Salem’s Lot di Stephen King (1975): Recensione critica

Quando Stephen King pubblicò Salem’s Lot nel 1975, il successo del suo primo romanzo, Carrie, era ancora fresco, e molti si chiedevano se il giovane autore sarebbe riuscito a confermare il suo talento. La risposta arrivò con una storia che, pur rievocando l’archetipo gotico del vampiro, seppe radicarlo nella dimensione più inquietante: quella della quotidianità. King abbandona castelli nebbiosi e lande esotiche per concentrare l’orrore nella provincia americana, in una cittadina apparentemente serena, dove il vero mostro si annida non soltanto nei morti viventi, ma nella vita stessa.

L’orrore in Salem’s Lot si insinua senza clamore, come una muffa invisibile che corrode lentamente le fondamenta della normalità. Jerusalem’s Lot, con le sue case bianche, i suoi bar, la scuola e le chiacchiere da cortile, sembra all’inizio un luogo rassicurante, protetto dall’anonimato e dall’abitudine. Ma sotto la superficie, la città è già malata. Le relazioni sono permeate di ipocrisia, solitudine, rancore. Mariti che picchiano le mogli, bambini trascurati, vecchie faide mai sopite: è su questa terra arida che il male, incarnato dal vampiro Kurt Barlow, trova terreno fertile. King non rappresenta dunque l’arrivo del male come un’invasione violenta; al contrario, il male cresce dall’interno, coltivato dalle stesse fragilità, egoismi e corruzioni della comunità.

Questa idea è forse uno degli elementi più perturbanti del romanzo: il male, lungi dall’essere un’entità estranea, è già parte del tessuto sociale. Il vampiro diventa così una metafora potente, un catalizzatore di una decadenza morale già in atto. Barlow non fa altro che accelerare un processo di decomposizione etica che la cittadina aveva iniziato da sola molto tempo prima. I suoi poteri sovrannaturali sono meno spaventosi delle crepe che rivela nell’animo dei cittadini: l’avidità, l’invidia, la codardia. Il vampirismo in Salem’s Lot non è solo una condizione fisica, ma un fallimento spirituale, una resa dell’individuo e della collettività al lato più oscuro di sé.

A rendere ancora più potente questa narrazione è la scelta del protagonista, Ben Mears, uno scrittore che torna a Jerusalem’s Lot dopo anni di assenza. Il ritorno alle radici diventa per lui un viaggio nei propri traumi e nelle proprie paure più profonde. Non è solo la città ad essere cambiata: è lo stesso Ben a scoprire che i fantasmi che credeva di aver lasciato indietro non hanno mai smesso di vivere tra quelle strade. La memoria personale si intreccia con la memoria collettiva della comunità, e il ritorno non è una riconciliazione, ma un lento e doloroso disvelamento.

All’interno di questo affresco di corruzione e perdita, King dedica una particolare attenzione all’infanzia, rappresentata da personaggi come Mark Petrie. L’infanzia in Salem’s Lot non è un rifugio sicuro: al contrario, è una fase vulnerabile, dove il male può agire con maggiore crudeltà. Mark, con il suo coraggio precoce e la sua resilienza, si distingue dagli adulti troppo codardi o ciechi per reagire. Ma la sua lotta contro il male comporta inevitabilmente una perdita irreversibile dell’innocenza. King ci mostra come il contatto con l’orrore spezzi definitivamente il fragile guscio protettivo della giovinezza, lasciando spazio a una precoce e dolorosa consapevolezza della brutalità del mondo.

Salem’s Lot è dunque molto più di una semplice storia di vampiri: è una meditazione cupa e lucidissima sulla fragilità della civiltà, sulla facilità con cui il male può infiltrarsi e contaminare ogni cosa quando la memoria si fa debole, la comunità si sfalda e l’innocenza viene sacrificata.

Tra i temi più intensi che Stephen King affronta in Salem’s Lot, un posto centrale è occupato dalla religione e dalla fede, esplorati con un taglio sorprendentemente cupo. Attraverso la figura tormentata di Padre Donald Callahan, King riflette sulla fragilità della fede quando si scontra con l’orrore autentico. Callahan non è un eroe senza macchia: è un uomo stanco, insicuro, che ha smarrito la purezza del suo credo tra i compromessi della vita quotidiana. Quando si trova faccia a faccia con il male incarnato, la sua fede si rivela più debole delle paure che lo divorano. King suggerisce così che la fede autentica richiede più di semplici rituali o proclami: richiede un coraggio interiore che pochi, realmente, possiedono. Il fallimento di Callahan non è solo personale, ma simbolico: rappresenta la crisi di una società che, di fronte al male, scopre di non credere davvero in nulla.

Questa lacerazione interiore si intreccia perfettamente con la straordinaria costruzione della suspense che King orchestra in tutto il romanzo. Salem’s Lot è un’opera di lenta combustione, dove l’orrore cresce in modo impercettibile, insinuandosi nelle pieghe della normalità. Il lettore percepisce un senso di minaccia già dalle prime pagine, ma la vera esplosione dell’orrore avviene soltanto quando il terreno è stato ampiamente preparato. King dosa gli eventi in modo chirurgico: sparizioni inspiegabili, comportamenti strani, atmosfere soffocanti. Ogni dettaglio è un colpo di scalpello che lavora nella mente del lettore, costruendo una tensione che diventa quasi insostenibile prima del crollo finale. Non ci sono effetti speciali o shock improvvisi: c’è, piuttosto, un inesorabile accumulo di paura, un lento strangolamento emotivo.

A questo senso di inquietudine contribuisce anche il tema dell’isolamento, che attraversa tutta la narrazione. Jerusalem’s Lot è fisicamente tagliata fuori dal mondo: una cittadina sperduta, difficile da raggiungere, dimenticata. Ma l’isolamento più tragico è quello interiore. Ognuno dei personaggi principali, da Ben a Susan, da Mark a Callahan, affronta la propria battaglia contro il male nella più totale solitudine, incapace di contare davvero sugli altri. Gli affetti sono deboli, le relazioni sono superficiali o spezzate. Il male, in Salem’s Lot, non solo distrugge, ma isola: e in questo isolamento, gli individui si frantumano, diventano più facili da sottomettere.

Non meno significativo è il modo in cui King costruisce i suoi personaggi: nessuno è immune dal peso della colpa. Gli errori del passato, i peccati piccoli o grandi, i compromessi accettati per quieto vivere, tornano a galla e si rivelano ferite aperte che il male può facilmente sfruttare. Ben è tormentato dal senso di colpa per il trauma infantile legato alla Marsten House. Padre Callahan è consumato dalla consapevolezza della propria ipocrisia. Persino i cittadini più semplici, come Eva Miller o il dottor Cody, sono prigionieri di errori e debolezze che li rendono vulnerabili. King dipinge così un’umanità fragile, divisa tra il desiderio di redenzione e la resa alla disperazione.

