La malvagia giovane violinista

Mi chiamo Lorenzo Bellati, e questa è la cronaca di un’ossessione che ancora oggi mi perseguita, un’ossessione che mi ha condotto sull’orlo della follia e oltre, lasciandomi incapace di distinguere i confini tra il reale e l’incubo. Tutto ebbe inizio in un’estate che sembrava non voler finire, nei colli piacentini, tra vigneti inondati di luce e borghi dimenticati dal tempo. Eppure, anche sotto il sole più luminoso, le ombre del passato e le forze che vi si annidano non si lasciano scacciare facilmente.

Ero giunto ad un borgo abbarbicato su una delle vette più alte della regione, per cercare ispirazione per la mia musica. Dopo anni trascorsi a suonare per piccole orchestre e in spettacoli di poco conto, avevo perso ogni fiducia nella mia arte. Il mio violino, un tempo mio fedele compagno, sembrava muto tra le mie mani. Avevo bisogno di silenzio, di solitudine, di un luogo dove poter ritrovare il mio spirito e forse riconciliarmi con quella passione che tanto mi era costata.

Il posto era perfetto. Case di pietra annerite dal tempo, vicoli stretti che si arrampicavano come serpenti, e un’aria di immobilità che sembrava congelare ogni movimento umano. La locanda dove avevo preso dimora era modesta ma accogliente, e il locandiere, un uomo corpulento con mani segnate dal lavoro, sembrava apprezzare il mio desiderio di discrezione.

La mia routine quotidiana era semplice: passeggiate tra i vigneti, ore trascorse con il mio violino nella stanza fresca della locanda, e serate a scrutare il cielo stellato, cercando nel cosmo l’ispirazione che sulla terra non riuscivo più a trovare. Fu durante una di quelle sere che sentii per la prima volta quella musica.

Una melodia, fragile come il filo di un ragno al vento, si insinuò nella mia mente mentre stavo tornando dal belvedere che dominava il borgo. Mi arrestai incuriosito, e ascoltai. Non saprei descrivere esattamente ciò che sentii, perché quella musica sembrava sfidare ogni descrizione umana. Era un intreccio di note che evocavano un senso di struggimento e di terrore insieme, una melodia che non apparteneva né alla gioia né al dolore, ma a qualcosa di completamente diverso.

Seguendo quel suono, mi ritrovai di fronte a un casolare ai margini del borgo, un edificio antico e malandato, con le imposte sbilenche e i muri invasi dall’edera. La musica proveniva chiaramente da lì, e per un momento fui tentato di avvicinarmi e bussare. Ma qualcosa mi trattenne. C’era un’energia nell’aria, un peso invisibile che mi premeva sul petto e mi costrinse a restare dov’ero.

Quando tornai alla locanda, cercai di chiedere al locandiere di chi fosse quel casolare e chi vi abitasse. L’uomo si fece scuro in volto, e dopo un lungo silenzio mormorò soltanto: “È meglio non impicciarsi degli affari altrui, soprattutto lassù.”

Non potei accettare quell’ambiguità. Nei giorni seguenti, mi sforzai di ignorare quella musica, ma essa sembrava farsi strada nella mia mente anche quando non la udivo. Era come se quelle note vivessero dentro di me, mutando il ritmo del mio respiro, influenzando i miei sogni. E quando, al calare del sole, la melodia riprendeva, non potevo fare a meno di seguirla con la mente, come un insetto attratto da una fiamma.

Un giorno, mentre passeggiavo per il borgo, un’anziana donna mi fermò. Aveva occhi vivaci e una voce roca che sembrava scaturire da un profondo pozzo di esperienze. Mi chiese se fossi il violinista che aveva preso dimora alla locanda. Quando le confermai, annuì, un’ombra attraversandole il volto.

“Avete sentito anche voi, vero?” sussurrò. “La musica di quella ragazza.”

“Di chi parlate?” chiesi, cercando di non apparire troppo interessato.

“Evelyn,” rispose, con un tono che era insieme di ammirazione e timore. “Si è trasferita qui pochi mesi fa. Nessuno sa da dove venga. Non parla con nessuno, eppure tutti noi la conosciamo… per via della musica. Dicono che il suo violino sia maledetto.”

