Infermiera sadica

 

“Dio… sto crepando… sto morendo… dannazione sto morendo…”

“Cazzo dai, calmati ragazzo… non è poi così grave, puoi farcela…”

Il colpo alla farmacia di Pianello era andato male.

In fila alla cassa, con il volto coperto da una mascherina chirurgica per il covid19, avevano trovato un carabiniere in borghese.

Appena Cuore di Pietra aveva cominciato a minacciare la farmacista con una pistola, il militare aveva estratto una Beretta 92 sparandogli a bruciapelo.

Ne era seguita una colluttazione. Il carabiniere era stato tramortito ma ormai la rapina era andata in fumo. Gamba di Ferro si era allora caricato sulle spalle il suo compare ferito e insieme si erano dati alla fuga.

Cuore di Pietra adesso piangeva dilaniato dal dolore, tutto insanguinato, contorcendosi sui sedili posteriore della Alfa Romeo Giulietta che avevano rubato il giorno prima.

“Fa male, ma maledettamente male, e sto per morire…”

“Non fare lo stronzo, hai una brutta ferita del cazzo, ma non morirai”

Cuore di Pietra continuava a piangere disperato: “sono tutto pieno di sangue, me la sto facendo sotto dalla paura… ho freddo… sto per tirare le cuoia io lo so… maledizione, sono fottuto… porca troia…”

“Non sapevo ti fossi laureato in medicina, da quando sei un fottuto dottore del cazzo? Allora sei un dottore? Rispondimi brutto figlio di puttana: tu sei per caso un dottore?

“No!!, non sono un dottore… ma non serve una laurea per capire che sto crepando dissanguato come una scrofa sgozzata…”

“Smettila di fare illazioni, non hai idea di cosa stai parlando. Adesso calmati e ascoltami bene: ora andremo da Labbra di Cuoio, è un’amica e mi deve un paio di favori, vedrai che lei ti metterà a posto e te la caverai, fidati di me.”

“Oh Cristo, ma Labbra di Cuoio è una fottuta veterinaria, che cazzo vuoi che ne capisca di ferite d’arma da fuoco… o no… o no… sono morto, sono già morto…”

“Basta! Cosa pretendi che faccia, non posso mica portarti al pronto soccorso cazzo. Labbra di Cuoio ti toglierà la pallottola dalla pancia e ti rimetterà in sesto, sarà questione di minuti e tra qualche settimana ci ricorderemo di questa brutta avventura ridendoci sopra. Non morirai cazzo, andrà tutto benone, Labbra di Cuoio ti rimetterà in forma, devi credermi”

Cuore di Pietra non rispose, era svenuto.

Gamba di Ferro guidò veloce lungo la statale 412 della Val Tidone, poi tagliò per i campi sino ad arrivare a Bilegno e lì si fermò davanti alla villetta di Labbra di Cuoio. Scese dalla macchina, si caricò sulle spalle il ferito e lo portò in casa.

Labbra di Cuoio non la prese bene. Si stava gustando un calice di passito di Malvasia guardando una delle sue serie televisive preferite, e l’intrusione di quei due deficienti, di cui uno ferito e sanguinante non era nei suoi programmi per quella notte.

“Ti prego mi devi aiutare” implorò Gamba di Ferro, “ho bisogno che operi il mio amico qui, e dopo andremo via senza darti altre noie.

“Ti risulta che io sia un chirurgo brutto coglione?” disse Labbra di Cuoio incrociando le braccia profondamente infastidita.

“Beh, no, è chiaro, ma si tratta solo di togliere un proiettile dalle budella di un cristiano, sono sicuro che sei più che qualificata per questo”

“Se decidessi di aiutarti, e francamente non vedo proprio per quale motivo dovrei farlo, ma se per qualche imprevedibile ragione accettassi di aiutarti, cosa ci guadagno?”

“Beh, ecco…. Insomma… a soldi non siamo messi molto bene al momento… e quindi…”

“Ti sembro forse una che ha bisogno di soldi faccia di merda? Non lo vedi dove vivo? Non vedi come mi vesto? E i gioielli che porto?” disse lei, mostrandogli il grosso diamante che portava al dito.

Gamba di Ferro era in imbarazzo, non sapeva cosa dire.

“Prendi il tuo amico, spoglialo e sdraialo sul tavolo in cucina” ordinò lei.

Gamba di Ferro eseguì.

Labbra di Cuoio si avvicinò al bandito svenuto sul tavolo per esaminarne il corpo e la ferita.

“Cercherò di operarlo, se ci riesco, mi ripagherai come al solito”

Gamba di Ferro iniziò a sudare freddo, “è proprio necessario? Non si potrebbe trovare una soluzione alternativa? Non è che voglia tirarmi indietro, però sai… dopo quello che è successo l’ultima volta, adesso io… ecco… sì, insomma… non credo di sentirmi pronto”

“Cosa stai cercando di dirmi, forse non ti è piaciuto?” chiese lei, mentre stava scartando un bisturi sterile monouso.

“Beh… non esattamente, non direi che non mi è piaciuto… è solo che…è solo che non sono dell’umore più adatto, non vorrei che poi le cose non andassero nel modo giusto…”

“Stai dicendo un sacco di cazzate” lo interruppe lei, “in ogni caso, e mi sembra anche più giusto, sarà il tuo amico con la pancia bucata a darmi quello che voglio”

Labbra di Cuoio cominciò ad operare Cuore di Pietra, e dopo aver estratto la pallottola con delle pinze chirurgiche prese a cucire la ferita. Gamba di Ferro sembrò sollevato, “mi sembra più che ragionevole” chiosò.

“Bene, allora siamo d’accordo, qui ho quasi finito, dopo che avrò terminato il bendaggio portalo nella camera degli ospiti e mettilo a letto. Ha perso molto sangue e dovrà riposarsi per qualche giorno, mi prenderò cura io di lui.”

Gamba di Ferro eseguì senza fiatare, e dopo aver finito se ne andò alla svelta.

Passarono pochi giorni e Cuore di Pietra si sentiva già meglio. Le amorevoli cure della sua infermiera privata erano un toccasana.

Lei decise allora che era giunto il momento di rivendicare la propria ricompensa.

“Allora giovane, raccontami, perché ti chiamano Cuore di Pietra?”

Lui sorrise orgoglioso: “Perché sono uno spietato bastardo senza scrupoli e insensibile”

“Non si direbbe, guardandoti in faccia” disse lei, poco convinta.

“E tu? Perché ti fai chiamare Labbra di Cuoio?”

“Sei proprio sicuro di volerlo scoprire?”

“Certamente, mi sono sempre chiesto perché una così bella signora avesse un così sinistro nomignolo”

“Ho avuto qualche problema con la giustizia in passato, per colpa del mio ex marito”

“Non sapevo fossi divorziata”

“Non lo sono infatti. Sono vedova”

“Mi spiace, come è successo?”

Lei sorrise in modo strano, i suoi occhi si dilatarono.

“Tu fai troppe domande giovane, perché non parliamo di te invece: a parte prendere pallottole nella pancia, cosa fai nella vita, abitualmente?

“Sono un fuorilegge, un killer”

“Con quella faccia?”

“Certo, perché? Cosa non va con la mia faccia?”

“Non sembra la faccia di un assassino”

“E come dovrebbe essere la faccia di un assassino? Per come vanno oggi le cose, un killer può nascondersi dietro la faccia di chiunque”

“Devo dire che su questo hai proprio ragione” convenne la donna, esibendo un sorriso crudele.

“Ora bevi questo, ti farà bene” aggiunse, porgendogli un calice pieno di uno strano liquido effervescente.

Cuore di Pietra bevve tutto senza fare obiezioni. Si fidava della bella e misteriosa veterinaria che per curarlo si era fatta infermiera.

La stanza intorno a lui però iniziò a girare, una strana sensazione di torpore si impadronì del suo corpo già debilitato, vide la donna indossare dei guanti di lattice e poi perse i sensi.

Lei lo aveva sedato ed era pronta a prendersi ciò che voleva.

Quando Cuore di Pietra riprese i sensi non era più sdraiato nel letto della camera degli ospiti. Ora si trovava in uno scantinato, nudo come un verme, in piedi, piegato in avanti, con testa e braccia infilate in una gogna medioevale di legno vecchia di secoli, ormai più dura del ferro, e dalla quale non vi era modo di liberarsi.

Davanti a lui poteva scorgere distintamente due figure: sulla destra, appoggiato su di una mezza colonna greca, vi era un busto in marmo a dimensioni naturali di Iosif Stalin; sulla sinistra c’era Labbra di Cuoio con indosso un camice da infermiera che lo fissava in modo oscuro. In quel momento gli sembrò particolarmente grossa e nerboruta, un donnone dalla mole minacciosa. Dietro di loro, appesa alla parete come fosse un prezioso arazzo, vi era una gigantesca bandiera rossa dell’Unione Sovietica.

“Bene bene, ora vedremo se sei veramente un duro, come il tuo ridicolo nomignolo suggerirebbe, o se invece, più probabilmente, sei solo il solito patetico sbruffoncello che si sente forte maneggiando pistole di piccolo calibro” disse lei avvicinandosi lentamente.

“Liberami subito, non hai nessun diritto si tenermi intrappolato in questa gogna di merda, chi cazzo credi di essere?” protestò lui.

Labbra di Cuoio lo colpì con uno schiaffo energico.

“Non voglio illuderti giovane, qui sotto saremo molto felici, io e la mia amica Charlene” disse mostrandogli il grosso coltellaccio militare che teneva nella mano sinistra, “ma per te saranno dolori e sofferenze. Quindi se vuoi uscirne vivo cerca di essere collaborativo e non rompermi i coglioni. Sono stata abbastanza chiara?”

Cuore di Pietra osservò esterrefatto, prima il grosso coltello, poi la faccia crudele di quel mostro di donna.  In un attimo comprese due terrificanti verità. La prima era che si trovava imprigionato senza scampo e in grossi guai. La seconda era che la sua carceriera, Labbra di Cuoio, era pericolosamente pazza.

Il coltellaccio, oltre che grosso era anche molto affilato. Lui lo capì immediatamente, quando lei inizio a radergli a secco i capelli. Lei lo sapeva maneggiare discretamente bene, ma la cute era delicata e si tagliò in più punti. Poteva sentire rivoli di sangue colargli lungo la fronte e sulla faccia e di lato sul collo. Era una sensazione spaventosa e si sentì il cuore trafitto da una saetta d’orrore. Tuttavia cercò di restare immobile, e soprattutto non disse nulla. Pensò soltanto che forse sarebbe stato meglio morire dissanguato con una pallottola nelle budella qualche giorno prima, piuttosto che sottoporsi alle torture di quel demonio.

“Ora che ti ho rasato per bene i capelli sei veramente tutto nudo e indifeso, che ne dici?”

“I capelli ricresceranno” azzardò lui, con una vaga intonazione di sfida.

“Questo è vero, ma quello che ti taglierò dopo non ricrescerà”

“Cosa? Cosa hai detto? Non dirai sul serio vero? Non puoi farlo, ti prego, non lo fare, non ti ho fatto nulla di male, ti prego…”

“Beh che fai? Inizi già a piagnucolare come una scolaretta? Non abbiamo nemmeno iniziato e hai già perso tutta la tua dignità? Sei proprio una mezza sega…”

Cuore di Pietra non rispose. Il suo orgoglio era ferito, come la sua testa. Ma era il panico a farsi largo nella sua mente mentre si chiedeva cosa lei avrebbe tentato di amputargli. Poi la vide allontanarsi e per qualche secondo si sentì meglio.

La donna si avvicinò ad una sedia dove erano piegati i vestiti insanguinati di Cuore di Pietra e dai pantaloni avvizziti tirò fuori il portafogli e cominciò ad esaminarne il contenuto.

“Vediamo cosa possiamo scoprire sul nostro giovane qui” disse aprendo la carta d’identità, “hai già passato i quaranta a quel che dice questo documento, ne dimostri di più però, invecchi in fretta a quanto pare”

“Ho avuto una vita intensa”

“Certo, dite tutti così appena vi spuntano i primi capelli grigi e…ma…ma… e questo? E questo che cazzo è!?” urlò brandendo nella mano una tessera di plastica.

Il volto della donna si fece cinereo, il cipiglio si rabbuiò. Andò verso di lui con passo rapido, sembrava furente. Cuore di Pietra cercò di sottrarsi ma era immobilizzato nella gogna e non poteva sfuggirle. In un attimo fu sopra di lui con la faccia rubiconda per l’ira, i tendini del collo in rilievo ed una grossa vena che le pulsava nel centro della fronte.

“Brutta burba figlio di puttana, vuoi dirmi che cazzo è questa?” lo aggredì mettendogli sotto al naso la tessera del PD che aveva trovato nel suo portafogli.

“Ma come… perché ti arrabbi? Pensavo che anche tu fossi di sinistra…”

Lei lo colpì al volto, con un pugno questa volta, un gancio destro, duro come una sassata.

“Chiudi quella fogna, luridissima burba!” gli urlò in faccia, “non ho nulla da spartire con voi traditori globalisti al soldo dell’usura cosmopolita e apolide”

“Non capisco cosa vuoi dire?” disse lui confuso

“Non capisci?” chiese lei, e lo colpì con un sinistro micidiale, fratturandogli il setto nasale.

Cuore di Pietra gemette per il dolore, e cominciò a sanguinare anche dal naso rotto.

“ll PD è il partito delle banche” spiegò lei, “Il PD tutela sempre e solo gli interessi della grande finanza disprezzando i ceti medi, la piccola impresa e i lavoratori delle fabbriche, i precari e i disoccupati. Il PD è il partito che tutela l’interesse transnazionale, apolide e cosmopolita della massoneria globalista che mira a dominare il mondo, in modo che vinca sempre e solo il libero mercato ed il nuovo ordine mondiale. il PD è il nemico principale del popolo e dei lavoratori. Non c’è nulla di più distante dagli interessi del lavoratore delle politiche del PD. Al lavoratore non gliene importa un cazzo che ci sia il matrimonio omosessuale. Al lavoratore interessa avere un salario dignitoso, la sanità garantita, la possibilità di farsi una famiglia e mandare i figli a scuola. Il PD e le sinistre arcobaleniche hanno tradito quelli che un tempo erano i diritti sociali per i quali combatteva il Partito Comunista di Stalin e Togliatti.”

Ci furono alcuni secondi di silenzio.

“Ora hai capito schifoso liberasta?” lo incalzò lei squarciando il silenzio, e brandendo nuovamente il coltellaccio con la mano sinistra.

