna Nera, lo “Spezzatino della Casa” abbinato con un vino Gutturnio Superiore d’annata fu il piatto più venduto.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Scritto da Anonimo Piacentino
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