Infine, Salem’s Lot si inserisce consapevolmente nella grande tradizione del romanzo gotico, rendendo omaggio ai suoi predecessori pur innovandone la struttura. L’influenza di Dracula di Bram Stoker è evidente, non solo nella figura del vampiro aristocratico che corrompe una comunità, ma anche nell’uso di alcuni topoi narrativi come la casa maledetta, la lotta tra Bene e Male, la contaminazione della purezza. Tuttavia, King non si limita a ripetere formule collaudate: li trapianta nel cuore dell’America contemporanea, in un mondo fatto di televisioni, automobili e strade asfaltate. L’effetto è dirompente: il gotico si fa quotidiano, il mostro non abita più castelli in rovina ma case di legno dipinte di bianco, e il terrore si annida non nei cimiteri abbandonati, ma nelle strade familiari della nostra infanzia.

Con Salem’s Lot, King non si limita a riscrivere il romanzo dell’orrore: lo reinventa, dimostrando che il male non ha bisogno di varcare oceani o di attraversare epoche. Basta che trovi terreno fertile nella nostra indifferenza, nelle nostre paure, nei nostri sogni infranti.

A volte ritornano di Stephen Edwin King (1978): recensione critica

Quando nel 1978 Stephen King pubblica Night Shift, tradotto in italiano con il titolo A volte ritornano, ha già all’attivo due romanzi fondamentali – Carrie e Shining – che lo hanno consacrato come nuova voce del terrore americano. Ma è con questa raccolta di racconti, scritti in buona parte negli anni precedenti e pubblicati su riviste e magazine, che il lettore ha per la prima volta la possibilità di osservare da vicino la varietà, l’ampiezza e la duttilità del suo immaginario. A volte ritornano è un campionario dell’orrore in tutte le sue forme, ma anche un testamento precoce del talento proteiforme di King: l’autore riesce a spaziare con naturalezza dall’horror gotico alla fantascienza distopica, dal weird più sottile al pulp a tinte forti, mantenendo sempre una voce riconoscibile e un’anima profondamente americana.

Già il racconto d’apertura, Jerusalem’s Lot, è una dichiarazione d’intenti. Scritto con uno stile epistolare che richiama direttamente i grandi classici del gotico ottocentesco – da Stoker a Poe – questo racconto è un omaggio esplicito a Lovecraft, di cui rievoca l’universo fatto di culti perduti, grimori impuri e genealogie maledette. Ma, al di là delle citazioni e degli omaggi, ciò che colpisce è la naturalezza con cui King riesce a rievocare le atmosfere cupe del gotico americano, innestandole in una narrazione modernamente ritmata, inquietante senza essere mai caricaturale. All’estremo opposto della raccolta si trova Camion, racconto breve e fulminante in cui l’orrore non è più ancestrale ma meccanico, industriale, pulsante di metallo e ruggine. Qui, i protagonisti sono assediati da camion animati da una volontà propria, in un mondo che sembra aver subito una silenziosa, apocalittica inversione dei ruoli tra uomo e macchina. Due racconti distanti, eppure figli dello stesso autore: segno di una versatilità che non è solo tecnica, ma soprattutto immaginativa.

King non ha bisogno di castelli, cripte o lande desolate per evocare l’orrore. Gli bastano una scuola, una lavanderia industriale, l’ufficio di un consulente per smettere di fumare, una stanza da letto buia. È qui che si insinua una delle cifre più riconoscibili del suo stile: la capacità di rendere il quotidiano profondamente inquietante. L’America che emerge da A volte ritornano è fatta di periferie e cittadine, di fast food e stazioni di servizio, di piccoli drammi e vite spezzate dalla noia o dal rimpianto. Ma proprio in questi contesti ordinari – anzi, proprio grazie a questi contesti – l’irruzione dell’orrore assume una potenza dirompente. È quando l’incubo bussa alla porta della normalità che King dà il meglio di sé, trasformando ciò che ci è familiare in qualcosa di improvvisamente ostile, deformato, irreversibile.

In molti racconti della raccolta, i mostri non sono solo presenze tangibili o creature immaginarie. Sono incarnazioni delle paure che ci abitano: la perdita dell’identità, la vendetta che cova per decenni, la solitudine che si fa allucinazione. Il baubau, forse uno dei racconti più celebri, si apre con una seduta psichiatrica apparentemente banale, ma affonda subito nella paura archetipica del bambino che teme il mostro nell’armadio. Solo che King, con la sua consueta crudeltà, lo rende reale – e lo lega indissolubilmente al trauma, alla colpa, al senso di impotenza. In A volte ritornano, il passato ritorna letteralmente a reclamare vendetta: compagni di scuola morti che si fanno vivi, incubi scolastici che si trasformano in persecuzioni. Non è solo l’orrore della morte, ma quello di ciò che abbiamo lasciato incompiuto, di ciò che ci siamo lasciati alle spalle credendo fosse sepolto.

L’influenza di Lovecraft, già evidente in Jerusalem’s Lot, riaffiora anche in Grano nero, in cui un giovane uomo scopre che la propria stirpe nasconde un’eredità impura, collegata a un culto antico e indicibile. Qui l’orrore si costruisce sul non detto, sul sussurrato, sull’inconoscibile che vive ai margini della razionalità. È l’orrore cosmico, quello che non si può combattere né comprendere, ma solo osservare – con terrore. King assimila questi stilemi con rispetto, ma senza mai rinunciare alla propria voce: il racconto non è una semplice imitazione, ma una rielaborazione personale, capace di integrarsi perfettamente nel suo universo narrativo.

Un ultimo elemento cruciale, spesso trascurato ma centrale in questa raccolta, è il ruolo dell’infanzia e dell’adolescenza. I bambini, in A volte ritornano, non sono mai semplici comparse: sono testimoni privilegiati dell’orrore, o le sue vittime predilette. Che si tratti del piccolo Lester in Il baubau, dello sfortunato fratello in Il cornicione, o del protagonista adolescente dell’omonimo racconto, King mostra una sensibilità straordinaria nel catturare le angosce dell’età più fragile – e forse proprio per questo più permeabile al soprannaturale. Ma non è mai un’innocenza banale, idealizzata: i bambini di King sono vulnerabili, certo, ma anche capaci di ferocia, di ambiguità, di un’intelligenza che spesso gli adulti non riescono a comprendere. E, talvolta, proprio per questo sono i soli a sopravvivere.

Con A volte ritornano, King non si limita a raccogliere racconti: disegna una mappa del terrore contemporaneo, capace di abbracciare l’immaginario gotico, la paranoia tecnologica, l’inquietudine quotidiana e il trauma psichico. Un laboratorio dell’orrore in cui ogni racconto è una scheggia, autonoma ma parte di un disegno più ampio. E proprio per questo, a distanza di quasi cinquant’anni, continuano a tornare.