Cuore di Pietra non sapeva cosa dire, in fondo della politica non gli importava niente, non andava a votare da almeno vent’anni e aveva fatto la tessera del PD solamente per poter ottenere più facilmente il reddito di cittadinanza, o almeno così aveva creduto. Mai avrebbe pensato di rischiare la vita per questo.

Labbra di Cuoio cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro passandosi il coltello da una mano all’altra in modo isterico. Sembrava una belva in gabbia, un filo di bava bianca le fuoriusciva da un angolo della bocca.

Lui la osservava atterrito, aspettandosi il peggio da un momento all’altro.

All’improvviso lei si quietò, sul volto le apparve un’espressione rilassata e vagamente assente, sembrava quasi che fosse precipitata in uno stato catatonico. Rimase così, immobile, con lo sguardo fisso nel vuoto e il coltellaccio stretto nella mano sinistra per un periodo che lui percepì come infinito.

Alla fine la donna si riprese, si riavviò i capelli e sculettando platealmente attraversò tutto lo scantinato sino a raggiungere una polverosa libreria stipata di vecchi libri ed antichi cimeli di epoca sovietica. Armeggiò con quelle strane anticaglie per diverso tempo. Cuore di Pietra non poteva vederla perché la libreria si trovava dietro la gogna, ma sentiva strani rumori come di oggetti di legno e ferro che venivano spostati.

Quando tornò da lui non aveva più il coltellaccio. Ora teneva tra le mani un grosso ed inquietante manufatto di ebano scuro. Cuore di Pietra non comprese subito che cosa fosse, ma poi, dopo un’analisi più attenta realizzò che si trattava della riproduzione in scala ridotta di una grottesca ghigliottina.

“Ti piace?” chiese lei, accartocciando la faccia in un ghigno osceno tra il sadico ed il sarcastico.

“E’ troppo piccola per infilarci una testa” osservò lui.

“Sei perspicace giovane. Ma la tua brutta testa di cazzo non mi interessa. Nella mia collezione di arti ci sono solo piedi, dita e mani. Comunque non temere, sentirai solo un momento di dolore. Sarà forte non lo nego, ma breve. Poi sarà tutto finito, cerca di concentrarti su questo pensiero.”

“No!” implorò lui. “Ti prego… qualsiasi cosa tu abbia in mente discutiamone, ti scongiuro… per amor di Dio…”

Lei sollevò la ghigliottina agganciandola alla gogna medievale, proprio in corrispondenza della sua mano destra, di modo che l’arto restasse immobilizzato nel collare del marchingegno in ebano.

“No!” gridò. “Ti supplico non lo fare, farò tutto quello che vuoi! Sarò il tuo servo, sono pronto a tutto ma non tagliarmi la mano, ti prego… Ti supplico!”

“Andrà tutto bene” assicurò lei, “non è la prima volta che lo faccio, puoi credermi.”

Dopo essersi assicurata che la ghigliottina non potesse più muoversi, stringendola forte alla gogna con delle cinghie ben strette, andò nuovamente ad armeggiare vicino alla libreria, tornando poi con un cannello a gas propano.

“Questo servirà per cauterizzare il moncherino” gli spiegò sorridendo compiaciuta.

Cuore di Pietra era disperato, sudava freddo e cercava inutilmente di liberarsi agitandosi con tutte le sue forze, ma senza ottenere altro risultato che escoriarsi la pelle del collo e delle braccia in prossimità dei polsi.

“Ancora un minutino e sarà tutto pronto giovane” promise lei, mentre svitava il tappo ad una bottiglia d’olio d’oliva extravergine, con il quale avrebbe lubrificato i due montanti tra i quali scorreva la lama d’acciaio a forma di trapezio e rinforzata con un peso metallico per aumentarne la massa.

“Giovane, lo sapevi che cadendo da un’altezza di circa 2,25 metri, la lama di una ghigliottina a dimensioni reali raggiunge la velocità di 24 km/h quando si abbatte sul collo del condannato?”

“Oh ti prego, ti supplico no, non farlo, per amor del cielo chiedimi qualsiasi cosa vuoi e io la farò, dammi una possibilità non ti deluderò lasciami fare il tuo schiavo e vedrai come sono bravo… vedrai… vedrai…”

“E lo sapevi che dopo la decapitazione la testa mozzata resta cosciente per almeno trenta secondi? Lo hanno dimostrato, con degli esperimenti e poi ci sono anche molte testimonianze…”

“Oh ti prego non farmi male ti prego non tagliarmi la mano, ti supplico…”

Una luce perversa le balenò attraverso gli occhi malvagi mentre rimuoveva il fermo azionando la ghigliottina.

La lama scese sibilando e si conficco nel braccio di Cuore di Pietra, appena dopo il polso. Il dolore esplose incontrollabile. Un getto di sangue scuro spruzzò la faccia della donna ed il camice bianco da infermiera. Si sentì la lama cigolare contro le ossa del polso quando lei cercò di disincagliarla: si era inceppata senza terminare il lavoro.

Lui osservò incredulo la sadica infermiera armeggiare con l’attrezzo, per un momento incrociò il suo folle sguardo, e vide con chiarezza il volto della pazzia.

Istintivamente ritrasse l’arto ferito ma si rese conto che stava spostando il braccio ma non la mano: riusciva solo ad ampliare lo squarcio dilatando la ferita ed amplificando il dolore.

Lei terminò allora l’operazione passando il braccio da parte a parte con il coltellaccio, segando via la mano dal polso. Quando cadde sul pavimento della cantina un suono flaccido risuonò nella stanza.

Cuore di Pietra aveva la testa intrappolata nella gogna, ma poteva vedere la sua mano abbandonata sul selciato, con le dita che ancora si muovevano in deboli spasmi.

Il braccio mozzato invece era libero, senza più la mano lo aveva sfilato dalla gogna e lo muoveva senza senso in ogni direzione spruzzando ovunque fiotti di sangue. E intanto piangeva ed urlava.

Ed urlò ancora più forte quando lei, dopo avergli afferrato l’arto amputato, investì la ferita sanguinante con la fiamma viva del cannello a gas.

Salirono fumo nell’aria, e puzzo di bruciato e le urla disperate di Cuore di Pietra.

Prima che lei avesse terminato lui era già svenuto, privato delle forze, della dignità e della mano destra.

“Da oggi non sei più un cuore di pietra. Tutti ti chiameranno mano di legno” disse ridacchiando l’infermiera sadica, mentre aggiungeva un nuovo pezzo alla sua collezione di arti amputati dentro al congelatore a pozzetto.

Poi si fece una doccia per lavarsi via il sangue, si asciugò i capelli e stappò una bottiglia di Ortrugo Frizzante della sua marca preferita.

Concluse la giornata sprofondata sul divano a guardare la sua serie TV preferita e bevendo vino.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2020 racconti-brevi.com

Infermiera sadica

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Locandiera sadica

Locandiera sadica

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Un fastidioso musicista giunge in piena notte alla Locanda della Luna Nera, sulle colline del piacentino. Le sue continue pretese metteranno a dura prova la pazienza della locandiera sadica, rimasta sveglia per aspettarlo…

Pubblicato su Typee, per leggere il racconto clicca qui

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2018 racconti-brevi.com

Lezioni private

Lezioni private

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Era una fredda e buia notte d’inverno, fuori nevicava da alcune ore e non si vedevano nemmeno le stelle, nascoste da una spessa coltre di nuvole nere come la pece.

Al tepore di un caminetto acceso, comodamente sdraiata sul divano in soggiorno, Gilda scaldava il suo giovane corpo sotto le coperte, e nutriva l’animo esuberante leggendo sadici racconti dell’orrore con il suo tablet.

Gilda era una ragazza sensibile: una poetessa. Scriveva conturbanti versi d’amore e passione, fantasticando a proposito di trasgressive avventure con uomini sconosciuti.

Un brivido di eccitazione la pervase quando navigando sul blog di un anonimo scrittore di indecenti racconti erotici lesse uno strano annuncio che colpì la sua fantasia: “LEZIONI PRIVATE, SADICO PROFESSORE OFFRE CONSULENZA TELEFONICA A STUDENTESSE REMISSIVE, OBBEDIENTI E TENDENZIALMENTE MASOCHISTE”

Seguiva il numero di telefono e l’indirizzo email.

Passò molte ore a domandarsi che aspetto, età e nome potesse avere questo misterioso e sadico professore. Poi si sconvolse nel scoprire quanto questi pensieri, unitamente ad altri molto più maliziosi, l’avessero turbata. Era quasi l’alba quando, dopo una notte insonne, decise che gli avrebbe telefonato.

Nel tardo pomeriggio del giorno dopo, appena rientrata dall’università dove anziché seguire le lezioni aveva passato tutto il tempo a fantasticare a proposito delle consulenze promesse dall’annuncio, si fece coraggio e compose il numero.

Il telefono la lasciò in attesa per alcuni interminabili secondi, poi finalmente qualcuno rispose

“Chi parla?” domandò una voce virile, calda e sensuale.

“Io.. ecco.. si.. cioè..mi chiamo Gilda” disse lei arrossendo.

L’uomo rimase in silenzio a lungo, lei poteva sentire il suo respiro calmo e calcolatore, mentre un’ondata di emozioni contrastanti le facevano accelerare le palpitazioni del cuore.

“Chiami per l’annuncio?” chiese lui alla fine, con tono severo.

“Sì” sospirò lei, sempre più agitata

“Sei consapevole delle conseguenze?”

Gilda fu scossa da un fremito di paura. Non aveva considerato che potessero esserci delle conseguenze ed ora si sentiva in pericolo.

“Ecco… io.. non.. non ci ho pensato” ammise con un filo di mestizia nel finale.

“Stupida stronzetta insolente, come osi chiamarmi se nemmeno capisci o sei consapevole di quello che stai facendo?”

Gilda avvampò per la vergogna: la sentenza senza appello di quella voce era come uno schiaffo sul viso.

“Ma.. ma io.. non credevo..”

“Stai zitta! Chiudi quella fogna di bocca, ascoltami attentamente e parla solo se interrogata. Hai capito?”

“Sì” riuscì a dire lei, deglutendo.

“Quando mi rispondi, devi sempre rivolgerti a me con il titolo che mi spetta, riesce la tua zucca vuota a capire questo?”

“Sì.. professore” disse lei, mentre un leggero tremolio le aveva preso le gambe.

“Tu hai bisogno del mio aiuto, questo lo capisco: se ti fossi rotta un piede andresti da un ortopedico. Se tu avessi problemi alla vista ti rivolgeresti ad un oculista. Ma tu sei una piccola, debole, scellerata masochista e quindi, giustamente, ti rivolgi a qualcuno che capisca la tua natura malata e sia in grado di curarti. Hai bisogno di una guida, di qualcuno che decida per te, perché tu da sola non sei nemmeno capace di andare al cesso, non è forse vero?”

Gilda iniziò a piangere in silenzio. Lui la stava umiliando con violenza e lei non era capace di reagire, anzi nemmeno lo desiderava. Sentiva nel profondo del suo animo di condividere l’inquietante verità che lo sconosciuto le stava buttando in faccia: sentiva il bisogno di una persona che la guidasse per mano lungo la complicata strada della vita.

“Non ho ragione? Rispondi capra!” ordinò la voce in modo perentorio.

“Sì professore, è vero, ho bisogno di aiuto” ammise lei, rompendo la voce in un pianto disperato.

“Smetti subito di piangere cretina. Se vuoi che ti aiuti dovrai imparare a controllarti e seguire le mie regole. Regola numero uno: devi fare tutto quello che ti dico. Regola numero due: devi essermi grata e adorarmi per tutto quello che ti insegnerò. Regola numero tre: dovrai pagarmi, cinquanta euro per ogni conversazione telefonica. Userai Paypal e manderai i soldi al mio indirizzo email. E’ tutto chiaro stupida stronza?”

“Sì professore”

“Bene. Questa notte dormirai distesa sul pavimento, con solo una coperta. Poi mi manderai 100 euro e domani mi chiamerai alle 21:00 per cominciare le lezioni private”, ordinò, poi chiuse la conversazione.

Gilda era sotto shock. Andò in camera sua senza cenare, per dormire sul pavimento con solo una coperta addosso.

Sentiva freddo, ma degradarsi in quel modo la fece stare bene. Non riuscì ad addormentarsi, ma nel lungo dormiveglia immaginò che il professore sadico fosse giovane e bellissimo e che si prendesse cura di lei con dolce ma risoluta fermezza.

Dopo dieci giorni e 700 euro spesi, Gilda si era innamorata. Lui l’aveva in pugno, l’aveva soggiogata ed esercitava su di lei un assoluto controllo.

Era un sabato sera, l’aria era pulita e nel cielo erano tornate a vedersi le stelle. Per il primo appuntamento dal vivo con lui, Gilda aveva ricevuto precise disposizioni. Indossava una minigonna cortissima di cotone nero, scarpe con il tacco alto, calze a rete da battona di periferia ed una giacca nera di pelle.

Come le era stato ordinato arrivò puntuale alle ore 21:00, a bordo del suo motorino, presso l’agriturismo Piacenza, sulle colline di Vicobarone, nel piacentino. Si era mezzo assiderata e tremava come una foglia per il freddo e per l’agitazione: stava per incontrare il suo amato professore sadico.

La vecchia titolare dell’agriturismo accompagnò Gilda alla sala dei giochi, e la lasciò davanti alla porta allontanandosi sorridendo in modo perverso.

Oltre l’uscio l’aspettavano la perdizione e le infinite tentazioni del demonio.

Un gelido vento soffiava da nord: puzzava di sterco di vacca. Gilda si fece coraggio, aprì la porta ed entrò.

Il professore stava seduto su di una poltrona al centro della stanza: era un tipo tosto, indossava un abito elegante e delle belle scarpe, i capelli erano color argento con il volto nascosto da una maschera che gli lasciava scoperta la bocca carnosa e dal taglio crudele. Dalle labbra pendeva un sigaro acceso dal quale salivano nuvole di fumo puzzolente. Gli ultimi due bottoni della camicia di seta erano aperti e si intravedevano i peli del petto, lunghi e disgustosi.

Dietro di lui quattro robusti ragazzi scandinavi con grossi muscoli di varia misura  tenevano in mano calici colmi di vino rosso Gutturnio.

“Vieni qui, vicino a me, Gilda” ordinò il professore.

Lei si avvicinò tremante, ondeggiando sui tacchi altissimi. Era ben fatta, molto ben fatta.

Lui la prese per mano, poi la pizzicò sulle guancia.