Rimasi in silenzio, e la donna proseguì: “La musica non è normale, capite? Le note che suona… non sono per le nostre orecchie. A volte sembra che parlino, che raccontino storie di cose che non dovrebbero essere ricordate.”

Le sue parole mi colpirono, ma allo stesso tempo accesero la mia curiosità. Dovevo conoscere Evelyn, dovevo scoprire il segreto di quella musica.

Fu qualche sera dopo che finalmente la vidi. Era al tramonto, e il cielo era dipinto di sfumature di rosso e arancio. Evelyn stava nel cortile del suo casolare, con il violino appoggiato alla spalla. Era una figura esile, avvolta in un abito chiaro che sembrava catturare la luce morente del sole. Non vidi il suo volto, ma le sue mani si muovevano con una grazia che mi tolse il respiro.

Quando iniziò a suonare, mi nascosi tra le ombre di un albero vicino, incapace di farmi avanti. La melodia che scaturì dal suo violino era ancora più intensa di quanto ricordassi, e per un istante mi sembrò che il tempo stesso si fermasse. Era come se il mondo intorno a me fosse stato sospeso, come se ogni cosa—gli alberi, le pietre, persino l’aria—stesse trattenendo il respiro per ascoltare.

Non so per quanto rimasi lì, ma quando finalmente smise di suonare, mi accorsi che ero in ginocchio, con le mani affondate nella terra. Evelyn si voltò leggermente, come se avesse percepito la mia presenza, ma non fece alcun movimento per avvicinarsi. Poi, con un gesto fluido, rientrò nel casolare, lasciandomi solo con il mio battito cardiaco accelerato e una sensazione di vuoto che non riuscivo a spiegare.

Nei giorni successivi, cercai di avvicinarmi a Evelyn in diverse occasioni, ma era come se il destino stesso cospirasse per tenerci separati. Ogni volta che mi avvicinavo al casolare, qualcosa accadeva per distogliermi: un temporale improvviso, un senso di nausea inspiegabile, o semplicemente un terrore irrazionale che mi bloccava i piedi. Eppure, non potevo smettere di pensarci.

Quella musica mi stava cambiando. Avevo iniziato a sognare visioni di luoghi che non avevo mai visto, di cieli attraversati da stelle fredde e lontane, di creature che sembravano osservare il mio passaggio con occhi che bruciavano di intelligenza aliena. Ogni mattina mi svegliavo con una sensazione di perdita, come se fossi stato strappato via da qualcosa di immenso e incomprensibile.

Non sapevo ancora cosa Evelyn e il suo violino rappresentassero, ma una cosa era certa: quella musica non apparteneva a questa terra, e io stavo per scoprire, nel bene o nel male, il perché.

Non passò molto tempo prima che riuscissi finalmente a ottenere un incontro con Evelyn. Fu un incontro casuale solo in apparenza, eppure sospettavo che lei sapesse più di quanto lasciasse intendere. La mia ossessione per quella musica era ormai manifesta nei miei sguardi, nei miei movimenti, persino nelle mie parole, che si spezzavano quando provavo a parlare con chiunque altro. Quando finalmente le rivolsi parola, non ricordo con esattezza cosa dissi: le parole mi sgorgarono come un torrente disordinato, piene di ammirazione per la sua musica e del desiderio, a malapena nascosto, di conoscerla meglio.

Evelyn, per tutta risposta, mi osservò con occhi che non avevo mai visto su un volto umano. Erano occhi chiari, ma profondi, come laghi su cui si riflettono stelle antiche. Per un lungo momento rimase in silenzio, il volto immobile come se stesse ponderando la mia anima. Poi sorrise, un sorriso sottile, e mi invitò a seguirla al suo casolare.

La casa, che avevo osservato da lontano con timore reverenziale, era ancora più inquietante da vicino. Le pareti erano di pietra scura, coperte da muschio e rampicanti, ma non era questo a colpire la mia immaginazione. C’era un’aura di antichità che superava la semplice vecchiezza fisica: sembrava che l’edificio fosse un sopravvissuto di un’epoca dimenticata, un relitto che avrebbe dovuto essere spazzato via dal tempo ma che, per qualche ragione innominabile, si era ostinatamente rifiutato di morire.