Uno dei tratti più ossessivi e ricorrenti di A volte ritornano è il tema del trauma che riemerge, come un corpo mal sepolto che continua a spingere contro la terra smossa. I racconti di King sono spesso storie di ritorni: ritorni del rimosso, del colpevole, del passato che non ha mai smesso di reclamare attenzione. Il racconto eponimo della raccolta, A volte ritornano, è un manifesto di questa dinamica: un insegnante di liceo, vittima in gioventù di un trauma legato alla morte violenta del fratello e al bullismo subito, vede letteralmente i suoi carnefici ritornare dalla morte e presentarsi nella sua classe. Non è solo una storia di vendetta soprannaturale; è una parabola disturbante sull’impossibilità di chiudere i conti con il dolore, sull’inadeguatezza della razionalità adulta di fronte ai traumi infantili. Il protagonista non riesce a lasciarsi il passato alle spalle perché, in fondo, non l’ha mai davvero affrontato: e così il passato ritorna, più forte, più crudele, più vero della realtà.

Ma è in Quitters, Inc. che King esplora con tono grottesco e sadico il medesimo meccanismo di colpa e controllo. Un uomo decide di smettere di fumare rivolgendosi a un’agenzia specializzata, scoprendo troppo tardi che il prezzo del cambiamento sarà la minaccia costante di dolore – fisico e psicologico – inflitto ai suoi cari. Anche qui il passato pesa, ma in un modo più subdolo: è la compulsione, l’ossessione, l’autodistruttività di un vizio che si è radicato nella carne e nello spirito. Il protagonista si trova prigioniero di una promessa che non può infrangere, perché ogni sgarro costerebbe caro a chi ama. Il trauma diventa qui istituzionalizzato, trasformato in metodo, in azienda, in controllo sociale.

King padroneggia come pochi l’arte di raccontare l’orrore non solo con le immagini, ma con la voce. La scelta tra prima e terza persona, l’intonazione del narratore, il ritmo con cui vengono rivelate le informazioni: tutto concorre a costruire una tensione che non è mai gratuita, ma funzionale allo sviluppo del tema. Nei racconti in prima persona – come Il baubau o A volte ritornano – la voce narrante è spesso inaffidabile, emotivamente coinvolta, frammentaria, e proprio per questo più inquietante. È come ascoltare la confessione di un sopravvissuto che non ha ancora fatto i conti con l’orrore. Nei racconti in terza persona, invece, King gioca con la distanza: l’ironia, il cinismo, la freddezza apparente diventano strumenti per raccontare l’assurdo come fosse normale, e proprio così facendo ne amplificano la potenza. In entrambi i casi, la scrittura di King si distingue per una lucidità psicologica e una capacità di rendere credibili anche le situazioni più assurde: che si tratti di un giocattolo da guerra che prende vita (Campo di battaglia) o di un compressore che sviluppa un’ossessione omicida (Il compressore), l’autore riesce sempre a dare corpo e coerenza all’incubo.

In diversi momenti, la raccolta si colora di un’ironia nera e crudele, che sfiora il grottesco e lo abbraccia senza timore. Quitters, Inc. è una farsa nera sulla società della performance e del controllo; Campo di battaglia è una perla di umorismo macabro che trasforma un assassinio su commissione in una guerra privata tra un killer professionista e un plotone di soldatini giocattolo, in un crescendo di assurdità che sfocia in un finale tanto brutale quanto esilarante. È una risata che gela il sangue: perché anche quando ridiamo, King ci ricorda che il terrore è dietro l’angolo, e che spesso è proprio la comicità a preparare il terreno al colpo finale.

Non manca, in questa raccolta, un’attenzione inquieta e profetica per il ruolo della tecnologia e della macchina. Camion prefigura un mondo in cui la rivolta degli oggetti inanimati non è più soltanto una fantasia infantile, ma un incubo sistemico: i camion che si ribellano, schiavizzando gli uomini, sembrano anticipare con lucidità le angosce dell’automazione, della dipendenza tecnologica, della disumanizzazione dell’ambiente moderno. Il compressore spinge oltre questa idea, presentando una macchina da lavanderia animata da un istinto omicida, quasi sessuale, capace di fagocitare corpi e coscienze. L’uomo, in questi racconti, perde il controllo su ciò che ha creato: e non perché la tecnologia sia malvagia in sé, ma perché riflette ed esaspera le sue ossessioni e le sue manie. È una tecnologia posseduta, che amplifica le pulsioni umane fino a renderle mostruose.

Difficile sopravvalutare l’impatto che A volte ritornano ha avuto sulla cultura horror contemporanea. Non solo perché molti dei racconti sono stati adattati per il cinema e la televisione – alcuni con risultati memorabili, altri con esiti più discutibili – ma perché la raccolta rappresenta una vera e propria cassetta degli attrezzi narrativa per chiunque voglia scrivere (o leggere) storie dell’orrore. In questi racconti si trovano già in nuce molti dei temi, delle atmosfere, dei dispositivi narrativi che King svilupperà nei suoi romanzi successivi. È una sorta di laboratorio creativo, in cui lo scrittore sperimenta con forme brevi ciò che poi declinerà in modo più articolato nei suoi capolavori futuri.

Ma A volte ritornano è anche qualcosa di più: è una dichiarazione poetica, un’enciclopedia sentimentale della paura, un’indagine sulle ombre che ci portiamo dentro. Racconti che, come suggerisce il titolo, continuano a tornare. Forse perché ci somigliano troppo. O forse perché, in fondo, siamo noi che li chiamiamo.

Il Giardino dei peccati

Attraversai le colline del Piacentino sotto un cielo opaco, il cui colore sembrava riflettere una volontà oscura e imperscrutabile. Gli alberi, scheletrici e piegati dal vento, parevano testimoni muti di segreti antichi. Quando la sagoma imponente di Rocca Valtenuta apparve davanti a me, il mio cuore si fermò per un istante: non era una costruzione, ma un colosso innaturale, un’entità che pareva emergere dalla terra stessa, rivestito di pietra muschiosa e denso di presagi.

Il castello mi attendeva con il silenzio severo di un giudice. Le sue torri si protendevano verso il cielo, come artigli di un essere pietrificato, mentre un’ombra inquietante aleggiava tra le sue mura. In quel luogo, la leggenda e la realtà sembravano sovrapporsi fino a confondersi, e l’aria stessa sapeva di antico e corrotto.

L’interno di Rocca Valtenuta era un enigma di pietra e velluto, impregnato di un’aura antica. I pavimenti in marmo riflettevano fioche luci tremolanti di candele disposte con cura, mentre le pareti, ornate di arazzi e dipinti, narravano scene di caccia e riti pagani con un’arte che sembrava sfuggire al tempo.

Fui accolto da un servitore il cui volto era inespressivo come una maschera funebre. Mi condusse senza una parola lungo corridoi ornati di arazzi sbiaditi e arredi che sembravano essere stati prelevati da un’epoca più antica del tempo. L’incontro con la padrona della dimora, la marchesa Lucrezia Maldracini, fu un evento che non dimenticherò mai.

Ella incarnava una bellezza che sfidava ogni legge naturale: il suo volto pallido, gli occhi di smeraldo che sembravano scrutare l’anima, e il suo portamento, che la faceva sembrare più una divinità che un essere umano. Quando parlò, le sue parole fluivano con una musicalità ipnotica, intrise di una grazia che celava un potere invisibile.

