Omicidio in Val Tidone

Paranoici che non hanno torto

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A capo delle indagini sull’omicidio in Val Tidone era stato messo il commissario Evodio Segugio, ed egli sembrava avesse fretta di proseguire la sua investigazione, si sentiva a disagio nel stare seduto a tavola inoperoso. Sostarono alla locanda il tempo necessario per il pranzo, senza concedersi nessuna ulteriore pausa.

Ai suoi ordini erano stati inviati anche due sgherri dell’OVRA: due persone di poche parole.

Infine, come consulente scientifico, avevano chiamato il professore Leonzio Landone. E al professore i due agenti dell’OVRA non piacevano. Aveva imparato a interpretare i loro silenzi, a considerare quelle facce inespressive come qualcosa di diverso dalla quinta essenza della stupidità. Tuttavia giudicava che quei due non si potessero annoverare tra le multiformi categorie dell’essere umano, e per questo oltre a suscitargli disgusto continuavano a incutergli un certo timore. Non era solo per la loro stazza fisica o perché potevano essere veramente pericolosi. Ciò che Landone giudicava più inquietante erano quei grugni inebetiti, come se oltre al cervello anche l’anima fosse stata succhiata fuori dal loro cranio scimmiesco. Camminavano, sudavano e scorreggiavano, considerò il professore versandosi il vino bianco della casa nel grosso bicchiere di vetro, ma a lui sembravano comunque morti. Solo il commissario aveva una luce di minima vitalità in fondo agli occhi, peccato che fosse uno stronzo, rifletté bevendo con gusto il profumato nettare di bacco.

Anche Segugio era assorto nei propri pensieri, e dalla fronte corrugata si poteva intuire una certa inquietudine. Dai colloqui della mattinata e dai sopralluoghi sulla scena del delitto e a casa della vittima non aveva potuto trarre nulla di utile, non vi erano testimoni, nessuna traccia. Le cose non si mettevano per il meglio. E poi c’era il professore in mezzo ai piedi, più interessato a bere che a dare un qualsiasi serio contributo alle indagini. Lo osservava mentre tracannava il vino bianco aromatico della locanda, pensando a chi sa cosa, con lo sguardo furbo di chi sta cercando di fregarti. Come era possibile che all’OVRA credessero di cavar fuori qualcosa di buono da quel pagliaccio? Certe volte le decisioni degli organi superiori erano imperscrutabili, pensò il commissario, sperando che alla fine di quella storia decidessero di spedire Landone al confino. Nel suo rapporto finale, lui non gli avrebbe fatto sconti.

Intanto il professore continuava a bere.

Stavano per servire il surrogato di caffè quando Landone decise di assentarsi per andare in bagno. Attraversò la sala da pranzo della locanda e si avviò verso i gabinetti. Era ancora perfettamente sobrio, il vino leggero e di bassa gradazione che aveva ingurgitato, per quanto abbondante, non aveva sortito altro effetto che stimolargli la vescica. Mentre pisciava pensò che la propria vita in fin dei conti era sfortunata: c’erano le corse dei cavalli, ma lui perdeva sempre, era diventato un professore, ma ora doveva lavorare per l’OVRA e improvvisarsi investigatore, avrebbe voluto amare molte donne, ma non riusciva a legarsi con nessuna. Si chiese cosa gli sarebbe servito per essere un vero vincente, come facesse tutta quella gente indaffarata, quasi frenetica, a sopravvivere ed essere felice, tutta presa dall’euforia adrenalinica di una vita senza senso.  Prima o dopo però, avrebbero prevalso altre riflessioni: la caducità della salute, l’inevitabilità della morte, l’inutilità dei beni terreni. In molti avrebbero allora pensato che stavano sprecando il proprio tempo in questo mondo, ed avrebbero avuto ragione. Il professore considerò che la propria giovinezza fosse già da tempo finita, ed era ormai più vicino alla fine di un’esistenza mediocre piuttosto che al principio di una vita di successo. Tirò lo sciacquone e tornò sui suoi passi.

Appena fuori dai cessi si trovò davanti la locandiera. Era una simpatica cicciona alta come un armadio, aveva le spalle grosse e un ghigno accattivante sopra al doppio mento flaccido. Le tette erano enormi e il professore non poté fare a meno di notarlo. La grassona stava in piedi in mezzo al corridoio, e non vi era modo di procedere oltre, se lei non lo avesse voluto. Landone abbozzò un sorriso e lei lo ricambiò avvicinandosi, non disse nulla, ma lui capì ogni cosa.

Lei aprì una porta sulla destra che dava accesso ad uno sgabuzzino.

Lui la strinse tra le braccia trascinandola dentro e gli infilò la lingua in bocca.

La locandiera lo abbracciò e lui la lasciò andare soltanto dopo un lungo bacio appassionato e dopo aver chiuso a chiave la porta del ripostiglio. Lei si girò alzandosi la lunga gonna e mostrando al professore le gigantesche terga. Non indossava le mutande e lui non era il tipo da tirarsi indietro.

Un ratto scappò fuori dal bugigattolo mentre il professore la prendeva da dietro. Fu un rapporto breve, fugace ma appagante. Quando finirono la panciona aprì la porta felice, e sempre senza dire nulla se ne andò così come era arrivata.

Il professore si ricompose velocemente e tornò nella sala da pranzo. Nessuno si accorse di nulla, lui si rilassò e cominciò a fumare la sua pipa. Dopo settimane in bianco, la prima scopata senza pagare una puttana, pensò sogghignando prima di bere il surrogato di caffè.

Nel primo pomeriggio si trasferirono tutti presso la dimora di Alcide Pramiro, il fratello malato dell’uomo assassinato. Il sole era alto nel cielo, faceva caldo e dalle strade sterrate della campagna piacentina saliva una polvere sottile che diventava appiccicosa a contatto dei corpi sudati per l’afa. Le case del piccolo borgo erano poche, vecchie e grigie, consumate dal tempo e dalla miseria. Gli abitanti erano quasi tutti bifolchi impegnati a lavorare nei campi, ad eccezione di poche vecchiette che, nascoste dietro le persiane socchiuse delle finestre, osservavano incuriosite gli insoliti forestieri aggirarsi per il villaggio.

La casa dei Pramiro era più grande delle altre, ma era ugualmente antica e parimenti disposta su due piani. Costruita qualche secolo prima emanava un’aurea di tristezza e malinconia, come se anche i muri scrostati di quella vecchia dimora fossero partecipi del dolore e dell’angoscia provocati dall’assassinio e dalla oramai prossima ed inevitabile dipartita del capo famiglia.

Gli scagnozzi dell’OVRA rimasero fuori davanti alla porta, con le loro facce assurde e vestiti di nero come la morte. Segugio e Landone entrarono nel vetusto edificio e salirono al piano superiore, dove erano collocati gli appartamenti dei Pramiro. Le scale in legno scricchiolarono fragorosamente al loro passaggio, sinistro presagio di nuove sfortune. Appena arrivati, il commissario intuì subito che qualcosa di nuovo e negativo era accaduto. Suonarono alla porta e una donna sui quarant’anni con la faccia da funerale venne ad aprire.

Era la figlia più giovane di Alcide, che alla vista dei due inattesi visitatori spalancò gli occhi infastidita, riconobbe l’uniforme della milizia fascista indossata dal commissario e ne fu turbata. Si fece forza e domandò tremando: “Cosa volete?”

“Sono il commissario Evodio Segugio, questo è il mio collega Landone, e stiamo indagando sul delitto della Val Tidone: l’omicidio di Mario Pramiro. Vorremmo fare qualche domanda a….”

Segugio non fece in tempo a terminare la frase che la donna scoppiò a piangere.

“Mio zio è stato ucciso, mio padre sta morendo, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate nella notte” riuscì a dire a fatica singhiozzando. Alla imprevedibile perdita dello zio, si sommava dunque l’imminente fine del genitore. Il primo era stato barbaramente assassinato, il secondo era stato lentamente divorato dalla malattia. La donna era comprensibilmente sconvolta.

“Abbiamo già risposto alle domande dei carabinieri, Vi prego di andarvene e di lasciarci al nostro dolore” aggiunse tra le lacrime.

“Posso comprendere il Vostro dispiacere, ma ogni minuto che passa è tempo prezioso che rischiamo di perdere mentre gli assassini di Vostro zio sono ancora in libertà.”

La donna non smetteva di piangere e in suo soccorso apparve sulla porta la sorella.

“Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto già detto” disse con voce tagliente, fissando decisa il volto di Segugio.

Il professore rimase colpito e affascinato dall’energia sprigionata da quella femmina, la sua avvenenza solare lo ammagliò al primo sguardo. Benché non fosse più molto giovane, la sua bellezza era intatta e Landone ne fu attratto fatalmente. Aveva lunghi capelli neri, la pelle bianchissima e la vita sottile. Il seno era prosperoso e le lunghe gambe conferivano slancio alla sua figura snella e seducente. Le labbra carnose e un naso delizioso abbellivano un volto radioso, illuminato da due grandi occhi verdi come smeraldi preziosi.

“Lasciate a noi il compito di giudicare, ho letto il rapporto dei carabinieri sull’omicidio in Val Tidone e vi sono alcuni dettagli che riteniamo importante approfondire” insistette il commissario.

“Sono certa potremo aiutarvi a chiarire i vostri dubbi in un altro momento, ed ora se volete scusarci, dovremmo accudire nostro padre” ribadì la donna tentando di chiudere la porta.

“Potremmo interrogarvi anche in altra sede, e credo che Vi risulterebbe complicato badare a Vostro padre da dietro le sbarre di una prigione” disse Segugio con tono minaccioso, dopo aver bloccato la porta con la mano, un attimo prima che si chiudesse.

Un lampo di disappunto fuoriuscì dagli occhi smeraldo della donna, ma Segugio sembrava insensibile all’energia e al fascino della figlia primogenita di Alcide Pramiro. Al contrario il professore osservava quel volto indignato con trasporto, percependone la passione e la potenziale carica sessuale fuori dall’ordinario.

“Non mi illudo che possiate avere degli scrupoli, perciò per ora avete vinto commissario, ma sarà meglio per Voi fare in fretta, la mia disposizione d’animo nei Vostri confronti potrebbe peggiorare velocemente” disse lei riaprendo la porta.

Segugio e Landone furono fatti entrare e la sorella più giovane li condusse nell’ampio soggiorno, dove tutta la famiglia si era raccolta per essere vicina ad Alcide Pramiro nel momento della morte che si avvicinava. I mobili erano tutti antichi come la casa, ma di buon gusto, e davano nell’insieme un aspetto gradevole ed accogliente a tutto l’ambiente. C’erano comode poltrone in pelle, una grande libreria che copriva tutta la parete più lunga tra le due alte finestre aperte sulla via. Su di un tavolo ovale era collocato un moderno grammofono.

Le presentazioni avvennero in un clima di aperta ostilità. Tutti i parenti nutrivano espliciti sentimenti di diffidenza e astio nei confronti di tutto ciò che la divisa del commissario rappresentava. Cleofe e Melitina erano i nomi delle due figlie di Alcide, Aristide Zenobio era il marito di Cleofe, la signora Benedetta la seconda moglie di Alcide.

Segugio, totalmente indifferente ai sentimenti di antipatia che tutti i presenti mostravano di provare, senza troppo tergiversare iniziò a porre le proprie domande. Il professore si sedette invece su di una comoda poltrona e cominciò a spiare le belle gambe di Cleofe. La donna indossava un’elegante gonna nera lunga poco oltre le ginocchia e una fresca camicia bianca di seta che metteva in risalto il lungo collo cinto da una sottile collana di perle. Si era seduta su di un largo divano proprio di fronte al professore, mostrando le lunghe gambe per il piacere voyeuristico del Landone.

“La sera dell’omicidio, Mario è stato in visita da suo fratello, come la signora Benedetta ha già confermato, sapreste dirmi che cosa si sono detti?”

La moglie dell’infermo abbassò lo sguardo verso il pavimento. Era una donna esile, tutta vestita di nero, come se fosse già in lutto ancor prima che il marito fosse spirato.

Melitina le sedeva accanto, il volto ancora intristito dalle lacrime non poteva competere in bellezza con quello della sorella maggiore. Tutto di lei appariva mesto: dall’abbigliamento semplice e umile alle forme del suo corpo un po’ tisico e trascurato. Anche il carattere fragile e introverso suggeriva come l’esistenza di quella donna fosse stata segnata sin dall’infanzia da un destino di tristezza e melanconia. Non aveva trovato marito, aveva perduto presto la madre, ed ora che anche il padre era vicinissimo alla fine, sarebbe rimasta sola con la matrigna, in attesa che la propria vita priva di significato e felicità si trascinasse lentamente sino all’età della vecchiaia. Melitina era consapevole della propria sorte e ne soffriva, si piegò sulle ginocchia e riprese a piangere.

“Mio zio veniva tutti i giorni a trovare papà, pregavano insieme, talvolta anche in compagnia di Benedetta e di mia sorella. Cosa volete che si siano detti? Non sapete che mio padre è gravemente malato? Sta morendo se non lo avete ancora capito! Perché non andate a cercare l’assassino anziché perdere tempo con noi?”

Cleofe aveva parlato con tono aggressivo, le parole erano uscite dalla sua bocca carnosa come saette sibilanti, gli occhi avevano scintillato carichi di tensione, la voce si era fatta acida e il corpo rigido. Il commissario non fu nemmeno per un istante scalfito da quella stizzita reazione, al contrario il professore ne rimase ferito, come se all’improvviso la bellezza di un’opera d’arte venisse compromessa da una nuova luce, troppo forte, troppo intensa per poterla avvolgere in modo armonico.

“Sapreste allora dirmi se Vostro zio avesse dei nemici?” domandò Segugio con voce calma e rilassata, nettamente in contrasto con l’aria tesa che si respirava in quella stanza e che si poteva affettare con un coltello.

“Gli unici nemici di mio zio erano i fascisti!” disse aspra Cleofe “perché non andate ad interrogarli? Perché non volete lasciarci in pace? Pensate veramente di poterci infastidire in questo modo senza conseguenze? Sappiate che anche per Voi verrà un tempo in cui dovrete rendere conto!”

La seconda replica risentita della donna investì Segugio con lo stesso impeto della prima, questa volta lasciando qualche segno. Il professore notò sul volto del commissario una leggera smorfia di disappunto, forse di irritazione. Egli stesso iniziava a provare nuove sensazioni che non era ancora in grado di decifrare compiutamente, ma che intuiva potessero assomigliare a vera e propria avversione nei confronti di quella creatura così bella eppure d’improvviso così indesiderabile.

“Dopo le abituali visite a Vostro marito, Mario Pramiro dove si recava?” chiese il commissario direttamente alla signora Benedetta, ignorando le provocazioni di Cleofe.

“Credo tornasse a casa per la cena… si, ne sono certa, dopo averci fatto visita tornava sempre dalla signora Tina per cenare” rispose timidamente la moglie di Alcide Pramiro.

Cleofe non intervenne, ma osservando il suo volto indurito dalla tensione, il professore pensò di poter indovinare i suoi pensieri, e valutò che non dovessero essere riflessioni accomodanti.

“Parlava spesso delle cene preparate dalla Tina, la considerava un’ottima cuoca” aggiunse Melitina che preso coraggio aveva smesso di piangere.

Segugio si ricordò che nella cucina a casa del morto, erano stati ritrovati i resti di una cena mai consumata. Iniziò a porsi delle domande. Cosa era accaduto dopo che Mario aveva lasciato la casa del fratello? Per quale motivo aveva rinunciato alla propria cena? Era andato direttamente al granaio dove sarebbe stato ucciso o era prima passato da casa? Decise che avrebbe dato in seguito una risposta a questi quesiti e continuò l’interrogatorio.

“Che voi sappiate aveva altre frequentazioni oltre alla cerchia dei parrocchiani? Condivideva qualche amicizia particolare con la Vostra famiglia?”

A questa nuova domanda scese un imbarazzato silenzio, tutti i presenti abbassarono il capo, tutti tranne Segugio, Cleofe e il professore i cui sguardi si incrociarono per un attimo. A Landone sembrò di scorgere una fiammata d’ira negli occhi smeraldo della donna, tanta era l’energia che potevano sprigionare. La vide alzarsi e avvicinarsi al commissario, una nuova sfuriata stava per abbattersi sul solerte funzionario dell’OVRA. Era come un fiume in piena, Cleofe parlava e gesticolava spiegando a Segugio le proprie ragioni, parlava e agitava le braccia, dicendo al commissario che non poteva rovistare nella loro vita privata. La sua voce salì di tono sin quasi ad urlare, senza mai smettere di parlare. Arrivò a minacciare il commissario di percosse fisiche e alla fine si sedette nuovamente, dopo aver rilasciato tutto il suo carico di livore, lamentele e scintille, senza nemmeno essere sfiorata dal sospetto che tutto quel parlare potesse risultare sgradevole.

Il professore iniziò ad innervosirsi, non era preparato a fronteggiare questo genere di situazioni. Era abituato a gestire le sue amanti, ma non aveva mai conosciuto una donna come quella, la giudicò totalmente insopportabile, e pensò che sarebbe uscito di senno stando lì ad ascoltare quelle tempeste umorali. Doveva trovare il modo di farla tacere, se avesse ripreso a mitragliargli il cervello con quella intollerabile voce, non avrebbe resistito a lungo, ma cosa poteva fare? Doveva farsi venire un’idea brillante, intanto Segugio attaccò con un’altra insidiosa domanda.

“In paese si mormora che il signor Mario avesse una relazione extraconiugale con la moglie del segretario comunale, potete confermare questa circostanza?”

Un’espressione di indignazione si materializzò plasticamente sui volti dei parenti dell’uomo assassinato, e l’affronto fu tale che persino il marito della signora Cleofe, sino a quel momento silenzioso come una sfinge, osò intervenire.

“Come potete credere a questi pettegolezzi, a queste menzogne messe in circolazione al solo scopo di screditare il povero Mario?”

Aristide Zenobio era una persona semplice, dai modi garbati, il tono della voce era quello di chi quasi si scusa per aver osato parlare. Non vi erano intenzioni polemiche nelle sue parole, piuttosto sincero rammarico per l’ennesima cattiveria consumata ai danni di un morto, che in quanto tale non poteva nemmeno difendersi dai suoi calunniatori.

“Tu stai zitto” brontolò Cleofe nel dialetto locale, prima che il marito potesse aggiungere altro. Zenobio abbassò allora lo sguardo, pentito di aver dispiaciuto la moglie.

Lei era scattata in piedi, pronta a scatenare nuovamente il proprio impeto. Iniziò una serrata e veemente requisitoria contro il regime e le sue aberrazioni, a suo dire all’origine di tutte le manovre persecutorie contro la sua famiglia. Nell’enfasi e nella concitazione delle proprie locuzioni aveva addirittura cambiato il colore della pelle, che da bianchissima era diventata rossa, sia per la calura che per la rabbia.

Landone oramai non ne poteva più. Accarezzò persino l’idea di rubare la pistola del commissario e sparare in testa a quella strega isterica, ma riuscì a dominare quel repentino istinto omicida. Le gambe della donna, che poco prima avevano stuzzicato le sue fantasie, ora gli davano la nausea, mentre si muovevano nevrotiche insieme a quel corpo ben fatto, ma che ormai era divenuto soltanto il piacente involucro di uno spirito logorroico. Persino Segugio iniziava a dare segni di impazienza. Il volto imperturbabile col quale aveva fatto fronte alle prime scenate di Cleofe, aveva lasciato il posto ad una maschera di pietra, scolpita d’irritazione e fastidio.

Quando lei terminò il suo discorso accalorato, per un attimo ci fu silenzio, e Landone con destrezza cercò di imporre una tregua. Sapeva bene che non poteva durare a lungo, ma anche solo cinque minuti di rilassante normalità lo avrebbero aiutato a non dar fuori di testa.

“Che ne dite di fare una bella pausa? Potrebbe essere un ottimo momento per un caffè, possibilmente corretto” chiosò il professore.

Segugio annuì, ed anche la signora Benedetta e Melitina diedero a intendere di essere d’accordo. Soltanto Cleofe si oppose all’idea, subito spalleggiata dal servizievole marito.

“Perché non andate via piuttosto?” domandò sempre più inacidita. Zenobio la guardava annuendo con aria stranita.

“Il nostro lavoro non è finito, e lo porteremo a termine in ogni caso, con o senza surrogato di caffè” rispose freddamente, ma con decisione, il commissario.

Melitina si alzò e andò in cucina a preparare un tè, Benedetta cominciò ad apparecchiare la tavola. Cleofe si sedette accavallando le gambe, e dondolando nervosamente il piede destro osservava a turno sia il commissario sia il professore, riservando ad entrambi sguardi di rimprovero carichi di malevolenza.

Landone si accorse in quel momento che quegli occhi avevano qualcosa di famigliare, qualcosa che aveva già visto in passato. Aveva sete, desiderava bere del vino o una qualsiasi bevanda purché fosse alcolica. Guardò ancora gli occhi di Cleofe, con attenzione e a lungo. Quegl’occhi, aveva già visto occhi così, erano gli occhi di una pazza, pensò il professore ricordandosi di una sua amante di qualche anno prima, una ragazza di ventidue anni sposata con un generale e che era stata qualche tempo in manicomio.

Si chiamava Livia e si erano conosciuti ad una festa, o almeno Landone  così credeva di ricordare, dato che quando la incontrò era già sbronzo e i dettagli di quella notte erano scomparsi dalla sua memoria. Era certo solo del fatto di essersi svegliato il giorno dopo nel letto coniugale della ragazza. Si frequentarono a lungo durante tutto il 1936 e mentre il marito era in Etiopia a conquistare l’Impero, Livia si faceva consolare dal professore. Landone ricordava bene quanto Livia fosse disturbata, non sopportava un sacco di cose e ciò che era peggio, almeno dal suo punto di vista, non tollerava che lui si ubriacasse. Era fissata con il sesso, pretendeva di farlo tutti i giorni e quando Landone era sbronzo e non riusciva a combinare un gran che, Livia si infuriava. La sera sei troppo ubriaco e la mattina troppo sconvolto, gli diceva sempre quando si arrabbiava, ma il professore continuò a ubriacarsi regolarmente e finirono con il litigare pesantemente. In ultimo lei lo lasciò. Mia madre me lo aveva detto di non mettermi con un vecchio coglione come te, gli aveva sbraitato contro il giorno che aveva deciso di rompere quella relazione extraconiugale. L’ultima volta che si videro Livia era ancora giovane, bella, con capelli voluminosi e un fisico formoso. Landone continuava ad osservare Cleofe e alla fine ne fu certo. I suoi occhi inquieti assomigliavano incredibilmente agli occhi folli della Livia furibonda.