Evelyn aprì la porta senza esitazione, ed entrammo in un’atmosfera che sembrava gravata da un peso invisibile. L’interno era un miscuglio di ordine e caos: libri dalle rilegature consunte erano ammucchiati su ogni superficie, candelabri anneriti dal tempo illuminavano appena la stanza, e il legno scricchiolava sotto i nostri passi come se protestasse contro la mia intrusione.

E poi lo vidi: il violino.

Era poggiato su un tavolo al centro della stanza, come un re sul trono. L’aria intorno a esso sembrava più densa, quasi palpabile, e ogni fibra del mio essere mi diceva di non avvicinarmi. Eppure non potevo distogliere lo sguardo. Non era un violino normale; la sua forma era simile a quella di qualsiasi altro strumento, ma il legno da cui era ricavato sembrava… vivo. Le sue venature non erano linee statiche, bensì flussi in movimento, che pulsavano come arterie sotto pelle.

“È magnifico, vero?” disse Evelyn, con una voce che era un sussurro e un incantesimo insieme.

“Da dove proviene?” chiesi, il timbro della mia voce strozzato dalla tensione.

Lei si sedette accanto al tavolo, accarezzando lo strumento con dita delicate. “È stato trovato in cima ad uno di questi monti,” disse, guardandomi di sfuggita. “Un luogo che i vecchi chiamano maledetto.”

Mi sedetti, o forse caddi su una sedia vicina. Le sue parole avevano risvegliato qualcosa in me, un ricordo confuso di racconti sentiti alla locanda, mormorati come avvertimenti a mezza voce.

“Uno di questi monti…” ripetei. “Perché maledetto?”

Evelyn sorrise ancora, ma questa volta il suo sorriso era freddo, come una lama di ghiaccio. “Molto tempo fa, prima ancora che questa terra avesse un nome, quel monte era sacro. Si dice che un albero cresceva sulla sua sommità, un albero antico e unico, con radici che penetravano più a fondo di qualsiasi altra pianta, fino a toccare ciò che sta sotto.”

“Cosa sta sotto?” chiesi, anche se il mio istinto mi diceva che non volevo saperlo.

“Non lo sappiamo,” rispose Evelyn, le sue dita sempre impegnate a tracciare motivi invisibili sul legno del violino. “Ma si racconta che l’albero fosse venerato da antiche genti. Si raccoglievano lì durante certi allineamenti astrali, suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue perdute. Quando l’albero fu abbattuto, un fulmine squarciò il cielo, e il legno si trasformò in qualcosa di… diverso.”

Ero impressionato, turbato da quel racconto, ma la domanda mi uscì da sola dalle labbra: “E il violino?”

“Fu intagliato dai resti di quell’albero,” disse Evelyn, il suo sguardo ora fisso su di me. “Chi lo suona… non può fare a meno di sentire ciò che l’albero sentiva.”

“E cosa sentiva?” domandai, anche se già temeva la risposta.

“Le voci,” disse lei, il tono così basso che quasi non lo sentii. “Le voci di ciò che è sotto.”

Cercai di guardare il violino con occhi più razionali, come se potessi smontare l’incantesimo che sembrava avvolgerlo. Ma ogni volta che lo osservavo, il legno sembrava mutare, le venature si spostavano, creando figure che non riuscivo a comprendere. Per un momento, mi sembrò di vedere un volto, o qualcosa che poteva vagamente somigliargli, emergere dalle profondità del legno. Distolsi lo sguardo, ero terrorizzato.

“Evelyn,” balbettai, “perché lo suoni?”

Lei rise, una risata che non aveva nulla di umano. “Non ho scelta,” disse. “Il violino vuole essere suonato. E più suono, più mi avvicino a ciò che esso vuole che io veda.”

“E cosa vedi?” chiesi, le mie parole quasi soffocate dal terrore.