Lucrezia mi accolse nel salone principale con un sorriso caloroso e un calice di vino. La sua figura, slanciata e aggraziata, sembrava emergere dalla stessa oscurità che permeava il castello. Il vestito che indossava era nero come la pece, punteggiato da ricami dorati che parevano mutare alla luce delle fiamme.

“Ecco il nostro giovane esploratore,” disse, la voce un filo di seta che scivolava nell’aria. “Spero che Rocca Valtenuta non vi appaia troppo austera. È una dimora severa, ma ospitale, se le si concede il tempo di svelare i suoi segreti.”

Mi porse il calice, e i nostri occhi si incontrarono. Il suo sguardo aveva una profondità ipnotica, un misto di calore e di qualcosa di più oscuro, un’eco di una verità non detta.

“È… magnifico,” risposi, sorseggiando il vino. Era forte, denso, con un sapore che mi rimase sulla lingua come un sussurro di qualcosa di proibito.

Le sere trascorrevano in un’atmosfera di quieto incanto. Nella grande sala del castello, il fuoco del camino proiettava ombre danzanti sui soffitti alti, mentre Lucrezia mi intratteneva con racconti che sembravano emergere da un altro mondo. Mi parlò di antiche famiglie che avevano abitato la rocca, di patti segreti con forze sconosciute, e del giardino, un luogo che descriveva con una devozione quasi religiosa.

“Ogni pianta ha un’anima,” mi disse una sera, gli occhi fissi sulle fiamme. “E il giardino è il cuore pulsante di Rocca Valtenuta. È vivo, come voi o me, e richiede attenzioni particolari.”

“Avete un legame speciale con il giardino, marchesa?” azzardai, affascinato dalla sua voce e dalla calma magnetica con cui parlava.

“Oh, Pier Maria,” disse, ridendo sommessamente, “è un legame antico e sacro. Il giardino è il mio rifugio, la mia confessione, il mio specchio.”

Le sue parole erano carezze di miele, e il mio cuore, inesorabilmente, iniziava a battere al ritmo delle sue.

Quando finalmente mi concesse di accedere al giardino, fu come entrare in un altro regno. Il portale che conduceva al cortile interno era fiancheggiato da colonne intarsiate con simboli che mi sfuggivano: spirali intrecciate, serpenti stilizzati e figure umanoidi che sembravano emergere dalle radici degli alberi.

Oltre il portale, il giardino si aprì davanti a me come un incantesimo. Fiori dai colori impossibili si piegavano al vento, e rampicanti si intrecciavano in disegni elaborati, quasi fossero opera di un’artista folle. Il terreno era scuro, quasi nero, e aveva un odore pungente, metallico.

Mi avvicinai a un albero dai tronchi gemelli che pulsavano di una luce dorata, come se dentro di essi scorresse sangue vivo. Ero estasiato e inquieto allo stesso tempo. C’erano dettagli che mi sfuggivano, ma che percepivo ai margini della mia coscienza: radici che si avvolgevano come artigli attorno alle rocce, ombre che si muovevano dove non dovevano esserci.

Lucrezia mi raggiunse nel giardino, la sua figura eterea che sembrava fluttuare tra le piante. Mi osservava come un falco, ma il suo sorriso era dolce, quasi protettivo.

“Vi piace?” mi chiese, il tono della sua voce basso, intimo.

“È… unico,” risposi, incapace di trovare parole migliori.

Lei si avvicinò, sfiorandomi la spalla con la mano. Il suo tocco era lieve, ma mi scosse come un fulmine.

“Siete speciale, Pier Maria,” disse. “Il giardino lo percepisce. Lo vedete, vero? Sentite la sua energia?”

Annuii, incapace di mentire. La mia mente era un turbine di emozioni contrastanti: meraviglia, desiderio e un terrore sottile che non riuscivo a definire.

Da quel momento, le nostre conversazioni divennero più intime. Mi parlava del suo passato, accennando a una sofferenza che la legava al giardino. Mi mostrava i segreti del castello: una cappella pagana nascosta nei sotterranei, un libro rilegato in pelle che sembrava scritto con un alfabeto alieno.

Ogni suo gesto, ogni sua parola, mi avvolgeva in un bozzolo di sogni febbrili. Era come se il castello, il giardino e la marchesa fossero parte di un unico, grande organismo, un’entità viva che mi osservava e mi valutava.

Una notte, mentre sedevamo vicini davanti al camino, mi confidò qualcosa che mi scosse.

“Pier Maria,” disse, le mani che stringevano una coppa di vino. “Non sono la donna che credete. Non sono una creatura libera. Sono legata al giardino come un’ombra al suo padrone.”

“Che cosa intendete?” chiesi.

“C’è una magia oscura in questo luogo, una maledizione antica. Il giardino si nutre della vita… e io sono solo un tramite.”

La sua voce si spezzò, e per un istante, vidi qualcosa nei suoi occhi: una disperazione profonda, viscerale. Non potevo credere che una donna così forte e magnetica fosse tormentata da qualcosa di così crudele.

“Posso aiutarvi,” dissi, avvicinandomi a lei. “Vi libererò da qualunque maledizione. Vi giuro che lo farò.”

Lei mi guardò a lungo, il suo volto una maschera di tristezza e gratitudine. Poi, sorrise.

“Pier Maria… siete troppo puro per questo mondo.”

Non sapevo allora quanto vere fossero le sue parole.

Le piante che crescevano in quel luogo sembravano aliene. I loro colori, violenti e innaturali, pulsavano come creature vive, mentre un odore dolciastro e opprimente saturava l’aria. Sentii il cuore sussultare quando notai come le radici di alcune di esse si immergevano in pozze dal colore scarlatto, come se la terra stessa sanguinasse.

“Straordinario, non è vero?” sussurrò la marchesa, posandosi accanto a me. Il suo sguardo non era diretto verso il giardino, ma verso di me, come se stesse osservando la mia reazione con un interesse affamato.

Non potevo parlare. Sentivo un’energia arcana permeare l’ambiente, una presenza maligna e insondabile che sussurrava nei recessi della mia mente. Tuttavia, la mia curiosità di botanico era troppo forte, e nonostante il terrore che mi divorava, accettai di rimanere e studiare.

Nei giorni successivi esplorai il giardino sotto la supervisione costante della marchesa. Notai come le piante sembrassero crescere e contorcersi, quasi rispondendo alla mia presenza. Ogni notte, sogni inquietanti mi tormentavano: visioni di radici che mi avviluppavano, di volti deformi che si dissolvano in un’oscurità senza fine.

Una sera, spinto da un impulso che non potevo controllare, tornai nel giardino da solo. La luna, nascosta dietro nuvole opprimenti, illuminava debolmente il sentiero. Mi addentrai fino al centro, dove sapevo che il segreto più oscuro della marchesa mi attendeva.

“Pier Maria,” disse una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi la marchesa, il suo volto distorto da una strana, mostruosa espressione di piacere e dolore. “Avete trovato il cuore del giardino. È magnifico, vero?”

La notte era spessa come il velluto, priva di stelle e più nera della pece. Il vento, che di solito cantava tra i rampicanti del giardino, si era fermato, come un animale che fiuta un predatore. Non c’era luce, se non quella di una lanterna che Lucrezia teneva alta davanti a sé, il chiarore fioco che creava ombre danzanti sui contorni delle piante.