Servirono del tè e del cognac, Landone ignorò il primo e si lanciò sul secondo, ne sentiva il bisogno e sorseggiandolo lentamente si sentì meglio per alcuni secondi. La tensione non accennava a diminuire e Segugio aveva fretta di concludere l’interrogatorio. Era deluso, sino a quel momento non aveva ottenuto nessuna informazione utile. Cleofe in modo esplicito, ma anche gli altri nei fatti, non lo stavano aiutando. Il commissario stava studiando quelle quattro persone davanti a sé come un pugile sulla difensiva studia l’avversario, pronto a ripartire con un colpo a sorpresa, finalizzato a eludere una guardia sino a quel momento insuperabile. Era sicuro che quei quattro sapessero, che stessero coprendo qualcosa che non volevano condividere, ma non riusciva a comprenderne il motivo. Certo erano diffidenti e apertamente ostili al fascismo, eppure doveva esserci dell’altro, stava pensando Segugio, un risvolto della vicenda di cui forse avevano persino timore. Le reazioni esagerate di Cleofe e la preoccupazione che si poteva leggere sui volti delle altre due donne erano tutti indizi che suggerivano uno stato d’animo di apprensione e nervosismo. Che cosa nascondevano i parenti di Mario Pramiro, di cosa avevano paura?

Landone invece era attraversato da pensieri di natura totalmente diversa. Non gli piaceva indagare sull’omicidio in Val Tidone, non gli piaceva quella vecchia costruzione di campagna, non gli piacevano le vecchie e pesanti tende alle finestre, non gli piaceva la tappezzeria triste e scura come non gli piacevano gli inquilini di quella casa. Melitina e Benedetta lo deprimevano con quelle facce in lutto, per lo sfortunato Zenobio provava compassione, immaginando quale esistenza infernale avesse scelto di vivere insieme alla terribile moglie. Cleofe gli provocava sentimenti di schietta e violenta repulsione. Avrebbe voluto andarsene, ma sapeva che non c’era nessun posto dove andare. Era costretto a restare in quel vecchio e brutto appartamento a cercare di scoprire chi fosse l’assassino di un uomo che non aveva nemmeno conosciuto e del quale non gli fregava nulla. Non gli fregava niente di niente, avrebbe solo voluto chiudersi in una camera buia, scopare la locandiera obesa ed ubriacarsi. Riempì il bicchiere e continuò a bere.

Cleofe si accese una sigaretta, osservò con disprezzo il professore tracannare il secondo bicchiere di cognac, pensò che fosse ripugnante e lo odiò. Segugio, oltre che gli stessi sentimenti di inimicizia e insofferenza, suscitava nella donna anche una profonda irritazione, una rabbia che lei non riusciva a reprimere e ancor meno a controllare. Non tollerava il suo portamento calmo e rilassato, ne detestava la faccia da sbirro, e più di ogni altra cosa non poteva accettare il modo orgoglioso con il quale sfoggiava la maledetta divisa della milizia fascista. Cleofe era un’autentica antifascista democratica, avrebbe voluto vivere in America e considerava tutte le dittature una iattura per l’umanità. Disapprovava Mussolini e tutti i fascisti, soprattutto da quando avevano messo fuori legge la massoneria e cominciato a perseguitare la sua famiglia.

Se avesse fatto un’altra domanda fuori luogo lo avrebbe preso a schiaffi, si disse Cleofe lanciando a Segugio uno sguardo di sfida. Si sentiva superiore e riteneva di poter tener testa al funzionario dell’OVRA.

In effetti sino a quel momento aveva gestito la situazione con destrezza, Segugio non era stato capace di tirare fuori un ragno dal buco, e lei si era convinta di poterlo dominare sino alla fine, come era abituata a fare con gli altri uomini, come faceva ogni giorno con il marito. Landone non la preoccupava minimamente, lo giudicò una nullità e decise semplicemente di ignorarlo. Si era accorta degli sguardi indiscreti che il professore aveva rivolto alle sue gambe, ma non ne era rimasta impressionata. Da un idiota quale pensava che lui fosse, non si aspettava nulla di diverso. Per un istante, mentre fumava avidamente la sigaretta, immaginò il professore inginocchiato ad adorarle i piedi in uno stato di totale asservimento. I suoi occhi brillarono di una luce enigmatica proprio mentre incrociò ancora il suo sguardo.

Povero stronzo, pensò lei.

E’ completamente pazza, si disse lui.

Segugio posò la tazzina del tè sul tavolino che aveva davanti, ringraziò per l’ospitalità e decise che era giunto il momento di tornare all’attacco.

“Vi risulta che Mario possedesse dei valori? Possedeva molto denaro o qualche altro oggetto prezioso?”

A questa nuova domanda Benedetta e Melitina abbassarono nuovamente il capo senza parlare, imbarazzate non sapevano cosa rispondere. A toglierle d’impaccio ci pensò ancora una volta Cleofe.

“Mio zio aveva fatto voto di povertà, era un uomo semplice e pio, dei denari e di ogni altra cosa terrena posseduta dalla nostra famiglia si è sempre occupato mio padre. Io credo siate del tutto fuori strada commissario, di questo passo non arriverete da nessuna parte, e intanto l’assassino è là fuori, impunito!”

Cleofe parlava con la consueta agitazione e gesticolando animatamente. Il tono della voce si era di nuovo alterato, come a sottolineare l’indole indomita di quella donna, determinata a non dare sconti, decisa a non cedere e nemmeno ad arretrare, come un’amazzone in battaglia.

“Descrivete Vostro zio come un Santo, ma le ragioni della sua morte sono avvolte dal mistero. Dite che non aveva nemici e che non si occupava di questioni terrene, eppure è stato barbaramente ucciso. Non Vi siete posta la domanda di chi o perché abbia compiuto un simile riprovevole gesto?”

Segugio continuò il duello retorico con la nipote del morto, capiva di aver di fronte un osso duro, ma contava ancora di poterla avere vinta, di indurla in errore. Era sicuro che prima o dopo avrebbe finito col tradirsi, prima o poi, senza volerlo, avrebbe dato qualche informazione utile, un indizio, una traccia da seguire.

“Fare domande non è il mio mestiere” replicò Cleofe, “piuttosto sembra essere il Vostro, anche se i quesiti che ponete non credo Vi saranno di grosso aiuto” chiosò acidamente, mentre si accendeva un’alta sigaretta.

Landone si riempì il bicchiere una terza volta e si alzò dalla poltrona dove era seduto, si spostò vicino alla finestra e guardò fuori. Gli edifici lungo la via erano tutti tristi e la strada deserta. La voce affilata e penetrante di Cleofe gli dava i brividi, la pelle d’oca. Non era tanto il contenuto delle sue risposte a irritarlo, anzi di quello non si curava minimamente. Era la voce a dargli sui nervi, quella maledetta voce tagliente come un rasoio lo infastidiva in maniera insopportabile. Immaginò di infilarle la teiera in bocca e di spaccarle tutti i denti. Così avrebbe smesso di affettargli il cervello, si disse guardando un piccione alzarsi in volo e scomparire dietro la casa di fronte.

“Non avete risposto alla mia domanda” disse calmo il commissario, “chi pensate che abbia ucciso Vostro zio?”

Cleofe si fece buia in volto, restando in silenzio per qualche secondo, come a voler meglio meditare la giusta risposta. Fissò Segugio negli occhi e lo sfidò ancora guardandolo con rancore.

“La mia opinione non ha alcuna rilevanza ai fini delle Vostre indagini sul delitto della Val Tidone, commissario. Come Vi ho già detto siete sulla pista sbagliata, da Voi mi sarei francamente aspettata qualcosa di meglio.”

Segugio ignorò ancora una volta la provocazione, era un professionista e sapeva come condurre un interrogatorio. Cleofe eludeva le domande, ma lui non si sarebbe lasciato trascinare in nessuna sterile polemica, non ne aveva voglia e nemmeno tempo. Scrutò gli occhi della donna e capì che lei non avrebbe parlato, non a lui, non quel pomeriggio e forse mai, nemmeno sotto tortura. Decise che l’avrebbe fatta pedinare, che la corrispondenza sarebbe stata controllata, le telefonate ascoltate. Avrebbe pagato a prezzo della libertà tutta l’insolenza di cui stava dando prova.

“Da alcuni mesi Fulgenzio Pramiro, il Vostro fratellastro, ha lasciato il paese. Dove è andato?”

Cleofe era perplessa, esitò per alcuni istanti, non si aspettava una domanda del genere, e soprattutto non aveva previsto di dover rispondere dicendo la verità. Non aveva scelta, nessuna menzogna su questa questione poteva essere creduta, perché qualsiasi cosa avesse detto avrebbero scoperto che era una bugia. Semplicemente non sapeva e non aveva idea di dove fosse finito Fulgenzio. Lo ignorava e così fu costretta ad ammettere.

“Non lo so, non abbiamo più avuto sue notizie” disse mentre un velo di tristezza le calava sul volto.

Segugio pensò ancora che stesse mentendo e valutò come discreta la capacità di recitare esibita da Cleofe.

Landone intanto si era messo a curiosare tra gli scaffali della libreria di Alcide Pramiro. Una libreria ricca di testi interessanti, alcuni dei quali su argomenti di matrice esoterica, alchemica, e magica. Il professore si chiese come mai Alcide possedesse così tanti libri bizzarri, e decise che sarebbe stato interessante domandarlo direttamente al padrone di casa.

“E’ possibile parlare con il signor Alcide?”

“No, da due giorni non è più in grado di parlare” disse Benedetta.

“Ormai è come un vegetale” aggiunse Melitina piangendo.

Cleofe invece non disse nulla, si limitò a guardare Landone con una faccia nauseata.

Zenobio fissava nel vuoto come fosse in attesa di ricevere un segnale, un gesto, un ordine della moglie.

Il professore rivolse nuovamente la sua attenzione alla grande libreria e notò un grosso volume rilegato in pelle in mezzo ad alcuni atlanti illustrati collocati proprio al centro della scaffalatura. Lo afferrò per ispezionarlo meglio. La copertina era liscia e di color del cuoio, non vi era alcuna scritta né altro titolo. Aprì il grosso volume e scoprì che era un album di fotografie della famiglia Pramiro. Alcuni scatti erano molto vecchi e Landone riuscì a datarli senza difficoltà alla fine del secolo precedente. Di fianco ad alcune fotografie una didascalia scritta a mano in un corsivo preciso e ben leggibile riportava la data il luogo ed anche i nomi delle persone ritratte. Iniziò a sfogliare l’album distrattamente, con gesti quasi meccanici senza una ragione precisa.

Cleofe si accorse di cosa stava facendo il professore e sembrò inquietarsi, come se fosse disturbata dal suo comportamento. Segugio pensò che la donna fosse preoccupata, come se quel grosso volume nascondesse qualche indizio di ciò che stava cercando di nascondere. Decise di avvicinarsi al professore per dare un’occhiata. Proprio in quel momento lo sguardo di Landone cadde su di una foto particolare, di quelle senza didascalia. Vi erano immortalate cinque persone in abiti estivi, in posa sorridenti con la grande piramide egizia di Cheope sullo sfondo. Riconobbe due dei cinque uomini ritratti. Per quanto dovessero essere molto più giovani all’epoca della foto con la piramide, Landone era sicuro della somiglianza con le fotografie che il commissario gli aveva mostrato di Mario e Alcide Pramiro. Le fotografie scattate dagli agenti dell’OVRA e inserite negli schedari della polizia politica erano più recenti, ma la rassomiglianza comunque inconfondibile.

“Chi sono questi giovani?” domandò il professore mostrando ciò che aveva trovato.

Nessuno rispose. Segugio afferrò il pesante tomo, armeggiò alcuni secondi con la pagina trovata da Landone e staccò la fotografia per ispezionarne il retro. Il suo volto rimase di sale, immobilizzato in un’espressione di stupore autentico. Con inchiostro nero erano state scritte dietro la fotografia un luogo, una data e cinque nomi.

Cairo, 13 ottobre 1907, Alcide e Mario Pramiro, Lisandro Pantaleo, Metrofane Prassede, Tesauro Viliberto.

Anche Landone lesse i nomi e spalancò la bocca incredulo.

“Ma sono i nomi dei tre massoni assassinati a Piacenza nelle scorse settimane” disse.

“Un’incredibile coincidenza” rispose Segugio senza troppa convinzione.

“Oppure un indizio che i tre omicidi sono collegati con il delitto della Val Tidone” replicò Landone.

“Non siate paranoico, è solo una vecchia fotografia e non significa nulla” si intromise Cleofe.

“Solo perché si è paranoici non significa che si abbia torto” disse il professore riempiendo la pipa.

Segugio requisì l’album delle fotografie e annunciò che l’interrogatorio era per il momento terminato.

“Non potete portare via quelle fotografie, sono un ricordo personale ed appartengono alla nostra famiglia” protestò Cleofe.

“Se non Volete essere arrestata chiudete quella bocca” l’aggredì Segugio.

Salutarono con freddezza e si diressero alla porta. Le donne sembravano angosciate, Cleofe più di delle altre. Aristide Zenobio attendeva sull’uscio. Segugio si accomiatò ed uscì per primo, Landone lo seguì dopo aver stretto la mano a Zenobio e averlo guardato con commiserazione, provando autentica pena per il destino di sottomissione che quell’uomo si era scelto. Osservandolo negli occhi capì che sposare quella donna era stata l’ultima libera decisione della sua vita.

Scesero le scale, e tornati sulla via il professore si accese la pipa sorridendo soddisfatto. La insopportabile megera era stata sconfitta, e anche il commissario avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Pensò che tutto quanto fosse collegato: i quattro omicidi, la scomparsa del giovane Pramiro, la massoneria. Un debole e incerto collegamento che avrebbe forse permesso di risalire all’identità dell’assassino o almeno al suo movente. Adesso avevano una traccia, un’impercettibile pista ancora avvolta dalla nebbia, ma pur sempre un sentiero per quanto buio ed incerto. Non restava che iniziare a percorrerlo per scoprire dove avrebbe condotto.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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I pirati della notte

 

Pirati della notte

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Possiamo ipotizzare che in ogni tempo e in ogni luogo siano esistiti uomini malvagi e privi di scrupoli, disposti a tutto pur di conseguire i propri fini, spesso scellerati. Ma le vicende che riguardano Mr Bone, ricco mercante inglese nato il 6 giugno 1866, fanno rabbrividire per l’enormità dei crimini e l’efferatezza con cui essi furono perpetrati.

Non si hanno notizie circa la sua infanzia e giovinezza, che rimangono avvolte nel mistero. Ugualmente sconosciuta è la provenienza iniziale delle sue ricchezze.

Le cronache scandalistiche iniziarono a occuparsi di Mr Bone quando egli, ormai in età avanzata, irruppe sulla scena locale londinese a seguito di alcune denuncie di giovani ragazze, che lo accusarono di stupro e altre violenze fisiche.

Grazie alla propria influenza e ricchezza, durante i processi che seguirono, Mr Bone fu interamente scagionato. Le donne che lo accusavano, prostitute e altre miserabili, furono giudicate inattendibili ed esse stesse condannate per diffamazione.

Le coraggiose signorine denunciarono il vero, per quanto non credute, senza per altro conoscere gli altri terrificanti segreti gelosamente custoditi tra le mura del palazzo di Mr Bone. E chiunque altro ebbe la sfortuna di scoprire quali indicibili accadimenti si consumassero nella sua dimora, non visse abbastanza a lungo da poterli riferire.

Tutto in Mr Bone era infausto e spaventoso. Basso di statura, vestiva sempre di nero, il capo perennemente coperto da un cappellaccio per nascondere le calvizie, l’occhio di vetro, la bocca grinzosa continuamente contratta in un diabolico ghigno, le mani vecchie e rugose coperte da una peluria folta e bestiale. L’indole, il carattere e l’umore erano non meno spregevoli dell’aspetto: irascibile, lunatico, violento ed aggressivo, spesso indesiderabile per via delle sue escandescenze che lo rendevano inavvicinabile.

La sua vita pubblica, votata al lavoro e all’accumulazione della ricchezza, si contrapponeva a quella privata: dissoluta e perversa. Era dedito al gioco d’azzardo e al consumo massivo di alcool e droghe, viveva alla continua ricerca di donne da godere carnalmente, sospinto e trascinato da un indomabile priapismo. L’assidua frequentazione dei più malfamati postriboli del regno, si alternava all’organizzazione, nella sua alcova, di festini dionisiaci, destinati a concludersi con riti iniziatici e orge depravate.

Mr Bone era conosciuto per tutti i bassifondi di Londra, non vi era prostituta in tutta la città che non avesse conosciuto il diabolico mercante nella più intima accezione. Le sue arti amatorie erano divenute leggendarie come la sua reputazione di uomo libertino e licenzioso. Le donnacce più debosciate facevano a gara per essere possedute dall’insaziabile Bone, anche perché, paradossalmente, con le meretrici egli non lesinava gesti di grande generosità, compensando in proporzione quelle femmine che ne avessero assecondato i vizi più turpi.

Il centro nevralgico della sua vita sfrenata era, senza alcun dubbio, la casa che aveva acquistato nei sobborghi dell’East End di Londra. Fuori mano e, almeno la notte, del tutto isolato dal resto della città. Se durante il giorno le vicine fabbriche brulicavano di operai occupati a sostenere lo sforzo bellico britannico, con il coprifuoco, scese le tenebre, tutti gli edifici attorno alla dimora del vecchio mercante erano deserti e silenziosi.

Una calma surreale circondava lo stabile, avvolto in un’atmosfera spettrale dopo il calar del sole. Quasi tutte le finestre erano sempre chiuse da antiche persiane in legno e l’austera volta gotica, sovrastante l’ingresso principale, conferiva al fabbricato un aspetto sinistro, reso vagamente inquietante dalla vetustà dell’intonaco e dei mattoni.

Ugualmente originali e adatti al personaggio, erano gli interni del secolare maniero, che negli anni il Vecchio aveva provveduto ad arredare personalmente, assecondando il suo gusto eccentrico e decisamente stravagante. I pavimenti color ebano, le tappezzerie e gli arazzi scuri e indistinti, la luce fioca delle lampade a muro, il mobilio antichissimo e le molte armature medioevali, le teste imbalsamate delle più rare fiere, conferivano a tutti gli ambienti un’aura tetra e diabolica. Le stanze destinate a ricevere ospiti, il salone delle feste e la biblioteca, risultavano soffocate da un plumbeo senso di pesantezza determinato dalle macabre decorazioni dei soffitti.

La camera da letto di Mister Bone, ubicata in un torresino posto al piano superiore dell’immobile, era molto grande e dal soffitto altissimo. Le sei lunghe finestre, strette e a sesto acuto, erano chiuse da lastre fatte di una pasta di vetro densa e colorata, di quelle che si trovano nelle cattedrali gotiche. Il pavimento appariva rivestito da parquet di quercia nera. Un arcaico candelabro emanava deboli bagliori di luce soffusa, appena sufficienti a distinguere il profilo di un nobile letto a baldacchino la cui testata era appoggiata sul lato lungo della stanza. Il resto del locale risultava perennemente avvolto dall’oscurità, celando alla vista i drappeggi scuri appesi alle pareti o gli armadi consumati dal tempo e mal ridotti.

In ogni angolo di quella casa si poteva respirare un clima mefistofelico. Una presenza maligna e soffocante gravava su tutto e tutto attraversava.

Calato il buio, i domestici e il personale a servizio del Vecchio sostavano mal volentieri entro le mura del palazzo, ma poiché le occasioni conviviali programmate dal mercante erano piuttosto frequenti, capitava spesso che i turni di lavoro si prolungassero sin nel cuore della notte.  Fino a quando Mr Bone non decideva di ritirarsi, per consumare privatamente le sue voglie, in compagnia di qualche bella e disponibile signora o signorina.

Unico motivo di consolazione per i lavoratori della casa, o almeno per quelli di sesso  maschile, consisteva nella possibilità di assistere anch’essi agli spettacoli e alle danze oscene e scandalose, che il Vecchio commissionava alle sempre numerose e disinibite meretrici che immancabilmente partecipavano ai suoi festini.

Per quanto piacevole e gratificante fosse per il ricco mercante passare molto del suo tempo libero dedicandosi a letture solitarie nella sua assai fornita biblioteca, nulla poteva compiacerlo come i simposi e le cene, che almeno una volta a settimana allietavano le sue serate, circondato da adulatori, ammiratrici, cantanti e giocolieri, in una scenografia insieme spettacolare e boccaccesca. E tutto ciò non solo per la sua gioia personale, ma anche per i suoi più fedeli cortigiani con i quali amava condividere questi eventi a base di alcool, buon cibo, droga e sesso.

 

Le ultime due settimane di quella lunga estate erano state piuttosto concitate. Bone aveva ricevuto tre volte la visita degli ufficiali di Scotland Yard che stavano indagando sulla misteriosa sparizione di 11 giovanissime ragazze scomparse nel nulla. Dal 13 agosto erano iniziate le incursioni aeree della Luftwaffe sugli aeroporti della Gran Bretagna meridionale, mettendo a dura prova la Royal Air Force in quella che è passata alla storia come la battaglia d’Inghilterra.

Prima di sferrare l’attacco, il numero tre del regime Hermann Göring aveva dichiarato: “Il Führer mi ha ordinato di schiacciare la Gran Bretagna con la mia Luftwaffe. E io prevedo, a forza di duri colpi di mettere quanto prima in ginocchio questo nemico che ha già subito una schiacciante sconfitta morale, in modo che l’occupazione dell’isola da parte delle nostre truppe possa procedere senza alcun rischio!”

Ancora quel giorno la battaglia era in pieno svolgimento, ma incurante del sacrificio dei giovani piloti che perdevano la vita per difendere i cieli della patria, Bone aveva deciso di organizzare una delle sue trasgressive feste. Senza badare a spese come nelle sue abitudini, pur in tempi di ristrettezze, si era procurato ogni prelibatezza e assai costosi vini francesi. Le più belle prostitute della città erano presenti a ranghi completi e con esse anche alcune giovani e bellissime fanciulle dei quartieri popolari, alla cui ricerca si dedicavano con scrupolo alcuni suoi fidati collaboratori.

Nel salone dei ricevimenti, Mister Bone sedeva a capotavola su di una specie di piccolo trono in legno dorato, alla destra la sua guardia del corpo Mr Butcher, a sinistra il suo assistente personale Mr Wallet. Lungo il tavolo, ogni due ragazze sedeva uno degli altri ospiti maschili, in tutto 9 tra amici e alcuni esponenti del British Union of Fascists. Le donne erano dunque diciotto e quasi tutte davano spettacolo nei loro vestiti provocanti e scandalosi.