“Non posso descriverlo,” rispose. “Ci sono luoghi, Lorenzo, che non appartengono alla nostra comprensione. Eppure esistono. Il violino… il violino è una chiave.”

Non sapevo cosa rispondere. Le sue parole erano come un veleno nella mia mente, contaminando ogni pensiero razionale. Sentivo un irresistibile desiderio di fuggire da quella casa, di abbandonare quel borgo e tutto ciò che riguardava Evelyn e la sua musica. Eppure, allo stesso tempo, sapevo che non potevo andarmene.

C’era qualcosa di seducente nel suo sguardo, qualcosa che mi chiamava. E poi c’era la musica. Anche solo la possibilità di ascoltarla di nuovo mi teneva prigioniero.

“Vieni con me,” disse Evelyn, alzandosi in piedi e afferrando il violino con una delicatezza quasi amorosa.

“Dove?” chiesi, la mia voce tremante.

“Al Monte maledetto,” rispose. “Devo mostrarti dove tutto ha avuto inizio.”

Non seppi dirle di no. Forse era la sua presenza magnetica, forse era la curiosità morbosa che mi aveva avvelenato l’anima, ma accettai. Mentre uscivamo dal casolare e ci dirigevamo verso la collina maledetta, non potevo fare a meno di sentire che stavo attraversando una soglia invisibile, oltre la quale nulla sarebbe stato più lo stesso.

Il Monte maledetto ci attendeva, la sua cima avvolta in una foschia irreale che sembrava danzare al ritmo di una melodia lontana, udibile solo nei recessi più oscuri della mia mente. Evelyn avanzava sicura, il violino stretto al petto, e io la seguivo, consapevole che, qualunque cosa avremmo trovato lassù, avrebbe cambiato per sempre il mio destino.

Il sentiero che conduceva alla sommità del Monte Maledetto era poco più di una traccia tortuosa e dimenticata, nascosta tra i vigneti e il fitto sottobosco che pareva nutrirsi di ogni frammento di luce. Camminavo dietro Evelyn, osservando il violino che portava stretto al petto come un reliquiario, il mio respiro che si faceva più affannoso a ogni passo. La collina sembrava crescere sotto i nostri piedi, come se il terreno si espandesse in un abisso senza fondo, e un’oscurità innaturale avvolgeva il nostro cammino, pur essendo ancora pieno giorno.

“Ti senti il peso?” chiese Evelyn, voltandosi appena per fissarmi con quegli occhi che erano troppo profondi per essere del tutto umani.

Annuii, incapace di rispondere. Sentivo il peso, ma non era quello della salita. Era un’energia strisciante, una pressione che mi schiacciava dall’interno, come se un’invisibile mano avesse afferrato la mia anima e la stesse stringendo sempre più forte.

Quando raggiungemmo finalmente la sommità del monte, il panorama si aprì davanti a noi come un anfiteatro dimenticato dagli dei. Un vento gelido spirava nonostante la stagione estiva, portando con sé odori metallici e terrosi che non appartenevano a quella regione. Al centro della radura spiccava una vasta depressione circolare, coperta da muschio e pietre nere come la pece. Evelyn si fermò sul bordo di quella voragine, poggiando una mano sulla sua superficie come se accarezzasse un animale dormiente.

“Qui sorgeva l’albero,” disse, la sua voce appena un sussurro.

Feci un passo avanti, avvicinandomi con esitazione. Le pietre intorno alla depressione non erano disposte a caso: formavano un cerchio quasi perfetto, interrotto da simboli incisi che sembravano non appartenere ad alcuna lingua conosciuta. Mi inginocchiai per osservarli da vicino, e fui sopraffatto da una sensazione di vertigine. Le linee dei simboli sembravano muoversi, distorcersi sotto i miei occhi, e un’eco di parole lontane sembrava risuonare nella mia mente.

“Che cosa sono questi segni?” chiesi, alzando lo sguardo verso Evelyn.

“Non lo sappiamo,” rispose lei. “Sono antichi. Più antichi di qualsiasi lingua umana. Qualunque cosa sia stata scritta qui, non era destinata a noi.”