Raggiungemmo un’area che non avevo mai visto, un cerchio perfetto dove le piante sembravano piegarsi verso un unico punto, come in adorazione.

E lì, vidi l’innominabile. Un albero dalle dimensioni colossali si ergeva su un altare naturale, le sue radici immerse in un liquido vermiglio che emanava un bagliore spettrale. Il tronco sembrava composto di una materia impossibile, in costante mutazione, mentre i suoi rami si agitavano con movimenti innaturali.

Una cavità al centro del tronco pulsava, emettendo un bagliore rosso che sembrava vivo. Mi avvicinai, attratto e terrorizzato allo stesso tempo, il suono del mio respiro amplificato nel silenzio irreale del luogo.

“È qui che tutto ha inizio,” disse Lucrezia, la sua voce un sussurro che pareva venire dall’albero stesso.

Le sue mani si posarono sul mio viso, e i suoi occhi si piantarono nei miei. Erano pieni di qualcosa di indefinibile: un misto di desiderio, rimpianto e una fame che mi fece indietreggiare, seppur di un passo.

“Il giardino non è come gli altri,” continuò. “È vivo. Respira, sente… e ha bisogno.”

“Di cosa?” chiesi, la mia voce più debole di quanto avrei voluto.

“Di sangue.”

Rimasi immobile, mentre le sue parole si insinuavano nella mia mente come un veleno lento. Mi parlò di un rituale antico, di un patto sigillato con entità che non osava nominare. Ogni fiore, ogni radice, ogni foglia del giardino era nutrito dalla vita stessa, estratta da coloro che vi erano stati portati.

“Ma voi,” disse, avvicinandosi ancora, “siete diverso. La vostra purezza, il vostro amore per ciò che è vivo, sono perfetti. Siete l’offerta che il giardino ha atteso per tanto tempo.”

“Non può essere vero,” balbettai, cercando di allontanarmi, ma le sue mani si strinsero attorno ai miei polsi con una forza che non avrei mai immaginato da lei.

“Non temete,” disse, con una dolcezza agghiacciante. “Sarete parte di qualcosa di eterno. Il giardino vi amerà come io vi amo.”

Prima che potessi reagire, mi tirò verso di sé e mi baciò. Fu un bacio feroce, disperato, come se stesse cercando di imprimere la sua anima nella mia. Mi avvolse, rubandomi ogni pensiero e lasciandomi solo il calore travolgente del suo corpo contro il mio.

Quando mi resi conto del pugnale, era già troppo tardi. Era un’arma cerimoniale, la lama sottile e curva che scintillava di un bagliore malvagio. Con un movimento fluido, Lucrezia me la conficcò nel petto, dritta al cuore.

Sentii il freddo dell’acciaio attraversarmi, seguito da un’esplosione di dolore che mi fece cadere in ginocchio. Il sangue iniziò a sgorgare, caldo e abbondante, bagnando il terreno sotto di me.

Le radici dell’albero si mossero, come serpenti attratti dal richiamo di una preda. Si avvolsero intorno al mio corpo, affondando nella terra e assorbendo ogni goccia del mio sangue.

Lucrezia si inginocchiò accanto a me, accarezzandomi il viso con una tenerezza che mi spezzò.

“Non odiatemi,” sussurrò. “Il nostro amore vivrà per sempre, qui. Sarete parte di questa bellezza immortale.”

Le sue parole si fusero con il battito del mio cuore che rallentava, e la mia vista si offuscò. L’ultima cosa che vidi fu il giardino che esplodeva in una fioritura soprannaturale, i colori che si accendevano in tonalità impossibili, e i fiori che si piegavano verso l’albero come discepoli davanti al loro dio.

Il giardino era un’esplosione di vita e colori che sfidavano ogni logica naturale. Ogni petalo sembrava pulsare di un’energia propria, come se la linfa che scorreva in quelle piante fosse più di semplice nutrimento: era memoria, volontà, forse persino anima. Le aiuole si fondevano in un arabesco ipnotico di tonalità impossibili, dal viola che brillava come ametista, al nero profondo e lucente come l’onice.

Un profumo dolce e penetrante saturava l’aria, denso come miele, eppure portava con sé una nota di marcio, una dissonanza che strisciava in profondità, quasi impercettibile. Era il respiro del giardino, e nel cuore di esso, troneggiava l’albero.

Dalla cavità pulsante del tronco, in una nuova forma avevo preso vita: un bocciolo rosso sangue, la cui superficie pareva contrarsi alla luce del sole. Era l’unica cosa che Lucrezia non osava toccare, il suo sguardo mi sfiorava con una sorta di timore riverenziale.

Lucrezia Maldracini si specchiava nell’acqua immobile di una fontana circolare, incorniciata da rampicanti dorati che sembravano piegarsi per abbracciarla. Il suo volto, ora privo di ogni traccia di tempo, rifletteva una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e i suoi occhi brillavano come quelli di una predatrice soddisfatta.

Con un gesto lento, accarezzò la superficie dell’acqua. “Pier Maria,” sussurrò. Il nome scivolò via dalle sue labbra, mescolandosi al canto sommesso delle piante.

Dietro di lei, il castello era vivo di suoni. Musica, risate, e il tintinnio di calici si mescolavano in una sinfonia che si riversava dalle grandi finestre. Gli ospiti erano tornati a frotte, attratti dalla fama di Lucrezia e del suo giardino leggendario.

Una giovane donna con un abito azzurro si avvicinò alla fontana, portando con sé un vassoio di coppe di cristallo.

“Marchesa,” disse, con tono rispettoso, ma venato di un timore sottile. “I vostri ospiti vi attendono.”

Lucrezia si voltò lentamente, il sorriso sulle sue labbra una maschera che tradiva nulla di ciò che ribolliva nel suo animo. “Arriverò presto. Dite loro di godersi il giardino.”

La serva annuì, ma prima di andarsene, il suo sguardo scivolò sull’albero. Un tremito le percorse il corpo, e il bicchiere sul vassoio tintinnò piano.

“Qualcosa non va, cara?” chiese Lucrezia, il suo tono apparentemente gentile.

“N-niente, marchesa,” rispose la ragazza. “Solo… quel fiore. Mi sembra di sentirlo sussurrare.”

Lucrezia rise, un suono cristallino che rimbalzò tra le fronde. “Oh, cara, i miei fiori sono vivi. È solo il giardino che vi parla.”

Nessuno parlava apertamente della mia scomparsa. Coloro che si ricordavano di me, giovani nobili che mi avevano conosciuto a Parma, mi menzionavano solo accennando a una presunta partenza improvvisa per un viaggio di studio.