La serata procedeva tranquilla e spumeggiante, i commensali si presentavano a turno, gli uomini illustrando i propri successi politici e professionali, le cortigiane, senza nulla lasciare all’immaginazione, riferivano circa le proprie abilità amatorie, contribuendo a creare un clima decisamente goliardico in netto contrasto con il tetro ambiente circostante. Al contrario suscitavano compassione le storie strappa lacrime delle giovanissime popolane, i cui aneddoti riguardo le condizioni di povertà nelle quali erano cresciute, commuovevano sempre il vecchio Bone. Anche a queste sfortunate riservava generosi contributi in denaro.

Tutto procedeva con spensieratezza, il vino scorreva a fiumi. Ben presto, rotti gli ultimi freni inibitori, le donnacce, sopra ad un palchetto fatto appositamente approntare, iniziarono a rotazione ad esibirsi in balli indecenti e lussuriosi mentre l’atmosfera si scaldava anche per via degli argomenti sui quali gli uomini avevano cominciato a disquisire.

Un virgulto ragazzone tutto tatuato e dai capelli rasati tirò in ballo la politica dando fuoco alle polveri.

“Churchill ha una gran faccia da culo!” disse senza troppi preamboli, “vuol mandarci a morire per cosa? Gli interessi dell’impero non stanno sul continente europeo ma oltre gli oceani. Dovessimo anche vincere la Germania, e francamente non vedo come ciò possa accadere, ci saremo comunque dissanguati, e saranno altri a raccogliere i vantaggi, magari gli americani o peggio ancora i giapponesi.”

Uno degli amici di Bone era un fervente conservatore, nazionalista convito, irritato dalle parole del giovanotto, e a quel punto della serata decisamente ubriaco, gli replicò stizzito.

“E cosa dovremmo fare allora? Invitare herr Hitler a bere un tea a Buckingham Palace? Metterci in ginocchio e succhiargli l’uccello mentre i suoi sgherri ce lo schiaffano dietro? No no cari signori, bisogna lottare e rimettere quella gente al loro posto. Serviranno lacrime e sangue? E così sia, ma i nazisti non patiranno meno di noi, questo è certo.”

Mr Bone ascoltava attentamente e intervenne nel dibattito in modo piuttosto acuto: “Più ci facciamo del male a vicenda, più a trarne beneficio sarà Stalin. I sovietici si sono già presi mezza Polonia, i paesi baltici, la Bessarabia e la Bucovina e una fetta di Finlandia. Non sarei sorpreso se un giorno o l’altro prendessero i tedeschi alle spalle e marciassero sino a Berlino. Certo a quel punto vincere la guerra risulterebbe più facile, ma le conseguenze di un Europa in mano ai bolscevichi non sarebbero forse più nefasta di adesso, che è in mano ai nazisti?”

Il giovanotto tatuato rincarò la dose: “I rossi sono brutta gente, c’è poco da fidarsi, ma è anche vero che il casino è cominciato per difendere l’integrità territoriale della Polonia. E allora qualcuno saprebbe spiegarmi per quale motivo non abbiamo dichiarato guerra anche all’Unione Sovietica quando si sono uniti ai tedeschi partecipando all’invasione? La verità è che al signor Churchill della Polonia non frega un bel niente. Sotto tutti attaccati ai pantaloni di qualche banchiere e ci hanno messo in questa merda per assecondare i loro affari.”

Il conservatore ubriaco era adesso tutto rosso in faccia e visibilmente indignato dalle argomentazioni dei suoi interlocutori, si alzò in piedi pronto a dar battaglia e citando il primo ministro inglese gesticolando tutto esagitato recitò: “Qui, in questa potente cittadella della libertà che ospita i documenti dell’umano progresso; qui, circondati dai mari e dagli oceani sui quali ha dominio la nostra flotta, … qui noi attendiamo, senza timori, il minacciato assalto. Forse esso avrà luogo oggi, forse la settimana prossima. E forse anche mai… Tuttavia, che i nostri tormenti siano terribili o lunghi, o tutte due le cose insieme, è certo che noi non concluderemo nessun accordo, non permetteremo che si parlamenti; lasceremo forse che la pietà abbia corso, ma quanto a noi, non chiederemo pietà.”

Questa volta a rispondere fu un altro ospite, un antisemita dichiarato, un tipo smilzo, con gli occhi piccoli, di mezza età e dai modi eleganti: “Voglio rispondere a questa propaganda senza costrutto, citando le profetiche parole del führer della Germania, che ormai quasi due anni or sono, in una storica allocuzione al Reichstag ebbe a dichiarare: – se il capitale giudaico internazionale dentro e fuori l’Europa riuscirà nuovamente a precipitare le nazioni in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione della terra e dunque la vittoria del giudeo, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa! -”

Questa minacciosa profezia provocò la collera di un altro commensale di Bone, un commerciante ebreo di pietre preziose. Egli era un individuo astuto e spietato. La sua insensibilità era espressione di una mentalità materialistica, priva di moralità. In sintesi il tipo di persona che più assomigliava al padrone di casa, anche per il temperamento piuttosto iracondo. Poiché di posto lo avevano collocato quasi di fronte al simpatizzante di Hitler, gli risultò facilmente a tiro; afferrata una pesante bottiglia di vino bordolese la sfasciò sulla faccia del tizio smilzo, che crollò sotto al tavolo al primo colpo, in una maschera di sangue.

Le ballerine lascive smisero di danzare, un silenzio spettrale scese nel salone delle feste di casa Bone, la situazione era sul punto di degenerare in rissa. Il giovanotto nerboruto e due suoi compari avevano subitaneamente  circondato il commerciante di preziosi, che però, per nulla intimidito, aveva tirato fuori una pistola puntandola minaccioso verso quello dei tre che gli si parava di fronte. Anche Mr Butcher tirò fuori la pistola e non aveva un’aria amichevole. Mister Bone proruppe allora in una risata sfacciata, inspiegabilmente divertito da ciò che stava succedendo.

“Signori, amici, Vi prego, siamo qui per divertirci. Forse è meglio accantonare le questioni politiche e dedicarci alle donne. Propongo un brindisi alla Gran Bretagna e a tutte le prostitute del regno. E che Dio ci conservi la Regina!”

Le parole del padrone di casa sortirono un effetto magico, tutti tornarono ai loro posti come stregati, le armi furono riposte e le donnacce ripresero a ballare. Le più scostumate salirono sul tavolo e tolti la gran parte dei vestiti ancheggiavano tra i piatti di portata con i seni al vento. I domestici soccorsero il tizio smilzo con la faccia insanguinata e altro vino fu portato al tavolo.

Due procaci signorine si erano sedute sulle ginocchia di Bone o lo baciavano lasciandosi toccare dal ricco debosciato, che intanto intratteneva i commensali ricordando alcune sue avventure giovanili.

“Nel 1912 avrei dovuto viaggiare sul Titanic, ma non arrivai in tempo all’imbarco, e quando vi giunsi la nave era già salpata. E sapete cosa provocò il mio ritardo salvandomi la vita? Non potete immaginare vero?” Il Vecchio rimase in silenzio alcuni secondi osservando divertito i volti incuriositi di chi lo stava ad ascoltare, quindi, infilando la mano nelle mutandine di una delle due ragazze che aveva in braccio, svelò l’arcano: “Arrivai in ritardo perché mi addormentai. Si, dopo aver fatto l’amore per 12 volte con la mia amante dell’epoca!” e accompagnò questa smargiassata con una grassa risata cui tutti si unirono per assecondarlo. Passò quindi alle barzellette, altro pezzo forte del suo repertorio.

La gente continuava a ridere ubriaca e così si arrivò al momento dello spettacolo circense: prima un mangiafuoco, poi un giocoliere, infine persino una tigre viva e il suo domatore si esibirono per il pubblico di Mr Bone.

 

Si era fatta notte fonda, ben oltre la mezzanotte, ed era, in conseguenza di ciò, l’ora delle faccende proibite ed indecenti: le signore si appartarono sui divani distribuiti ai lati del salone consumando rapporti sessuali a pagamento con la gran parte degli ospiti; i più dissoluti si intrattenevano con più donne di malaffare contemporaneamente. Il Vecchio, ormai avvezzo a questo genere di depravazioni, alla ricerca di sempre più forti emozioni, allontanate le puttane, stava corteggiando la più giovane delle popolane presenti alla cena, una piccola, timida, dolce biondina con le trecce, gli occhi azzurri e le lentiggini: una vergine, un’adolescente che dall’aspetto non poteva avere più di 17 anni.

Mr Bone si mostrava gentile e premuroso, le fece molti complimenti e le regalò dei soldi e alcuni gioielli; successivamente, con una banale scusa, la convinse a seguirlo affinché lui potesse mostrarle la sua collezione di trofei.

Hope, questo il nome della ragazzina, si fece afferrare la mano e seguì il ricco padrone di casa, senza sospettare quali sorprese l’aspettassero, ma in cuor suo agitata e intimorita, per via di ciò che già aveva visto accedere attorno a sé.

Cosa vorrà da me questo vecchio sporcaccione? Certo mi sta dando un sacco di soldi, ma non si aspetterà che faccia anche io certe cose, voglio sperare, davvero può pensare che io sia una di quelle donnacce pronte a tutto? Se mi tocca mi metto a urlare forte. E poi è così brutto, sembra quasi morto, ho paura. Questi e altri pensieri si affollavano nella debole mente della umile verginella, come turbini prima di una tempesta.

Hope era figlia di madre inglese e padre italiano di Piacenza, che non aveva mai potuto conoscere, perché morto in un incidente in fabbrica prima che lei nascesse. Era l’ultima di 4 figli, tutti cresciuti, con gran sacrificio e dignità, da quella madre rimasta vedova così precocemente. Dopo gli studi elementari, Hope aveva contribuito al sostentamento della famiglia con piccoli lavoretti saltuari. Non possiamo dire fosse ragazza di particolare ingegno ma i suoi occhietti innocenti, il dolce visino e l’ingenuo aspetto, avevano sedotto l’animo malvagio di Mr Bone, ben deciso a trarre vantaggio dalla remissiva e sottomessa indole della fanciulla.

A reclutare Hope ci aveva pensato Mr Flesh, uno tra i più fidati leccapiedi di Bone, uomo schivo e discreto, ma profondo conoscitore delle umane debolezze. Aveva notato la piccola ad un mercato rionale. Dopo averla seguita sino a casa, comprese facilmente che la madre, in cambio di pochi denari, avrebbe volentieri acconsentito alla figlia minorenne di partecipare all’evento, descritto come una elegante e tranquilla cena di beneficenza organizzata per aiutare le giovani orfane della città. Flesh si era occupato di tutti i dettagli procurando abiti nuovi per la piccola e approntando anche un breve corso di galateo, allo scopo di evitare sfigurasse, una volta introdotta in società. Precauzione questa del tutto superflua, considerata la presenza delle numerose meretrici richiamate dalle più squallide bettole, le quali davano sfoggia di ogni volgarità e cafonaggine.

L’inquietudine di Hope intanto cresceva, man mano che dal salone delle feste si inoltrava, trascinata dal Vecchio, in un intricato labirinto di corridoi bui e stanze sinistre, sovrastate da teste di animali imbalsamati e soffitti avvolti dall’oscurità. La giovinetta era già stata molto turbata dagli affreschi delle volte a botte nella sala del banchetto. Le scene riprodotte narravano nei dettagli la strage degli innocenti, raffigurando corpi di neonati trafitti da pugnali  o fatti a pezzi dai fendenti delle spade, con abbondanza di sangue e di budella sparse ovunque. Ad accrescere le sensazioni di sgomento provate da Hope, contribuirono anche i rumori lontani ma inquietanti che la giovinetta udiva provenire dalle cantine. Sembravano il trascinarsi disordinato di pesanti catene, mescolato a lamenti di dolore, per altro amplificato dalle oscillazioni metalliche prodotte dalle armature che al loro passaggio vibrarono come se, alla presenza del padrone, avessero preso vita.

Quando fu evidente che Mr Bone era diretto nei sotterranei, la miserabile ragazzetta sbiancò, il suo volto assunse un pallore quasi cadaverico. Le labbra sottili si serrarono in una smorfia di terrore, le gambe tremarono e i sensi l’abbandonarono lasciandola svenuta ai piedi del Vecchio, davanti alle scale umide che portavano sottoterra.

Il palazzo intanto si svuotava, una volta chiarito che il potente ospite aveva operato la sua scelta, gli abituali frequentatori di quei lussuriosi baccanali, aiutati dai domestici, invitarono garbatamente i convenuti a tornare alle proprie case. In breve tempo le baldracche e tutti gli altri andarono via, lasciando Mr Bone solo nella sua dimora con la graziosa minorenne, del tutto indifesa e in balia di un essere malvagio e spregevole.

 

Il rimbombo di una forte esplosione riecheggiò nell’aria, ancora una seconda volta, poi una terza, infine le detonazioni si fecero così numerose da non potersi contare. I bombardieri tedeschi sganciarono per la prima volta il loro carico di morte sulla città di Londra quella notte del 24 agosto 1940.

“Raderemo al suolo le loro città! Metteremo fine alle prodezze di questi pirati della notte” avrebbe detto dieci giorni dopo Adolf Hitler, inferocito per la rappresaglia della RAF, che il 25 agosto ricambiò la cortesia bombardando Berlino.

Quando le bombe tuonarono, la giovanissima Hope riprese conoscenza. Si ritrovò in un luogo orribile e terrificante, prigioniera nelle segrete del maniero. I muri umidi erano ovunque segnati dal tempo, l’aria greve era pervasa da un odore intenso di carni in putrefazione, la luce delle torce affisse alle pareti, fioca e soffusa, illuminava appena l’ambiente circostante. Hope era stata spogliata e giaceva nuda su di un tavolaccio di legno, di quelli da laboratorio, polsi e caviglie immobilizzati da grossi bracciali di ferro inchiodati nei legni massicci. Su entrambi i lati della prigione si aprivano delle grate, dietro le quali erano imprigionate delle figure umanoidi, vestite di stracci e dai volti sfigurati e indecifrabili. Si trascinavano appresso pesanti catene, emettendo guaiti bestiali, afflitte da infernali tormenti.  Mr Bone, in piedi davanti alla sua prigioniera, le carezzava il capo con dolcezza, le labbra gonfie, sotto le quali sporgevano i denti neri e quasi tutti marci, disegnavano un ghigno crudele e disumano. Lui la fissava assente, lei piangeva disperata.

“Non piangere dolcezza, tra poco farai parte della mia collezione di trofei, sarai mia, per sempre” e con le mani callose iniziò a toccare il collo e le spalle della giovane mentre una bomba cadde vicino al palazzo e l’esplosione fece tremare le volte in mattoni della cantina.

“Vi prego Signore, lasciatemi libera, farò tutto ciò che volete ma non uccidetemi, non Vi ho fatto nulla, perché mi fate questo?” chiese Hope tra i singhiozzi senza avere la forza di urlare, sconvolta dalla paura vedendo aprirsi una spessa crepa nel soffitto sopra di lei.

Bone le era accanto, lei poteva sentire il suo fiato sul collo, sembrava calmo, i suoi gesti misurati, ma il grosso coltello da macellaio che ora impugnava nella mano destra non prometteva nulla di buono.

“Perché Volete vivere signorina? Questo è un mondo infame, avete patito sofferenze e privazioni da quando siete nata, che senso ha prolungare una vita così miserabile come la Vostra?”

Hope non sapeva cosa replicare, quel mostro doveva essere completamente pazzo, e lei malediva la sorte per essere capitata in quella casa, proprio quella notte. O mio Dio, cosa sarà di me adesso, si chiedeva guardando atterrita il coltellaccio nelle mani di Bone. Morirò sgozzata o dilaniata dalle bombe? E piangeva, affidando l’anima a Dio e pregando che quel criminale si ravvedesse senza ucciderla e che gli esplosivi cadessero lontano.

“Vi prego, Vi prego, ho già sofferto molto per la mia giovane età,” balbettò tra un singhiozzo e l’altro, “abbiate pietà, fate ciò che dovete fare, ma almeno non torturatemi, non merito questo oltraggio!”

Il vecchio sembrava infastidito dalle lagne della ragazzetta lentigginosa, strinse forte il coltello, le amputò le lunghe trecce e le cavò un occhio.

Hope urlò forte, cominciò a dimenarsi tutta impazzita come fosse indemoniata, il sangue intanto usciva copioso dal volto deturpato. Un’altra bomba centrò lo stabile in quel preciso momento, e una delle camere dietro le grate esplose, seppellendo per sempre i dannati che vi erano imprigionati.

Bone sorrideva, teneva i capelli e l’occhio insanguinato della diciasettenne tra le mani ed era felice. Si allontanò dal tavolo delle torture ed entrò in un’altra camera, la più remota ed inaccessibile.

In quest’ultimo luogo segreto, protetto da una pesante porta in ferro, era nascosta la collezione. Mister Bone afferrò l’ultimo dei suoi 12 trofei, era fatto con tessuti pregiati, incastonò dentro l’occhio di Hope, cucì sopra le trecce bionde e poi, conclusa l’opera, la strinse al cuore emozionato. Finalmente era completa. Anche la dodicesima bambola fatta di stoffa, ma dai capelli e occhi umani, era compiuta.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Bellamorte

 

Era un bel mattino di fine estate e, come tutte le domeniche, Piero Bellamorte si recò al parco comunale per fare una passeggiata e scambiare quattro chiacchiere con gli anziani ospiti della vicina casa di riposo. Anche se ormai la sua impresa di pompe funebri aveva da tempo sbaragliato la concorrenza sino a diventare l’unica in tutta la vallata, Piero non aveva perso le sue abitudini e continuava ad esercitare il suo potere segreto, quello che gli aveva consentito di creare la sua fortuna materiale su questa terra.

Si da quando era bambino aveva scoperto di possedere un dono, una speciale qualità grazie alla quale era in grado di capire quando le altre persone sarebbero morte. Gli bastava prendere un uomo per mano, concentrarsi per qualche secondo e guardarlo negli occhi. Ciò che avrebbe visto nei pochi istanti successivi gli avrebbe rivelato quanto tempo restava da vivere a quella persona. Come un qualunque ciarlatano capace di leggere i fondi del caffè, Piero era capace di leggere dentro l’anima della gente attraverso i loro occhi, con l’unica differenza che Piero non era un ciarlatano, e che le sue previsioni erano sempre esatte.

Anche se conoscere in anticipo la data, e talvolta le circostanze, della dipartita degli altri poteva risultare sgradevole, Piero aveva presto imparato a trarne profitto. Ci riusciva soprattutto con le persone anziane che per via dell’età erano meglio predisposte a fare i conti con l’inevitabile momento del trapasso. E poiché nel corso degli anni almeno nella zona si era diffusa la voce circa le capacità divinatorie di Piero, oramai erano i suoi futuri clienti a cercarlo per scoprire quanto gli restasse da vivere, e lui non doveva nemmeno più prendersi il disturbo di convincere i morituri a concedergli la propria fiducia.

Quella mattina era seduto sulla solita panchina di cemento a godersi il sole con nell’aria il profumo dei mosti e della vendemmia, quando ad avvicinarlo fu una bella ragazza dai capelli dorati e la pelle bianca e liscia. Non poteva avere più di vent’anni.

“Mi hanno detto che sai prevedere quando muore la gente” dichiarò con aria seria rivolgendosi a Piero.

“A volte ci riesco” si schernì lui. Non gli interessavano i giovani. Se fossero morti prematuramente sarebbe stata una disgrazia, e se fossero morti molti anni dopo, probabilmente non si sarebbero serviti dei servizi offerti dalla sua impresa di pompe funebri.

“Conosci anche quando arriverà il tuo momento?” domandò la ragazza scrutandolo con sguardo indagatore.

“No, anche se forse potrei scoprirlo, ma non ho mai voluto farlo.”

“Perché allora lo dici gli altri? Non pensi che nessuno in fondo voglia saperlo?”

“Forse” disse lui con un ghigno, “ma in certe circostanze, e ad una certa età, cambiano le prospettive, le priorità sono diverse e per alcuni saperlo può essere un vantaggio.”

Piero non aveva ancora compiuto i cinquant’anni ed almeno sino ad allora non aveva ancora sentito il bisogno di conoscere quando sarebbe stato il suo giorno.

“Tu ti sei servito di questo talento per arricchirti e vendere i servizi della tua impresa di pompe funebri” sentenziò la ragazza con voce ferma ed un espressione sul viso vagamente accusatoria.

“Le persone si fidano di me, non faccio nulla di sbagliato” disse Piero abbassando lo sguardo. Era la prima volta che qualcuno lo rimproverava per aver tratto vantaggio dalla sua particolare dote. Lui pensava fosse naturale farlo, come le attrici usavano la propria avvenenza, gli scienziati il cervello ed i calciatori le proprie gambe. Avrebbe voluto dirlo anche a quella ragazza bella come un angelo, ma quando rialzò la testa per parlarle, lei era scomparsa.

Piero tornò a casa prima del solito, aveva perso il desiderio di lavorare per quel giorno. Il breve colloquio con quella bionda lo aveva turbato nel profondo. Il dubbio di aver mal vissuto la propria vita iniziò ad insinuarsi nel suo cervello come un tarlo. Improvvisamente avvertì la necessità di redimersi, di recuperare il tempo perduto, di dedicarsi al prossimo, magari anche di utilizzare il suo talento segreto ma in modo nuovo e diverso, senza più metterlo al servizio della sua smisurata sete di ricchezza. Ma ne avrebbe avuto il tempo? Quanto ancora gli restava da vivere? Ecco che per la prima volta volle sapere quando sarebbe giunto il giorno della sua morte.

Si recò con passo incerto sino al bagno, gli si strinse lo stomaco in preda all’ansia, ora che aveva deciso di indagare la propria dipartita. Appoggiò il peso del proprio corpo sulle braccia aggrappandosi al lavandino mentre iniziò a guardare il suo volto riflesso dallo specchio.

Era ancora giovane in fin dei conti, si sentiva in forze, certamente avrebbe ancora avuto il tempo necessario.

Fissò i suoi occhi riflessi dallo specchio e dopo alcuni secondi il suo corpo fu attraversato da un brivido, si sentì avvolgere dal gelo mentre la morte gli sorrideva beffarda e un infarto fulminante lo stroncava sul posto in quella tarda, calda e profumata mattina di fine estate.

Piero Bellamorte fu trovato senza vita soltanto alcuni giorni dopo, e quasi nessuno presenziò al suo funerale.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Bella morte

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Dio stramaledica gli inglesi

Dio stramaledica gli inglesi

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Che serata barbosa pensò il professore. Nonostante al ricevimento in onore del nuovo podestà fossero presenti le più note ed importanti personalità della città, il professore di storia Carlo Bardazzi si stava annoiando.

Presso la locale casa del fascio erano convenuti non meno di quattro­cento invitati, l’orchestra suonava, molte coppie ballavano, altre persone si muovevano intorno fermandosi a parlare in piccoli gruppi, altre ancora affolla­vano i tavoli delle vivande, la mescita del vino procedeva copiosa.