Quelle parole mi fecero rabbrividire, ma non avevo tempo per il timore. Evelyn, con movimenti aggraziati ma decisi, posizionò il violino sotto il mento e alzò l’archetto. Quando iniziò a suonare, il mondo cambiò.

La prima nota sembrò aprire una ferita nell’aria stessa. Era una vibrazione che andava oltre l’udito, che si insinuava nelle ossa e si mescolava con il battito del cuore. Il vento che spirava sulla collina si arrestò di colpo, come se la natura trattenesse il respiro. La luce del giorno si affievolì, non per il calare del sole, ma come se il cielo stesso stesse oscurandosi da dentro.

La melodia che Evelyn suonava era impossibile da descrivere. Era insieme magnifica e terrificante, e ogni nota sembrava evocare immagini che non appartenevano al mondo conosciuto. Inizialmente vidi solo ombre, vaghe forme che si agitavano ai margini della mia percezione. Ma con il progredire della musica, quelle ombre si fecero più nitide.

Mi ritrovai a scrutare un paesaggio alieno, un’immensa distesa che si estendeva sotto un cielo brulicante di stelle mai viste. Montagne nere come il carbone si ergevano verso un firmamento in cui danzavano luci sconosciute, e in lontananza si scorgevano città ciclopiche, costruite con angoli e proporzioni che sfidavano ogni logica umana. Quella visione era insieme maestosa e opprimente, un panorama che sembrava fatto per occhi più grandi, per menti più vaste delle nostre.

Poi li vidi.

All’inizio erano solo macchie di movimento sullo sfondo, sagome che ondeggiavano come fumo o liquido. Ma mentre la musica si intensificava, quelle forme si avvicinarono. Erano creature gigantesche, con corpi che cambiavano costantemente forma, come se fossero fatte di un materiale plasmabile, una sostanza che non esiste sulla Terra. Tentacoli, arti, e sporgenze innaturali si contorcevano come in una danza macabra, e dove avrebbero dovuto esserci occhi c’erano spirali di luce che sembravano osservare ogni cosa, penetrando nella mia mente.

Urlai, o almeno tentai di farlo, ma nessun suono uscì dalla mia gola. Evelyn continuava a suonare, i suoi occhi chiusi come in trance, e io ero intrappolato in quella visione che mi risucchiava come un vortice.

Le creature avanzavano, e nonostante la loro forma in continuo mutamento, c’era una terribile consapevolezza nei loro movimenti. Sapevano di noi. Ci vedevano. Una delle creature si fermò e inclinò quella che poteva essere una testa, come se stesse osservando Evelyn con interesse. Poi qualcosa accadde.

Il violino emise una nota acuta, un grido che sembrava spaccare l’aria stessa, e la creatura rispose. Non con un suono, ma con un’ondata di energia che mi colpì come un muro invisibile. Mi sentii cadere, e la visione svanì di colpo.

Quando riaprii gli occhi, ero sdraiato sul terreno freddo della collina. Evelyn stava in piedi sopra di me, il violino ancora stretto in mano, ma il suo volto era cambiato. Sembrava più pallida, e le sue iridi erano di un colore che non riuscivo a definire, qualcosa tra l’argento e l’oro.

“Cosa… cosa sono quelle cose?” balbettai, sentendo la mia voce tremare come quella di un bambino spaventato.

“Non lo so,” rispose Evelyn, la sua voce distante. “Ma so che ci stanno aspettando.”

“Perché le chiami?” chiesi, disperato. “Perché continui a suonare?”

Lei mi guardò, e nei suoi occhi vidi una profondità spaventosa, orribile. “Perché non abbiamo scelta,” disse. “La musica è già stata scritta. Io sono solo lo strumento.”

Non ebbi modo di rispondere. L’aria sulla collina si fece pesante, e un rombo profondo cominciò a risuonare dal sottosuolo, un suono che non poteva essere naturale. Evelyn mi prese per il braccio, stringendo con una forza sorprendente per la sua esile figura.

“Dobbiamo andare,” disse. “Prima che sia troppo tardi.”