Eppure, nelle notti più silenziose, quando il vento smetteva di soffiare e il castello si addormentava, alcuni giuravano di udire qualcosa. Era un sussurro, debole come un respiro, che sembrava provenire dall’albero al centro del giardino. Un nome, ripetuto all’infinito, un mormorio che scivolava tra le foglie come un lamento disperato: “Lucrezia…”

Il giardiniere, un vecchio che aveva visto più primavere di quante ne potesse ricordare, si fermava spesso davanti all’albero, osservando quel bocciolo rosso sangue con un’espressione di cupa reverenza. Quella notte, mentre stava legando dei rampicanti su un arco vicino, il mio sussurrare divenne più forte. Egli lasciò cadere il filo di spago e indietreggiò, tremando.

“Tornerà,” sussurrò tra sé, senza sapere se lo credeva o lo temeva.

Nel grande salone del castello, gli ospiti si muovevano tra candelabri scintillanti e tappeti di velluto. I vini più rari scorrevano come fiumi, e i musicisti suonavano una melodia che pareva nata dalle stesse pietre di Rocca Valtenuta.

Lucrezia dominava la sala, la sua figura elegante in un abito nero con ricami d’oro che parevano brillare di luce propria. Gli uomini la circondavano, bevendo le sue parole come nettare, mentre le donne cercavano invano di catturare uno spiraglio della sua grazia.

“Marchesa,” disse un giovane conte, il viso arrossato dal vino. “Il vostro giardino è… semplicemente divino. Non ho mai visto niente di simile.”

“È unico,” rispose lei, sorseggiando il suo vino con un sorriso che sapeva di veleno dolce.

“E quell’albero al centro,” continuò l’uomo, “è… è come se avesse una presenza, quasi umana.”

Lucrezia lo fissò, i suoi occhi che lo trapassavano. “Il giardino riflette ciò che gli viene donato,” disse. “E ciò che gli viene donato, vive per sempre.”

L’uomo ridacchiò, imbarazzato, e alzò il calice. “Alla vostra eterna bellezza, marchesa!”

Ma Lucrezia non rispose. Il suo sguardo si era perso tra le ombre del giardino, dove, tra le fronde scosse da un vento che nessuno poteva sentire, sembrava muoversi qualcosa.

Quando la festa terminò e l’ultimo ospite lasciò il castello, Lucrezia tornò al giardino. La luna era alta e il suo bagliore argenteo rendeva il luogo ancora più irreale. Si fermò davanti all’albero, ed io sotto forma di bocciolo rosso pulsavo lentamente, come un cuore addormentato.

“Pier Maria,” mormorò.

Dal vento tra le foglie, giunse una risposta. Debole, spezzata, ma inconfondibile.

“Lucrezia…”

Lei sorrise, ma il sorriso tremava. Per un istante, il giardino non fu più un rifugio, ma una prigione. Eppure, era l’unico luogo dove il suo amore potesse vivere.

Per sempre.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

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“La bomba di Hitler” di Rainer Karlsch (2005): recensione saggio storico

Nel panorama delle pubblicazioni storiche dedicate alla Seconda guerra mondiale, La bomba di Hitler di Rainer Karlsch rappresenta un’opera affascinante e disturbante, capace di sollevare interrogativi profondi sulla scienza, il potere e la verità storica. Il saggio, pubblicato per la prima volta nel 2005, sfida una delle certezze più consolidate della storiografia bellica: che la Germania nazista non sia mai stata realmente vicina alla realizzazione di un’arma nucleare. Karlsch insinua, con dovizia di fonti e una narrazione quasi investigativa, che un test atomico — o comunque radiologico — potrebbe essere stato condotto in Turingia nel marzo del 1945. Ma per comprendere appieno la portata di questa ipotesi, occorre innanzitutto calarsi nel contesto storico-scientifico dell’epoca.

Negli anni Trenta e Quaranta, la Germania vantava una delle comunità scientifiche più avanzate del mondo. Fisici come Werner Heisenberg, premio Nobel e figura chiave della meccanica quantistica, erano all’avanguardia nei settori della fisica teorica e nucleare. L’università di Lipsia, l’Istituto Kaiser Wilhelm di Berlino, il gruppo di ricerca di Göttingen: centri pulsanti di un sapere raffinato, in grado di competere con le migliori università statunitensi o britanniche. Tuttavia, l’avvento del nazismo produsse una frattura insanabile. L’emigrazione forzata di centinaia di scienziati ebrei (tra cui personalità del calibro di Albert Einstein, Leo Szilard e Hans Bethe) provocò un’emorragia di cervelli che indebolì fortemente la capacità progettuale e sperimentale del Reich. Inoltre, il regime nazista mostrò un atteggiamento spesso ambiguo nei confronti della scienza pura, privilegiando soluzioni tecnologiche immediate e applicabili alla guerra lampo, piuttosto che investimenti nel lungo termine.

Karlsch, nel suo saggio, affronta queste contraddizioni facendo leva su un ampio apparato documentario. Le sue fonti spaziano da rapporti tecnici militari e appunti riservati della Wehrmacht, a testimonianze orali raccolte sul campo, fino a resoconti sovietici rimasti a lungo inaccessibili. È proprio l’uso incrociato di queste fonti — eterogenee per natura, per origine e per attendibilità — a suscitare le reazioni più contrastanti tra gli storici. Da un lato, si riconosce a Karlsch il merito di aver aperto archivi fino ad allora inesplorati, soprattutto quelli dell’ex Germania Est e dell’Unione Sovietica; dall’altro, la natura in parte aneddotica di alcune testimonianze e l’assenza di prove chimico-fisiche definitive alimentano dubbi sulla solidità delle sue conclusioni.

Il nucleo più controverso del libro è certamente la ricostruzione del presunto test nucleare avvenuto nei pressi di Ohrdruf, in Turingia, nel marzo 1945. Secondo Karlsch, un ordigno sperimentale sarebbe stato fatto esplodere in una zona isolata, con la partecipazione di scienziati militari e tecnici del regime. L’esplosione avrebbe provocato la morte immediata di alcuni prigionieri utilizzati come cavie umane, e avrebbe lasciato tracce di contaminazione misurabili ancora a distanza di decenni. L’autore si basa su rilevamenti geologici, analisi di suolo e testimonianze locali. Ma la comunità scientifica resta divisa: molti esperti sottolineano che i dati radiometrici raccolti non corrispondono a quelli tipici di un’esplosione nucleare pienamente sviluppata, mentre altri mettono in discussione la metodologia stessa di raccolta e interpretazione dei campioni. Il sospetto, per alcuni, è che si possa trattare di una bomba radiologica — un ordigno “sporco”, cioè convenzionale ma caricato con materiale radioattivo — piuttosto che di una vera bomba atomica.

Ed è proprio qui che il saggio introduce una distinzione cruciale, spesso trascurata nel dibattito pubblico: quella tra bomba atomica e bomba radiologica. Mentre la prima presuppone una reazione a catena incontrollata di fissione nucleare, capace di sprigionare un’energia devastante (come nel caso di Hiroshima e Nagasaki), la seconda ha un effetto principalmente contaminante, non distruttivo. Karlsch ipotizza che il progetto tedesco potesse aver raggiunto almeno questo livello: la capacità di produrre un’arma in grado di irradiare un’area con isotopi radioattivi, pur senza giungere alla soglia critica di una vera esplosione nucleare. Se così fosse, si tratterebbe comunque di un passo inquietante nella corsa agli armamenti, che sposterebbe in avanti i confini cronologici del possibile utilizzo bellico dell’energia atomica.