Il professore aveva deciso di partecipare controvoglia, spinto più che altro dall’istinto di sopravvivenza, lo stesso che gli aveva consentito di galleggiare per anni tra le insidiose acque fetide del regime, al quale aveva aderito senza entusiasmo, ma ben consapevole che compiacere e assecondare il gerarca o il potente di turno fosse la strada più comoda per evitare problemi.

Nemmeno gli eventi degli ultimi mesi avevano modificato il suo cinico opportunismo, nemmeno la guerra scoppiata in Europa e alla quale, almeno sino a quel momento, l’Italia si era sottratta dichiarando la non belligeranza.

In verità l’atmosfera di quella sera era elettrica, in ogni capannello non si parlava d’altro, e ciascuno diceva la propria nella convinzione di poter indovi­nare le prossime mosse del Duce.

Bardazzi osservava ed ascoltava con disinteresse, scolando quanto più vino potesse, come se il futuro della Patria non lo riguardasse.

Si muoveva con eleganza, in giacca da sera, in cerca di conoscenti per espletare i convenevoli e intenzionato ad andarsene il prima possibile.

Aveva già salutato qualche collega, il suo avvocato, il segretario del PNF locale, riconosciuto il prefetto e il federale, sorriso a qualche attempata e imbel­lettata signora, quando incrociò un amico di vecchia data: il farmacista Bonelli.

L’uomo gli venne incontro. “Professore vecchio volpone, come state amico mio?”

“Molto bene caro Bonelli, sono ancora in prima linea” replicò Bardazzi in­goiando altro vino e sfoggiando un sorrisetto allusivo, facile da decifrare per il Bonelli, che conosceva bene lo stile di vita libertino del suo amico.

“Molto presto in prima linea ci dovremo andare tutti, ma armati di ben altra artiglieria,” continuò ironico il farmacista, e facendosi più serio aggiunse: “la resa dei conti si avvicina, il Duce non permetterà che la Germania vinca da sola questa guerra, sono certo che al più presto anche l’Italia farà la sua parte per rivendicare con diritto la propria ricompensa!”

Il Bonelli era un fascista della prima ora, uno dei pochi che la marcia su Roma l’avesse fatta sul serio, e i suoi occhi brillavano infuocati dalla passione rivoluzionaria.

“Le nostre valorose armate marceranno su Marsiglia ed Ales­sandria d’Egitto, mio caro camerata, daremo a francesi ed inglesi la lezione che meritano!”

Il professore annuiva sornione ascoltando il vecchio farmacista infervo­rarsi, più allettato dall’idea di una gita in qualche bordello di Parigi, piuttosto che ad acquisizioni territoriali per il nuovo Impero.

Entrambi ignoravano come la situazione bellica si stesse evolvendo e come a Roma diverse opzioni venissero da settimane attentamente soppesate.

La guerra era ineluttabile, cosi almeno pensava Mussolini, ma quando en­trare in guerra e soprattutto contro chi schierarsi, non era affatto sicuro né scontato, soltanto l’evolversi degli avvenimenti e la soluzione più vantaggiosa avrebbero determinato la decisione finale.

Il Duce non si fidava di Hitler, e contro l’alleato tedesco era stata ordinata la costruzione del “Vallo Alpino del Littorio”, dispositivo difensivo composto da tre successive linee fortificate al Brennero e sulle Alpi. Per il finanziamento di queste fortificazioni, per giunta mai terminate, erano stati profusi una montagna di soldi.  L’enorme somma sarebbe risultata del tutto sprecata, a fronte delle modeste risorse italiane e a scapito di altri investimenti che sarebbero stati assai più utili per la guerra futura, contro gli alleati, al fianco della Germania.

Proprio nell’incontro al Brennero, nella mattinata del 18 marzo 1940, Mussolini tentò inutilmente di dissuadere il Führer dal lanciare l’offensiva ad occi­dente, ad ulteriore riprova che, per il momento, non era ancora intenzionato ad entrare nel conflitto.

Ma la guerra si sarebbe dovuta combattere prima o dopo, e per prepa­rare l’opinione pubblica italiana, il 10 aprile 1940, il Duce aveva detto ispirato a 24 direttori di quotidiani appositamente convocati: “Bisogna elevare gradualmente la temperatura del popolo italiano per creare il clima necessario per gli sviluppi inevitabili e ineluttabili che ci attendono.”

E l’umore della popolazione nell’ultimo mese era oggettivamente cam­biato, gli italiani si stavano decisamente orientando a favore dell’entrata in guerra, e il farmacista Bonelli non era certamente il solo a ritenere che i tede­schi stessero vincendo.

In verità non a torto, infatti il piano d’attacco messo a punto dal generale Erich Von Manstein, e adottato con entusiasmo da Hitler, aveva funzionato a meraviglia, mettendo in ginocchio il temuto esercito francese in poche settimane.

Lungo la frontiera con la Germania, i francesi avevano costruito un invali­cabile sistema di  fortificazioni detto “Linea Maginot”. Aspettandosi che i tede­schi tentassero di attaccare attraversando il neutrale Belgio, come già avve­nuto durante la prima guerra mondiale, lo stato maggiore francese aveva ammassato il grosso dell’esercito al confine di questo stato cuscinetto. A fare da cerniera tra le divisioni così mobilitate e la linea Maginot vi era la foresta delle Ardenne, giudicata dagli strateghi francesi troppo impervia per essere attraversata, e quindi scarsamente presidiata. Il piano di  Manstein  prevedeva proprio di lan­ciare le divisioni corazzate tedesche attraverso le Ardenne per prendere alle spalle l’esercito francese, raggiungere la Manica e intrappolarlo in una micidiale sacca.

Il professore poteva conoscere questi fatti soltanto in modo generico per come venivano riportati dai giornali e dalla propaganda, ma in ogni caso non vi mostrava né trasporto né grande interesse, e la retorica del farmacista lo aveva velocemente stancato.

Il Bonelli era un fiume in piena e con crescente risentimento si era lan­ciato in un’accanita requisitoria contro le malefatte delle decadenti potenze demoplutocratiche, mentre il professore continuava ad ascoltarlo del tutto as­sente, la mente rapita nel ricordo della turista inglese che aveva sedotto pochi anni prima.

Il farmacista proseguiva il suo comizio rosso in faccia, a beneficio dell’uditorio che gli si era radunato attorno eccitato dalla rude arringa non priva di autorevoli citazioni: “Dio stramaledica gli inglesi! Gente lenta a capire, poco intelligente, organicamente ottusa, gli inglesi se ne accorgeranno! La Germania vince perché ha spirito altissimo, armamento poderoso, unità di comando, perfetto coordinamento delle varie Armi, tecnica nuova, pieno dominio dell’aria.”[1]

Fu solo a quel punto che Bardazzi si accorse della presenza di una giovane ragazza dalla bionda chioma fluente, di incantevole bellezza, in piedi vicino al tavolo delle autorità, in un elegante vestito rosso scarlatto.

Non perse occasione, alla prima pausa sorprese il Bonelli cambiando discorso.

“Ditemi, sono certo potrete ragguagliarmi circa l’identità di quella splendida fanciulla” domandò puntando lo sguardo verso il palco.

Il farmacista si voltò curioso e messa a fuoco la donna si avvicinò divertito al professore ap­pagando la sua curiosità.

“Caro Bardazzi questa volta persino Voi dovrete desi­stere, avete messo gli occhi sulla moglie del nuovo podestà, meglio lasciar perdere.”

Tutt’altro che impressionato, forse anche per via di tutto il vino che aveva bevuto, il professore si congedò velocemente dall’amico, dimenticata la noia e archiviato il desiderio di abbandonare il ricevimento, raggiunse con agi­lità insospettabile la signora in rosso, incurante del consiglio dispensato dall’amico.

“I miei omaggi alla più bella donna presente in sala, sono un Vostro devoto ammiratore” si presentò esibendosi in un perfetto bacio a mano e soffocando sul nascere un osceno rutto da eccesso alcolico.

La giovane, che non si era accorta del rutto abortito, sorrise lusingata e sicura di sé rispose: “Sono Cristiana, la moglie del podestà.”

“Il podestà è un uomo senza alcun dubbio molto fortunato” la incalzò il professore mangiandola con gli occhi, e fissandole il petto.

Cristiana osservò un poco il suo sfacciato interlocutore prima di rispon­dere con tono deciso ma gentile. “Volete imbarazzarmi? Mio marito il podestà potrebbe accorgersi della Vostra intraprendenza, e ciò non si conviene ad una signora per bene.”

Il professore distolse lo sguardo dalla giovane, giusto il tempo di caricare il fornello della sua pipa, portarsela alla bocca e accenderla con l’accendisigari d’argento, regalo di una cugina ricca. Poi piantò nuovamente gli occhi neri sul volto della ragazza fissandola con sguardo penetrante, e con calma la rassicurò: “non abbiate timore, Vostro marito è certamente troppo occupato al momento per accorgersi di noi, e poi stiamo solo parlando, per ora non vi è dunque nulla di cui imbarazzarsi”.

Cristiana sorrise nuovamente, ma con malizia, e aggiustandosi i capelli con una mano replicò senza mostrare alcun disagio.

“Il modo in cui mi guar­date tradisce le Vostre intenzioni, e credetemi, mio marito potrebbe risentirsi per molto meno.”

“Con il dovuto rispetto, mia bella signora, delle reazioni di Vostro marito me ne frego, ciò che importa è la Vostra volontà, e a quel che vedo non Vi di­spiaccio.”

Questa volta il volto di Cristiana tradì una certa sorpresa, era rimasta colpita dalla spavalda sicurezza ostentata da quell’uomo non più giovane e nemmeno bello, che sprigionava un fascino tutto particolare. Aprì i suoi grandi occhi blu e fissò Bardazzi per alcuni secondi in silenzio, poi an­nuendo dolcemente si accomiatò.

“E’ vero, Voi non mi dispiacete, ma questo non Vi autorizza ad insidiarmi, ed ora, se Volete scusarmi, mio marito mi aspetta.”

Con grazia ed eleganza lei si allontanò velocemente senza nemmeno concedere il tempo per un saluto. Lui rimase solo con gli sbuffi della propria pipa, impegnato a celare lo stato di ebbrezza, e fermamente intenzionato a non desistere.

Tornò al tavolo delle portate e bevve altro vino, continuando ad osser­vare da lontano la bella signora. Ne studiava, senza farsi vedere, il corpo e l’abbigliamento: il vestito rosso con il lungo spacco a V le calze intessute con fili d’argento che brillavano sparendo sotto al vestito poco sopra le caviglie sottili, le scarpe eleganti, la voluminosa chioma bionda, i fianchi formosi, il petto generoso e le labbra carnose. Il professore era già in fervore e si sentiva attratto da quella ragazza come i mosconi dal miele, ma vedendo che non si allontanava dal marito, decise di concederle una tregua, afferrò una bot­tiglia appena stappata e si eclissò sul terrazzo.

Il Segretario del fascio locale aveva appena preso la parola e il terrazzo si svuotò velocemente, proprio mentre Bardazzi usciva. Tutti si accalcavano all’interno del salone principale e il Segretario svolse una breve relazione di cir­costanza per poi introdurre gli ospiti e lasciar loro il proscenio. Il programma pre­vedeva tre interventi: il prefetto, il federale e, in chiusura, il nuovo podestà.

Già annoiato dalla bolsa ampollosità del farmacista, Bardazzi era ben lieto di starsene solo con la bottiglia di vino cui si attaccò a garganella, evi­tando di sorbirsi le boriose fanfaronate degli altri oratori.

Così si stava abbandonando a torbidi pensieri, immagi­nando la moglie del podestà nuda e disponibile, quando la sua attenzione fu catturata da un’altra figura femminile. Una giovane e graziosa cameriera stava recuperando i bicchieri e i piatti vuoti lasciati sui tavolini del terrazzo, al­zando di tanto in tanto lo sguardo verso il professore.

Appena i loro occhi si incrociarono lei abbasso subito il capo, forse imbarazzata, forse ligia all’etichetta. Bardazzi, dopo aver divorato anch’essa con il pensiero, le si avvicinò, ancora con passo sicuro nonostante tutto l’alcol bevuto, la pipa fumante in bocca e un sorriso malizioso dipinto sul volto.

“Siete più incantevole di Afrodite, e anche se non vedo la magica cintura d’oro, mi sembrate ugualmente irresistibile, come Vi chiamate signorina?”

La giovane si fermò come pietrificata, col vassoio ben carico in mano, le sue gote arrossirono per l’imbarazzo. Quell’uomo, che per età poteva essere suo padre, le rivolgeva ora la parola, il primo e l’unico tra tutti gli invitati ad accorgersi di lei. Sentendosi a disagio, senza aver compreso il significato delle sue parole, con le mani tremanti, la testa china e lo sguardo rivolto al pavimento, timidamente rispose.

“Mi chiamo Azzurra, ai Vo­stri ordini Signore.”

Bardazzi, ancora lucido, comprese immediatamente di poter facilmente sog­giogare la giovane, forse minorenne, probabilmente al primo lavoro di una certa im­portanza. Non sapendo bene come comportarsi non avrebbe certo rifiutato di assecondarlo, pensò lui, intraprendente, ma quasi ubriaco. Tutto stava a circuirla con la necessaria abilità. Era una preda facile, non come la signora in rosso, moglie di un podestà e così sicura di sé.

Appoggiata la bottiglia ormai vuota su uno dei tavolini, si avvicinò a lei carezzan­dole il volto con delicatezza, mosse le labbra vicino al suo viso, il folto pizzetto sfiorò la sua morbida pelle, e con voce calda le sus­surrò all’orecchio: “Azzurra, il Vostro nome è bello, anche se non quanto lo sono i Vostri magnifici occhi.”

Lei trovò la forza di alzare lo sguardo e fissò per alcuni secondi l’uomo senza proferire parola.

Bardazzi approfittò del momento, l’avvicinò a sé e le posò a tradimento un bacio delicato sulla guancia.

Un bacio casto, che impressionò Azzurra intimamente, il vassoio ricolmo oscillò pericolosamente e lui afferrò al volo un bic­chiere prima che cadendo si frantumasse al suolo.

Cosa voleva quel vecchio, si chiese lei cercando di mante­nere la calma, come si permetteva di baciarla, recriminò con sé stessa. E adesso, se l’avesse baciata sulla bocca come avrebbe reagito? Quel bacio innocente l’aveva infastidita, che effetto avrebbe avuto qualcosa di più ardito?

Bardazzi studiava il volto emozionato di Azzurra, cercando il momento op­portuno per l’affondo finale, ma il gioco di seduzione fu interrotto da una voce familiare, quella del farmacista Bonelli.

“Professore ma cosa fate? Tornate dentro che tra poco parla il federale, venite, non vorrete perdervi il meglio immagino.”

Il professore desiderava ribellarsi, mandare a farsi fottere il vecchio amico, il federale e tutto il partito fascista compreso Mussolini, abbandonarsi alla passione e baciare la giovanissima fanciulla. Ma non era così ubriaco da fare certe pazzie, ancora una volta la ragione prevalse sugli istinti. Con un inchino salutò Azzurra, ritornò nel salone affollato e affiancò il Bonelli pronto a sciropparsi un altro noioso comizio.

Il farmacista, appena gli fu vicino, gli diede di gomito ridacchiando con faccia ammiccante: “Siete incorreggibile professore, non vorrei mai che mia fi­glia frequentasse le Vostre lezioni, cerchereste di sedurre pure lei, siete senza ritegno.”

Bardazzi rispose con una smorfia, a metà strada tra conferma e negazione, men­tre i suoi pensieri si dividevano tra la giovane manipolabile cameriera e la più forte ed avvenente moglie del podestà. Mentre milioni di italiani si interroga­vano su quale destino riservasse il futuro, se pace o guerra, il professor Bar­dazzi si domandava quale conquista gli avrebbe conferito maggior soddisfa­zione: la giovane brunetta o la bionda navigata?

Il federale prendeva la parola in quel momento, lasciando Bardazzi assorto nei suoi pensieri, e Cristiana coglieva l’occasione per abbandonare il salone.

A dispetto della sicumera con cui aveva affrontato il fugace approccio del profes­sore, in realtà era rimasta turbata. L’anziano marito sempre più occupato da impegni politici e professionali non la toccava da mesi e lei, trentacinquenne nel fiore della sua bellezza, si sentiva trascurata. Il potente podestà, inoltre, ostacolava la carriera lavorativa della bella moglie, proibendole di prestare ser­vizio come infermiera.

Non capiva il senso della sua vita, aveva lasciato il suo paesino per sposare il marito, non vedeva la famiglia da mesi, lui le impediva di la­vorare e la lasciava sempre sola. Pensava di vivere un infelice destino.

Uscita da una porta laterale guadagnò a rapidi passi le scale che porta­vano al piano superiore, dove erano collocati gli uffici, e in preda allo sconforto trattenne a fatica le lacrime, tormentata da altri proibiti pensieri. Non poteva togliersi dalla mente le immagini di quel volto, di quelle labbra, di quelle mani. I pochi momenti passati assieme avevano acceso il suo desiderio, il suo corpo troppo a lungo mortificato era tornato a fremere.

Percorse tutto il lungo corridoio che portava all’ultimo ufficio, il più grande, quello del marito podestà. Vi entrò e tirandosi dietro la porta la lasciò soc­chiusa, poi come innamorata diede un’occhiata all’orologio sul muro, le lancette segnavano le ore 10:30, sospirò e rimase in attesa.

Per il sollievo di Bardazzi, l’intervento del federale fu breve e conciso, altri impegni lo attendevano altrove e lasciata la parola al podestà sparì uscendo dalla stessa porta attraversata cinque minuti prima da Cristiana.

A quel punto anche il professore sentì il bisogno di allontanarsi dalla sala. Gli effetti di tutto il vino bevuto iniziavano a farsi sentire, di sicuro doveva andare in bagno, poi forse anche vomitare. Con passo questa volta incerto, tentò di raggiungere una delle uscite laterali, poi, una volta fuori, si mise alla ricerca dei cessi. Operazione infruttuosa sul primo momento. Era infatti arrivato sull’atrio prospiciente le scale per il piano superiore, mentre i bagni erano dalla parte opposta, vicino alle uscite che davano sul terrazzo.

Di attraversare nuovamente il salone affollato, proprio mentre il podestà parlava, non ne aveva proprio voglia. Forse c’erano altri gabinetti al piano superiore, ragionò Bardazzi in un momento di astuta lucidità. Si trascinò sino alle scale e afferrato il corrimano si diede coraggio, cercando di salire i gradini e sforzandosi di contenere sia la vescica che il ventre.

Che vino schifoso, si diceva, mentre si manifestavano i primi conati allo stomaco. Anche salire i gradini fu piuttosto penoso. Ad ogni passo la pressione sulla pancia aumentava e con essa la fatica di doversi trattenere. Giunto in cima gli girava anche un po’ la testa, e di bagni nemmeno l’ombra.

Infilò il lungo corridoio quasi buio, illuminato solo dalle luci che provenivano dalle scale, ormai deciso a qualche gesto estremo, tentando di aprire tutte le stanze sul suo cammino fin quando, giunto quasi a metà, una porta sulla destra si aprì.

Non ebbe il tempo di leggere la targhetta, si trattava di un qualche ufficio con diverse scrivanie, si affrettò verso l’angolo più lontano e meglio illuminato dalla luce di un lampione che attraversava le finestre provenendo dalla strada. Giunto sopra ad un cestino per la carta si abbasso la patta e fece ciò che doveva. L’operazione richiese un lasso di tempo che al professore sembrò interminabile tra sensazioni di sollievo, vergogna e timore di essere scoperto in un gesto così ripugnante.

Terminata l’evacuazione si scrollò l’arnese un paio di volte e lo ripose nelle mutande. Sembrava poter controllare lo stomaco, uscì dall’ufficio e con rabbia constatò che la porta di fronte era pure lei aperta, e soprattutto era quella di un gabinetto.

Tornò dentro da dove era appena uscito, agguantò il cestino della carta pieno di urina e si diresse verso il cesso appena scovato, sino ad una turca dove vi travasò il contenuto puzzolente. Poi fu aggredito da un conato allo stomaco intenso e inaspettato: non aveva più la forza di trattenersi, considerò che si trovava nel posto adatto e vomitò.

Bardazzi si sentiva ora decisamente meglio, si ricompose ed uscito da quel bagno era intenzionato a ripercorre i propri passi per tornare al salone. Un evento insolito lo trattenne sul posto. Aveva infatti udito un tonfo sinistro provenire dall’ufficio in fondo al corridoio. Un brivido lo attraversò dal capo ai piedi, la porta socchiusa lasciava fuoriuscire della luce, e altri rumori indefinibili provenivano da quel luogo. Ormai ne era certo, non era solo a quel piano degli uffici.

Terrorizzato dall’idea che qualcuno potesse averlo visto mentre urinava nel cestino della carta, si avvicinò silenziosamente a quella porta in fondo al corridoio per scoprire chi ci fosse in quella stanza. Più si avvicinava più i rumori diventavano familiari, gli sembrava fossero dei mugolii, dei gemiti, più precisamente gemiti di piacere, si, avrebbe potuto scommetterci, una donna oltre quella porta stava provando piacere.

Ora la paura si era mescolata con la curiosità e anche con un po’ di eccitazione, quella donna, chiunque fosse, sembrava proprio se la stesse spassando. Bardazzi si avvicinò a sufficienza da poter sospingere la porta quel tanto che bastasse a fargli vedere, e ciò che vide fu al tempo stesso orribile e meraviglioso.

Cristiana era con i seni scoperti e il vestito sollevato sopra le gambe, seduta sulla scrivania del podestà con le gambe divaricate. Inginocchiata davanti a lei c’era un’altra ragazza, aveva la testa in mezzo alle sue gambe e si stava dando da fare. A giudicare dal trasporto della donna in rosso, quella inginocchiata doveva sapere il fatto suo molto bene, e benché fosse di spalle, Bardazzi impiegò poco a riconoscerla: era Azzurra, la cameriera.

Cristiana e Azzurra si erano conosciute quella stessa sera, poche ore prima. Quella timida e impacciata ragazzina era subito piaciuta, e per la signora non era stato difficile convincere la servizievole cameriera ad eseguire i suoi ordini. All’orario convenuto doveva recarsi nell’ufficio del podestà e servire dell’acqua e dello spumante in fresco, per un incontro programmato dal marito con un ospite  importante, che desiderava essere ricevuto in privato.

Naturalmente non esisteva nessun ospite, Cristiana aveva calcolato per quel servizio proprio il momento in cui il marito sarebbe stato impegnato nel suo lungo discorso, così da esser certa di restare sola con Azzurra. Una volta ottenuta la giusta intimità tutto il resto andò via liscio. La giovane si lasciò baciare senza opporre alcuna resistenza, e quando Cristiana le infilò le mani nelle mutandine, ebbe la riprova che le attenzioni riservate alla giovane erano più che gradite.