Mi trascinò giù per la collina, mentre il rombo si faceva sempre più forte. Non osai voltarmi, ma sapevo, sapevo con assoluta certezza, che qualcosa ci stava osservando da quella radura. Qualcosa di antico, di immenso, e di terribilmente affamato.

Tornato al borgo, scoprii che il mondo non era più lo stesso. O forse ero io a non essere più lo stesso. La collina, con le sue visioni e i suoi segreti innominabili, si era insinuata nella mia anima come una malattia, e non c’era forza umana che potesse estirparla. Evelyn aveva ripreso la sua vita di silenzi e melodie notturne, ma io non trovavo più pace.

Le visioni continuavano a perseguitarmi. Ogni volta che chiudevo gli occhi, rivedevo quei paesaggi impossibili, quelle creature colossali che sembravano osservare il mio essere con un’intelligenza primordiale e fredda. Quando aprivo gli occhi, la realtà intorno a me sembrava sbiadita, come se il mondo intero fosse solo un pallido riflesso di qualcosa di più vasto e terrificante.

Provai a tornare alla mia musica, ma il mio violino, che un tempo mi era così caro, sembrava ora un oggetto estraneo, inutile. Le note che provavo a suonare erano vuote, prive di vita, e ogni melodia che tentavo di comporre si spezzava come una fragile ragnatela al vento. Mi resi conto che il mio cuore non era più nel mio strumento; era rimasto su quella collina, intrappolato nelle note del violino di Evelyn.

Furono i miei sogni a tormentarmi di più. Sognavo spesso di trovarmi di nuovo sulla collina, al cospetto di quelle creature amorfe. Ma nei sogni non ero un semplice osservatore: ero parte di quel mondo alieno, e le cose che vedevo erano troppo orribili per essere descritte. Sognavo cieli striati di colori sconosciuti, città ciclopiche costruite con logiche imperscrutabili, e suoni che non avrebbero mai potuto essere prodotti da alcun essere vivente sulla Terra.

Non osavo parlare di queste cose con nessuno. Sapevo che mi avrebbero preso per pazzo, e forse non avrebbero avuto torto. Persino il locandiere, che inizialmente si era mostrato gentile, iniziò a guardarmi con sospetto, soprattutto quando mi vedeva vagare di notte, come un fantasma, in cerca di una pace che non trovavo mai.

Una sera, esasperato dalla mia stessa impotenza, decisi di affrontare Evelyn. Andai al suo casolare, ignorando il peso che mi gravava sul petto ogni volta che mi avvicinavo a quella casa maledetta. Quando bussai alla porta, il suono sembrò risuonare come un’eco vuota, e per un lungo momento pensai che non mi avrebbe aperto. Ma infine la porta si socchiuse, e il volto di Evelyn apparve nell’ombra.

“Lorenzo,” disse, con quella sua voce che sembrava sempre sul punto di dissolversi. “Perché sei qui?”

“Devo sapere,” risposi, senza riuscire a nascondere il tremore nella mia voce. “Devo sapere cosa stai facendo, cosa sta succedendo. Non posso più vivere così.”

Lei mi fissò per un lungo momento, e nei suoi occhi vidi qualcosa che non riuscivo a decifrare: pietà, forse, o forse un’amara consapevolezza. Senza una parola, si fece da parte e mi fece cenno di entrare.

La casa era più oscura di quanto ricordassi, e l’aria era pesante, come se qualcosa di invisibile la riempisse. Evelyn si sedette accanto al violino, che era posato sul tavolo come un idolo, e mi fece cenno di fare lo stesso.

“Non è troppo tardi,” disse, il suo sguardo fisso sullo strumento. “Puoi ancora andartene. Puoi lasciare questo posto e dimenticare tutto.”

“Non posso,” risposi, e in quel momento capii che era vero. Il violino mi aveva già catturato, e non c’era via di fuga.

Evelyn annuì lentamente. “Allora devi sapere la verità,” disse. “Ma sappi che una volta conosciuta, non potrai più tornare indietro.”

Le sue parole mi fecero rabbrividire, ma non dissi nulla. Evelyn prese il violino e iniziò a suonare.