“Avanti stronzetta, racconta a questi miei giovani amici cosa hai imparato”

“Questa ragazza ha scoperto quale sia il suo posto nel mondo, professore” disse Gilda inginocchiandosi in una posizione goreana: seduta sui talloni, con la schiena dritta e il petto in fuori, lo sguardo rivolto verso il basso e la mani incrociate dietro la schiena. Le gambe erano divaricate  oscenamente offerte alla vista dei presenti.

“Vai avanti, cos’altro ti ho insegnato?”

“Questa ragazza è una schiava senza diritti, un pezzo di carne a disposizione del suo padrone, pronta a soddisfare qualsiasi suo volere. Questa ragazza obbedisce a tutti gli ordini che riceve dalle persone libere, professore”

“Eccellente Gilda, ora dimmi, dove hai dormito questa notte?”

“Nella mia cuccia Professore, ai piedi del letto, sul pavimento” disse la ragazza, arrossendo per la vergogna.

“E per quale motivo ti ho ordinato di dormire dentro ad una cuccia per cani?”

“Perché sono una stupida cagna, professore” sussurrò lei, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

“Non piangere stronzetta” le disse lui dandole uno schiaffo, “se non vuoi che ti dia un serio motivo per piangere, smetti subito”

“Sì, professore”

Lui allora si alzò in piedi, prese da un tavolino vicino alla poltrona un grosso collare di pelle e lo legò intorno al collo della ragazza. Dopo averlo stretto sino a farlo aderire alla pelle della giovane lo chiuse con un pesante lucchetto.

“Ecco, poiché sei una schiava ed una cagnetta da addestrare, d’ora in avanti dovrai portare questo collare, simbolo della tua sottomissione e della tua condizione di inferiorità”

“Sì professore”

I giovani culturisti intanto ridevano divertiti dallo spettacolo, continuando a bere vino Gutturnio. Ne avevano aperte diverse bottiglie e ci davano dentro. Le loro facce erano inquietanti, tutte tirate a lucido e sbarbate come il culo di un neonato. Avevano l’alito maleodorante e gli occhi psicotici.

“Adesso ascoltami attentamente stronzetta: vedi questi grossi giovanotti biondi che stanno ridendo di te?”

“Sì, li vedo, professore” disse lei, sempre più umiliata.

“Hai una vaga idea del perché siano qui?”

“Immagino di sì, professore”

“Bene, voglio allora che tu faccia felici questi quattro vichinghi. Sono in ritiro precampionato da un paio di mesi, ed hanno tutto il diritto di divertirsi un po’ con te…”

“Sì professore” disse Gilda senza troppa convinzione, ora aveva anche un po’ di paura.

I quattro scandinavi intanto l’avevano circondata e quello più vicino si chinò a baciarla. Lei aveva la bocca aperta e umida. Un secondo ragazzone la sollevò, e insieme la trascinarono dietro ad un tavolo di legno massello tutto infarinato.

Poi la costrinsero a preparare diciotto chili di tagliatelle tirando la pasta a mano con il solo ausilio di un mattarello.

Il professore si godette la scena fumando il sigaro, bevendo Gutturnio, e commentando con osservazioni sprezzanti le prestazioni culinarie della sua giovane schiava. E mentre i quattro ragazzi  con grossi muscoli di varia misura costringevano Gilda a preparagli la cena, lui sogghignava crudele.

“Un’altra anima è perduta” pensò con soddisfazione malvagia.

Quando tutto fu finito, lei rimase accasciata ed ansimante sul tavolaccio di legno sfinita dalla fatica e dall’umiliazione, con le mani rovinate dalle vesciche e la schiena a pezzi.

Solo a notte fonda finalmente tornò a casa. Si sentiva avvilita, sporca di farina, svuotata, depressa. Anche se in parte si sentiva attratta da queste cose, la sua coscienza le diceva che erano sbagliate. Desiderava assecondare il professore sadico, ma essere umiliata in modo così estremo la faceva soffrire.

Cominciò a piangere presa dallo sconforto più nero, schiacciata dal peso psicologico rappresentato dal collare che lui le aveva stretto attorno alla gola.

Si ricordò allora di quando era bambina e sua zia la portava in pellegrinaggio al santuario della Madonna della Quercia vicino a Bettola. Il pensiero di quell’età di innocenza, devozione e cose belle, la spinsero a cercare nuovamente conforto nella preghiera e nella fede. E così un fuoco caldo e misterioso improvvisamente le scaldò il cuore.

Il giorno dopo si svegliò serena e felice, e determinata a cambiare vita.

La Gilda che aveva vissuto nel peccato, la schiava del dissoluto professore non esisteva più. Con delle grosse tenaglie trovate in cantina tranciò il lucchetto che chiudeva il collare del malvagio professore sadico, liberandosene per sempre.

Da quel momento si dedicò all’aiuto del prossimo facendo opere di bene nella sua parrocchia e scrivendo poesie sulla purezza dell’amore. E finalmente si sentì amata, appagata, e felice.

Pochi anni dopo si innamorò di un bravo ragazzo timorato di Dio, lo sposò e insieme misero al mondo tanti bei bambini.

Il professore che dava lezioni private invece fu consumato dalla rabbia e dall’odio: non poteva sopportare che l’anima perduta di una giovane viziosa e lasciva si fosse redenta, salvandosi dalle fiamme della geenna. Quelle stesse fiamme infernali che lo stavano divorando da ormai più di ottocento anni.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Giochi Perversi

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Avvertenze

Nel presente racconto sono descritte scene di violenza estrema. Il linguaggio utilizzato è brutale, volgare ed osceno. La lettura è sconsigliata ai soggetti più sensibili e severamente vietata ai minori di anni 18

 

Capitolo primo: Il Professore

 

Lo chiamavano il Professore e tutto in lui era perverso: lo sguardo, la condotta dissoluta ed i pensieri malvagi.

“Ho voglia di rilassarmi, vieni qui e massaggiami i piedi” ordinò rivolgendosi a Mandingo, il suo schiavo svedese, dopo essersi tolto le scarpe.

Mandingo non piaceva massaggiare i piedi al suo padrone, anzi più spesso lo disgustava, soprattutto a fine giornata, quando i piedi del Professore erano stanchi, sudati e facilmente puzzavano. Ma era uno schiavo sottomesso ed ubbidiente ed eseguì gli ordini senza protestare.

“Il mondo là fuori è una vera merda, sono tutti pazzi” osservò il Professore accendendosi un sigaro, comodamente sprofondato nella sua poltrona in pelle nera.

Mandingo annuì con la testa, inginocchiato tra le gambe del suo padrone, mentre con le mani si dava da fare massaggiandogli i piedi.

“Non si può nemmeno andare al centro commerciale senza correre il rischio di essere rapinati per strada, oppure investiti da un camion guidato da qualche fottuto terrorista, o ancora trovarsi invischiati in qualche discussione con un vicino di casa nevrotico o qualche donna inacidita, aggressiva e insopportabile. Tu che ne pensi Linda?”

Linda arrossì, senza sapere cosa rispondere: era una schiava bianca e raramente poteva esprimere le sue opinioni. In quel momento era nuda, inginocchiata alla destra del padrone e reggeva tra le mani un grosso posacenere di cristallo. Aveva da poco compiuto 17 anni ed era stata acquistata dieci anni prima in un accampamento di zingari.

“Ti ho fatto una domanda” disse il professore pizzicandole una gamba.

Linda abbassò lo sguardo e si morse le labbra, lasciandosi sfuggire un gemito.

“Se non mi rispondi ti dovrò punire, stupida stronzetta ignorante”

“Sono tutti pazzi, il mondo là fuori è orribile, soprattutto le donne aggressive e insopportabili” disse lei timidamente, tutto di un fiato, tremando per la paura e avvampando per la vergogna.

Il Professore sorrise compiaciuto, Linda era una schiava perfettamente addestrata, la migliore che avesse mai posseduto.

Poi allontanò Mandingo, spingendolo via con fare stizzito. Oramai era piuttosto avanti con gli anni, e si annoiava velocemente. Il suo schiavo scandinavo, per quanto si potesse impegnare, per quanto fosse giovane, atletico e muscoloso, non sarebbe mai riuscito a massaggiargli i piedi nel modo giusto, nemmeno andando avanti per una intera settimana di fila.

“Mi sembri in forma oggi, voglio che ti prepari, questa sera parteciperai ai giochi”.

La faccia di Mandingo si contrasse allora in una smorfia piuttosto preoccupata.

“Ti ho iscritto ai giochi di Lady Circe” concluse il Professore, mentre un sadico ghigno crudele gli si abbozzava sulla faccia rugosa.

La preoccupazione sul volto di Mandingo repentinamente scomparve, per lasciare posto ad autentico panico.

 

Capitolo secondo: il Castello di Lady Circe

 

Arrivarono al castello di Lady Circe quando il sole era calato da un pezzo e nel cielo senza luna le stelle brillavano astute, sopra la coltre di nebbia che copriva la valle.

Lady Circe era una padrona misteriosa ed esigente. Si era da poco trasferita sulle colline del piacentino, dopo aver fatto ristrutturare un fatiscente castello abbandonato. La sua dimora era ora nuovamente sontuosa e sinistramente lugubre, grazie al sapiente recupero in stile tardogotico.

Il Castello era avvolto dalla nebbia e dalle alte e nere finestre non traspariva raggio di luce alcuno.

Il Professore ed i suoi schiavi furono accolti all’ingresso da Franchino, il maggiordomo.

Era un uomo di alta statura, con una lunga barba scura ed un gran cappello nero in testa, che in parte gli copriva il volto. Salutando gli ospiti mostrò per un attimo due piccoli occhi brillanti, che alla fioca luce delle fiaccole poste ad illuminare il tetro ingresso, sembrarono di colore rosso. Sorridendo aveva anche esibito una bocca dal taglio duro con piccoli denti gialli anneriti dal tempo. L’alito emanava un fetore di morte e gli sudavano visibilmente le ascelle.

La grande porta, con strepitio assordante e gran clangore di pesanti catene, si chiuse alle loro spalle, e Franchino accompagnò gli ospiti attraverso un ampio ed alto corridoio avvolto dall’oscurità, con pareti sorrette da slanciati archi a sesto acuto.

Il gruppo poteva avanzare grazie solo ad una piccola fioca luce proveniente da una vetusta lucerna d’argento, che Franchino teneva ben salda nella mano ossuta.

Scesero lungo un grande scalone al piano inferiore e poi percorsero un altro corridoio sul cui pavimento di pietra i loro passi riecheggiarono cupi. Attraversato anche questo, Franchino aprì un pesante uscio di rovere nero, ed accompagnò il Professore ed il suo seguito nel salone dei giochi.

Anche questa stanza era semiavvolta dall’oscurità, ad eccezione della flebile luce proveniente dai bracieri lungo le pareti, e dal gigantesco camino nel quale fiammeggiava un gran fuoco, che scaldava un poco il tenebroso ambiente circostante.

La sala dei giochi era riccamente addobbata con tendaggi e arazzi realizzati con le stoffe più raffinate e preziose, probabilmente vecchie di secoli, ma ancora in ottimo stato.

Gli altri invitati erano già tutti arrivati e stavano animosamente conversando seduti sulle panche disposte a guisa di spalti intorno ad un ring appositamente allestito al centro della stanza.

Il Professore si diresse subito verso il palchetto reale per salutare Lady Circe, la padrona del castello che aveva organizzato i giochi e lo aveva invitato.

“Lady Circe i miei rispetti” le disse accennando un inchino e porgendo la mano.

Lei l’afferrò con un tale vigore da farlo sobbalzare, e con una mano fredda come il ghiaccio, più la mano di un morto che di un vivo.

“Benvenuto Professore, è un grande piacere per me incontrarla nuovamente e poterla ospitare in questa mia antica dimora, riportata a nuovo splendore”

Il Professore rispose con un leonardesco ed enigmatico ghigno, senza dire nulla, ansioso di sottrarsi alla presa della donna.

Lady Circe era una bella signora di mezza età, bionda come più non si può essere, con grandi masse di capelli ondulati color dell’oro. Era nerovestita da capo a piedi, senza altra macchia di colore in tutta la persona. Il volto era grifagno con un naso sottile e sporgente, la bocca carnosa e morbida, dal taglio segnatamente crudele, con candidi denti bianchissimi ed aguzzi, che scintillavano come perle sulle labbra voluttuose e rosse come il sangue. Le gote erano magre e gli occhi coperti da spessi occhiali da sole, la cui montatura nera contrastava in modo impressionante con lo straordinario pallore del viso.

“Non mi presentate i vostri amici Professore?” chiese Circe, guardando i sottomessi che stavano due passi dietro al loro padrone con la testa china e lo sguardo umilmente rivolto al pavimento.

“Essi sono i miei schiavi” disse il professore senza nascondere il proprio orgoglio, “lui si chiama Mandingo, mentre lei è Linda”

Lady Circe osservò con finto interesse i due giovani: Mandingo indossava solamente una sottofascia costituita da una striscia di lino, una sorta di semplice perizoma avvolto intorno alle cosce e allacciato alla vita. Il suo corpo muscoloso era in questo modo offerto alla vista dei presenti, lasciando poco spazio all’immaginazione. Linda era invece vestita come una scolaretta giapponese, con una oscena minigonna inguinale, una magliettina di cotone semitrasparente ed i capelli nero corvino tagliati a caschetto.

Gli altri ospiti di Lady Circe erano piuttosto inquietanti, facce da galera inespressive, truffatori, specialisti in espedienti e sotterfugi, dominatori con i loro schiavi al seguito, alcolizzati, ludopatici e rifiuti umani di varia natura. Il Professore si guardò attorno provando disagio e fastidio, poi si grattò il sedere e si diresse verso il bar.

Una bella morettina vestita da cameriera versò vino bianco, Ortrugo frizzante, in un paio di calici, poi ne offrì al Professore e ad un tizio raccapricciante, storpio e con la faccia devastata dall’acne che gli stava vicino.

“Piacere, mi chiamo Locusta e sono un poeta” si presentò lo storpio.

“Poeti e scrittori, sono tutta gente fallita, oppure pazza o più spesso entrambe le cose” disse il professore tracannando una gran sorsata di Ortrugo.

“Sono il più grande poeta vivente” precisò lo storpio “nessuno mi sta alla pari” aggiunse con un orgoglio bizzarro negli occhi.

“Vi conosco a voi poeti, vi piace discorrere di filosofia e dei massimi sistemi, ma siete tutti inconcludenti, feroci e narcisi”

“Si, ma io sono il migliore di tutti, meglio anche di Bukowski e Steno Cremona”

“E chi cazzo è Steno Cremona?”