Non era la prima volta che Cristiana andava con una ragazza, aveva scoperto diversi anni prima la sua duplice sessualità, ma per Azzurra era un esperienza inedita, inaspettata e soprattutto scioccante. La rigida educazione ricevuta e la soggezione che provava per quella donna, così elegante, bella ed importante, le impedirono qualsiasi rifiuto. Come anche Bardazzi aveva intuito, era troppo giovane, insicura ed inesperta per rifiutarsi di eseguire ciò che le veniva chiesto di fare.

Ma se all’approccio insolente di un uomo era rimasta disturbata e al fondo un po’ irritata, quando a baciarla in bocca fu una donna, il suo corpo e la sua mente reagirono in modo del tutto nuovo. Le sensazioni di piacere e turbamento che la investirono furono fortissime e sconcertanti.

Cristiana fu piacevolmente sorpresa nel constatare il trasporto cui immediatamente si abbandonò la sua più giovane amica, e a contatto con il corpo fremente e sconvolto della fanciulla perse ogni residua inibizione.

Il marito era un bastardo, considerò, e decise di darsi a quella serva. Si, che andassero al diavolo il marito e la politica, lei era ancora giovane e voleva godersi i suoi anni. Intanto i suoi gemiti crescevano di intensità come il sapiente lavoro di Azzurra, che sembrava non avesse fatto altro per tutta la sua pur breve vita.

E anche il professore era pronto, si abbassò i pantaloni e scivolò nella stanza.

La prima a vederlo fu la moglie del podestà che ormai vicina all’orgasmo si eccitò ancora più intensamente all’apparire dell’inatteso visitatore. Poi fu la volta di Azzurra, perché Bardazzi la stava già sollevando per prenderla da dietro. La giovinetta, constatando che la signora sembrava gradire, immaginò che fosse tutto organizzato, che lui fosse l’amante di Cristiana, e che a lei toccasse di assecondare le perversioni di entrambi.

Il professore le avrebbe possedute a turno, in un orgia indimenticabile con due giovani lussuriose e bellissime ragazze lesbiche. Era proprio sul più bello, dopo aver avuto Azzurra stava per darsi a Cristiana, che sarebbe stata felice di ricevere in corpo, dopo tanto tempo, un vero uomo.

Improvvisamente però una voce lo raggiunse, da prima lontana poi sempre più vicina, potente e virile.

 

Combattenti di terra, di mare e dell’aria.

  Camicie nere della rivoluzione e delle legioni.

  Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania.

  Ascoltate! (Acclamazioni)

 

Bardazzi voleva continuare la sua ammucchiata memorabile e far godere la signora in rosso, ma la voce continuava a parlare accompagnata dalle urla della folla estasiata.

 

Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. (Acclamazioni vivissime)

  L’ora delle decisioni irrevocabili. (Un urlo di acclamazione)

 

Il professore voleva solamente amare quelle donne, ma loro lentamente si dissolvevano, e nella sua mente annebbiata si materializzava l’apparecchio radiofonico.

 

La dichiarazione di guerra è già stata consegnata (Acclamazioni, grida altissime di: «Guerra!

  Guerra!») agli ambasciatori di Gran Bretagna e di  Francia. (Acclamazioni)

 

Cristiana e Azzurra erano sparite, Bardazzi era rimasto solo, sdraiato nel suo letto, nudo, tutto intorno bottiglie di vino vuote e l’EIAR[2] che trasmetteva in diretta dal balcone di piazza Venezia.

 

Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie

  dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso

  insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. [3]

Mussolini annunciava al mondo l’ingresso dell’Italia in guerra, e il professore di storia medievale Carlo Bardazzi, la testa appesantita dalla sbornia della notte prima, si masturbò.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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[1] Mario Appelius, giornalista ed inviato del Popolo d’Italia e conduttore radiofonico (inventore di “Dio stramaledica gli inglesi”) era pressoché inesauribile negli argomenti e nei sottotitoli anti-inglesi. Popolo d’Italia del 17 maggio 1940, Perché la Germania vince, articolo a cinque colonne in prima pagina

[2] L’URI, che nel 1928 si trasformò in EIAR, fu la prima società di gestione del servizio radiofonico nazionale.

[3] Il 10 giugno 1940 dal balcone di piazza Venezia a Roma, davanti ad una folla esultante, Mussolini annuncia la dichiarazione di guerra contro Gran Bretagna e Francia. Ecco il testo integrale dello storico discorso.

“Combattenti di terra, di mare e dell’aria. Camicie nere della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania. Ascoltate! (Acclamazioni)Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. (Acclamazioni vivissime) L’ora delle decisioni irrevocabili. (Un urlo di acclamazione) La dichiarazione di guerra è già stata consegnata (Acclamazioni, grida altissime di: «Guerra! Guerra!») agli amba-sciatori di Gran Bretagna e di Francia. (Acclamazioni) Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno osta-colato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste frasi: promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario di cinquantadue Stati. La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. (Applausi) Con voi il mondo intero è testimone che l’Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa; ma tutto fu vano. Bastava rivedere i trattati per adeguarli alle mutevoli esigenze della vita delle nazioni e non considerarli intangibili per l’eternità; bastava non iniziare la stolta politica delle garanzie, che si è palesata soprattutto micidiale per coloro che le hanno accettate. Bastava non respingere la proposta che il Führer fece il 6 ottobre dell’anno scorso, dopo finita la campagna di Polonia. Ormai tutto ciò appartiene al passato. Se noi oggi siamo decisi ad affrontare i rischi ed i sacrifici di una guerra, gli è che l’onore, gli interessi, l’avvenire fer-reamente lo impongono, poiché un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni e se non evade dalle prove supreme che determinano il corso della storia. Noi impugnammo le armi per risolvere, dopo il problema risolto delle nostre frontiere continentali, il problema delle nostre frontiere marittime; noi vogliamo spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare, poiché un popolo di quarantacinque milioni di anime non è veramente libero se non ha libero l’accesso all’Oceano. Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione. È la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra. È la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto. È la lotta tra due secoli e due idee. Ora che i dadi sono gettati e la nostra volontà ha bruciato alle nostre spalle i vascelli, io dichiaro solennemente che l’Italia non intende trascinare altri popoli nel conflitto con essa confinanti per mare o per terra. Svizzera, Jugoslavia, Grecia, Turchia, Egitto prendano atto di queste mie parole e dipende da loro, soltanto da loro, se esse saranno o no rigorosamente confermate. Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che, secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un ami-co si marcia con lui sino in fondo. (« Duce! Duce! Duce! ») Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose Forze Armate. In questa vigilia di un evento di una portata secolare, rivolgiamo il nostro pensiero alla Maestà del re imperatore (la moltitudine prorompe in grandi acclamazioni all’indirizzo di Casa Savoia), che, come sempre, ha interpretato l’anima della patria. E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata. (Il popolo acclama lungamente all’indirizzo di Hitler) L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. (La moltitudine grida con una sola voce: « Sì! ») La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: VINCERE! (Il popolo prorompe in altissime acclamazioni) E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo. Popolo italiano! Corri alle armi, e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!

Delitto comunista

sator arepo tenet opera rotas

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Verso le 11:30 del 17 marzo 1943 il maresciallo dei carabinieri Melchiade Maffeo era pronto per recarsi sul luogo del delitto, un delitto comunista: una giovane donna stuprata e poi uccisa dai partigiani. Avendo avuto notizia che il castello piacentino dove avevano trovato il cadavere della donna era decorato con mosaici e simboli sacri, ritenne quindi più prudente coinvolgere anche il brigadiere Rubiano Rufina, che era un appassionato d’arte e magari poteva tornare utile. Inserire una relazione del Rufina nel proprio rapporto, pensò sorridendo compiaciuto della propria astuzia, gli avrebbe conferito un certo spessore culturale.

Il brigadiere Rufina dal canto suo pensava più o meno la stessa cosa. Si augurava che una breve interpretazione di qualche simbolo allegorico gli sarebbe bastata per dimostrare la propria competenza in campo artistico. Avrebbe lasciato al maresciallo tutti gli onori, ma soprattutto gli oneri, di dover scoprire chi era la ragazza morta, chi l’aveva uccisa e perché. Lui aveva altro a cui pensare, ancora poche ore e sarebbe partito per una licenza di tre giorni.

Si incamminarono così verso il castello in cima alla collina, entrambi convinti di dover sbrigare una pratica ordinaria o poco di più, senza sospettare minimamente quali inaspettate sorprese quel luogo antico e misterioso avesse in serbo per loro.

Appena giunti davanti all’edificio, il brigadiere Rufina capì subito ad un primo sguardo che non si trattava di una castello qualunque, e che non vi avrebbe trovato delle semplici immagini allegoriche, ma molto di più. Sperduto sulle colline del piacentino era stato edificato un maniero alla cui custodia erano stati affidati numerosi messaggi esoterici.

Dentro al timpano, incastonato nel muro sopra l’ingresso principale, campeggiava un triangolo equilatero attorniato da fiamme rosse con al centro l’occhio che tutto vede. L’iconografia egizia dell’occhio racchiuso nella piramide era divenuta nel tempo uno dei modelli usati dagli artisti del Medioevo per raffigurare il Dio cristiano. Ma in epoche successive la medesima simbologia era stata adottata anche dalla massoneria. Si trattava di un caso o poteva avere un qualche significato occulto? Rufina pensò che lo avrebbe scoperto visitando meglio il vecchio edificio.

Sotto al timpano si apriva il portone a due ante, entrambe erano state rinforzate con una spessa inferriata. Ad attirare l’attenzione del brigadiere fu la grossa croce patente rossa stampigliata sullo stipite destro.

Il maresciallo osservava il Rufina con sufficienza, senza badare allo sguardo rapito con il quale si era messo ad osservare attentamente quell’architettura, come un bambino guarderebbe la carovana che conduce al paese dei balocchi.

Entrarono e il Rufina ebbe conferma delle sue iniziali intuizioni. La pianta a forma rettangolare era perfettamente disposta secondo i quattro punti cardinali con l’ingresso orientata ad occidente e l’ampia vetrata del salone delle feste orientato ad oriente, verso la Terra Santa, come le più importanti cattedrali gotiche sparse per tutta Europa. L’interno era in stile barocco e molte camere erano decorate da affreschi alle pareti e mosaici sul pavimento. Il brigadiere comprese che l’edificio doveva aver subito diverse ristrutturazioni nel corso dei secoli, variando il proprio aspetto originale. Ritenne di poter datare il pian terreno come quello più antico, vecchio di almeno otto o nove secoli. I soggetti di cui era composto il coevo mosaico pavimentale, in tessere bianche e nere con inserti policromi, erano solo parzialmente visibili e distribuiti in modo disordinato, senza nessun apparente criterio logico. Le iconografie erano inscritte in cerchi concentrici elaborati, disposti in un reticolo di tredici quadrati che si ispiravano a temi sacri e profani. Molte parti dell’opera originaria erano andate chiaramente perdute.

A fianco del grande camino in marmo, sulla parte sinistra del pavimento e in posizione defilata, il Rufina individuò dei frammenti di misteriose lettere, proprio nel punto dove il mosaico aveva subito nel corso del tempo i più vistosi rimaneggiamenti, risultando irrimediabilmente alterato. Questo fatto gli sembrò insolito, perché altre zone più esposte al calpestio, come quelle al centro del salone, erano invece intatte. Sembrava quasi che nel passato qualcuno avesse voluto cancellare le tracce di un messaggio lasciato in precedenza dagli autori del mosaico originale.

Rufina si soffermò ad analizzare quella zona dove l’opera musiva era più confusa: i tondi in cui si vedevano delle fiere erano capovolti, vi erano pezzi di altri soggetti indecifrabili, troncati e frammentati ad altri che erano stati ricomposti alla rinfusa, facendo disperdere l’armonica ed organica lettura che in origine l’autore doveva avere impresso alla propria opera.

In tutta quella mescolanza, il brigadiere riconobbe delle lettere superstiti e ben leggibili, collocate in verticale:  R, O, T, una A intuibile ed una S girata di 90 gradi. Ritenne che le prime quattro lettere fossero le finali delle parole SATOR, AREPO, TENET, OPERA, e la S di ROTAS dovesse probabilmente seguirle nell’ordine, ma a causa di inspiegabili modificazioni era finita in quella anomala posizione. Le lettere ben leggibili erano inoltre affiancate da delle linee verticali nere e spesse, come se fossero state poste a delimitare le parole entro delle caselle, le 25 caselle che formavano il quadrato magico del SATOR.

Il brigadiere era sicuro della sua intuizione e decise di prendere degli appunti riproducendo il quadrato magico sul proprio taccuino.

 

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

 

Dopo aver così scoperto la presenza della famosa frase latina palindroma, leggibile da destra verso sinistra, dall’alto verso il basso, ma allo stesso modo dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra, il Rufina proseguì ad analizzare i mosaici nelle parti meglio conservate e che mostravano nel loro inalterato splendore animali reali e fantastici, tipici del bestiario medievale. La sua attenzione fu particolarmente attratta da una di queste allegorie pagane, una grossa sirena con due code, sormontata da un curioso berretto frigio e con il volto bruno, quasi mascolino.

Il brigadiere continuò a prendere appunti: la sirena bicaudata era un simbolo di femminilità e di fertilità, nelle chiese cristiane rappresentava la duplicità della natura umana, il dualismo bene-male, ragione-istinto. Terminò poi l’ispezione di quel luogo misterioso. Il cadavere della ragazza era stato rinvenuto in cantina, abbandonato in posizione fetale alla fine di una galleria sotterranea che si incuneava nel ventre profondo della collina, ma che ad un certo punto era stata interrotta da uno spesso muro di sassi e mattoni.

“Quando è stato fatto questo muro?” chiese il maresciallo avvicinandosi al brigadiere e indicando l’ostacolo che ostruiva il passaggio.

“Probabilmente qualche secolo fa, ma non ho idea del motivo, né potrei dire dove conducesse questa galleria. Forse era una via di fuga sotterranea, nel caso il castello fosse stato preso d’assedio. Possiamo fare solo delle ipotesi.”

“Secondo Voi, per quale motivo l’assassino ha abbandonato il cadavere della ragazza proprio in questo punto?”  chiese ancora Melchiade, illuminando con una torcia la pozza di sangue rappreso sopra al pavimento in pietra del cunicolo.

“Non saprei proprio dire maresciallo”.

“Ditemi, allora, avete travato qualcosa di interessante, o meglio di utile per scoprire chi è l’assassino? Ho visto che state prendendo persino degli appunti”  disse allora Melchiade in modo beffardo.

Il Rufina non raccolse la provocazione, sorrise maliziosamente e disse sibillino: “Dovessi scoprire il nome dell’assassino, sareste il primo a saperlo.”

“Bene” chiosò il maresciallo, “cosa avete trovato allora di tanto interessante?”

“Per il momento solo i resti di una frase palindroma: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS.”

“E cosa diavolo significa?”

“Il significato esatto è ancora oggetto di studio, a causa della parola AREPO che non ha una traduzione certa poiché non è latina, a differenza delle altre. Poiché il quadrato del Sator è presente in molte chiese e non solo in Italia, si pensa che abbia avuto origine ai tempi dei primi cristiani, e identificando la figura del seminatore, il Sator, in quella del Creatore, la versione più accreditata è questa: Il Creatore, l’autore di tutte le cose, mantiene con cura le proprie opere.”

“Una frase piuttosto enigmatica, come pensate che possa esserci utile?” chiese il maresciallo senza nascondere il suo abituale sorrisetto ironico.

“Ancora non lo so, forse lo scopriremo più avanti” rispose piccato il brigadiere.

“A mio avviso abbiamo a che fare con un pazzo fuori di senno” giudicò il maresciallo, mentre osservava quel luogo tetro e claustrofobico.

Il brigadiere stava maturando un’opinione diversa, ma preferì tacere tenendo i propri pensieri per sé. Non erano pensieri confortanti e nella sua mente si consolidava il sospetto che l’autore di quei gesti non fosse affatto guidato dalla follia, ma seguisse piuttosto una logica precisa.

“Con ogni probabilità la vittima ha cercato di difendersi” continuò il maresciallo richiamando l’attenzione del Rufina, “sono state rinvenute tracce di pelle sotto le unghie della ragazza. Il medico legale ritiene che lei abbia cercato di fuggire prima di essere uccisa, in una delle mani impugnava ancora la maniglia spezzata di una porta.”

“Chiunque abbia commesso l’omicidio, deve dunque aver fatto un gran rumore, non ci sono persone che abbiano sentito qualche cosa?” domandò il brigadiere, pensando di fare una domanda pertinente.

“Abbiamo già interrogato gli abitanti delle case più vicine, nessuno ha udito nulla” rispose il maresciallo mostrandosi dubbioso. Al brigadiere sembrò di scorgere sul volto del suo superiore la medesima perplessità che egli stesso nutriva. Forse qualche testimone esisteva ma aveva paura di esporsi, pensò. Un così efferato e crudele omicidio e la paura di una vendetta partigiana avrebbe indotto chiunque ad una certa prudenza.

Terminato il sopralluogo sulla scena del delitto, i due carabinieri si avviarono verso l’uscita, e fu a quel punto che accadde l’imprevedibile.

Un rumore basso e smorzato catturò la loro attenzione. Inizialmente non riuscirono a capire da dove provenisse, poi lo sentirono di nuovo. E ancora una terza volta, sempre uguale, profondo e angosciante.

“Mi sembra che provenga dal muro infondo alla galleria” disse il brigadiere con la faccia contratta dalla tensione.

“Ma non ha senso”, obiettò il maresciallo, “come può un muro emettere suoni così sinistri, come i rintocchi di una campana rotta?”

Il brigadiere decise di ispezionare meglio la parete, per studiare il muro da vicino. La malta ingiallita era irregolare, l’intonaco consumato dal tempo era in gran parte scrostato, le pietre trasudavano umidità. Accostò l’orecchio al muro, ma i rumori erano cessati. Cominciò a picchiettare sulla superficie levigata di alcuni mattoni e sentì un rimbombo sordo risuonare nelle sue orecchie. Un sospetto si fece strada nella sua mente, forse che oltre quella parete si nascondesse qualcosa, forse un’alta stanza, oppure un passaggio segreto?

Continuò ad armeggiare lì intorno fino a quando riuscì a trovare quello che stava cercando. Sul lato destro, a mezza altezza, fuoriusciva dal muro la capocchia di un grosso chiodo, era fatta di ferro battuto, ma facendovi sopra pressione rientrava leggermente dentro la parete. Il brigadiere spinse con maggiore energia, e la capocchia penetrò in profondità dentro al muro azionando un meccanismo.

Il muro cominciò ad aprirsi cigolando verso l’interno. Era stato costruito su di un telaio di ferro arrugginito incardinato su tre grossi perni d’acciaio.

Lo sguardo del maresciallo fu rapito dallo stupore, il suo sottoposto aveva appena fatto funzionare una porta segreta che conduceva ad una camera sotterranea del castello, occultata proprio al centro della collina sulla quale il maniero era stato costruito secoli prima.

L’interno era buio e i due furono investiti da una vampata d’aria calda proveniente dalla stanza che avevano appena scoperto.

Il maresciallo Melchiade Maffeo squarciò l’oscurità con la luce della sua torcia elettrica. All’interno della camera c’era una bella scrivania in mogano, sulla quale era collocata una lampada da tavolo. I due si avvicinarono e il brigadiere l’accese.

Una flebile luce filtrata da un paralume di stoffa rossa illuminò debolmente l’ambiente. Era una specie d’ufficio: con delle cassettiere di legno, una fornita libreria traboccante di testi scritti in cirillico, e un piccolo salottino con un comodo divano imbottito. Sul muro dietro alla scrivania era appesa una fotografia di Giuseppe Stalin, sulla parete opposta una grande bandiera rossa con la falce ed il martello. Non vi erano altri ingressi, non c’erano finestre. In un angolo era ubicato un grosso orologio a pendolo, segnava le 3:10 del pomeriggio ora di Mosca. Il maresciallo capì da dove provenivano i rintocchi che avevano attirato la loro attenzione qualche minuto prima.

“Mondo boia! Abbiamo scoperto una sezione clandestina del partito comunista” esclamò il brigadiere, sconvolto dalla scoperta.

Questa volta una promozione non me la leva nessuno, pensò il maresciallo senza parlare, ma con gli occhi dilatati dall’eccitazione.

Il brigadiere iniziò ad ispezionare la scrivania. Uno dei cassetti sotto al tavolo era chiuso a chiave. Forzò la serratura con il calcio della sua pistola.

Dentro al cassetto c’era la copia di un documento della NKVD, classificato come “segretissimo” ed indirizzato all’agente italiano compagno Pietro Dinamite.  Il frontespizio titolava: “Idi di Marzo”

Era scritto in italiano, ed il maresciallo cominciò a leggerlo avidamente. Ogni tanto alzava lo sguardo dal fascicolo per guardarsi attorno, poi dopo aver bisbigliato tra sé frasi incomprensibili, riprendeva la lettura.

Il rapporto era dettagliato, nelle premesse faceva riferimento alle informazioni raccolte da un confidente estero ritenuto affidabile. La fonte riferiva l’esistenza di un laboratorio militare segreto, ubicato nell’Italia del nord, dove erano in corso ricerche segretissime su nuove armi il cui “sabotaggio” era definito “vitale allo sforzo bellico sovietico.

“Questa è roba grossa, roba che scotta” commentò ad alta voce il maresciallo.

Il brigadiere annuì trionfante, aveva trovato uno schedario pieno zeppo di nomi e di indirizzi di fiancheggiatori della cellula comunista. Erano decine, sparsi in diverse città, arrestarli tutti avrebbe richiesto un’operazione in grande stile.

“Qui ci becchiamo una medaglia” disse il Rufina senza nascondere il suo entusiasmo.

Melchiade Maffeo non disse nulla. Il suo volto era improvvisamente divenuto pallido, i suoi occhi ora fissavano il vuoto. Dalla pancia gli usciva una lunga ed affilata e sanguinante lama d’acciaio. Era stato trafitto alle spalle con uno stocco medioevale e passato da parte a parte. Un rivolo di sangue uscì dalla bocca e gli sporcò il mento.

Il Rufina non capì cosa stava succedendo, e quando vide il corpo del maresciallo cadere a terra privato della vita era troppo tardi. L’assassino era già davanti a lui e lo teneva sotto tiro con la pistola rubata al Maffeo, prima che il suo cadavere rovinasse sul pavimento.

“Ma cosa state facendo? Avete ammazzato il maresciallo!” provò a protestare il Rufina.

“E adesso ucciderò anche Voi” disse l’uomo con la pistola.