La musica era diversa da qualsiasi altra che avessi mai sentito. Era più intensa, più terribile, e ogni nota sembrava risuonare direttamente nella mia anima. Le visioni tornarono, più vivide che mai. Vidi il Monte Maledetto come doveva essere stato in passato, con l’albero sacro che si ergeva maestoso sulla sua sommità. Intorno all’albero si raccoglievano figure umane, ma i loro volti erano distorti, e i loro movimenti non avevano nulla di naturale. Suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue che non potevo comprendere, ma che facevano risuonare una parte oscura della mia mente.

Poi vidi ciò che l’albero nascondeva. Le sue radici si estendevano in profondità, attraversando strati di terra e roccia fino a raggiungere qualcosa di vivo. Era una presenza immensa e informe, una coscienza antica che pulsava sotto la superficie della terra, in attesa di essere risvegliata. Le note del violino erano come un richiamo, e quella cosa rispondeva.

Gridai, cercando di interrompere la musica, ma Evelyn continuò a suonare, il suo volto pallido e immobile come una maschera. La visione si fece più intensa, e vidi le creature che avevo già intravisto sulla collina. Stavano emergendo, attraversando una frattura tra i mondi, attirate dalla musica e dal potere dell’albero.

Quando finalmente la musica cessò, mi ritrovai sdraiato sul pavimento della casa, il corpo tremante e sudato. Evelyn si chinò su di me, il suo volto ormai privo di emozioni.

“Capisci ora?” chiese. “Cosa sei tu?” balbettai, sentendo che la mia mente era sull’orlo della follia.

“Io sono come te,” rispose. “Una vittima di questa maledizione. Ma tu puoi ancora scegliere di andartene. Io, invece, appartengo già a loro.”

Non so come trovai la forza di alzarmi e lasciare quella casa. Quando tornai alla locanda, la notte era calata, e il borgo sembrava avvolto in un silenzio innaturale. Non dormii quella notte, né molte altre che seguirono.

Evelyn continuava a suonare, ogni notte, e ogni notte sentivo le sue note attraversare l’oscurità e risuonare nella mia mente. Sapevo che non sarei mai più stato libero. Ma ciò che mi terrorizzava di più era la consapevolezza che un giorno, forse presto, avrei seguito il suo esempio e suonato anche io quella melodia maledetta, per risvegliare ciò che non doveva essere risvegliato.

Non so dire con certezza quanto tempo trascorse dopo la notte in cui Evelyn mi rivelò la verità. I giorni si fusero in un’unica, interminabile attesa, e le notti furono tormentate dal suono della sua musica. Non avevo bisogno di avvicinarmi al suo casolare per ascoltarla: le note sembravano attraversare l’aria, infiltrandosi in ogni angolo del borgo, e poi nella mia mente, risuonando come un’eco che non si sarebbe mai spenta.

Evelyn stava preparando qualcosa; ne ero certo. La sua musica, prima così erratica e imprevedibile, era diventata più strutturata, più decisa. Ogni melodia sembrava costruire su quella precedente, formando un’architettura sonora che non riuscivo a comprendere ma che sapevo condurre a qualcosa di definitivo. Anche gli abitanti del borgo sembravano accorgersi del cambiamento. Li vedevo nei vicoli e nei campi, muoversi come ombre preoccupate, parlottare a bassa voce e lanciare occhiate verso la collina.

Ma il punto di svolta arrivò in una notte che sembrava destinata a non finire mai.

Ero nel mio alloggio alla locanda, incapace di dormire, come al solito. La musica di Evelyn riempiva l’aria, ma quella sera c’era qualcosa di diverso. Era più intensa, più profonda, e ogni nota sembrava risuonare come un colpo di martello su una porta antica. Quando aprii la finestra per cercare di capire cosa stesse succedendo, vidi che il cielo sopra il Monte Maledetto era diverso.

Non era più il cielo che conoscevo. Al posto delle stelle familiari, c’erano luci che si muovevano lentamente, tracciando schemi intricati. Sembravano stelle, ma non lo erano: erano troppo grandi, troppo vicine, e la loro luce era fredda e innaturale. Una nebbia densa e luminosa avvolgeva la collina, e dal cuore di quella foschia emanava una presenza che mi fece gelare il sangue.