“L’autore di 23, il romanzo definitivo del nuovo millennio”

“Dammi altro Ortrugo” disse il Professore alla morettina, sperando che lo storpio mollasse la presa.

“Nelle mie poesie parlo spesso del vino di questa cantina” disse Locusta indicando l’etichetta sulla bottiglia.

Il Professore non commentò, continuando a bere.

“Adesso però ho cambiato marca, ne ho trovata una migliore”

“E come si chiama?”

“Non me lo ricordo, ma sono ugualmente il più grande poeta vivente”

Il Professore tracannò un altro calice di vino, si fece riempire nuovamente il bicchiere e cercò di allontanarsi dallo storpio che iniziava a dargli sui nervi. Intanto sul tabellone elettronico appeso sulla parete più grande, andavano formandosi le accoppiate per la prima fase dei giochi.

 

Capitolo terzo: i combattimenti

 

“Come funzionano questi giochi?” domandò Linda

“Si tratta di combattimenti ad eliminazione diretta tra schiavi dello stesso sesso e il primo turno prevede uno scontro a mani nude” iniziò a spiegare il Professore.

“Mandingo è robusto e ha in passato già vinto parecchi incontri di questo tipo, tuttavia non è tra le teste di serie, quindi dobbiamo sperare che il sorteggio non lo costringa ad affrontare subito i favoriti: lo schiavo di Lady Circe, il temibile Pony-boy, o lo schiavo di Mistress Demonista, l’orribile Uomo Trota”

“Cosa succede se pesca subito uno dei favoriti” domandò ancora la ragazza sfoggiando un’ingenua espressione di sincera ignoranza.

“Succede che lo riempiono di botte e torniamo a casa presto” disse il professore terminando in una sadica e divertita risata.

Mandingo intanto fingeva indifferenza ma il suo faccione vichingo tradiva tutta la sua paura.

Ebbe fortuna, il responso delle urne era stato favorevole:

Pony-Boy contro Sweet Ganja

Leccapali contro Mani di Fata

Sperminator contro Mandingo

Uomo Trota contro Leatherface

“Molto bene Mandingo, Sperminator è un vero brocco, è assolutamente alla tua portata. Se riesci a passare il turno te la dovrai vedere con il vincente tra Uomo Trota e Leatherface” commentò soddisfatto il Professore.

“Chi sono quelli nella seconda metà del tabellone?” chiese ancora la giovane Linda.

“Quelle sono le schiave femmine: Little Slut contro Scarafaggio Ruth, Sluttern Honey contro Cunnilingus, Miss Piggy contro Puppy Doll e Donna Capra contro Bondagewoman”

“E chi sono le favorite tra le donne?” domandò Linda con un filo d’ansia nella voce, immaginando per un momento di essere un giorno anche lei costretta a combattere.

“La favorita è Donna Capra, la schiava di Lady Moralizzatrice, una temuta e spietatissima padrona: integerrimo funzionario dello Stato di giorno e implacabile e perversa dominatrice di notte” la informò lui con sadico compiacimento.

“E il divertimento consiste nel guardare questa gente che si prende a pugni?”

“Naturalmente, e poi ci sono anche le scommesse”.

Un vecchio sdentato si avvicinò allora tutto serio al Professore e gli disse: “voglio togliermi una soddisfazione prima di morire, ho simpatia per Leatherface e ho puntato 200 euro su di lui.”

“Uomo Trota è uno dei favoriti, mentre Leatherface ha perso gli ultimi tre incontri, non credo abbia speranze” obiettò il Professore.

“Staremo a vedere” disse il vecchio, e attese che iniziasse il combattimento.

L’Uomo Trota vinse al primo round. Leatherface era grosso e possente, ma lento, mentre l’Uomo Trota era svelto, agile, sfuggente: lo stese con un paio di diretti ben assestati sulla faccia ricoperta da una maschera grottesca di pelle nera che gli dava il nome.

Il pubblico intorno al ring intanto ondeggiava psichedelico, tutti assieme sembravano una gran massa di ipnotizzati, gridavano, tifavano, facevano le loro puntate mentre i combattimenti si susseguivano a ritmo incessante, uno via l’altro.  In circa un’ora si era concluso il primo turno, meno di 10 minuti ad incontro in media.

Il Professore aveva continuato a bere, era ormai alla terza bottiglia di Ortrugo ma lo reggeva bene.

Quasi tutti i favoriti avevano vinto, come era prevedibile. Unica eccezione Cunnilingus data per vincente 3 a 1 che si era fatta battere dalla esordiente Sluttern Honey data a 10.

Chi aveva puntato sui perdenti aveva adesso la faccia torva, la sconfitta stampata sul volto, la follia straripante dagli occhi stralunati.

Il vecchio sdentato era incazzatissimo, aveva puntato su Leatherface, Cunnilingus, e Mani di Fata. Tutti sconfitti. Ci aveva rimesso un migliaio di euro.

“Ma che diavolo, quella puttana di Cunnilingus si è fatta fregare da una principiante. Questi giochi andrebbero vietati, che io sia maledetto” ringhiò, tutto rosso in faccia. Sembrava sul punto di avere un infarto.

Il Professore si allontanò da lui per andare a ritirare una vincita. Aveva fatto una sola puntata di 500 euro su Donna Capra data 2 a 1. Avrebbe voluto puntare anche su Mandingo, ma era vietato scommettere sui combattimenti dove partecipavano i propri schiavi.

“Sono tutte delle mezze seghe effemminate, alcuni di questi rammolliti possono anche decidere di perdere deliberatamente, per paura di andare avanti” commentò un ciccione infervorato: il suo schiavo Sperminator aveva perso il combattimento proprio contro Mandingo.

Gli incontri del secondo turno furono anche più brevi. Si svolgevano con armi da taglio come spade o coltelli e alla prima ferita si veniva eliminati. Mandingo ci sapeva fare discretamente con il coltello, e in meno di sette minuti riuscì a rifilare un fendente sulla faccia di Uomo Trota. Ai fortunati che avevano puntato su di lui aveva fruttato un bel bottino, perché era dato per sfavorito e pagato 5 a 1. Ci furono anche delle proteste perché Uomo Trota aveva combattuto molto sotto i suoi standard abituali: forse per paura di arrivare alle semifinali, forse perché era stanco, oppure perché aveva bevuto troppo vino Gutturnio tra il primo incontro ed il secondo. Ad ogni buon conto Mandingo aveva superato la prima fase e adesso era terrorizzato.

“Avanti Mandingo, puoi farcela, sei forte, sei molto resistente ed hai una elevata capacità di sopportare il dolore” cercò di incoraggiarlo il Professore.

“Se resisti ed arrivi in finale, ti faccio fare un massaggio completo da Linda” gli promise.

Linda, che aveva anche bevuto un paio di bicchieri di bianco ed era un po’ alticcia, arrossì imbarazzata.

“Ho paura padrone” confessò Mandingo a voce bassa.

“Sei andato forte sino ad ora, perché hai paura?” chiese Linda.

“Le regole della seconda fase sono diverse” iniziò a spiegare il Professore, “Il sorteggio ha accoppiato Mandingo con Donna Capra e Pony-Boy con Little Slut.  Ma gli schiavi non combatteranno tra loro. No, se la vedranno con il dominatore del loro avversario sottoponendosi and una sessione BDSM senza limiti”

“E come funziona?”

“Lo schiavo che per primo pronuncerà la safe-word sarà eleminato. I dominatori devono rispettare una sola regola: non infliggere danni fisici permanenti agli schiavi. Per il resto possono disporre a piacimento dei loro corpi e delle loro menti”

“Ma è terribile” disse Linda lasciandosi sfuggire un piccolo rutto, dovuto al vino frizzante che aveva bevuto.

“Già proprio così” chiosò il Professore con un ghigno malvagio, pregustando il suo turno, quando avrebbe avuto la Donna Capra per le mani.

Mandingo invece sarebbe finito sotto le grinfie di Lady Moralizzatrice, e proprio per questo se la stava facendo sotto: la ferocia di quella dominatrice era leggendaria.

“Poteva andarti peggio” cercò allora di consolarlo il Professore, “potevi capitare con Pony-Boy ed affrontare Lady Circe.

Mandingo annuì, ma le parole del suo padrone non furono sufficienti a lenire la disperazione nel suo animo.

 

Capitolo quarto: Little Slut contro Pony-Boy

 

La prima a scendere in campo fu Little Slut. Era una debosciata ventiseienne bionda piuttosto esperta e ben addestrata dalla sua padrona australiana Miss Cane.

Correva voce che Little Slut fosse capace di lottare persino contro alligatori e canguri, ed in effetti aveva superato in scioltezza i primi due turni, dando prova di notevole forza fisica e padronanza delle arti marziali.

Aveva eliminato Scarafaggio Ruth in quattro minuti e Sluttern Honey in sette. Quest’ultima aveva abbandonato l’arena con un coltello conficcato nelle budella.

Ora però la musica era destinata a cambiare, perché avrebbe dovuto fronteggiare la malvagia Lady Circe.

Sul ring era stato portato un carrello a disposizione di tutti i dominatori con gli attrezzi e gli oggetti più pericolosi: aghi, spilli, pinze, vibratori, martelletti, fruste, lame, bisturi, chiodi, ganci, corde, cinghie e molto altro. Appositamente per Lady Circe furono portate una strana gabbietta di ferro ed un misterioso vaso di vimini chiuso con un coperchio di gomma.

Little Slut era in piedi al centro del ring con in dosso solamente delle piccole mutandine di cotone bianco. Era una bella e perversa ragazza nel fiore della giovinezza, e sembrava sicura di sé, per niente intimorita da ciò che l’aspettava.

Quando Lady Circe salì sul ring e le fu davanti, suonò il gong e partì il cronometro. Aveva esattamente 10 minuti di tempo per costringere Little Slut ad usare la Safe-word implorando pietà.

“Inginocchiati!” intimò Lady Circe.

Little Slut obbedì.

“Incrocia le braccia dietro la schiena, schifosa depravata!”

Little Slut eseguì senza protestare, anzi un sorriso malizioso le si disegnò sulla faccia.

Lady Circe le piazzò allora la gabbietta di ferro sulla faccia, legandola con delle corde intorno alla testa, di modo che la sottomessa non potesse allontanarla dal proprio corpo. La gabbietta era aperta su di un lato, che adesso aderiva perfettamente al volto grazioso della disgraziata.

Dalla parte opposta della gabbietta vi era invece uno sportellino. Lady Circe lo aprì.

Poi con lentezza teatrale si avvicinò al vaso di vimini, tolse il coperchio di gomma e vi infilò dentro un braccio. Lo ritrasse dopo un paio di secondi mostrando al pubblico e soprattutto a Little Slut cosa vi aveva estratto.

Nella sua pallida mano, bloccato tra le lunghe dita smaltate di rosso, si agitava un disgustoso e grosso ratto nero, con la coda lunghissima ed enormi denti affilati.

“Non mangia da tre giorni” disse Lady Circe contraendo le labbra carnose in un sadico ghigno. Poi si avvicinò alla gabbietta legata alla faccia di Little Slut.

Appena la poveretta comprese che Lady Circe stava per chiudere il ratto nella gabbietta, offrendo alle fauci del roditore affamato il suo viso indifeso, fu presa dal panico, iniziò ad urlare in preda ad una crisi di nervi, si alzò in piedi e si lanciò fuori dal ring tentando di fuggire. La fuga, così come il rifiutarsi di eseguire un ordine decretava la fine.

Il cronometro fu fermato dopo soli due minuti e 10 secondi. Un ottimo tempo. Quasi da record.

Fu allora il momento di Pony-Boy. Per arrivare in finale gli bastava resistere per due minuti e 11 secondi contro Miss Cane, la padrona di Little Slut.

Pony-Boy era stato un bel ragazzo un tempo, adesso invece era stato trasformato in una creatura grottesca. Aveva abbandonato la postura eretta e stava sempre a quattro zampe. Le mani ed i piedi erano intrappolati dentro a delle scatole a forma di zoccoli equini, mentre nel retto era stabilmente inserito un plug anale realizzato con materiali di primissima qualità: acciaio inossidabile per il plug e vere crine di cavallo per la coda.  Sulla bocca gli era stato inserito un morso da briglia a canna intera con ponte in acciaio inox, con tanto di redini in cuoio. Per il resto era coperto soltanto della sua naturale peluria, ad eccezione di una rudimentale sella legata sopra la schiena.

“Sei un repellente pervertito” ruggì Miss Cane appena fu il suo momento.

Dal carrellino degli attrezzi prese un fallo in lattice dalle dimensioni impressionanti, e poi si andò a posizionare davanti a Pony-Boy.

Afferrò le briglie e con violenza le strappò via insieme al morso da briglia, che risultò essere di dimensioni piuttosto ardite, ma comunque insignificanti rispetto al membro colossale che Miss Cane teneva stretto nella mano destra.

Afferrò lo schiavo per i capelli tirandogli indietro la testa.

“Apri la bocca debosciato”

Pony Boy obbedì spalancando la cavita orale.

Miss Cane vi sputò dentro una grossa, vischiosa e ripugnante scatarrata verde.

“E adesso ingoia per bene, merdaccia”

Pony-Boy ingoiò subito, ma sembrava più eccitato che dispiaciuto.

Lei allora iniziò a spingergli tra le labbra il mastodontico cazzo di lattice.

Con stupore di tutti, dopo una brevissima resistenza, la bocca già in precedenza addestrata dai trattamenti di Lady Circe, accolse per intero il gigantesco fallo di Miss Cane.

Lei gli chiuse allora il naso con un mollettone, rendendogli impossibile la respirazione. Lo costrinse in apnea per novanta secondi, poi quando il colore del volto era ormai cianotico e lo sventurato stava per svenire gli estrasse dalla gola il membro artificiale.

“Ne hai avuto abbastanza stupido bastardo?”

Pony-Boy, dopo ave rantolato alcuni secondi per riprendere fiato, si rivolse alla dominatrice con sguardo languido e la sfidò: “Ne voglio uno più grosso Padrona”

Miss Cane reagì male, corse al tavolino ed afferrò un manganello di gomma rigida, tornò dallo schiavo e lo colpì ripetutamente sui fianchi, sulle terga e persino sulla faccia.

Pony-Boy gemette più volte per il dolore, iniziò anche a sanguinare dal naso e dalla bocca, ma appena la donna si fermò per rifiatare lui la sfidò nuovamente: “Ne voglio ancora Padrona, colpisca più forte”

Miss Cane comprese allora che quel ragazzo ributtante era un osso duro, ma non aveva più tempo: erano passati due minuti e 11 secondi ed era stata sconfitta. Pony-Boy era il primo finalista.