“Ma Voi non potete, Voi siete il segretario del Partito Fascista!” urlò il brigadiere, che aveva riconosciuto il suo interlocutore.

L’uomo con la pistola annuì: “Ma sono anche una spia al soldo dell’Unione Sovietica” replicò l’uomo con la pistola esibendo un ghigno spavaldo.

“Siete un traditore allora!”

“Io la vedo sotto un’altra prospettiva, sono solo passato dalla parte dei più forti. La guerra per l’Asse è perduta, ed io mi sono già riposizionato con i vincitori.”

“Voi siete un pazzo!” protestò il brigadiere, “un pazzo e un traditore!”

L’uomo con la pistola non replicò. Premette il grilletto è sparò in faccia al brigadiere.

La testa del carabiniere esplose spruzzando sangue e cervella sul ritratto di Stalin appeso alla parete.

“Merda” mormorò il comunista, “ora dovrò procurarmene uno nuovo.”

Era il terzo delitto comunista di cui si macchiava in pochi giorni.

Poi uscì dalla stanza, chiuse il passaggio segreto e tornò a casa. L’ora del pranzo era passata da un pezzo, e lui non aveva ancora mangiato.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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La moglie del gerarca

La moglie del gerarca

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La vita del professor Carlo Centodonne non era più stata la stessa da quando aveva vinto il concorso per quella cattedra all’Università. Si era sentito arrivato dopo anni di studi e di sacrifici, e da allora aveva cominciato ad assumere uno stile di vita scapestrato, dedito all’alcol, alle scommesse sui cavalli, alle donne ed ai romanzi d’avventura. Le numerose amanti e soprattutto il vizio del gioco gli avevano ormai messo a soqquadro l’esistenza.

Come ogni mattino, prima di radersi si guardò allo specchio. Aveva una faccia tremenda, quasi tragica. La barba incolta sottolineava il colorito smunto del volto che a sua volta evidenziava due grosse borse sotto agli occhi. La bocca era impastata ed aveva sete. Si era alzato tardi, ma le molte ore di sonno non avevano cancellato le tracce degli eccessi della notte precedente. Si era ubriacato pesantemente risvegliandosi nel proprio letto con una giovane donna che non ricordava di aver conosciuto. Non ricordava nemmeno come avesse fatto a tornarci a casa insieme. La guardò attraverso la porta socchiusa del bagno, lei era stesa nuda sul letto profondamente addormentata.

Non sapeva neanche come lei si chiamasse, però aveva un bel culo. I capelli erano scuri e lunghi, il volto innocente e grazioso tradiva la sua età, non poteva avere più di vent’anni. Il professore si interrogò sulle ragioni che lo spingevano a desiderare sempre nuove donne e sempre più giovani, pur avendone già avute moltissime. Doveva essere la paura di invecchiare, oppure della morte. Sapeva di sentirsi attratto da cose sbagliate come il gioco d’azzardo e l’amore a pagamento, ma non riusciva a sottrarsi al seducente richiamo del vizio e del peccato. Se pur la sua coscienza ogni tanto lo costringeva a riflettere sulla propria condotta, un cinico fatalismo lo induceva a perseverare. Per pentirsi c’era ancora tempo, ripeteva a sé stesso in quelle occasioni.

Dopo essersi rasato si vestì con cura, ci teneva a mantenere un contegno ed un decoro eleganti. Il clima di fine inverno era ancora fresco, e sopra ad una  camicia di cotone a quadri si infilò una giacca di tweed  con una cravatta fantasia. Indossò dei pantaloni di velluto a coste color cachi e si sentì pronto per una nuova giornata.

Andò nel suo studio, sulla scrivania vi erano due lettere.

Aprì la prima: era un sollecito di pagamento della drogheria sotto casa. Ci aveva dato dentro con vino, birra e altri alcolici e adesso non aveva i soldi per pagare il conto. Appallottolò la missiva e la buttò nel cestino. Negli ultimi tempi era andato tutto storto. Alle corse dei cavalli aveva perso una montagna di soldi. Era anche indietro con l’affitto ed ora rischiava seriamente lo sfratto.

Prese la seconda lettera ed iniziò a leggerla. Era scritta da una sua ammiratrice che desiderava conoscerlo, aveva letto il suo libro di argomento esoterico dal titolo: Occulto misterioso. Aveva dedicato a quella fatica vent’anni delle sue ricerche, ed ora era considerato tra i massimi esperti italiani della materia. Anche Julius Evola aveva scritto una lusinghiera recensione della sua pubblicazione, complimentandosi per l’accuratezza e la profondità dell’opera. Tutto ciò risaliva alla metà degli anni trenta però. Ora la vita del professore aveva preso tutt’altra piega, per colpa dei suoi vizi: le corse dei cavalli e l’alcol.

La sua ammiratrice aveva anche accluso una fotografia: era una ragazza giovane e molto carina, scriveva da Bologna. Lui pensò che le avrebbe certamente risposto, poi prese la lettera e la mise dentro ad un cassetto della sua scrivania. Decise che si sarebbe dedicato a quella corrispondenza in un secondo momento, per quel giorno aveva questioni più urgenti a cui dedicarsi. Chiuse il cassetto e restò pensieroso a guardare fuori dalla finestra. Il sole era già alto nel cielo e vide delle rondini sbucare fuori dal sottotetto di un palazzo sull’altro lato della via. Viveva nella periferia sud di Milano, vicino a viale Isonzo. Da casa sua si potevano ancora vedere rogge, campi coltivati e bambini scalzi correre per i prati.

La ragazza nel letto si era intanto svegliata, e lo raggiunse nello studio con indosso solo una vestaglia da uomo, volutamente lasciata aperta sul davanti. Salutandolo lo baciò sulla bocca.

“L’ho presa nel tuo armadio, non ho trovato altro. Vivi da solo?” chiese lei.

“Ancora ci riesco, con un po’ di mestiere” rispose lui, pensando con fastidio alle norme che obbligavano i dipendenti pubblici ad essere sposati per poter far carriera.

La ragazza lo guardò con occhi languidi, lasciando intravedere le proprie nudità con consumata malizia.

“Ora te ne devi andare” disse il professore con freddezza, come faceva sempre quando voleva sbarazzarsi di una donna.

“Sta bene, ma prima devi pagarmi, questa notte ti sei divertito, ma eri troppo ubriaco, hai detto di non ricordare dove avevi messo i soldi. Ora voglio quel che mi spetta” disse lei senza scomporsi, sorridendo con complicità.

Un’altra puttana, pensò lui. Avrebbe dovuto smettere di farsi succhiare via i soldi in quel modo. Si frugò nelle tasche ma le trovò vuote. Aprì un paio di raccoglitori accatastati sulla sua scrivania, ma erano pieni solo di carte e qualche cambiale. Provò un senso di disagio, ma alla fine ammise imbarazzato:

“Sono rimasto al verde dolcezza, potrò pagarti non prima della settimana prossima.”

“Sei un stronzo” disse la ragazza incrociando le braccia sul petto, sembrava non credergli.

“Non dovresti fidarti dei clienti ubriachi” la rimproverò.

“Vai a farti fottere!” replicò lei.

Il professore fece spallucce, poi andò in cucina e cominciò a prepararsi la colazione. La giovane donna raccolse le proprie cose, si rivestì in fretta e andò via sbattendo la porta, senza salutare.

Carlo aveva altro per la testa, si fece un surrogato di caffè e lo corresse con una dose abbondante di grappa, poi si affettò del salame che mangiò insieme a del pane secco. Per ammorbidirlo lo inzuppò in una tazza piena di vino. Erano quasi le due del pomeriggio, e la giornata si annunciava poco stimolante. Avrebbe passato il pomeriggio nel suo studio a correggere le bozze di alcune tesi di laurea, scritte da laureandi che lo avevano imprudentemente scelto come relatore.

La sera, al contrario, sarebbe stata molto più interessante. Aveva ricevuto un invito a cena da una delle sue amanti, una ricca signora, moglie di un alto papavero del Partito Fascista milanese. Nella sua mente stava già iniziando ad elaborare un piano per farsi prestare del denaro da quella donna. Chiedere soldi senza compromettere la propria dignità ed il proprio orgoglio, questo era quanto stava cercando di architettare. Gli serviva una scusa plausibile e decorosa. Stabilì che le avrebbe chiesto un’offerta per l’orfanotrofio dei Martinitt, presso il quale era cresciuto e aveva fatto qualche volta del volontariato. Era uno stratagemma spregevole, ma se domenica avesse indovinato un paio di corse, avrebbe potuto tamponare la situazione, e magari un giorno devolvere davvero dei soldi ai poveri orfanelli della città.

Si sedette alla sua scrivania ed iniziò a leggere il Corriere della Sera del giorno prima,  il 16 marzo 1939. Il titolo era ad otto colonne: “AUMENTI DEGLI STIPENDI E DELLE PAGHE.” Il giorno antecedente la Germania aveva invaso la Boemia e la Moravia, ma il Corriere aveva dato la notizia soltanto in terza pagina e con solo un modesto richiamo in prima. Al professore non era sfuggito il puerile tentativo di minimizzare la portata dell’evento. Per questo aveva conservato quel numero del giornale. Forse ci sarebbe stata un’altra Monaco, o più probabilmente l’Europa sarebbe precipitata in una nuova guerra, aveva pensato leggendo quelle notizie la prima volta. Conosceva bene gli inglesi, e sapeva che non avrebbero mai permesso a Hitler di conquistare tutto il continente. Aveva ragione, come quando aveva immaginato che qualsiasi italiano avrebbe rinunciato volentieri all’aumento della paga, pur di avere la certezza di evitare la guerra.

Lui invece aveva maledettamente bisogno di denaro. Cercò di non pensarci e cominciò a leggere un dattiloscritto sulla “Carta di Wala”, opera di uno dei suoi studenti. Lo trovò banale e noioso, un lavoro meramente accademico. La figura dell’abate francese Wala, nipote di Carlo Martello e cugino di Carlo Magno, era indagata senza alcuna originalità. Si sarebbe persino addormentato se quella lettura non gli avesse ricordato una delle sue conquiste di gioventù. Una giovane contadinella di Bobbio, la stessa città dove Wala era stato abate della famosa abbazia di San Colombano. Non riusciva a ricordare il nome di quella florida fanciulla, ma non poteva dimenticare la piacevole estate che vent’anni prima aveva condiviso con lei. Pensò a quei giorni con nostalgia, non tanto perché sentisse la mancanza di quella ragazza, quanto piuttosto perché avrebbe voluto avere ancora i suoi trent’anni, l’energia di quell’età e la spensieratezza di quei tempi. Allora una guerra era da poco terminata, e lui aveva davanti una vita intera colma di promesse. Adesso invece l’avvenire non prospettava nulla di buono.

Fuori dal palazzo dove abitava il professore il pomeriggio trascorreva pigramente, e l’uomo vestito di nero, seduto su di una panchina poco distante, aveva gli occhi e le orecchie ben aperti. Stava fingendo di leggere un quotidiano, ma intanto si guardava intorno e prendeva nota di tutto quanto accadeva in quella via. Controllava chi e quando entrava oppure usciva dal portone del civico 17, quello dove abitava Carlo Centodonne, annotava le targhe delle automobili, ascoltava il chiacchiericcio dei passanti. Indossava un cappello di feltro e portava gli occhiali da sole con il bavero dell’impermeabile alzato per nascondere il volto. Nessuno sembrava accorgersi di lui, tutti erano affaccendati nei propri affari.

Quando scese la sera, dopo aver ascoltato il notiziario alla radio, Carlo uscì per andare all’appuntamento galante carico di aspettative, era sicuro di convincere la sua amante a sganciargli una somma ingente.

La signora si chiamava Eleonora, aveva cinquantacinque anni ed era sposata da trenta, ma non era riuscita ad avere figli. Questo increscioso problema era stato motivo d’imbarazzo per il marito, e ne aveva in parte ostacolato la carriera nel partito. Lui la ritenne responsabile, e non l’aveva mai perdonata. Così la loro vita di coppia si era incrinata ed Eleonora aveva iniziato a desiderare consolazione. Il marito ormai la ignorava e quando capitava ancora che si occupasse di lei, il più delle volte era solo per colpevolizzarla di non avergli dato dei figli. Eleonora aveva così da tempo smesso di sentirsi amata. Quando ad una festa aveva conosciuto Carlo, non aveva saputo resistere alle sue premure ed attenzioni. Aveva certamente perduto l’avvenenza della giovinezza, e l’interesse mostrato dal professore aveva per questo fatto più facilmente breccia nel suo cuore.

Per il professore, invece, era soltanto l’ennesima avventura. Aveva cercato di sedurla per il puro piacere di aggiungere un altro trofeo alla sua collezione di donne sposate. Quando poi aveva scoperto che la signora Eleonora dava il meglio di sé sotto le lenzuola, aveva piacevolmente prolungato quella relazione clandestina. Ora che aveva così tanto bisogno di denaro e pensando che lei avrebbe potuto aiutarlo, era particolarmente compiaciuto di sé stesso e della propria lungimiranza, almeno in fatto di donne.

Quando Eleonora venne ad aprire la porta però, lui capì subito al primo sguardo che la faccenda sarebbe stata più complicata di quanto aveva sperato.

Lei era bassa, con il naso grosso e la fronte larga, ma vestiva sempre con eleganza quando doveva incontrarlo, e poi normalmente era allegra e simpatica, e ci sapeva fare con il sesso. Quest’ultimo talento compensava ampiamente il fatto che fosse bruttina e un po’ sovrappeso. Ma quella sera non era per nulla contenta, quando Carlo entrò in casa, lei nemmeno lo salutò.

“Bene” disse Eleonora, “dove siete stato ieri notte?”

Il professore simulò indifferenza, e cercò di eludere la domanda.

“Niente bacio di benvenuto?” disse forzando un sorriso.

“Ditemi dove eravate ieri notte.”

Carlo non rispose, la notte prima si era ubriacato ed era andato a puttane, ovviamente non poteva confessarlo. Rimase in silenzio pensando a cosa dire, ma non gli veniva in mente nulla.

“Allora Vi dirò io dove siete stato Carlo, eravate con una donna, una di quelle per giunta.” La voce di Eleonora si affievolì sul finale, aveva gli occhi rossi ed era sul punto di iniziare a piangere.

“Non capisco di cosa stiate parlando, ieri non sono nemmeno uscito di casa” mentì il professore.

“Siate sincero, adesso. Vi ho veduto con i miei occhi mentre passeggiavate ubriaco a braccetto di quella donnaccia. Come avete potuto?” squittì lei esternando tutto il suo sgomento.

Carlo era imbarazzato e la fronte gli si imperlò di sudore. Era stato scoperto, ed ora avrebbe avuto un bel da fare per recuperare la situazione.

“Ma lo capite cosa mi avete fatto? E se fossi stata io a tradirvi? Come Vi sentireste?” disse iniziando a singhiozzare, mentre le lacrime presero a sgorgarle dagli occhi rigandole il viso.

“Non è il caso di prenderla in questo modo” abbozzò lui goffamente, “in effetti ieri ho bevuto un po’ troppo, ma con quella ragazza non vi è stato nulla, stavamo solo passeggiando.”

Eleonora gridò, e si mise a piangere più forte.

Il professore cercò di afferrarle la mano, ma lei la ritrasse stizzita.

“Ho veduto che la baciavate” protestò, “siete un bugiardo e un mascalzone!”

Le previsioni del professore erano state del tutto fallaci. La signora aveva scoperto che lui si dava da fare anche con altre donne, più giovani per giunta, e come se non bastasse, persino di facili costumi.

“Be’, ecco… io non ricordo” cercò maldestramente di giustificarsi, “lo avete detto anche Voi, ero ubriaco, non so spiegarmi come sia successo.”

“Lo avete fatto perché era più bella o perché era così giovane, oppure per entrambi i motivi?”

“Oh, per Dio, Eleonora…”

“Non siate evasivo, ditemi perché lo avete fatto.”

“Io non so perché l’ho fatto, non vi è una ragione per queste cose, semplicemente accadono” disse lui esasperato.

“Mi avete mai baciato come baciavate ieri notte quella là?” Eleonora aveva smesso di piangere, ed il suo tono si era ora fatto inquisitorio.

“No, penso di no… non credo almeno.”

“E allora come? Come l’avete baciata?”

“Santo cielo, Eleonora, cose volete che vi dica, non lo so..”

“Come!?” ringhiò lei. Adesso sembrava molto arrabbiata.

“Ecco, io.. credo che fosse in modo diverso.”

“Diverso come?”

“Dannazione Eleonora, Io non me lo ricordo, ero ubriaco.”

“Siete un mostro!” gridò la signora, poi gli diede uno schiaffo. Carlo abbassò lo sguardo, lei gli voltò le spalle e riprese a singhiozzare. Era rimasta profondamente offesa e indignata.

Sulla strada intanto, dentro ad una Fiat Balilla scura, due uomini con la faccia da ceffi  tenevano d’occhio la situazione. Erano vestiti di nero, erano armati, ed avevano seguito il professore sin da quando era uscito. Ci sapevano fare, nessuno si era ancora accorto di loro, nessuno poteva immaginare cosa avrebbero fatto e perché.

La luna era bella sopra al cielo, ma il professore dovette penare tutta la sera per riuscire a recuperare la situazione, per evitare di essere scaricato. Dovette accantonare i propositi che aveva elaborato per ottenere dei soldi. La signora lo mandò in bianco lasciandolo al verde, e non gli offrì nemmeno da bere. Quando tornò a casa a notte inoltrata era prostrato. La giornata si era conclusa nel peggiore dei modi, e per consolarsi si attaccò alla bottiglia, affogando il suo fallimento nell’alcol.

Si ubriacò a tal punto da non accorgersi di nulla, quando gli uomini vestiti di nero fecero irruzione nel suo appartamento, il professore dormiva stordito dalla sbornia.

Gli intrusi erano stati mandati dal marito della signora, che non aveva preso sportivamente il fatto che lei lo tradisse. Per vendicarsi aveva deciso di dare una lezione all’impudente professore, e per farlo aveva assoldato i due sicari vestiti di nero.

Quelli fecero un lavoro preciso e ben fatto.

Il giorno dopo Carlo Centodonne si sveglio senza più le palle. Lo avevano castrato, così come si fa con un cane qualunque. Lui da quel momento non toccò più una donna per il resto dei suoi giorni. Fu solo dopo alcuni anni di assoluta disperazione che riuscì a trovare consolazione. Decise allora di iscriversi al coro delle voci bianche della sua parrocchia.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Il coito dello stallone

Il coito dello stallone

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Alle ore 11:30 del mattino del 12 giugno 1940 il telefono nell’ufficio del commissario Gumesindo Manganelli suonò tre volte. Quando afferrò l’apparecchio per rispondere, una voce familiare lo raggiunse dall’altra parte del filo:

“Buongiorno commissario, tra venti minuti una macchina verrà a prendervi, siete stato convocato a Roma per una udienza del massimo livello.” Senza altro aggiungere l’interlocutore riattaccò, ma Gumesindo lo aveva riconosciuto: era il capitano Mattei.

Non aveva più sentito né visto il suo superiore da parecchie settimane, da quando il suo addestramento era stato completato, facendo di lui, almeno sulla carta, un agente segreto, una spia con tanto di pistola e licenza di uccidere. I dieci mesi passati alla base segreta dell’ OVRA erano stati veramente duri. A stento Gumesindo aveva potuto sopportarne le privazioni, la mancanza di alcol, la rigida disciplina e il ferreo e faticoso allenamento fisico. Alla fine era sopravvissuto e si sentiva orgoglioso di aver potuto superare quella prova alla sua età. Essendo quasi cinquantenne, riteneva di aver passato quell’esame in modo più che dignitoso. Tornato a casa in licenza, in attesa di ricevere il primo incarico operativo, aveva tentato di recuperare gli arretrati. Si era così dedicato ad una assidua frequentazioni di ogni bordello della sua provincia vivendo in modo osceno. Quanto al bere, non aveva passato una sola sera o quasi, senza ubriacarsi.

Aveva atteso con un po’ d’ansia quella telefonata negli ultimi due giorni. Sapeva, con l’ingresso dell’Italia in guerra, che anche lui avrebbe dovuto portare il proprio fardello e fare la sua parte, si aspettava di essere mandato in missione da un momento all’altro, ma non aveva immaginato di doversi recare sino a Roma. Nemmeno riusciva ad immaginare con chi avrebbe dovuto conferire. Preparò in fretta le sue cose e fu pronto a partire.

L’automobile guidata da un brutto sgherro della polizia segreta lo accompagnò alla Stazione Centrale di Milano, dove prese il diretto notturno per Roma. Giunto nella capitale il mattino successivo, dopo una notte in vagone letto insonne e senza bere, trovò il capitano Mattei ad aspettarlo con un’altra automobile e due nuovi agenti. Scoprì solo in quel momento che lo stavano portando a Palazzo Venezia, dove avrebbe dovuto incontrare niente meno che Mussolini.

Gumesindo iniziò a preoccuparsi. Non nutriva particolare stima per il capo del fascismo, però ne aveva paura. Cominciò a chiedersi perché mai il Duce volesse incontrarsi con un modesto commissario novella spia, proprio ora che l’Italia era in guerra. Non aveva pratiche più urgenti ed importanti cui dedicarsi? Cosa gli avrebbe chiesto o cosa avrebbe preteso? I dubbi lo stavano arrovellando ma mantenne la calma, sforzandosi di fingere indifferenza.

Quando giunsero a destinazione fu perquisito, costretto a consegnare la pistola d’ordinanza e infine condotto al piano nobile del palazzo. Dopo trentacinque minuti di ulteriore attesa la porta della sala del mappamondo si aprì e il commissario Gumesindo Manganelli fu fatto entrare.

Mussolini stava seduto dietro la sua scrivania sul lato opposto del grande salone. Sembrava assorto nella lettura. Senza sollevare il capo dalle carte che stava avidamente leggendo, ordinò al suo ospite di avvicinarsi.

Il commissario obbedì, attraversò tutta la sala del mappamondo fermandosi davanti alla scrivania del dittatore.

“Leggo sulla vostra scheda che siete un donnaiolo impenitente” disse Mussolini alzando il capo verso Gumesindo, che rimase in silenzio imbarazzato.

“Anche io ero un gran chiavatore da giovane. Ma adesso non più, ora sono casto a confronto. Quando stavo a Milano era veramente un casino, prendevo quattro o cinque donne al giorno. Le ricordo quasi tutte.”

Gumesindo abbozzò un sorriso di circostanza anche più imbarazzato di quanto non lo fosse stato in precedenza, l’inaspettata confidenza con cui fu accolto dal Duce lo aveva spiazzato.