Sapevo che dovevo andare lì. Non avevo scelta.

Afferrando il mio violino — per ragioni che non comprendevo del tutto — lasciai la locanda e mi avviai verso la collina. Il villaggio era deserto, o almeno così mi sembrò. Non c’era segno di vita, nessun rumore, solo il mio respiro affannato e il suono della musica che mi guidava, sempre più forte, sempre più inesorabile.

Quando raggiunsi il casolare di Evelyn, trovai la porta spalancata. La casa era vuota, ma l’aria all’interno era carica di energia, come se un fulmine stesse per colpire da un momento all’altro. La musica proveniva dalla collina, e sapevo che lei mi aspettava lì.

Il sentiero verso la sommità del Monte Maledetto, che avevo percorso una volta con tanto timore, era ora un corridoio di luce e ombre che sembravano vive. Ogni passo che facevo era accompagnato da un senso crescente di terrore e anticipazione, come se stessi camminando verso la mia condanna.

Quando finalmente raggiunsi la cima, trovai Evelyn al centro della radura, illuminata dalla luce innaturale che emanava dalla foschia. Suonava il suo violino con una concentrazione feroce, e le note che produceva non erano più musica: erano parole, frasi di una lingua che non avrei mai potuto comprendere ma che sentivo risuonare nei recessi più oscuri della mia anima.

“Evelyn!” gridai, cercando di farmi sentire sopra il tumulto della sua musica.

Lei alzò lo sguardo verso di me, e ciò che vidi nei suoi occhi mi fece vacillare. Non erano più occhi umani. Brillavano di una luce aliena, e dietro di essi c’era qualcosa di vasto, qualcosa di antico, che osservava attraverso di lei.

“È troppo tardi, Lorenzo,” disse, e la sua voce sembrava venire da un altro mondo.

La terra tremò sotto i miei piedi, e dal cerchio di pietre che delimitava la radura cominciarono a emergere delle ombre. Erano contorte, amorfe, eppure terribilmente vive. Erano le stesse creature che avevo visto nelle mie visioni, ma ora erano qui, nel nostro mondo, e la loro presenza era un oltraggio a ogni legge della natura.

Evelyn continuava a suonare, e con ogni nota quelle ombre si facevano più solide, più reali. Mi resi conto che il violino era la chiave, il ponte che stava aprendo la strada tra i mondi. Ero paralizzato dal terrore, incapace di muovermi o di distogliere lo sguardo da ciò che stava accadendo.

Ma poi sentii qualcosa dentro di me, una forza che non sapevo di possedere. Con mani tremanti, sollevai il mio violino e iniziai a suonare. Non sapevo cosa stessi facendo, ma le note che emettevo sembravano entrare in conflitto con quelle di Evelyn, creando un’armonia distorta che fece vacillare le ombre.

Evelyn mi guardò con un’espressione di pura disperazione. “Non capisci!” gridò. “Se interrompi la musica, loro ci distruggeranno entrambi!”

Ma non le diedi ascolto. Continuai a suonare, con tutta la forza e la determinazione che mi restavano. Le ombre si contorcevano, emettendo suoni che non erano di questo mondo, e il terreno sotto di noi cominciò a cedere. Evelyn gridò qualcosa, ma le sue parole furono coperte da un’esplosione di luce e suono che mi travolse.

Quando riaprii gli occhi, mi trovai da solo sulla collina. Il cerchio di pietre era crollato, e la foschia si era dissolta. Non c’era traccia di Evelyn né delle ombre. Solo il mio violino, rotto, giaceva a terra accanto a me.

Non so cosa accadde quella notte, né se il mondo sia mai stato veramente salvo. Ma una cosa è certa: la musica di Evelyn non mi abbandonerà mai. La sento ancora, nei miei sogni, nei miei pensieri, e so che un giorno, forse presto, mi chiamerà di nuovo. E questa volta, non ci sarà nessuno a fermarmi.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

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