 

Capitolo quinto: Mandingo contro Donna Capra

 

Mandingo stava in piedi in mezzo al ring con il solo perizoma addosso, i muscoli del corpo in tensione e la faccia di uno che va incontro alla morte.

Lady Moralizzatrice gli si parava davanti esibendo un’espressione fiera e perversa. Indossava una tuta in latex aderente color rosso fuoco, stivali coordinati in pelle tacco 12. I folti capelli erano rossi e ricci. Il viso era duro, gli occhi sadici, il mento affilato.

Appena il cronometro fu azionato lei prese un lungo spillone di acciaio inossidabile con capocchia d’avorio dal tavolino delle torture, poi afferrò Mandingo per un braccio.

Lui non oppose resistenza. Lady Moralizzatrice appoggiò lo spillone all’altezza del bicipite destro di Mandingo, poi lo spinse con forza ed iniziò ad infilare lo spillone dentro al braccio. Lo spillone era spesso e lungo non meno di una dozzina di centimetri, ma il bicipite di Mandingo misurava quasi il doppio, per cui accolse lo spillone per intero, sino alla capocchia d’avorio.

Mandingo gemette, mentre il sangue colava lungo il braccio infilzato e il suo volto si imbruttiva in una languida espressione di lussuria.

“Ma allora sei un rivoltante pervertito” commentò lei schiaffeggiandogli la faccia.

Mandingo sembrò gradire, lasciandosi sfuggire un gemito di piacere.

Lady Moralizzatrice comprese che era meglio cambiare tattica.

Decise allora di bendargli gli occhi, e di legargli i polsi e le caviglie con dei cavi elettrici. Poi lo assicurò ad un gancio da macellaio fissato ad una catena basculante fatta appositamente calare dal soffitto.

In pochi secondi Mandingo si trovò sollevato da terra, appeso per i polsi, privato della vista e in balia della spietata dominatrice rossa: Iniziò a sudare freddo e a tremare impercettibilmente.

Lady Moralizzatrice si avvicinò al tavolino, osservò i numerosi oggetti di tortura e con sadico compiacimento scelse una pesante spranga di ferro.

Il regolamento dei giochi parlava chiaro, non si potevano infliggere danni permanenti, per cui doveva stare attenta a non colpire organi vitali oppure la testa.

Ma poteva comunque infliggere dolori terribili, concentrandosi sulle parti ossee o sulle articolazioni come caviglie, stinchi, ginocchia, gomiti. Eventuali ferite o rotture in quelle parti potevano essere successivamente curate.

Girò intorno al corpo indifeso di Mandingo con fare rapace, poi prese bene la mira e vibrò un brutale colpo di spranga sul suo gomito. Lo schiavo squarciò l’aria con un grido di dolore.  Poi lo colpì ancora più volte, con violenza crescente, prima sulle caviglie, poi sulle scapole. Lasciò passare alcuni secondi tra una sprangata e l’altra. Poiché Mandingo era bendato, il breve tempo che passava tra un colpo e quello successivo si trasformava in un’attesa infinita carica di angoscia e sofferenza.

“Ne hai avuto abbastanza verme disgustoso?” lo interrogò Lady Moralizzatrice.

Mandingo non disse nulla, ma iniziò a piangere in silenzio.

“Devi sapere, lurido scimmione, che in questi casi è una buona idea rompere subito una gamba. Il dolore diventa quasi insopportabile, soprattutto quando si colpisce ripetutamente l’osso spezzato. Cosa ne dici, procedo o ti arrendi, puzzolente sacco di merda?”

Mandingo era già sul punto di cedere, ma prima che potesse pronunciare la safe-word intervenne il Professore urlando: “Qualunque cosa ti faccia lei, se adesso ti arrendi, quando torniamo a casa, io te ne faccio il doppio brutto stronzo, hai capito bene? Quindi stringi i denti e tieni duro!”

Mandingo sapeva bene che il Professore diceva sul serio, quindi si fece coraggio e con un filo di voce rispose: “Andiamo avanti”

Lady Moralizzatrice contrasse le labbra in un ghigno diabolico, tornò velocemente al tavolino, lasciò la spranga di ferro e prese un grosso martello da fabbro, tornò vicino a Mandingo, mirò subito sotto il ginocchio, e colpì con tutta la forza che aveva in corpo.

Il nitido schianto dell’osso che si rompeva riecheggiò nell’arena, accompagnato dalle disperate urla di dolore di Mandingo, mentre si dimenava come una biscia impazzita.

Linda, costretta ad assistere dall’inizio all’orribile supplizio, cadde svenuta ai piedi del Professore.

Le urla di Mandingo si sostituirono a gemiti strazianti, pianto a dirotto e stridore di denti.

La Moralizzatrice prese nuovamente la mira, e scagliò una seconda terribile martellata proprio nel punto in cui dalla gamba fuoriusciva un bianco pezzo dell’osso spezzato.

Questa volta il dolore fu troppo grande, Mandingo urlò come se non ci fosse un domani e poi svenne.

La sadica dominatrice prese allora un secchio d’acqua posato in un angolo del ring e lo lanciò sulla faccia dello schiavo, che riprese i sensi urlando ancora più forte.

“Cosa mi dici sudicia merdaccia, getti la spugna o devo spezzarti anche l’altra gamba?” ringhiò la donna sollevando nuovamente il martello

Mandingo aveva superato i suoi limiti, e senza altri indugi si arrese urlando la safe-wod con tutto il fiato che ancora aveva in corpo.

Era durato in tutto sei minuti.

Il Professore lo stava ancora insultando mentre veniva trasportato in barella fuori dall’arena. Avrebbe voluto seguirlo sino all’infermeria per continuare a pestarlo sulla tibia fratturata, ma non ne aveva il tempo. Era ora il suo turno: doveva salire sul ring per affrontare la Donna Capra.

Sapeva bene che con la schiava della Moralizzatrice non sarebbe stato facile, l’aveva vista combattere con selvaggia determinazione durante gli incontri della prima fase.

Era comunque fiducioso, pensava che prima o poi lei avrebbe ceduto sconfitta dal suo metodo infallibile.

Ciò che lo preoccupava era il fattore tempo, doveva raggiungere il suo scopo in meno di sei minuti e questo rendeva l’intera faccenda maledettamente complicata.

Quando raggiunse l’interno del ring era tutto pronto: gli inservienti avevano portato la macchina dell’elettroshock ed una specie di tavolo operatorio secondo le sue disposizioni, e la Donna Capra lo attendeva imperturbabile al centro della scena con indosso solamente dei piccolissimi slip.

Lei era di una bruttezza inquietante: aveva un giovane flessuoso e sensuale corpo da top model internazionale, ma la testa era deforme con un’orribile faccia caprina, piccoli occhi cisposi e grosse labbra gibbose.

“Sdraiati sul tavolo brutta stronza!” ordinò il Professore appena fu suonato il gong che dava avvio alla sessione.

La Donna Capra obbedì.

Il professore legò velocemente al tavolo i polsi e le caviglie della donna con dei legacci, poi le bloccò la testa caprina con una specie di grosso morsetto.

Si avvicinò senza perdere tempo alla macchina dell’elettroshock, afferrò i cavi che terminavano su due pinze a coccodrillo e le attaccò agli alluci smaltati della Donna Capra, una per piede. Poi fece un passo indietro e prima di dare corrente indugiò per un attimo sul corpo indifeso della ragazza.

La scarica durò circa quindici secondi e la Donna Capra riuscì a non urlare, senza tuttavia poter trattenere le lacrime, che iniziarono a sgorgarle dagli occhi arrossati.

“Questa era meno della metà della potenza massima” la informò il Professore sorridendo in modo malvagio.

“Allora metta al massimo, padrone” disse lei singhiozzando.

Lui usava raramente la massima potenza e solamente quando le torture si protraevano molto a lungo. Tendenzialmente cercava di non farlo se possibile, per evitare che nella vittima potesse subentrare la pazzia.

“Ti accontenterò volentieri” annunciò in questo caso il Professore, che avendo poco tempo era intenzionato ad andare sino in fondo.

Aumentò il voltaggio alla massima potenza e lasciò accesa la macchina per altri dieci secondi, ghignando sadicamente mentre la ragazza si dimenava per il dolore, gridando e urlando questa volta senza remore.

“Brutta debosciata, ti arrendi o vuoi una scarica da trenta secondi?”

“No” lo implorò lei. “Ti prego padrone, trenta secondi no”

“Allora pronuncia la safe-word” disse lui con uno sguardo di trionfo dipinto sul volto.

“Falla di almeno… quaranta, secondi” sussurrò lei con un filo di voce vagamente lascivo.

“Schifosa sgualdrina, te ne pentirai amaramente!”

Il Professore allora le strappò le pinzette a coccodrillo dai piedi facendola nuovamente urlare, poi afferrò dal tavolo degli attrezzi un grosso cilindro di ebanite che misurava cinque centimetri di diametro a circa venticinque in lunghezza. Intorno al cilindro erano fissate delle placche di metallo alle quali attaccò le pinzette collegandolo in questo modo alla macchina.

Poi si avvicinò nuovamente alla ragazza e senza troppi complimenti le spinse violentemente il cilindro per due terzi dentro alla bocca. Quindi, senza indugiare, diede nuovamente corrente: per quaranta interminabili secondi.

La Donna Capra gridò disperata, mentre il suo corpo era scosso dalle convulsioni, e si contorceva in modo innaturale, e una disgustosa puzza di carne bruciata si diffondeva per tutta la stanza.

“Arrenditi cagna nauseabonda” le intimò lui ancora una volta.

Ma era troppo tardi, prima che potesse fare altro, il gong suonò: erano passati sei minuti ed un secondo, e il Professore era stato sconfitto.

 

Capitolo sesto: scontro finale

 

Per il gran finale salirono per prime sul ring la Donna Capra e Lady Circe.

Appena il cronometro iniziò a scandire i secondi, la padrona del castello si avvicinò alla ragazza dal volto caprino, che ancora scossa per l’elettroshock stava in piedi a fatica, tutta tremebonda.

“Offrimi il collo, schiava” ordinò Lady Circe.

La Donna Capra obbedì come ipnotizzata, scostando i lunghi capelli scuri con le mani tremolanti e concedendo la gola indifesa.

Lady Circe spalancò allora la bocca esibendo mostruosi candidi denti aguzzi e si avventò sul collo della ragazza squarciandole le carni, affondando nella carotide gli immondi incisivi ancora ben visibili tra le labbra carnose, dentro l’orribile bocca stillante sangue.

La Donna Capra emise un gemito strozzato lasciandosi cadere quasi morta tra le braccia della padrona.

A reagire con impeto fu la Moralizzatrice, che urlando disperata con un salto balzò sul ring, afferrò una grossa mazza di ferro e cominciò a colpire Lady Circe sulla testa e sulla faccia mandandole in pezzi gli occhiali da sole e costringendola ad aprire le fauci mollando la preda.

Lady Circe si girò allora verso la donna che aveva osato aggredirla.

Il volto sino a poco prima di colore bianco cadaverico aveva iniziato a fiammeggiare di demoniaco furore, e i grandi occhi rossi incandescenti ardevano ora di rabbia, odio e collera, così grandi da far impallidire i diavoli dell’inferno.

“Come hai osato colpirmi stupida troia!?” ringhiò digrignando i denti insanguinati come una bestia selvaggia.

“Non sono ammessi danni permanenti, ricordi puttana? Hai scritto tu le regole, e non puoi vampirizzare la mia schiava senza che io ti spacchi la testa” rispose la Moralizzatrice afferrando uno spadone medioevale dal tavolo delle torture.

“Io faccio quello che voglio, come voglio, quando voglio e con chi voglio, e adesso ti rimanderò a casa a calci, dopo aver sculacciato per bene quel tuo grosso grasso culone pieno di merda!”

“Ti sbagli di molto, brutta ciuccia sangue del cazzo, sarò io a staccarti quella stupida zucca vuota dal collo rispedendoti all’inferno”

Lady Circe, senza aggiungere altra parola, si mosse veloce come un fulmine, con un morso bestiale azzannò la Moralizzatrice ad una spalla strappandole pelle, muscoli e carne viva sino alla clavicola.

“Sei troppo lenta, stupida stronza” commentò Circe leccandosi le labbra spruzzate dal sangue uscito dai tessuti sventrati.

La Moralizzatrice fece roteare disperatamente lo spadone un ultima volta nel vano tentativo di colpire la sadica vampira, ma ormai le mancavano le forze, le girava la testa, e dopo aver tentato un ultimo affondo senza successo, cadde sulle ginocchia esausta.

Lady Circe le fu sopra in un attimo, le afferrò la testa con le sue fredde mani dalle lunghe dita e poi affondò le spaventosi e bestiali zanne affilate sulla gola della dominatrice ormai sconfitta, spezzandole il collo.

Il rumore delle vertebre che andavano in pezzi riecheggiò nello scantinato del castello nel silenzio più assoluto. Tutto il pubblico aveva infatti assistito ammutolito a questo gran finale a sorpresa.

I corpi della Moralizzatrice e della Donna Capra giacevano privi di vita sul telo bianco del ring macchiato del loro stesso sangue.

“E’ con grande piacere che comunico ora il vincitore di questi giochi perversi” annunciò Lady Circe dopo essersi ricomposta.

“Il primo classificato è il mio adorabile schiavo Pony-Boy, che dichiaro vincitore per manifesta rinuncia della sua avversaria, Donna Capra”

Il pubblico applaudì entusiasta, e desideroso di andarsene il prima possibile.

Lady Circe rise in modo satanico per poi iniziare a congedare gli ospiti sopravvissuti.

Mancavano pochi minuti all’alba e per lei si avvicinava il momento di ritirarsi.

Lo stanzone dei giochi si era quasi svuotato del tutto quando si fece avanti Locusta, lo storpio, tirando fuori da sotto il mantello un grosso crocefisso d’argento.

“Vade retro, demonio” intimò alla padrona di casa.

Circe si ritrasse furibonda alla vista della croce e iniziò a ringhiare mentre il volto le si imbruttiva per la collera.

Franchino, la ragazza del Bar e altre tre serve circondarono lo storpio, ma non potevano avvicinarsi paralizzati dal potere della croce.

“Come osi sfidarmi nella mia dimora storpio” urlò Circe con una voce che non aveva più nulla di umano.

“Non sono qui per sfidarti, ma per liberare il mondo dalla tua mefistofelica presenza” puntualizzò lo storpio, che con l’altra mano ora impugnava una pistola.