“La natura è straordinaria commissario. Il cavallo, ad esempio,  è un animale portentoso. Lo spettacolo del suo coito è da vedere, per farsi un’idea della natura… si accosta alla giumenta, le salta con le zampe anteriori sulla schiena e le pianta quest’asta lunga quasi un braccio. Poi ci dà dentro. Avviene con nitriti, soffi, gemiti incredibili. Dopo scende subito, ammansito. Si lascia prendere come un puledro e portare dentro la stalla, mesto e buono. La giumenta sta lì immobile, tranquilla, non saprei dire se prende parte. Bisognerebbe domandarglielo.”

Mussolini rise, come a voler alleggerire la tensione, Gumesindo era infatti fermo in piedi come pietrificato. Il Duce continuò:

“Ma certo non si ribella, lascia fare. Vedere queste due massi di carne potenti e ansanti è uno spettacolo grandioso.”

“Anche io amo la campagna” riuscì a dire il commissario, tanto per partecipare al dialogo e non continuare a fare la figura dello stoccafisso.

“Mi sento bene in mezzo ai contadini” disse subito Mussolini.

“Ero con loro prima di Natale. Erano contenti. Abbiamo riso molto. Io raccontavo storielle piene di doppi sensi, e loro capivano subito, sono furbi. Ridevano e ammiccavano con gli occhietti.”

Il professore si lasciò andare, rise maliziosamente ascoltando l’aneddoto e prendendo sicurezza osò domandare:

“A che devo l’onore di potervi incontrare Eccellenza?”

“L’OVRA l’ho creata io, ed è l’organizzazione più efficiente che esista al mondo” disse allora il Duce diventando improvvisamente serio, quasi cupo in volto.

“Voglio che indaghiate su di un omicidio. Tre giorni fa il farmacista di Pianello Val Tidone, un piccolo borgo rurale sulle colline piacentine, è stato ucciso insieme alla sua amante. Polizia e Carabinieri brancolano nel buio. Io, invece, penso che quegli omicidi siano collegati ad altri eventi criminosi delle scorse settimane: le biblioteche private di tre galantuomini di Piacenza sono state saccheggiate in loro assenza. Tutti e tre hanno denunciato il furto di alcuni antichi libri a loro dire preziosi, tutti i volumi rubati erano stati regalati loro dalla stessa persona: il farmacista ucciso.”

Gumesindo annuì servilmente, ma in verità piuttosto preoccupato, immaginandosi già ad investigare alla caccia di ladri di libri e assassini.

Il Duce si era alzato in piedi e lo stava fissando negli occhi, ma prima che potesse proseguire, lui lo anticipò:

“Per quale motivo, Eccellenza, pensate che il duplice omicidio di Pianello possa essere collegato con il furto dei libri?” chiese grattandosi nervosamente una mano.

Mussolini accennò un sorriso, compiaciuto di poter dar prova della propria sagacia.

“Abbiamo almeno due evidenti indizi che mettono in relazione questi eventi. Primo: anche la libreria del farmacista assassinato è stata trovata a soqquadro. Secondo: i tre signori derubati sono tutti massoni, così come lo era il farmacista ucciso. Come saprete non nutro alcuna simpatia per la massoneria, che da anni ho messo fuori legge, ma simili coincidenze in così pochi giorni, non possono passare inosservate.”

Gumesindo rimase basito, per un attimo ebbe l’impressione di parlare più con il capo della polizia che con quello del Governo. Erano appena entrati in guerra e il Duce trovava il tempo di occuparsi di piccoli omicidi e furti di libri. E ciò che era più incredibile, lo voleva coinvolgere.

Cercò di allontanare simili inutili pensieri dalla propria mente nel tentativo di ritornare al punto della questione.

“Anche al farmacista sono stati rubati dei libri?” domandò sperando di sembrare intelligente.

“Questo non lo sappiamo ancora, sta a Voi scoprirlo commissario. Lavorerete in collaborazione con il capitano Mattei.”

Gumesindo annuì, anche se l’idea di dover operare con il capitano Mattei non lo entusiasmava per nulla. Non gli piaceva quel giovane e durante i lunghi mesi dell’addestramento era arrivato  praticamente ad odiarlo. Ne detestava il carattere, lo stile e persino la faccia.

“C’è ancora qualcosa che i Vostri colleghi dell’OVRA hanno scoperto e che dovete sapere” disse Mussolini gonfiando il petto, orgoglioso dell’efficienza della propria polizia segreta.

“Nelle ultime sei settimane, copie dei libri rubati ai massoni sono state sottratte, e mai più restituite, alle principali biblioteche delle città di Piacenza, Lodi e Cremona.”

Il commissario non poteva veramente credere che i fatti descritti dal capo del fascismo potessero avere un nesso tra di loro. Le cose accadevano, le coincidenze si verificavano, fuori era pieno di pazzi maniaci. Chi del resto avrebbe potuto dare tanta importanza a dei vecchi libri sino a giungere all’omicidio nell’anno 1940 e nel mezzo di una guerra che coinvolgeva ora tutta l’Europa? Le cose erano andate diversamente, pensò Gumesindo, e il furto di libri era solo un accadimento casuale.

Mussolini si accorse che il commissario era perso nei suoi pensieri e lo richiamò all’ordine.

“Vi è anche un altro motivo, per cui ho deciso di affidare proprio a Voi questo incarico.”

Gumesindo guardò il Duce incuriosito, ma anche intimorito mentre questo lo scrutava con attenzione e cipiglio severo.

“Alcuni giorni prima dell’omicidio, in Val Tidone è giunta una spedizione pseudoscientifica finanziata dalla società tedesca Ahnenerbe. Le attività svolte da questa organizzazione non sono chiare, voglio che indaghiate su cosa sono venuti a fare veramente.”

“Se ricordo bene lo storico tedesco Franz Altheim è stato in Italia nel 1937 per conto della Ahnenerbe, era venuto per svolgere alcune ricerche in Val Camonica” disse Gumesindo, orgoglioso di potersi mostrare informato sull’argomento, ma diventando di gesso, mentre il dittatore gli affidava questo secondo scomodo incarico.

“Eccellente commissario” annuì il Duce, “ma questa volta al posto di un professore con la sua amante, i tedeschi hanno spedito un militare, un maggiore delle SS. Ufficialmente per compiere ricerche archeologiche. Ma come anche Voi potete facilmente immaginare, quando si è nel mezzo di una guerra non si spediscono militari all’estero a perder tempo dietro a scavi archeologici.”

“Sembrerebbe un caso da controspionaggio, perché volete che me ne occupi io?” chiese Gumesindo aggrottando le sopracciglia.

“Naturalmente lo abbiamo già fatto commissario” replicò Mussolini sfoggiando un sorriso sarcastico, “e abbiamo scoperto che questo maggiore è un fanatico appassionato di libri antichi. Ecco spiegato perché voglio che Vi occupiate di entrambi i casi. Potrebbero anche essere collegati tra loro, per quel che ne sappiamo.”

“Pensate che il maggiore possa essere responsabile dell’omicidio?” chiese ancora Gumesindo, deglutendo angosciato.

“E’ una eventualità che non può essere trascurata e che rende ancora più urgente scoprire cosa siano venuti a fare i tedeschi su quelle colline pochi giorni prima dell’omicidio.”

La mano del commissario iniziò a tremare impercettibilmente, Mussolini sembrava avere le idee chiare, ed era determinato a servirsi di lui per i suoi piani. Lui non aveva la minima idea di quali ricerche i tedeschi fossero venuti a fare sulle colline piacentine, e non si sentiva per nulla sicuro di poterlo scoprire. Il timore di deludere le aspettative del capo del fascismo lo riempì di paura.

“La spedizione dell’Ahnenerbe si è frettolosamente sposta a Milano la notte stessa in cui il farmacista è stato ucciso” disse il Duce rompendo il silenzio.

“Sospettate che anche questo repentino trasferimento abbia in qualche modo a che fare con l’omicidio?” domandò meccanicamente il commissario.

“Sta a Voi scoprirlo. Ma se ciò fosse vero, sarà opportuno capire in fretta perché lo abbiano fatto e cosa stiano cercando di così importante da arrivare a tanto.”

Il commissario annuì. In fondo a lui i tedeschi non erano mai piaciuti, e per i nazisti provava persino del genuino disprezzo, li considerava alla stregua di nuovi barbari del tempo presente. Che potessero macchiarsi di un crimine efferato come l’omicidio di un vecchio farmacista gli sembrava del tutto verosimile. Ma se anche così fosse stato, come avrebbe fatto lui a dimostrarlo? Come avrebbe potuto scoprire cosa erano venuti a cercare e perché? Lui era solo un commissario, senza talento e per giunta alcolizzato.

“Ora potete andare Manganelli, ma sappiate che mi aspetto dei risultati concreti dalla Vostra missione. Sarà meglio per Voi riuscire a dimostrare di essere degno dell’ OVRA!”

Lo sguardo con cui il Duce lo accomiatò fece rabbrividire il commissario, e quelle parole vagamente minacciose non promettevano nulla di buono. Per quanto incredibile, e per qualche nascosta ragione, la faccenda era considerata da Mussolini della massima importanza.

Gumesindo salutò con finta devozione e uscì dalla sala del mappamondo con un peso sullo stomaco, come se per colazione avesse mangiato mattoni.

Scese in strada e si accese una sigaretta. Era di pessimo umore ed aveva sete e desiderava un magnum[1] di champagne, per combattere la calura e dimenticare quella maledetta storia. Non gli importava nulla né dei libri rubati né delle ricerche dei tedeschi, voleva solo tornare a casa al più presto per buttarsi in poltrona ed ubriacarsi di nuovo. Non aveva mai avuto ambizioni, e diventare commissario era stato molto più di quanto avesse mai potuto sognare. Ancora non riusciva a darsi pace, a trovare una ragione che gli spiegasse il perché la sua vita avesse preso una direzione così imprevista e così all’improvviso, senza nemmeno dargli il tempo di capire cosa gli stesse capitando. Era stato costretto a diventare un agente della polizia politica di un regime del quale non condivideva quasi nulla, e con una durezza che non poteva sopportare. Odiava il suo nuovo lavoro, odiava il capitano Mattei, odiava il Duce e tutti i fascisti.

Però non riusciva a togliersi dalla mente gli occhi di Mussolini che lo guardavano minacciosi. Ne era spaventato, e cercava di non pensare alle conseguenze di un eventuale fallimento nelle indagini. Doveva trovare il colpevole a cui attribuire la responsabilità dell’omicidio.

A ben pensarci però, il Duce aveva detto una montagna di cazzate. L’OVRA era composta solamente da una accozzaglia di delatori e raccomandati, erano tutti dei dilettanti incapaci e privi di professionalità. Nessuno aveva pensato di indagare decentemente sulla vita dell’amante del farmacista, ad esempio.

Di conseguenza era stata una vera fortuna avere quell’incarico, dalla sua posizione avrebbe potuto comodamente e senza fatica insabbiare ogni cosa.

Gumesindo diede una tirata alla sigaretta, poi emise un pennacchio di fumo rancido. Il suo alito puzzava di morte.

La ragazza uccisa era solo una puttana di provincia, ma gli aveva fatto perdere la testa. Si era innamorato di lei, e non aveva potuto sopportare l’idea che quel vecchio farmacista flaccido ed osceno se la scopasse.

Ucciderli gli aveva dato un piacere intenso e speciale, era stata la cosa più eccitante che avesse mai fatto.

Il capitano Mattei uscì da Palazzo Venezia e si incamminò verso di lui. Gumesindo gettò la sigaretta e strinse le labbra in un sorriso enigmatico: stava già elaborando un piano per incastrare il maggiore delle SS e mandarlo in carcere al suo posto.


[1] Bottiglia da litri 1,5 equivalente a due bottiglie normali da 0,75 l.

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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La testa parlante

 

Testa parlante

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Il cielo sopra l’abbazia si era oscurato, il vento sferzava l’interno del chiostro sollevando nuvole di polvere e scuotendo le piante. I monaci si erano già tutti ritirati all’interno dell’edificio, per evitare di essere sorpresi dal temporale in arrivo. Soltanto il vecchio era rimasto.

Attese che anche l’ultimo religioso se ne fosse andato, poi camminò sino a raggiungere il lato occidentale dell’austero cortile. Si avvicinò al muro logorato dal tempo, individuò il cerchio magico graffito nell’intonaco consunto e spinse la pietra ottagonale collocata ai suoi piedi. Il meccanismo si azionò con un rumore basso e lugubre, aprendo il passaggio segreto. Si guardò attorno con circospezione, per assicurarsi di non essere visto, poi si lanciò all’interno dell’oscuro pertugio, un attimo prima che il muro di pietra si richiudesse alle sue spalle. Fuori da lì, oltre la parete, un tuono fragoroso squassò l’aria e cominciò a piovere copiosamente.

Da sotto il mantello il vecchio tirò fuori una torcia elettrica e l’accese. Davanti a lui, come una tetra catacomba, si dipanava una buia galleria che lo avrebbe condotto nel cuore dell’edificio, si fece allora coraggio e si incamminò. Avanzò con cautela, le pareti trasudavano umidità e brulicavano di insetti ripugnanti, il terreno sul quale stava camminando era molliccio, sotto le travi di pietra che sostenevano il soffitto da non meno di sei secoli. L’aria era pesante, viziata da un pungente  odore sulfureo la cui provenienza non era in grado di individuare. Continuò ad avanzare sino a raggiungere la scalinata che scendeva alla camera sotterranea. Il cuore gli martellava forte nel petto e rimase immobile per un po’, prima di procedere lungo la ripida rampa.

Intorno a lui tutto era silenzio, e poteva udire solo l’affanno del proprio respiro e il battito del suo cuore. Mentre scendeva sulle gambe incerte vide un grosso pipistrello appeso allo stipite della porta, in fondo alle scale, circondato  dall’oscurità. Quando varcò la soglia il chirottero spiccò il volo e scomparve rumorosamente oltre il cunicolo.

Era la terza volta in tre giorni che entrava nella camera segreta, ma l’emozione era ancora grande. Come uno scolaretto  davanti al suo primo racconto di fantascienza, avanzò timidamente verso il centro della stanza.

Un volto privo di umanità brillava di luce aurea, nascosto nel buio di quell’ambiente plumbeo e soffocante, e due occhi smeraldini privi di vita fissarono il vecchio, penetrando la sua coscienza e mettendo a nudo la sua vanità.

Il desiderio di conoscenza e la brama di sapere si erano accresciuti in lui nelle ultime ore, così come il sospetto e la paura che le conseguenze di quella scoperta potessero essergli fatali. Voleva avere cognizione del suo destino e non sapendo più trattenersi porse una nuova domanda, dopo le molte che aveva già fatto nei giorni precedenti e che gli avevano svelato molte verità sconcertanti.

“Mi resta molto da vivere?”

“No” risuonò nella camera una voce metallica e spaventosa, mentre gli occhi smeraldini si accendevano emanando un bagliore sinistro.

Il vecchio impallidì, i suoi più cupi presentimenti trovavano crudele conferma, ora sapeva di dover fare in fretta, misteriosi ed invisibili nemici minacciavano la sua vita.

“Sarò dunque ucciso?” chiese nuovamente cercando di nascondere il tremore delle mani.

“Si” fu la nuova terribile risposta che si diffuse raccapricciante nella stanza.

La torcia elettrica gli cadde di mano rimbalzando sul pavimento di pietra, ed il vecchio si sentì mancare. Ciò che aveva trovato sarebbe dovuto restare segreto, qualcuno agiva nell’ombra per mantenerlo nascosto, qualcuno senza scrupoli, che non avrebbe esitato ad uccidere per raggiungere il suo scopo. Ed il vecchio sapeva con chi avrebbe avuto a che fare. Da sette secoli quelle stesse persone proteggevano il segreto, lo avevano sottratto al mondo per impedire che si conoscesse la verità, e non gli avrebbero mai permesso di svelarla.

Lui era troppo vecchio e debole per affrontarli. Comprese di avere ancora poco tempo e si chiese cosa fare. Avrebbe potuto restare in quel luogo per appagare la propria sete di conoscenza in attesa della fine, ma quanto aveva già appreso era ormai sufficiente. Decise allora che avrebbe agito. Sapeva di non poterli battere, ma forse poteva ancora ingannarli. Con astuzia e intelligenza aveva già lasciato degli indizi alle sue spalle. Avrebbe avuto bisogno di altro aiuto e sapeva dove cercarlo. Con un po’ di fortuna avrebbe sottratto il segreto all’oblio per consegnarlo all’umanità.

Si voltò per tornare sui suoi passi e mettere in pratica i suoi intendimenti, quando un dolore atroce lo investì alla base della testa. Crollando inerme sul pavimento realizzò di essere stato colpito. Gli occhi gli si chiusero e la sua anima fu avvolta dalle tenebre.  Poi fu l’oblio.

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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Racconto horror in un cimitero

Obitorio di Rezzanello

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Il dottor Sadico era in piedi nel mezzo della stanza, indossava un camice bianco su di una camicia azzurra stirata di fresco con una cravatta del partito. La sua barba folta e grigia brillava sotto la luce artificiale delle lampade al neon, ed una espressione di preoccupata sorpresa gli adombrò il volto quando vide un uomo sbucare dal nulla, uscendo da un buco nel pavimento del suo laboratorio. Sembrava un mostro uscito da un romanzo o da un racconto horror in un cimitero.

Leo Investigato si mosse d’istinto, impugnato il pugnale si avvicinò al dottore zoppicando ma con rapidità. Nonostante le menomazioni subite la sua mole era ancora intimidatoria, la barba incolta e la fronte segnata dalle cicatrici conferivano al suo volto un aspetto spaventoso. Il dottore rimase immobile, intuendo che opporre resistenza sarebbe stato pericoloso.

Leo lo teneva in scacco, il dottore era disarmato, lui invece aveva il pugnale e una P38. Erano soli nel laboratorio e se il dottore avesse cercato di chiedere aiuto lui lo avrebbe ucciso in un istante. Valutò che avrebbe potuto ottenere preziose informazioni, e iniziò ad interrogarlo.

“Ora ti farò alcune domande, dovrai rispondere semplicemente annuendo o scuotendo il capo, sono stato chiaro?” disse premendogli la lama del pugnale sotto al mento. Il dottore annuì, i suoi occhi erano terrorizzati.

“Gli accessi alla fortezza sono sorvegliati?”

Il dottore scosse la testa, come per rispondere no.

“Per arrivarci dobbiamo passare da altri posti di guardia?”

Il dottore scosse nuovamente la testa, ma abbassando lo sguardo. Investigato capì che stava mentendo.

“Non cercare di fregarmi, saresti il primo a finire ammazzato” ringhiò aumentando la pressione del pugnale sulla gola. “Ti ripeto la domanda, per arrivare al castello dobbiamo passare posti di guardia?”

Questa volta il dottore annuì timidamente.

“Più di uno?”

“Dipende da che parte volete passare” rispose a mezza voce il dottore.

“Il percorso più breve” disse Investigato.

“Posso indicarvelo” propose il dottore.

“Ti ho già detto di non cercare di fottermi. Ci andremo insieme e se qualcosa va storto, ti ucciderò.”

Il dottore impallidì, sapeva che non stava bluffando. L’uomo con la fronte sfregiata poteva spezzare in un attimo l’esile filo al quale era ora appesa la sua vita.

“Vi potete fidare, se non siete ancora morto è proprio grazie a me, mi sono speso con tutto me stesso affinché il Vostro bel corpo non venisse rovinato del tutto” disse cercando di blandirlo.

“Mi hai salvato solo per farmi fare da cavia nei tuoi esperimenti del cazzo, brutto bastardo” protestò Investigato.

Il dottore sembrò risentirsi e replicò piccato: “Con i miei esperimenti contribuisco al progresso dell’umanità.”

“Sei solo uno schifoso criminale, hai sulla coscienza migliaia di vittime innocenti. Non sei altro che uno sporco assassino.”

“Vi sbagliate grossolanamente, la nostra è una azione meritoria, stiamo estirpando una minaccia genetica per la nazione. Eliminiamo esseri inutili che non offrono alcun contributo alla società.”

L’agente segreto Investigato si sentì avvampare dalla rabbia, in quel momento avrebbe voluto uccidere il dottore, ma riuscì a dominarsi, doveva servirsi di lui per raggiungere la fortezza.

“Stai zitto!” lo redarguì “chi credi di essere per giudicare il diritto alla vita di altri uomini?”

Un espressione di sincero sbalordimento si materializzò sulla faccia del dottore.

“Le persone sottoposte ai nostri programmi non sono veramente esseri umani” disse con tono professorale, “come Voi non esitereste ad eliminare le zecche o i pidocchi, così noi disinfestiamo la nazione dai parassiti che la guastano”.

“Ora basta!” urlò Investigato colpendo il dottore con un energico schiaffo.

“Chiudi quella fogna di bocca e cammina, portami al castello e guai a te se cerchi di fare scherzi.”

“Il passaggio più vicino è lungo la strada che porta in cima alla collina, ma ci sono sempre due sentinelle di guardia” rispose il dottore toccandosi il volto arrossato dal ceffone, mentre Investigato continuava a premere il coltello sulla sua gola.

“E la mulattiera? Anche quella è presidiata?”

“Non credo sia percorribile, è abbandonata da anni” piagnucolò il dottore, sentendo sanguinare la ferita che si era lentamente aperta a contatto con la lama affilata.

“E come possiamo arrivare al castello allora?”

“Potremmo passare dal cimitero, ma fate piano, con quel coltello mi state facendo male” disse temendo di essere sgozzato.

“Allora andiamo, cammina, tu ora verrai con me, come in un racconto horror in un cimitero

“Lasciatemi andare, non Vi ho fatto nulla di male, mi occupo solo dei miei esperimenti.”

Investigato colpì il dottore allo stomaco con una ginocchiata, lui si piegò in avanti gemendo per il dolore. Poi lo spinse in avanti tenendogli il pugnale puntato nella schiena e lo condusse fuori dal laboratorio, sulla strada che portava al castello.

Camminarono sino in fondo alla via, dove girato un angolo si proseguiva sin dentro al piccolo, vecchio e malandato cimitero. L’illuminazione era scarsa, ed il campo santo era diviso a metà da due grosse cappelle private.

“Dimmi dove dobbiamo andare ora” ordinò Investigato premendo il coltello sotto la gola del dottore.

“L’ultima tomba sulla destra, oltre la grande cappella” disse il dottore a denti stretti, allungando il collo per evitare che la lama gli tagliasse la gola. “Sotto la lapide si apre un passaggio segreto che conduce direttamente dentro all’obitorio del castello”.

Investigato lo spinse senza cortesia sin davanti alla tomba che egli aveva indicato. Poi lo obbligò a sollevare la lapide. Sotto vi era nascosta una botola di ferro, ma era chiusa da una serratura arrugginita. Avrebbe avuto bisogno di un piede di porco per forzarla. Valutò anche la possibilità di sparare con la P38, ma l’operazione sarebbe risultata troppo rumorosa per poter essere seriamente presa in considerazione.