Nel corso del libro, emergono inoltre figure complesse e ambigue come quelle di Werner Heisenberg, Kurt Diebner ed Erich Schumann. Se il primo sembra muoversi con una certa riluttanza all’interno del programma nucleare del Reich, consapevole dei limiti etici e tecnici del progetto, Diebner e Schumann incarnano invece una visione più tecnica, militare, forse anche più cinica. Diebner in particolare, secondo Karlsch, avrebbe condotto esperimenti autonomi e riservati, bypassando gli organismi ufficiali del regime, in un contesto di crescente frammentazione e competizione tra gruppi di potere. Si tratta di un quadro che incrina la narrazione canonica secondo cui la Germania avrebbe semplicemente “rinunciato” all’arma atomica per limiti tecnologici o per scelte morali degli scienziati coinvolti. Al contrario, La bomba di Hitler racconta un’epopea di ricerca oscura, sotterranea, dove scienza e follia politica si intrecciano in una corsa finale verso l’abisso.

Una delle piste più affascinanti – e al tempo stesso più problematiche – seguite da Karlsch riguarda la questione della segretezza. Perché, se davvero la Germania nazista condusse un test nucleare o radiologico nel marzo del 1945, non se ne è saputo nulla per sessant’anni? L’autore suggerisce un intreccio di reticenze, omissioni e precise scelte politiche che si sviluppano nel dopoguerra, in un’Europa devastata e divisa. Da un lato, ci sarebbe stata la volontà della stessa Germania, ormai riunificata, di non riaprire ferite legate al passato nazista e ai suoi crimini. Dall’altro, secondo Karlsch, anche le potenze alleate – in particolare l’Unione Sovietica, che occupò l’area della Turingia, e gli Stati Uniti – avrebbero avuto un interesse a mantenere il silenzio su eventuali scoperte compromettenti.

Nel caso sovietico, i tecnici del KGB e dell’Armata Rossa, che avrebbero recuperato parte dei materiali e dei documenti nella zona del presunto test, avrebbero preferito internalizzare le informazioni, sfruttandole per il proprio programma nucleare in piena Guerra Fredda. Gli americani, dal canto loro, avevano l’urgenza politica e simbolica di dimostrare la superiorità del proprio progetto, il Manhattan Project, culminato con le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Ammettere che anche i nazisti avessero sviluppato una qualche forma di arma atomica, anche se imperfetta, avrebbe incrinato il primato tecnologico e morale delle potenze vincitrici. Così, suggerisce Karlsch, l’ombra della bomba tedesca è rimasta sepolta sotto strati di diplomazia, disinformazione e rimozione collettiva.

E proprio il confronto con il Progetto Manhattan aiuta a chiarire i limiti e i paradossi della vicenda. Gli Stati Uniti, grazie a uno sforzo colossale e coordinato, coinvolsero migliaia di scienziati, tecnici e operai, con risorse economiche e industriali praticamente illimitate. La Germania, al contrario, operava in condizioni di crescente isolamento, con risorse decimate dai bombardamenti e da una guerra ormai persa. Inoltre, il progetto atomico tedesco mancava di un centro di comando unificato: frammentato tra esercito, SS, enti civili e gruppi universitari, si muoveva in ordine sparso, privo di una visione comune. Tuttavia, La bomba di Hitler mette in discussione l’idea che i tedeschi fossero del tutto incapaci di ottenere risultati. Se non una bomba vera e propria, forse qualcosa di intermedio, un ordigno radiologico, un esperimento segreto, un abbozzo di arma di ultima istanza. Non si tratta di sostenere che Hitler fosse a un passo dalla bomba, ma piuttosto di riconoscere che la ricerca nucleare sotto il Terzo Reich fu più articolata e inquietante di quanto a lungo ritenuto.

Come era prevedibile, il libro ha suscitato un acceso dibattito. La comunità storica si è divisa tra chi ha accolto con interesse la riapertura di una pista finora trascurata e chi ha criticato duramente le tesi di Karlsch, accusandolo di speculazione sensazionalistica. Alcuni fisici nucleari hanno sollevato obiezioni puntuali sui dati tecnici, ritenendoli insufficienti a provare l’esistenza di una vera esplosione atomica. Altri storici hanno messo in discussione la metodologia dell’autore, sottolineando come l’uso di fonti eterogenee e talvolta non verificabili rischi di compromettere la solidità dell’intero impianto. Tuttavia, anche tra i detrattori, non manca chi riconosce al saggio il merito di aver rilanciato un dibattito sopito, stimolando nuove ricerche e interrogativi.

Sul piano etico e politico, le implicazioni sono vertiginose. Se davvero Hitler avesse avuto a disposizione una qualche forma di arma nucleare, anche solo allo stadio sperimentale, si aprirebbe uno scenario da incubo. La sola possibilità di disporre di un’arma di distruzione di massa, in mano a un regime totalitario e genocida, trasforma la narrazione storica. Il saggio solleva così interrogativi cruciali sul rapporto tra scienza e potere, tra coscienza individuale e obbedienza al regime. Cosa spinse uomini come Diebner o Schumann a proseguire le ricerche, anche quando la guerra era evidentemente persa? Si trattava di patriottismo, ambizione personale, cieca lealtà, o di una più generale fascinazione per il potere illimitato che la fisica prometteva? In queste pagine, la figura dello scienziato appare divisa tra Faust e Prometeo: sedotto dal potere, incapace di fermarsi, privo di un freno etico.

Come opera storica, La bomba di Hitler si colloca a metà strada tra saggio accademico e reportage investigativo. Lo stile è chiaro, a tratti narrativo, con un gusto evidente per il colpo di scena e la ricostruzione drammatica. Karlsch riesce a rendere accessibili temi complessi senza semplificazioni grossolane, anche se talvolta indulge in suggestioni più da romanzo storico che da trattato scientifico. Il rigore metodologico è diseguale: se alcune parti poggiano su documenti solidi e citazioni accurate, altre si affidano a testimonianze vaghe o a inferenze non sempre dimostrabili. In questo senso, il libro funziona più come provocazione storiografica che come verità definitiva. Ma proprio in ciò risiede, forse, il suo valore: scuotere certezze, rimettere in discussione dogmi consolidati, aprire spazi nuovi alla riflessione storica.

La bomba di Hitler non ci offre risposte, ma ci costringe a fare domande. E questo, in fin dei conti, è il compito più nobile di ogni buon libro di storia.

La malvagia giovane violinista

Mi chiamo Lorenzo Bellati, e questa è la cronaca di un’ossessione che ancora oggi mi perseguita, un’ossessione che mi ha condotto sull’orlo della follia e oltre, lasciandomi incapace di distinguere i confini tra il reale e l’incubo. Tutto ebbe inizio in un’estate che sembrava non voler finire, nei colli piacentini, tra vigneti inondati di luce e borghi dimenticati dal tempo. Eppure, anche sotto il sole più luminoso, le ombre del passato e le forze che vi si annidano non si lasciano scacciare facilmente.