“E pensi davvero ti poterci riuscire con una croce e una pistola?”

“E’ una pistola ad acqua, puttana, ma caricata con acqua benedetta, o acqua Santa che dir si voglia.”

Franchino allora si fece sotto per disarmarlo: “Vediamo se hai il sangue dolce, storpio” gridò spalancando le fauci e allungando le mani ossute trasformate ora in artigli ferini.

“Vai a farti fottere” disse il poeta, e gli sparò in faccia un getto d’acqua benedetta che gli incendiò la barba e la faccia e i denti anneriti dal tempo.

Poi fu attaccato dalla morettina del bar e dalle altre serve, che sbavavano dalla rabbia e dal desiderio di morderlo sul collo, ma Locusta era insospettabilmente agile e riusciva ad evitare gli affondi di quelle maledette e le colpiva con la croce e con l’acqua Santa e in breve le serve del diavolo stavano bruciando sul pavimento nella sala dei giochi perversi.

Sembrava che nulla potesse fermarlo.

“O Signore, donaci il coraggio in queste ore tormentose” disse alzando gli occhi verso il cielo, prima di avanzare minaccioso al cospetto di Lady Circe.

Ma lei si mosse più veloce, e in un lampo riuscì a colpirlo con un paio di schiaffi disarmandolo della croce e della pistola ad acqua, ed ora gli aveva attanagliato il collo con le mani e lo teneva sollevato da terra.

“Non ti berrò tutto in una volta” disse mostrando gli immondi canini vampireschi.

“Prima ti farò diventare il mio schiavo e ti costringerò a mangiare ratti e scarafaggi”

Lo storpio rantolava, la presa micidiale della creatura satanica lo stava strangolando.

“Ti userò come uno zerbino, ti farò leccare merda dai tacchi dei miei stivali, ti trasformerò in un mulo da soma e userò il tuo lurido culo come portaombrelli”

“I peccatori che vagano nell’oscurità hanno visto la luce” riuscì a sussurrare il poeta mentre le ultime forze gli venivano meno.

“Ben venuto nel mondo degli schiavi” ruggì infine Lady Circe con voce demoniaca, mentre stava per azzannarlo sul collo.

Ma un instante prima che potesse chiudere le diaboliche fauci sul gozzo dello storpio, un palo di legno la trapassò da parte a parte. Fece appena in tempo a voltarsi per guardare chi l’avesse trafitta, poi il suo corpo satanico e la faccia pallida e sfigurata dalla perversione e dal peccato si incenerirono in un gran bagliore di fuoco e di fiamme.

Quando il fumo si dissolse Linda era lì in piedi davanti alle ceneri di Lady Circe, con il paletto di legno in mano, pietrificata dalla paura.

“Solo un autentico servo di Dio può infilare con tale grazia un palo di legno nel cuore di questi mostri” disse il poeta tossendo, mentre cercava di tornare a respirare.

“Non esageriamo, è solo la gamba di una sedia rotta” si intromise il Professore, desideroso di recuperare i suoi schiavi e andarsene da quello scantinato.

“Convertiti, finché sei in tempo” lo ammonì lo storpio, “non c’è salvezza per chi muore nel peccato e senza pentimento”

Ma lui non gli rispose, aveva afferrato Linda per un braccio e stava già salendo la scalinata che lo avrebbe riportato in superficie.

“Che nottata di merda” commentò poco dopo aver lasciato il castello a bordo della sua automobile insieme ai suoi schiavi.

Mandingo era sdraiato sui sedili posteriori con la gamba rotta fasciata alla meno peggio e dilaniato dal dolore. Linda era seduta davanti senza parlare e in stato di shock.

“Non c’è nulla di più fastidioso di due donne pazze che litigano, è una cosa che non posso sopportare” aggiunse accendendosi un sigaro e dirigendo il veicolo verso casa.

Il sole si stava alzando pigramente sulla rigogliosa valle coltivata a vigneto. Era il primo giorno di primavera, e quella settimana il professore avrebbe imbottigliato il vino dell’ultima vendemmia.

 
 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

 

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2017 racconti-brevi.com

Bill il sadico e la banda delle mutandine rosa

Bill il sadico aveva già ucciso una dozzina di giovani coppiette da quando aveva preso in gestione l’agriturismo Piacenza ubicato sulle verdeggianti colline di Vicobarone.

Aveva sotterrato i cadaveri nell’orto, dopo averli fatti a pezzi con la motosega.  Così adesso l’insalata, i pomodori e le altre verdure crescevano rigogliose.

Quella sera di mezza estate Roberto Rubanomi e Romualda Boccarosa arrivarono all’agriturismo pieni di entusiasmo, accaldati ma felici.

“Dacci una camera fresca e con una bella vista” disse Romualda sorridendo melliflua.

“Ho una bella camera con doppia vasca idromassaggio nel bagno” propose Bill il sadico, guardando avidamente nella scollatura della ragazza.

“Andrà benissimo, prendiamo quella”.

“Sono 150 euro a notte, pagamento anticipato”.

La ragazza non rispose, aprì la sua borsa firmata e tirò fuori i contanti.

Romualda e Roberto erano due banditi e avevano già svaligiato quattro banche e sette farmacie. I quotidiani nazionali si occupavano di loro da quando Romualda aveva cominciato ad usare mutandine di pizzo rosa per imbavagliare i farmacisti vittime delle loro rapine. Erano stati subito ribattezzati come “La banda delle mutandine rosa”.

Romualda era bionda, bella e senza scrupoli e senza alcuna moralità. Roberto era una marionetta nelle sue mani: malvagio, ma completamente succube della sua volontà.

Bill accompagnò i ragazzi alla camera, gli spiegò le regole della casa e poi tornò nel suo ufficio. Per tutto il tempo non tolse gli occhi dalla scollatura della ragazza.

“Hai visto come ti guardava quel maniaco? Sembra Norman Bates, il protagonista di Psyco di Alfred Hitchcock” disse Roberto appena rimasero soli nella stanza.

“Credi sia il tipo giusto?” chiese lei iniziando a spogliarsi.

“Si, penso che con lui potrebbe funzionare”.

“Sono almeno due mesi che non lo fai, ti senti carico al punto giusto?”

Roberto non rispose, prese una bottiglia di Malvasia frizzante dal frigobar e la stappò.

“Ti ho fatto una domanda”.

Roberto si versò da bere, poi guardò Romualda completamente nuda sul letto.

“Se va bene a te, sarà solo questione di qualche minuto” le disse dopo aver tracannato un bicchiere colmo di vino.

“Allora datti da fare” disse lei guardandolo con i suoi due grandi occhi languidi.

Roberto raggiunse Bill nel suo ufficio.

“Vogliamo la colazione a letto”

“Non offriamo questo tipo di servizio” disse Bill alzando lo sguardo dal registro dei corrispettivi.

Roberto mise 50 euro sul tavolo di Bill.

“Per che ora la volete questa colazione?”

“Adesso”.

“Ma sono le 6 del pomeriggio” obiettò Bill.

Roberto mise altri 50 euro sul tavolo: “Non importa che ore siano, la colazione la vogliamo adesso”.

“Fra quindici minuti sarò in camera da voi con la colazione”.

*

Venti minuti dopo Bill e Romualda si davano da fare avvinghiati sul letto, mentre Roberto li guardava partecipando seduto in un angolo della stanza.

“Sei proprio una gran troia” disse Bill tirando i capelli a Romualda.

Romualda gemeva, invitandolo a tirare con ancora più forza.

Bill cominciò a picchiarla, lei lanciò urla di piacere misto a dolore mentre Roberto si finiva sbavando seduto nel suo angolo.

Bill ci diede dentro ancora per qualche minuto, poi tutto finì.

“Ora rivestiti e dacci tutti i soldi che hai” disse Roberto puntandogli una pistola in faccia.

“Che ti prende amico, lo spettacolo non ti è piaciuto?”

“Non fare lo stronzo, questa è una rapina!”

“Ma che cazzo stai dicendo stronzetto di un pervertito guardone”.

“Sta dicendo che se non ci dai subito tutti i tuoi soldi ti facciamo un nuovo buco nel culo, testa di cazzo!” ringhiò Romualda puntandogli contro anche la sua pistola.

“Vai a cagare puttana!” la insultò Bill prima di tirarle un pugno tremendo.

La ragazza crollò a terra con un labbro rotto.

Roberto sparò tre colpi.

Il primo centrò la finestra mandando il vetro in frantumi e si disperse nei vigneti. Il secondo colpì Romualda ad una gamba spappolandole una rotula. Il terzo ferì Bill ad una spalla.

“Mi hai distrutto un ginocchio, coglione!” gridò Romualda piangendo per il dolore.

“Scusami amore, è colpa di questo stronzo” cercò di giustificarsi Roberto.

“Dannati figli di puttana, non uscirete vivi da questo posto” urlò Bill, tenendosi la spalla dilaniata dalla ferita.

“E invece sarai tu a morire, pezzo di merda” chiosò Roberto mentre si avvicinava a Bill. Poi gli appoggiò la canna della pistola in mezzo agli occhi, pronto a premere il grilletto.

Lo sparo rimbombò sinistramente nella stanza, la testa esplose e le pareti bianche della camera si spruzzarono di sangue e cervella.

Romualda appoggiò a terra la sua pistola fumante e guardò soddisfatta il cadavere di Roberto. Lo aveva appena ammazzato a sangue freddo, dopo aver vissuto assieme a lui gli ultimi cinque anni. Lo aveva ucciso per impedire che sparasse a Bill, l’uomo che conosceva soltanto da poche ore, e che l’aveva posseduta come mai nessuno prima di allora.

“Cosa hai intenzione di fare adesso?” le chiese Bill, ansimando per la paura e per il dolore provocato dalla ferita alla spalla ancora aperta.

Lei si trascinò verso di lui singhiozzando con il ginocchio sanguinante, lasciando una scia rossa e vischiosa sul pavimento. Quando gli fu abbastanza vicino lo baciò.

“Ho intenzione di sposarti, brutto bastardo” disse infine.

Bill accettò subito la proposta di quella bionda bella e perversa, baciandola con rinnovata passione.

E vissero molti anni ancora: sadici e contenti, ammazzando molte altre giovani coppie. Con i cadaveri, dopo averli smembrati, ci riempirono l’intero giardino, sino a raggiungere l’età della vecchiaia senza mai essere scoperti.

 

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Bill il sadico e le mutandine rosa

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Due vecchi sadici e pazzi

 

 

La giovane coppia di innamorati giunse all’ameno agriturismo sul far della sera, quando il cielo si tinge di sangue ed il sole tramonta dietro alle colline ricoperte dai vigneti della Val Tidone.

Gessica era bella, prosperosa, fresca come un fiore appena colto e con lunghi capelli color del grano. Pino era alto, superbo, con l’energia dei suoi vent’anni offerta allo sguardo del mondo sotto forma di bicipiti muscolosi, pettorali massicci e addominali scolpiti.

La vecchia locandiera registrò i documenti e accompagnò i ragazzi alla loro camera, congedandosi con poche parole, una bottiglia di vino Ortrugo frizzante ed un sorriso malvagio.

“Questo posto è bellissimo, così romantico e suggestivo” disse Gessica emozionandosi.

“Non è male” ammise Pino, stappando la bottiglia e versando il profumato nettare in due bicchieri di cristallo pressato.

“Non vedo l’ora di tuffarmi in piscina, sarà un fine settimana indimenticabile!” squittì lei, iniziando a spogliarsi.

Pino non disse nulla, tracannò due bicchieri di vino, mostrò i suoi muscoli togliendosi la camicia e poi ficcò la lingua in bocca alla sua ragazza. Erano giovani, erano belli, e si amarono selvaggiamente prima di cenare.

La vecchia locandiera intanto era in cucina, nel pentolone stavano bollendo le mani amputate alla sua ultima vittima, un agente di commercio che aveva fatto a pezzi con il macete la settimana precedente.

Dopo aver assaporato il brodo aggiunse un po’ di sale poi si rivolse al marito, un vecchio sdentato senza più nemmeno un capello.

“Il ragazzo è robusto, dovrai stenderlo al primo colpo. Se fallisci potrebbe reagire e tu sei troppo vecchio per poterlo affrontare.”

“Non dire cazzate, non ho mai sbagliato un colpo. E poi sai bene che abbiamo dalla nostra l’effetto sorpresa” disse lui centrando la sputacchiera con una palla verde di vischioso tabacco masticato.

La vecchia ghignò compiaciuta: “devono avere carne molto saporita, specialmente la puttanella bionda.”

“Oh si! Carne fresca, carne soda” confermò il vecchio calvo, scatarrando altro tabacco e rimembrando per un momento l’epoca lontana in cui poteva ancora abusare delle sue vittime esibendo una virilità autentica, senza ricorrere a surrogati artificiali come mazze di ferro, verghe di legno, o bastoni dalle dimensioni surreali.

“Come stai pensando di sbarazzarti del ragazzo?” domandò la vecchia.

“Penso di usare la mazza da baseball, intendo colpirlo sul cranio, da dietro, mentre mangia, con un colpo secco. Sarà anche robusto come dici, ma se prendo il punto giusto, la testa gli si aprirà come una zucca rotta”

“Che schifo, mi toccherà pulire il sangue dal tavolo, dal pavimento e magari anche dal muro. Non possiamo semplicemente avvelenarlo?”

“Non vedo il divertimento, se usi il veleno vuoi dirmi a cosa ti servo? Vuoi il mio aiuto solo per seppellire il cadavere?” protestò il vecchio sputacchiando altro catarro verde.

“Non essere permaloso, a parte che puoi sempre darti da fare con la puttanella, potremmo usare una dose non letale, così potrai divertirti a sfondargli la testa in cantina. Lì almeno non devo pulire in tutta fretta prima di servire la prima colazione.”

“Si, mi sembra una buona idea, metti del sedativo nel brasato di mani, quando si addormenteranno li porteremo in cantina, senza alcuna fatica. Lo sai che odio le urla, e per Giove, sono certo che quella puttanella si metterà a strillare come un’aquila quando sfonderò il cranio del suo fidanzato. Meglio sedarli entrambi, legarli e imbavagliarli. A quel punto ci divertiremo con la cassetta degli attrezzi al gran completo.”

La vecchia annuì, mentre un ghigno sadico e perverso le si disegnò sulla faccia rugosa e color del cuoio.

I due giovani furono sepolti agonizzanti, ma ancora vivi, in una fossa scavata in giardino, dopo due settimane di orribili torture e crudeli violenze.