“Dove sono le chiavi?”

“Non ne ho idea” disse il dottore scuotendo la testa.

“Non dire cazzate, è la porta del passaggio segreto che porta all’obitorio e tu sei il fottuto dottore, dimmi dove sono le chiavi per aprire o ti pianto il pugnale nella schiena!”

“Sono uno scienziato, non faccio il portinaio” protestò il dottor Sadico.

Investigato iniziò a spazientirsi, aveva già consumato molto tempo prezioso, doveva sbrigarsi se voleva ancora sperare di cavarsela. Il dottore stava deliberatamente cercando di rallentare le sue manovre e si stava rivelando un fastidioso impaccio.

Esaminò la botola con maggiore attenzione. Il telaio era consumato dal tempo, pensò che avrebbe potuto sfondarla con un paio di calci ben assestati. Ma il rumore avrebbe potuto rivelare la sua presenza. Non poteva correre un simile rischio. Gli serviva qualche strumento per fare leva tra gli stipiti senza provocare eccessivo fragore. Si guardò intorno e vide una robusta pala di ferro appoggiata ad un muro, di quelle che si usavano per scavare le tombe giardino. Con quella avrebbe potuto forzare la porta. Ma doveva prima sbarazzarsi del dottore.

Lo costrinse a indietreggiare sino alla cappella più vicina. Poi gli ordinò di entrare.

Quando il dottore realizzò che la porta della cappella era aperta, un’espressione di disappunto gli corrugò il volto barbuto. Quella fu la sua ultima smorfia, sentì una pressione terribile, insopportabile e soffocante avvolgergli la gola. Raccolse le sue ultime forze e cercò di urlare.

Investigato lo stava strangolando, e gli aveva stretto il collo con entrambe le mani fermando il suo grido. Aveva già ucciso in passato, ma era la prima volta che guardava in faccia, così da vicino, gli occhi della sua vittima. Li vide sbarrarsi nell’attimo in cui la scintilla della vita abbandonava il suo corpo, e provò un brivido. Percepì il sopraggiungere della morte, mentre il cadavere del dottore gli si afflosciava tra le braccia emettendo un ultimo disgustoso rantolo.

Era stato un lavoro pulito, quasi perfetto, lo aveva strozzato in pochi minuti. Cercando di non guardare il livido viola che adesso cerchiava il collo di quel corpo senza vita, lo adagiò sul pavimento. La sua coscienza ora aveva una nuova macchia fresca, ed Investigato provò una sensazione di disagio.

Aveva  ammazzato un uomo disarmato a tradimento, senza nessun preavviso, senza che potesse in alcun modo difendersi. Il dottore era certamente una persona spregevole e avrebbe meritato una fine anche peggiore, pensò, ma lui si era comportato in modo disonorevole e questo lo disturbava.

Ma cosa avrebbe potuto fare? Si guardò ancora il piede ferito cercando di assolversi. Non poteva rischiare di nuovo, il dottore avrebbe potuto anche fuggire o cercare di colpirlo, aveva dovuto agire così perché era il modo più sicuro, disse a sé stesso.

Si sentì un po’ meglio, poteva continuare con il suo piano d’azione, ora. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare: i dettagli gli erano venuti in mente mentre lo stava uccidendo.

Gli tolse le scarpe e provò a indossarle. Gli calzavano un po’ strette, ma potevano andare. Per sua fortuna il dottore aveva i piedi grandi. Poi si travestì usando il camice bianco, la camicia e persino la cravatta con le insegne del partito.

Alla fine guardò ancore il cadavere.

Erano nemici, se non lo avesse ucciso, lui avrebbe potuto causare la sua morte. Ed era un autentico figlio di puttana, rimuginò, aveva torturato e fatto morire migliaia di innocenti, ora avrebbe solo fatto da cibo per i vermi.

Investigato sbuffò, mentre trascinava il morto dentro la cappella. Diede una rapida occhiata ai loculi dove giacevano le bare di molti illustri personaggi piacentini per un meritato riposo eterno.

Se come immaginava nessuno fosse entrato nel cimitero sino al giorno successivo, prima che potessero trovare il dottore morto e stecchito, lui avrebbe avuto tutto il tempo di compiere la sua missione.

Aveva ancora qualche ora di buio a sua disposizione poi sarebbe sorta l’alba.

Raggiunse nuovamente la botola e usando il pesante badile come leva scassinò la serratura che la serrava. La ferraglia arrugginita crepitò e la porta si aprì.

Il passaggio era buio, cercò di attivare l’interruttore elettrico ma non funzionò.

Costruì allora una fiaccola artigianale con il manico in legno del badile ed alcuni lembi di stoffa ricavati dai pantaloni del dottore assassinato.

Alla luce del fuoco l’ambiente era anche più sinistro di quanto avesse immaginato. Una puzza ripugnante di morte lo investì. Sul pavimento, vicino alle pareti, grossi ratti corsero in tutte le direzioni spaventati dal suo arrivo. L’aria era quasi irrespirabile.

Investigato cercò di avanzare, trattenendo il respiro. Lungo i muri erano disposti numerosi letti di legno sui quali giacevano cadaveri, scheletri e altri resti umani avvolti in sudici sudari.

“Che schifo” mormorò guardandosi attorno in quel luogo spettrale. Una passeggiata nel mondo dei morti gli mancava, considerò incamminandosi.

Attraversò il passaggio segreto il più velocemente possibile, rischiando anche di cadere, inciampando in un femore rotolato da chissà dove, probabilmente spostato da qualche sorcio. Alla fine si trovò davanti ad una porta di legno.

Sperando che non fosse serrata cercò di aprirla. La porta si spalancò e lui uscì da quel corridoio di morte. Poteva tornare a respirare.

Vide le feritoie dalle quali si poteva guardare la luna, le fiaccole accese lungo i muri, le colonne in pietra che sorreggevano il soffitto. Comprese di trovarsi all’interno dell’obitorio, dentro al castello.

Ma non ebbe il tempo di riflettere, né la possibilità di abbandonarsi ai ricordi. Non era solo in quella stanza.

Seduti ad un tavolo due soldati della guardia stavano giocando a carte. Quando lo videro uscire dal passaggio che portava al cimitero rimasero sgomenti: aveva la torcia in mano, il camice bianco, la faccia da pazzo e i capelli sporchi di sangue.

“Che mi venga un colpo” balbettò uno dei soldati, “hanno portato al cimitero un uomo ancora vivo!”

“Come cazzo è possibile” disse l’altro, “lì dentro non entra nessuno da almeno sei giorni.”

“Merda!” esclamò il primo deglutendo, “allora quello è un fottuto fantasma.”

“Oppure uno degli esperimenti del dottor Sadico” aggiunse l’altro. “Ho sentito dire che ha inventato una tecnica per rianimare i morti.”

Investigato sogghignò. Aveva un aspetto selvaggio. Il suo volto sembrava il muso di una fiera feroce poco prima di serrare le sue fauci affamate sulla preda inerme.

“E adesso cosa facciamo?” chiese il soldato più giovane tremando dalla paura.

“Spariamogli alla testa” disse l’altro aprendo la fondina e cercando di estrarre la pistola. Indossava una divisa da caporale.

Investigato doveva impedire che sparassero, gettò la torcia a terra e andò all’attacco armato di pugnale. Il piede ferito faceva ancora male, e si spostava zoppicando. Ma i suoi movimenti erano ugualmente rapidi e riuscì a disarmare la sentinella prima che potesse premere il grilletto. Iniziarono a lottare furiosamente. Investigato era indebolito, e si sosteneva con la forza della disperazione.

“Ammazza questo lurido figlio di puttana” urlò il caporale cercando di bloccare un fendente. Ma il soldato giovane non si mosse, era paralizzato, i suoi occhi luccicavano di paura.

Investigato colpì il caporale e il sangue schizzò fuori dal petto sfregiato. Era una ferita superficiale. Aveva avuto fortuna, ma la prossima volta sarebbe morto, pensò osservando il nemico indietreggiare con la faccia cisposa deformata dal dolore.

Alla vista del sangue il soldato giovane si risvegliò dal torpore, e come spinto da una forza invisibile afferrò il suo pugnale e aggredì Investigato alle spalle.

La lama affondò nelle carni, e lui lanciò un bestiale urlo di dolore.

Si girò barcollando sulle gambe spossate, il pugnale era rimasto conficcato nella spalla e faceva un male infernale. Vide il giovane soldato che portava le mani alla fondina: stava per prendere la sua pistola.

Investigato sentì la testa girare, la stanza intorno a sé si muoveva come una giostra ammattita, e pensò di aver compromesso la possibilità di centrare il suo obbiettivo. Un forte senso di nausea gli stinse lo stomaco, e con la coda dell’occhio scorse il caporale avvicinarsi per dare il colpo di grazia.

“Ora ti spedirò all’inferno, brutto bastardo” urlò prima di iniziare l’ultimo affondo. Investigato udì quelle grida stridule e si spostò di lato giusto in tempo per evitare una coltellata che gli avrebbe reciso il collo.

Doveva reagire, si disse, e mentre il caporale si voltava per tornare all’attacco, riuscì a trafiggergli il ventre con un fendente micidiale. L’uomo colpito a morte stramazzò a terra agonizzante, con il pugnale piantato in pancia.

“Crepa con tutto comodo” gli sibilò, cercando di togliersi la lama che aveva infilzata nella spalla.

Il soldato più giovane, intanto, aveva impugnato la sua pistola ed ora lo teneva sotto tiro.

“Avanti, facciamola finita, premi quel grilletto!” esclamò Investigato in tono di sfida. Si rese conto che il suo piano era fallito, ed era pronto a pagarne le conseguenze.

Il giovane soldato però esitò ancora, pensava che avrebbe dovuto arrestarlo, ma credendo che fosse un morto vivente non sapeva come fare.

Investigato lesse l’incertezza nei suoi occhi e decise di approfittarne. Che coglione, quello stronzetto non ha le palle per sparare, pensò, mentre si sfilava il pugnale dalle carni, emettendo un pietoso lamento di dolore.

Il soldato lo guardò a bocca aperta, non aveva mai visto nulla di simile prima di allora. Un fiotto disgustoso di sangue zampillò dal corpo martoriato dell’agente Investigato.

Quello non ebbe il tempo di sparare, lui gli lanciò il coltello in faccia, e lo trafisse in piena fronte sfondandogli il cranio. Anche la seconda sentinella cadde sul pavimento privata della vita.

Se i due soldati avessero combattuto coordinando i loro attacchi lo avrebbero sopraffatto facilmente. Invece il più giovane era rimasto a lungo immobile, senza prendere alcuna iniziativa. Questo imperdonabile errore gli aveva permesso di eliminarli uno alla volta.

Non era stato sparato un solo colpo. Poteva ancora terminare la sua missione, e lo ripeteva tra sé come un mantra. Dopo aver estratto il pugnale dalla pancia del caporale moribondo, si avviò zoppicando verso il fondo della stanza, dove cominciò a minare le fondamenta del castello con tutto l’esplosivo al plastico che aveva nello zaino.

Appena ebbe finito, accese la miccia e si infilò di gran lena nel passaggio che conduceva sino al camposanto. Quando uscì dalla botola, come in un racconto horror in un cimitero, fu investito da un rombo assordante e una nuvola di polvere, macerie e colori lo avvolse sin quasi a sommergerlo.

A causa dell’esplosione, il castello era crollato collassando su sé stesso, tutte le persone che vi erano all’interno erano certamente morte.

“Quella stronza di mia moglie impara a mettermi le corna” commentò Investigato scrollandosi la polvere di dosso.

Lei era l’amante del maggiordomo del castello, e da quel momento sarebbe rimasta con lui, sotto le macerie, per sempre.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Femminicidio a Piacenza

La ragazza di campagna

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Si erano conosciuti sin dall’infanzia Elettra e Italo, e si erano presto innamorati: lei una ragazza di campagna figlia di poveri braccianti agricoli, lui unico figlio di un ricco latifondista contrario a quella sciagurata relazione.

Appena furono entrambi maggiorenni, e senza ancora essere sposati, iniziarono a vivere insieme, il che creò nuovo scandalo e diede al vecchio padre di Italo nuovo dolore. A peggiorar le cose erano poi anche intervenute le nuove idee politiche che Italo era andato maturando negli anni successivi. Idee rivoluzionarie, idee bolsceviche che il ragazzo ribelle si prese il gusto di far conoscere al genitore. Questo ne fu ancor più sconvolto di quanto già non fosse, ormai disperato e quasi rassegnato all’idea di aver perso per sempre il suo unico figlio maschio.

Analoghi scontri Italo dovette sostenere anche con le sorelle Cleofe e Melitina, ben decise a sostener le ragioni del padre, perché anche a loro la contadina ignorante e senza dote non andava per nulla a genio. E non volendola accettare, preferirono a loro volta troncare ogni relazione con il fratello scellerato, che per amore di una villana aveva sacrificato i sacri legami con la propria famiglia.

Elettra dal canto suo, fuggì di casa per raggiungere a Piacenza il suo amato, ed anche la sua scelta non fu indolore. Per quanto i suoi cari fossero segretamente felici di quella risoluzione, e nascostamente gioissero alla prospettiva di veder sottratta la propria figlia ad una sicura vita di miserie come era stata la loro, ufficialmente diedero a vedere tutto il contrario. Si dissero sconcertati e offesi dalla condotta emancipata della figlia, e ovunque dissero male di quello scandaloso contegno, nell’ipocrita tentativo di salvare le apparenze e la propria modesta reputazione, unico conforto in un’esistenza segnata dagli stenti e dalla fatica, entrambi garantiti dalla dura vita nei campi.

Elettra ne fu offesa e a sua volta, di sua iniziativa, non volle più vedere i genitori, rei, a suo giudizio, di non aver compreso la purezza delle sue intenzioni e la sincerità dei suoi sentimenti. La qual cosa avrebbe dovuto di per sé stessa, sempre secondo le valutazioni di Elettra, appianare ogni diverbio e restituire alla giovine ed alla sua famiglia il rispetto e la considerazione che le erano dovuti.

Ma di quei tempi le cose andavano assai diversamente, e fu così che i due innamorati restarono soli ad affrontare la vita, in una città lontana, senza aiuto né consolazione.

Eppure erano riusciti a superare le avversità e a passare oltre ogni impiccio. Italo esercitava una professione ben pagata e con discreto successo, Elettra si occupava della casa, in attesa di essere portata all’altare e di allargare la famiglia con il primogenito del quale erano ancora in cerca.

Elettra era una ragazza di campagna di modesta bellezza, ma molto dolce e premurosa. Il suo volto pareva quello di un angelo, e sotto le lunghe ciglia nere, i suoi occhi buoni mostravano all’esterno il candore del suo animo. Non aveva che una erudizione elementare, ma a dispetto della giovane età era dotata di tutta la saggezza popolare della sua epoca, e come ispirata dalla Provvidenza sapeva anche dispensar consigli e prendere le decisioni giuste, o perlomeno le più convenienti al suo partito. La sua intelligenza era fine, la sua curiosità intellettuale vivace. Leggeva molto, soprattutto le pubblicazioni cattoliche, come il quotidiano Italia. Viveva senza altra ambizione che regolare la sua posizione di concubina e maritarsi con l’amato Italo. Una volta messa su famiglia, sperava di dare al mondo un adeguato numero di figli.

Il matrimonio prima negato dal padre di Italo, era ora rimandato per i capricci del giovane, che per il piacere di dare offesa alla morale e per le strane idee politiche che era andato professando, pensava fosse cosa giusta praticare la convivenza senza matrimonio. Da quando aveva cominciato a nutrire idee contrarie alla Chiesa ed alla fede cristiana, si era pure convinto che bruciare le chiese ed impiccare i preti come Stalin aveva fatto in Russia fosse cosa auspicabile in ogni dove, ed in questo aveva avuto di che discutere con la povera Elettra, che pur cresciuta nella miseria era ancora ferventemente timorata di Dio e delle sue leggi.

Se i due innamorati potevano dunque andare avanti d’amore e d’accordo in ogni campo, soltanto la politica era argomento sul quale correvano ogni volta il rischio di bisticciare. E ciò perché in quella, Elettra aveva individuato l’unico impedimento che le restava da superare per conseguire le sue aspirazioni e vivere felicemente sino in fondo la sua esistenza.

D’altro canto non era tanto audace da sfidare Italo apertamente, e nemmeno era sino ad allora riuscita ad esplicitare in modo franco le sue aspettative, totalmente assorbita dal desiderio di compiacerlo in ogni modo possibile.

E lui a volte la ricambiava, cercando di renderla felice con piccole attenzioni e qualche regalo di poco valore. Ma per Elettra era il pensiero ciò che più contava, e tanto le bastava per dimenticare ogni tristezza e sentirsi bene.

Una bella domenica d’inizio estate, quando la guerra era ancora lontana, Italo portò la sua bella in gita fuori città. La caricò sulla sua bicicletta e pedalando di buona lena lungo la via che costeggiava il fiume Po, in breve tempo raggiunsero una vecchia chiesa sconsacrata nel mezzo delle campagne piacentine, lontani da occhi indiscreti.

Lei era bella, dentro un vestitino di cotone bianco che a stento conteneva le sue grazie, con i capelli sciolti e al vento, ed un fiore infilato dietro l’orecchio.

Pensava che avrebbe passato una bella e romantica giornata in gita con il suo innamorato, ma si sbagliava.

Ad attenderli alla chiesa sconsacrata c’erano i compagni di partito di Italo, brutti ceffi che vivevano in clandestinità perseguitati dal regime fascista.

Erano in quattro e tutti ubriachi già da metà mattina.

Secondo il parere di Elettra i compagni comunisti di Italo si erano dati dei buffi nomignoli, ma a lui erano sempre sembrati dei temibili nomi da battaglia.

Erano giovani uomini, identici a tanti altri che si potevano vedere a lavorare nelle fabbriche o nei campi. Il capo della cellula si faceva chiamare Tempesta ed aveva un temibile serpente a sonagli dalla bocca spalancata e coi denti aguzzi tatuato sul braccio sinistro. Nella mano destra impugnava una pistola Beretta M34. Anche Sandrino che gli stava a fianco era armato allo stesso modo. Faina e Cobra erano armati con fucili da caccia e si erano spostati sui lati del sagrato di modo che Elettra ed Italo fossero quasi circondati: sembravano tutti avere intenzioni ostili.

“Dacci la ragazza” intimò Tempesta, sollevando la M34 contro di loro e chiudendo le labbra in un ghigno malvagio.

“Di che cosa stai parlando? Hai bevuto troppo? Non mi riconosci?” protestò Italo, frapponendosi tra la traiettoria dell’arma puntata contro di loro ed Elettra.

“Non fartelo ripetere una terza volta, consegnaci immediatamente quella nemica del popolo”

“Se questo è uno scherzo sappiate che non è per nulla divertente”

“Non ci lasci altra scelta, ma la cosa non mi stupisce, non ci siamo mai fidati veramente di te, non ci si può fidare dei figli dei padroni, alla fine siete tutti uguali, maledetti ricchi borghesi del cazzo, ma quando scoppierà la rivoluzione vi impiccheremo tutti, uno ad uno.”

Italo comprese che le cose si mettevano male quando vide Tempesta serrare le dita sulla pistola e premere il grilletto.

Tempesta era piuttosto basso, stempiato e con l’aria feroce di chi non ha mai avuto nulla da perdere. Da sopra la cintura strabordava una grossa pancia sudaticcia. Indossava un paio di calzoni di cotone ed una camicia rossa lisa e scolorita.

Italo venne colpito al petto, cadendo all’indietro con un gemito grottesco, e una macchia di sangue gli colorò l’elegante camicia bianca di sartoria.

Elettra iniziò a gridare come una pazza.

“Avanti prendete quella troia fascista” urlò Tempesta, mentre prendeva la mira sulla testa di Italo disteso sul sagrato della chiesa sconsacrata.

“No!! Non lo ammazzare!!” urlò Elettra più forte che le fu possibile.

Il secondo colpo centrò Italo in mezzo alla faccia, e una fontana di sangue, carne maciullata e cervella spruzzarono fuori dal volto sfigurato. La testa senza vita si rovesciò di lato come una bambola di pezza rotta.

“NOOO!!” gridò ancora Elettra mentre Sandrino e Faina erano già su di lei.

Sandrino la colpì al volto con un pugno, Faina la picchiò sulla testa con il calcio del fucile, una mazzata brutale che le lacerò la pelle. Il sangue cominciò a colarle copioso sul volto e sui vestiti.

Poi Sandrino l’afferrò per i capelli e la trascinò verso l’interno della chiesa. Il fiore che teneva infilato dietro l’orecchio cadde sgualcito sul selciato.

Elettra era sconvolta, stordita, il dolore alla testa feroce. Cercò di liberarsi scalciando, tentando di graffiare le nerborute mani di Sandrino.

Colpì Faina con un calcio, e quello di rimando le picchiò la pancia con il fucile. Una percossa ancora più violenta della precedente.

Le urla di Elettra furono soffocate per il lungo momento in cui restò senza fiato.

“Ora devi stare zitta stupida puttana!” ordinò Tempesta.

“Sappiamo che sei una spia dei fascisti, lurida stronza!” grugnì Cobra, sputandole in faccia

“Non è vero, vi state sbagliando” riuscì a singhiozzare Elettra, piangendo per la paura e per la sofferenza.

“Non mentire schifosa! Sappiamo che passi le giornate a baciare le sottane di tutti quei preti fottuti. Quando scoppierà la rivoluzione fucileremo anche loro e delle chiese faremo delle stalle, oppure le daremo alle fiamme” disse Tempesta, slacciandosi i pantaloni di cotone.

“Tenete ferma quella cagna, ora le daremo tutto quello che merita”

Cobra e Faina la sollevarono dal pavimento e la costrinsero a piegarsi sopra lo schienale di una vecchia panca tirandola per le braccia.

Tempesta le strappò il vestito e le mutande, poi iniziò a frustarle la schiena con la cintura dei pantaloni.

Lei ora aveva smesso di urlare, fissava nel vuoto con gli occhi sbarrati, mentre il volto era rigato dalle lacrime e dal sangue.

A turno abusarono di lei, violentandola e picchiandola per ore.

Quando scese la notte, Tempesta la finì strangolandola a mani nude.

Sotterrarono i cadaveri in un bosco poco lontano.

I corpi di Italo ed Elettra non furono mai ritrovati e dopo qualche mese le indagini vennero archiviate. Nessuno fu indagato per omicidio o per femminicidio a Piacenza o altrove.

Nel 1943 Tempesta, Sandrino, Cobra e Faina salirono sulle montagne per aderire alle bande partigiane dei ribelli comunisti.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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