 

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Due vecchi sadici e pazzi

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Racconto horror in un cimitero

Obitorio di Rezzanello

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Il dottor Sadico era in piedi nel mezzo della stanza, indossava un camice bianco su di una camicia azzurra stirata di fresco con una cravatta del partito. La sua barba folta e grigia brillava sotto la luce artificiale delle lampade al neon, ed una espressione di preoccupata sorpresa gli adombrò il volto quando vide un uomo sbucare dal nulla, uscendo da un buco nel pavimento del suo laboratorio. Sembrava un mostro uscito da un romanzo o da un racconto horror in un cimitero.

Leo Investigato si mosse d’istinto, impugnato il pugnale si avvicinò al dottore zoppicando ma con rapidità. Nonostante le menomazioni subite la sua mole era ancora intimidatoria, la barba incolta e la fronte segnata dalle cicatrici conferivano al suo volto un aspetto spaventoso. Il dottore rimase immobile, intuendo che opporre resistenza sarebbe stato pericoloso.

Leo lo teneva in scacco, il dottore era disarmato, lui invece aveva il pugnale e una P38. Erano soli nel laboratorio e se il dottore avesse cercato di chiedere aiuto lui lo avrebbe ucciso in un istante. Valutò che avrebbe potuto ottenere preziose informazioni, e iniziò ad interrogarlo.

“Ora ti farò alcune domande, dovrai rispondere semplicemente annuendo o scuotendo il capo, sono stato chiaro?” disse premendogli la lama del pugnale sotto al mento. Il dottore annuì, i suoi occhi erano terrorizzati.

“Gli accessi alla fortezza sono sorvegliati?”

Il dottore scosse la testa, come per rispondere no.

“Per arrivarci dobbiamo passare da altri posti di guardia?”

Il dottore scosse nuovamente la testa, ma abbassando lo sguardo. Investigato capì che stava mentendo.

“Non cercare di fregarmi, saresti il primo a finire ammazzato” ringhiò aumentando la pressione del pugnale sulla gola. “Ti ripeto la domanda, per arrivare al castello dobbiamo passare posti di guardia?”

Questa volta il dottore annuì timidamente.

“Più di uno?”

“Dipende da che parte volete passare” rispose a mezza voce il dottore.

“Il percorso più breve” disse Investigato.

“Posso indicarvelo” propose il dottore.

“Ti ho già detto di non cercare di fottermi. Ci andremo insieme e se qualcosa va storto, ti ucciderò.”

Il dottore impallidì, sapeva che non stava bluffando. L’uomo con la fronte sfregiata poteva spezzare in un attimo l’esile filo al quale era ora appesa la sua vita.

“Vi potete fidare, se non siete ancora morto è proprio grazie a me, mi sono speso con tutto me stesso affinché il Vostro bel corpo non venisse rovinato del tutto” disse cercando di blandirlo.

“Mi hai salvato solo per farmi fare da cavia nei tuoi esperimenti del cazzo, brutto bastardo” protestò Investigato.

Il dottore sembrò risentirsi e replicò piccato: “Con i miei esperimenti contribuisco al progresso dell’umanità.”

“Sei solo uno schifoso criminale, hai sulla coscienza migliaia di vittime innocenti. Non sei altro che uno sporco assassino.”

“Vi sbagliate grossolanamente, la nostra è una azione meritoria, stiamo estirpando una minaccia genetica per la nazione. Eliminiamo esseri inutili che non offrono alcun contributo alla società.”

L’agente segreto Investigato si sentì avvampare dalla rabbia, in quel momento avrebbe voluto uccidere il dottore, ma riuscì a dominarsi, doveva servirsi di lui per raggiungere la fortezza.

“Stai zitto!” lo redarguì “chi credi di essere per giudicare il diritto alla vita di altri uomini?”

Un espressione di sincero sbalordimento si materializzò sulla faccia del dottore.

“Le persone sottoposte ai nostri programmi non sono veramente esseri umani” disse con tono professorale, “come Voi non esitereste ad eliminare le zecche o i pidocchi, così noi disinfestiamo la nazione dai parassiti che la guastano”.

“Ora basta!” urlò Investigato colpendo il dottore con un energico schiaffo.

“Chiudi quella fogna di bocca e cammina, portami al castello e guai a te se cerchi di fare scherzi.”

“Il passaggio più vicino è lungo la strada che porta in cima alla collina, ma ci sono sempre due sentinelle di guardia” rispose il dottore toccandosi il volto arrossato dal ceffone, mentre Investigato continuava a premere il coltello sulla sua gola.

“E la mulattiera? Anche quella è presidiata?”

“Non credo sia percorribile, è abbandonata da anni” piagnucolò il dottore, sentendo sanguinare la ferita che si era lentamente aperta a contatto con la lama affilata.

“E come possiamo arrivare al castello allora?”

“Potremmo passare dal cimitero, ma fate piano, con quel coltello mi state facendo male” disse temendo di essere sgozzato.

“Allora andiamo, cammina, tu ora verrai con me, come in un racconto horror in un cimitero

“Lasciatemi andare, non Vi ho fatto nulla di male, mi occupo solo dei miei esperimenti.”

Investigato colpì il dottore allo stomaco con una ginocchiata, lui si piegò in avanti gemendo per il dolore. Poi lo spinse in avanti tenendogli il pugnale puntato nella schiena e lo condusse fuori dal laboratorio, sulla strada che portava al castello.

Camminarono sino in fondo alla via, dove girato un angolo si proseguiva sin dentro al piccolo, vecchio e malandato cimitero. L’illuminazione era scarsa, ed il campo santo era diviso a metà da due grosse cappelle private.

“Dimmi dove dobbiamo andare ora” ordinò Investigato premendo il coltello sotto la gola del dottore.

“L’ultima tomba sulla destra, oltre la grande cappella” disse il dottore a denti stretti, allungando il collo per evitare che la lama gli tagliasse la gola. “Sotto la lapide si apre un passaggio segreto che conduce direttamente dentro all’obitorio del castello”.

Investigato lo spinse senza cortesia sin davanti alla tomba che egli aveva indicato. Poi lo obbligò a sollevare la lapide. Sotto vi era nascosta una botola di ferro, ma era chiusa da una serratura arrugginita. Avrebbe avuto bisogno di un piede di porco per forzarla. Valutò anche la possibilità di sparare con la P38, ma l’operazione sarebbe risultata troppo rumorosa per poter essere seriamente presa in considerazione.

“Dove sono le chiavi?”

“Non ne ho idea” disse il dottore scuotendo la testa.

“Non dire cazzate, è la porta del passaggio segreto che porta all’obitorio e tu sei il fottuto dottore, dimmi dove sono le chiavi per aprire o ti pianto il pugnale nella schiena!”

“Sono uno scienziato, non faccio il portinaio” protestò il dottor Sadico.

Investigato iniziò a spazientirsi, aveva già consumato molto tempo prezioso, doveva sbrigarsi se voleva ancora sperare di cavarsela. Il dottore stava deliberatamente cercando di rallentare le sue manovre e si stava rivelando un fastidioso impaccio.

Esaminò la botola con maggiore attenzione. Il telaio era consumato dal tempo, pensò che avrebbe potuto sfondarla con un paio di calci ben assestati. Ma il rumore avrebbe potuto rivelare la sua presenza. Non poteva correre un simile rischio. Gli serviva qualche strumento per fare leva tra gli stipiti senza provocare eccessivo fragore. Si guardò intorno e vide una robusta pala di ferro appoggiata ad un muro, di quelle che si usavano per scavare le tombe giardino. Con quella avrebbe potuto forzare la porta. Ma doveva prima sbarazzarsi del dottore.

Lo costrinse a indietreggiare sino alla cappella più vicina. Poi gli ordinò di entrare.

Quando il dottore realizzò che la porta della cappella era aperta, un’espressione di disappunto gli corrugò il volto barbuto. Quella fu la sua ultima smorfia, sentì una pressione terribile, insopportabile e soffocante avvolgergli la gola. Raccolse le sue ultime forze e cercò di urlare.

Investigato lo stava strangolando, e gli aveva stretto il collo con entrambe le mani fermando il suo grido. Aveva già ucciso in passato, ma era la prima volta che guardava in faccia, così da vicino, gli occhi della sua vittima. Li vide sbarrarsi nell’attimo in cui la scintilla della vita abbandonava il suo corpo, e provò un brivido. Percepì il sopraggiungere della morte, mentre il cadavere del dottore gli si afflosciava tra le braccia emettendo un ultimo disgustoso rantolo.

Era stato un lavoro pulito, quasi perfetto, lo aveva strozzato in pochi minuti. Cercando di non guardare il livido viola che adesso cerchiava il collo di quel corpo senza vita, lo adagiò sul pavimento. La sua coscienza ora aveva una nuova macchia fresca, ed Investigato provò una sensazione di disagio.

Aveva  ammazzato un uomo disarmato a tradimento, senza nessun preavviso, senza che potesse in alcun modo difendersi. Il dottore era certamente una persona spregevole e avrebbe meritato una fine anche peggiore, pensò, ma lui si era comportato in modo disonorevole e questo lo disturbava.

Ma cosa avrebbe potuto fare? Si guardò ancora il piede ferito cercando di assolversi. Non poteva rischiare di nuovo, il dottore avrebbe potuto anche fuggire o cercare di colpirlo, aveva dovuto agire così perché era il modo più sicuro, disse a sé stesso.

Si sentì un po’ meglio, poteva continuare con il suo piano d’azione, ora. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare: i dettagli gli erano venuti in mente mentre lo stava uccidendo.

Gli tolse le scarpe e provò a indossarle. Gli calzavano un po’ strette, ma potevano andare. Per sua fortuna il dottore aveva i piedi grandi. Poi si travestì usando il camice bianco, la camicia e persino la cravatta con le insegne del partito.

Alla fine guardò ancore il cadavere.

Erano nemici, se non lo avesse ucciso, lui avrebbe potuto causare la sua morte. Ed era un autentico figlio di puttana, rimuginò, aveva torturato e fatto morire migliaia di innocenti, ora avrebbe solo fatto da cibo per i vermi.

Investigato sbuffò, mentre trascinava il morto dentro la cappella. Diede una rapida occhiata ai loculi dove giacevano le bare di molti illustri personaggi piacentini per un meritato riposo eterno.

Se come immaginava nessuno fosse entrato nel cimitero sino al giorno successivo, prima che potessero trovare il dottore morto e stecchito, lui avrebbe avuto tutto il tempo di compiere la sua missione.

Aveva ancora qualche ora di buio a sua disposizione poi sarebbe sorta l’alba.

Raggiunse nuovamente la botola e usando il pesante badile come leva scassinò la serratura che la serrava. La ferraglia arrugginita crepitò e la porta si aprì.

Il passaggio era buio, cercò di attivare l’interruttore elettrico ma non funzionò.

Costruì allora una fiaccola artigianale con il manico in legno del badile ed alcuni lembi di stoffa ricavati dai pantaloni del dottore assassinato.

Alla luce del fuoco l’ambiente era anche più sinistro di quanto avesse immaginato. Una puzza ripugnante di morte lo investì. Sul pavimento, vicino alle pareti, grossi ratti corsero in tutte le direzioni spaventati dal suo arrivo. L’aria era quasi irrespirabile.

Investigato cercò di avanzare, trattenendo il respiro. Lungo i muri erano disposti numerosi letti di legno sui quali giacevano cadaveri, scheletri e altri resti umani avvolti in sudici sudari.

“Che schifo” mormorò guardandosi attorno in quel luogo spettrale. Una passeggiata nel mondo dei morti gli mancava, considerò incamminandosi.

Attraversò il passaggio segreto il più velocemente possibile, rischiando anche di cadere, inciampando in un femore rotolato da chissà dove, probabilmente spostato da qualche sorcio. Alla fine si trovò davanti ad una porta di legno.

Sperando che non fosse serrata cercò di aprirla. La porta si spalancò e lui uscì da quel corridoio di morte. Poteva tornare a respirare.

Vide le feritoie dalle quali si poteva guardare la luna, le fiaccole accese lungo i muri, le colonne in pietra che sorreggevano il soffitto. Comprese di trovarsi all’interno dell’obitorio, dentro al castello.

Ma non ebbe il tempo di riflettere, né la possibilità di abbandonarsi ai ricordi. Non era solo in quella stanza.

Seduti ad un tavolo due soldati della guardia stavano giocando a carte. Quando lo videro uscire dal passaggio che portava al cimitero rimasero sgomenti: aveva la torcia in mano, il camice bianco, la faccia da pazzo e i capelli sporchi di sangue.

“Che mi venga un colpo” balbettò uno dei soldati, “hanno portato al cimitero un uomo ancora vivo!”

“Come cazzo è possibile” disse l’altro, “lì dentro non entra nessuno da almeno sei giorni.”

“Merda!” esclamò il primo deglutendo, “allora quello è un fottuto fantasma.”

“Oppure uno degli esperimenti del dottor Sadico” aggiunse l’altro. “Ho sentito dire che ha inventato una tecnica per rianimare i morti.”

Investigato sogghignò. Aveva un aspetto selvaggio. Il suo volto sembrava il muso di una fiera feroce poco prima di serrare le sue fauci affamate sulla preda inerme.

“E adesso cosa facciamo?” chiese il soldato più giovane tremando dalla paura.

“Spariamogli alla testa” disse l’altro aprendo la fondina e cercando di estrarre la pistola. Indossava una divisa da caporale.

Investigato doveva impedire che sparassero, gettò la torcia a terra e andò all’attacco armato di pugnale. Il piede ferito faceva ancora male, e si spostava zoppicando. Ma i suoi movimenti erano ugualmente rapidi e riuscì a disarmare la sentinella prima che potesse premere il grilletto. Iniziarono a lottare furiosamente. Investigato era indebolito, e si sosteneva con la forza della disperazione.

“Ammazza questo lurido figlio di puttana” urlò il caporale cercando di bloccare un fendente. Ma il soldato giovane non si mosse, era paralizzato, i suoi occhi luccicavano di paura.

Investigato colpì il caporale e il sangue schizzò fuori dal petto sfregiato. Era una ferita superficiale. Aveva avuto fortuna, ma la prossima volta sarebbe morto, pensò osservando il nemico indietreggiare con la faccia cisposa deformata dal dolore.

Alla vista del sangue il soldato giovane si risvegliò dal torpore, e come spinto da una forza invisibile afferrò il suo pugnale e aggredì Investigato alle spalle.

La lama affondò nelle carni, e lui lanciò un bestiale urlo di dolore.

Si girò barcollando sulle gambe spossate, il pugnale era rimasto conficcato nella spalla e faceva un male infernale. Vide il giovane soldato che portava le mani alla fondina: stava per prendere la sua pistola.

Investigato sentì la testa girare, la stanza intorno a sé si muoveva come una giostra ammattita, e pensò di aver compromesso la possibilità di centrare il suo obbiettivo. Un forte senso di nausea gli stinse lo stomaco, e con la coda dell’occhio scorse il caporale avvicinarsi per dare il colpo di grazia.

“Ora ti spedirò all’inferno, brutto bastardo” urlò prima di iniziare l’ultimo affondo. Investigato udì quelle grida stridule e si spostò di lato giusto in tempo per evitare una coltellata che gli avrebbe reciso il collo.

Doveva reagire, si disse, e mentre il caporale si voltava per tornare all’attacco, riuscì a trafiggergli il ventre con un fendente micidiale. L’uomo colpito a morte stramazzò a terra agonizzante, con il pugnale piantato in pancia.

“Crepa con tutto comodo” gli sibilò, cercando di togliersi la lama che aveva infilzata nella spalla.

Il soldato più giovane, intanto, aveva impugnato la sua pistola ed ora lo teneva sotto tiro.

“Avanti, facciamola finita, premi quel grilletto!” esclamò Investigato in tono di sfida. Si rese conto che il suo piano era fallito, ed era pronto a pagarne le conseguenze.

Il giovane soldato però esitò ancora, pensava che avrebbe dovuto arrestarlo, ma credendo che fosse un morto vivente non sapeva come fare.

Investigato lesse l’incertezza nei suoi occhi e decise di approfittarne. Che coglione, quello stronzetto non ha le palle per sparare, pensò, mentre si sfilava il pugnale dalle carni, emettendo un pietoso lamento di dolore.

Il soldato lo guardò a bocca aperta, non aveva mai visto nulla di simile prima di allora. Un fiotto disgustoso di sangue zampillò dal corpo martoriato dell’agente Investigato.

Quello non ebbe il tempo di sparare, lui gli lanciò il coltello in faccia, e lo trafisse in piena fronte sfondandogli il cranio. Anche la seconda sentinella cadde sul pavimento privata della vita.

Se i due soldati avessero combattuto coordinando i loro attacchi lo avrebbero sopraffatto facilmente. Invece il più giovane era rimasto a lungo immobile, senza prendere alcuna iniziativa. Questo imperdonabile errore gli aveva permesso di eliminarli uno alla volta.

Non era stato sparato un solo colpo. Poteva ancora terminare la sua missione, e lo ripeteva tra sé come un mantra. Dopo aver estratto il pugnale dalla pancia del caporale moribondo, si avviò zoppicando verso il fondo della stanza, dove cominciò a minare le fondamenta del castello con tutto l’esplosivo al plastico che aveva nello zaino.

Appena ebbe finito, accese la miccia e si infilò di gran lena nel passaggio che conduceva sino al camposanto. Quando uscì dalla botola, come in un racconto horror in un cimitero, fu investito da un rombo assordante e una nuvola di polvere, macerie e colori lo avvolse sin quasi a sommergerlo.

A causa dell’esplosione, il castello era crollato collassando su sé stesso, tutte le persone che vi erano all’interno erano certamente morte.

“Quella stronza di mia moglie impara a mettermi le corna” commentò Investigato scrollandosi la polvere di dosso.

Lei era l’amante del maggiordomo del castello, e da quel momento sarebbe rimasta con lui, sotto le macerie, per sempre.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Femminicidio a Piacenza

La ragazza di campagna

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Si erano conosciuti sin dall’infanzia Elettra e Italo, e si erano presto innamorati: lei una ragazza di campagna figlia di poveri braccianti agricoli, lui unico figlio di un ricco latifondista contrario a quella sciagurata relazione.

Appena furono entrambi maggiorenni, e senza ancora essere sposati, iniziarono a vivere insieme, il che creò nuovo scandalo e diede al vecchio padre di Italo nuovo dolore. A peggiorar le cose erano poi anche intervenute le nuove idee politiche che Italo era andato maturando negli anni successivi. Idee rivoluzionarie, idee bolsceviche che il ragazzo ribelle si prese il gusto di far conoscere al genitore. Questo ne fu ancor più sconvolto di quanto già non fosse, ormai disperato e quasi rassegnato all’idea di aver perso per sempre il suo unico figlio maschio.

Analoghi scontri Italo dovette sostenere anche con le sorelle Cleofe e Melitina, ben decise a sostener le ragioni del padre, perché anche a loro la contadina ignorante e senza dote non andava per nulla a genio. E non volendola accettare, preferirono a loro volta troncare ogni relazione con il fratello scellerato, che per amore di una villana aveva sacrificato i sacri legami con la propria famiglia.

Elettra dal canto suo, fuggì di casa per raggiungere a Piacenza il suo amato, ed anche la sua scelta non fu indolore. Per quanto i suoi cari fossero segretamente felici di quella risoluzione, e nascostamente gioissero alla prospettiva di veder sottratta la propria figlia ad una sicura vita di miserie come era stata la loro, ufficialmente diedero a vedere tutto il contrario. Si dissero sconcertati e offesi dalla condotta emancipata della figlia, e ovunque dissero male di quello scandaloso contegno, nell’ipocrita tentativo di salvare le apparenze e la propria modesta reputazione, unico conforto in un’esistenza segnata dagli stenti e dalla fatica, entrambi garantiti dalla dura vita nei campi.

Elettra ne fu offesa e a sua volta, di sua iniziativa, non volle più vedere i genitori, rei, a suo giudizio, di non aver compreso la purezza delle sue intenzioni e la sincerità dei suoi sentimenti. La qual cosa avrebbe dovuto di per sé stessa, sempre secondo le valutazioni di Elettra, appianare ogni diverbio e restituire alla giovine ed alla sua famiglia il rispetto e la considerazione che le erano dovuti.

Ma di quei tempi le cose andavano assai diversamente, e fu così che i due innamorati restarono soli ad affrontare la vita, in una città lontana, senza aiuto né consolazione.

Eppure erano riusciti a superare le avversità e a passare oltre ogni impiccio. Italo esercitava una professione ben pagata e con discreto successo, Elettra si occupava della casa, in attesa di essere portata all’altare e di allargare la famiglia con il primogenito del quale erano ancora in cerca.

Elettra era una ragazza di campagna di modesta bellezza, ma molto dolce e premurosa. Il suo volto pareva quello di un angelo, e sotto le lunghe ciglia nere, i suoi occhi buoni mostravano all’esterno il candore del suo animo. Non aveva che una erudizione elementare, ma a dispetto della giovane età era dotata di tutta la saggezza popolare della sua epoca, e come ispirata dalla Provvidenza sapeva anche dispensar consigli e prendere le decisioni giuste, o perlomeno le più convenienti al suo partito. La sua intelligenza era fine, la sua curiosità intellettuale vivace. Leggeva molto, soprattutto le pubblicazioni cattoliche, come il quotidiano Italia. Viveva senza altra ambizione che regolare la sua posizione di concubina e maritarsi con l’amato Italo. Una volta messa su famiglia, sperava di dare al mondo un adeguato numero di figli.

Il matrimonio prima negato dal padre di Italo, era ora rimandato per i capricci del giovane, che per il piacere di dare offesa alla morale e per le strane idee politiche che era andato professando, pensava fosse cosa giusta praticare la convivenza senza matrimonio. Da quando aveva cominciato a nutrire idee contrarie alla Chiesa ed alla fede cristiana, si era pure convinto che bruciare le chiese ed impiccare i preti come Stalin aveva fatto in Russia fosse cosa auspicabile in ogni dove, ed in questo aveva avuto di che discutere con la povera Elettra, che pur cresciuta nella miseria era ancora ferventemente timorata di Dio e delle sue leggi.

Se i due innamorati potevano dunque andare avanti d’amore e d’accordo in ogni campo, soltanto la politica era argomento sul quale correvano ogni volta il rischio di bisticciare. E ciò perché in quella, Elettra aveva individuato l’unico impedimento che le restava da superare per conseguire le sue aspirazioni e vivere felicemente sino in fondo la sua esistenza.

D’altro canto non era tanto audace da sfidare Italo apertamente, e nemmeno era sino ad allora riuscita ad esplicitare in modo franco le sue aspettative, totalmente assorbita dal desiderio di compiacerlo in ogni modo possibile.

E lui a volte la ricambiava, cercando di renderla felice con piccole attenzioni e qualche regalo di poco valore. Ma per Elettra era il pensiero ciò che più contava, e tanto le bastava per dimenticare ogni tristezza e sentirsi bene.

Una bella domenica d’inizio estate, quando la guerra era ancora lontana, Italo portò la sua bella in gita fuori città. La caricò sulla sua bicicletta e pedalando di buona lena lungo la via che costeggiava il fiume Po, in breve tempo raggiunsero una vecchia chiesa sconsacrata nel mezzo delle campagne piacentine, lontani da occhi indiscreti.

Lei era bella, dentro un vestitino di cotone bianco che a stento conteneva le sue grazie, con i capelli sciolti e al vento, ed un fiore infilato dietro l’orecchio.

Pensava che avrebbe passato una bella e romantica giornata in gita con il suo innamorato, ma si sbagliava.

Ad attenderli alla chiesa sconsacrata c’erano i compagni di partito di Italo, brutti ceffi che vivevano in clandestinità perseguitati dal regime fascista.

Erano in quattro e tutti ubriachi già da metà mattina.

Secondo il parere di Elettra i compagni comunisti di Italo si erano dati dei buffi nomignoli, ma a lui erano sempre sembrati dei temibili nomi da battaglia.

Erano giovani uomini, identici a tanti altri che si potevano vedere a lavorare nelle fabbriche o nei campi. Il capo della cellula si faceva chiamare Tempesta ed aveva un temibile serpente a sonagli dalla bocca spalancata e coi denti aguzzi tatuato sul braccio sinistro. Nella mano destra impugnava una pistola Beretta M34. Anche Sandrino che gli stava a fianco era armato allo stesso modo. Faina e Cobra erano armati con fucili da caccia e si erano spostati sui lati del sagrato di modo che Elettra ed Italo fossero quasi circondati: sembravano tutti avere intenzioni ostili.

“Dacci la ragazza” intimò Tempesta, sollevando la M34 contro di loro e chiudendo le labbra in un ghigno malvagio.

“Di che cosa stai parlando? Hai bevuto troppo? Non mi riconosci?” protestò Italo, frapponendosi tra la traiettoria dell’arma puntata contro di loro ed Elettra.

“Non fartelo ripetere una terza volta, consegnaci immediatamente quella nemica del popolo”

“Se questo è uno scherzo sappiate che non è per nulla divertente”

“Non ci lasci altra scelta, ma la cosa non mi stupisce, non ci siamo mai fidati veramente di te, non ci si può fidare dei figli dei padroni, alla fine siete tutti uguali, maledetti ricchi borghesi del cazzo, ma quando scoppierà la rivoluzione vi impiccheremo tutti, uno ad uno.”

Italo comprese che le cose si mettevano male quando vide Tempesta serrare le dita sulla pistola e premere il grilletto.

Tempesta era piuttosto basso, stempiato e con l’aria feroce di chi non ha mai avuto nulla da perdere. Da sopra la cintura strabordava una grossa pancia sudaticcia. Indossava un paio di calzoni di cotone ed una camicia rossa lisa e scolorita.

Italo venne colpito al petto, cadendo all’indietro con un gemito grottesco, e una macchia di sangue gli colorò l’elegante camicia bianca di sartoria.

Elettra iniziò a gridare come una pazza.

“Avanti prendete quella troia fascista” urlò Tempesta, mentre prendeva la mira sulla testa di Italo disteso sul sagrato della chiesa sconsacrata.

“No!! Non lo ammazzare!!” urlò Elettra più forte che le fu possibile.

Il secondo colpo centrò Italo in mezzo alla faccia, e una fontana di sangue, carne maciullata e cervella spruzzarono fuori dal volto sfigurato. La testa senza vita si rovesciò di lato come una bambola di pezza rotta.

“NOOO!!” gridò ancora Elettra mentre Sandrino e Faina erano già su di lei.

Sandrino la colpì al volto con un pugno, Faina la picchiò sulla testa con il calcio del fucile, una mazzata brutale che le lacerò la pelle. Il sangue cominciò a colarle copioso sul volto e sui vestiti.

Poi Sandrino l’afferrò per i capelli e la trascinò verso l’interno della chiesa. Il fiore che teneva infilato dietro l’orecchio cadde sgualcito sul selciato.

Elettra era sconvolta, stordita, il dolore alla testa feroce. Cercò di liberarsi scalciando, tentando di graffiare le nerborute mani di Sandrino.

Colpì Faina con un calcio, e quello di rimando le picchiò la pancia con il fucile. Una percossa ancora più violenta della precedente.

Le urla di Elettra furono soffocate per il lungo momento in cui restò senza fiato.

“Ora devi stare zitta stupida puttana!” ordinò Tempesta.

“Sappiamo che sei una spia dei fascisti, lurida stronza!” grugnì Cobra, sputandole in faccia

“Non è vero, vi state sbagliando” riuscì a singhiozzare Elettra, piangendo per la paura e per la sofferenza.

“Non mentire schifosa! Sappiamo che passi le giornate a baciare le sottane di tutti quei preti fottuti. Quando scoppierà la rivoluzione fucileremo anche loro e delle chiese faremo delle stalle, oppure le daremo alle fiamme” disse Tempesta, slacciandosi i pantaloni di cotone.

“Tenete ferma quella cagna, ora le daremo tutto quello che merita”

Cobra e Faina la sollevarono dal pavimento e la costrinsero a piegarsi sopra lo schienale di una vecchia panca tirandola per le braccia.

Tempesta le strappò il vestito e le mutande, poi iniziò a frustarle la schiena con la cintura dei pantaloni.

Lei ora aveva smesso di urlare, fissava nel vuoto con gli occhi sbarrati, mentre il volto era rigato dalle lacrime e dal sangue.

A turno abusarono di lei, violentandola e picchiandola per ore.

Quando scese la notte, Tempesta la finì strangolandola a mani nude.

Sotterrarono i cadaveri in un bosco poco lontano.

I corpi di Italo ed Elettra non furono mai ritrovati e dopo qualche mese le indagini vennero archiviate. Nessuno fu indagato per omicidio o per femminicidio a Piacenza o altrove.

Nel 1943 Tempesta, Sandrino, Cobra e Faina salirono sulle montagne per aderire alle bande partigiane dei ribelli comunisti.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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