Ero giunto ad un borgo abbarbicato su una delle vette più alte della regione, per cercare ispirazione per la mia musica. Dopo anni trascorsi a suonare per piccole orchestre e in spettacoli di poco conto, avevo perso ogni fiducia nella mia arte. Il mio violino, un tempo mio fedele compagno, sembrava muto tra le mie mani. Avevo bisogno di silenzio, di solitudine, di un luogo dove poter ritrovare il mio spirito e forse riconciliarmi con quella passione che tanto mi era costata.

Il posto era perfetto. Case di pietra annerite dal tempo, vicoli stretti che si arrampicavano come serpenti, e un’aria di immobilità che sembrava congelare ogni movimento umano. La locanda dove avevo preso dimora era modesta ma accogliente, e il locandiere, un uomo corpulento con mani segnate dal lavoro, sembrava apprezzare il mio desiderio di discrezione.

La mia routine quotidiana era semplice: passeggiate tra i vigneti, ore trascorse con il mio violino nella stanza fresca della locanda, e serate a scrutare il cielo stellato, cercando nel cosmo l’ispirazione che sulla terra non riuscivo più a trovare. Fu durante una di quelle sere che sentii per la prima volta quella musica.

Una melodia, fragile come il filo di un ragno al vento, si insinuò nella mia mente mentre stavo tornando dal belvedere che dominava il borgo. Mi arrestai incuriosito, e ascoltai. Non saprei descrivere esattamente ciò che sentii, perché quella musica sembrava sfidare ogni descrizione umana. Era un intreccio di note che evocavano un senso di struggimento e di terrore insieme, una melodia che non apparteneva né alla gioia né al dolore, ma a qualcosa di completamente diverso.

Seguendo quel suono, mi ritrovai di fronte a un casolare ai margini del borgo, un edificio antico e malandato, con le imposte sbilenche e i muri invasi dall’edera. La musica proveniva chiaramente da lì, e per un momento fui tentato di avvicinarmi e bussare. Ma qualcosa mi trattenne. C’era un’energia nell’aria, un peso invisibile che mi premeva sul petto e mi costrinse a restare dov’ero.

Quando tornai alla locanda, cercai di chiedere al locandiere di chi fosse quel casolare e chi vi abitasse. L’uomo si fece scuro in volto, e dopo un lungo silenzio mormorò soltanto: “È meglio non impicciarsi degli affari altrui, soprattutto lassù.”

Non potei accettare quell’ambiguità. Nei giorni seguenti, mi sforzai di ignorare quella musica, ma essa sembrava farsi strada nella mia mente anche quando non la udivo. Era come se quelle note vivessero dentro di me, mutando il ritmo del mio respiro, influenzando i miei sogni. E quando, al calare del sole, la melodia riprendeva, non potevo fare a meno di seguirla con la mente, come un insetto attratto da una fiamma.

Un giorno, mentre passeggiavo per il borgo, un’anziana donna mi fermò. Aveva occhi vivaci e una voce roca che sembrava scaturire da un profondo pozzo di esperienze. Mi chiese se fossi il violinista che aveva preso dimora alla locanda. Quando le confermai, annuì, un’ombra attraversandole il volto.

“Avete sentito anche voi, vero?” sussurrò. “La musica di quella ragazza.”

“Di chi parlate?” chiesi, cercando di non apparire troppo interessato.

“Evelyn,” rispose, con un tono che era insieme di ammirazione e timore. “Si è trasferita qui pochi mesi fa. Nessuno sa da dove venga. Non parla con nessuno, eppure tutti noi la conosciamo… per via della musica. Dicono che il suo violino sia maledetto.”

Rimasi in silenzio, e la donna proseguì: “La musica non è normale, capite? Le note che suona… non sono per le nostre orecchie. A volte sembra che parlino, che raccontino storie di cose che non dovrebbero essere ricordate.”

Le sue parole mi colpirono, ma allo stesso tempo accesero la mia curiosità. Dovevo conoscere Evelyn, dovevo scoprire il segreto di quella musica.

Fu qualche sera dopo che finalmente la vidi. Era al tramonto, e il cielo era dipinto di sfumature di rosso e arancio. Evelyn stava nel cortile del suo casolare, con il violino appoggiato alla spalla. Era una figura esile, avvolta in un abito chiaro che sembrava catturare la luce morente del sole. Non vidi il suo volto, ma le sue mani si muovevano con una grazia che mi tolse il respiro.

Quando iniziò a suonare, mi nascosi tra le ombre di un albero vicino, incapace di farmi avanti. La melodia che scaturì dal suo violino era ancora più intensa di quanto ricordassi, e per un istante mi sembrò che il tempo stesso si fermasse. Era come se il mondo intorno a me fosse stato sospeso, come se ogni cosa—gli alberi, le pietre, persino l’aria—stesse trattenendo il respiro per ascoltare.

Non so per quanto rimasi lì, ma quando finalmente smise di suonare, mi accorsi che ero in ginocchio, con le mani affondate nella terra. Evelyn si voltò leggermente, come se avesse percepito la mia presenza, ma non fece alcun movimento per avvicinarsi. Poi, con un gesto fluido, rientrò nel casolare, lasciandomi solo con il mio battito cardiaco accelerato e una sensazione di vuoto che non riuscivo a spiegare.

Nei giorni successivi, cercai di avvicinarmi a Evelyn in diverse occasioni, ma era come se il destino stesso cospirasse per tenerci separati. Ogni volta che mi avvicinavo al casolare, qualcosa accadeva per distogliermi: un temporale improvviso, un senso di nausea inspiegabile, o semplicemente un terrore irrazionale che mi bloccava i piedi. Eppure, non potevo smettere di pensarci.

Quella musica mi stava cambiando. Avevo iniziato a sognare visioni di luoghi che non avevo mai visto, di cieli attraversati da stelle fredde e lontane, di creature che sembravano osservare il mio passaggio con occhi che bruciavano di intelligenza aliena. Ogni mattina mi svegliavo con una sensazione di perdita, come se fossi stato strappato via da qualcosa di immenso e incomprensibile.

Non sapevo ancora cosa Evelyn e il suo violino rappresentassero, ma una cosa era certa: quella musica non apparteneva a questa terra, e io stavo per scoprire, nel bene o nel male, il perché.

Non passò molto tempo prima che riuscissi finalmente a ottenere un incontro con Evelyn. Fu un incontro casuale solo in apparenza, eppure sospettavo che lei sapesse più di quanto lasciasse intendere. La mia ossessione per quella musica era ormai manifesta nei miei sguardi, nei miei movimenti, persino nelle mie parole, che si spezzavano quando provavo a parlare con chiunque altro. Quando finalmente le rivolsi parola, non ricordo con esattezza cosa dissi: le parole mi sgorgarono come un torrente disordinato, piene di ammirazione per la sua musica e del desiderio, a malapena nascosto, di conoscerla meglio.

Evelyn, per tutta risposta, mi osservò con occhi che non avevo mai visto su un volto umano. Erano occhi chiari, ma profondi, come laghi su cui si riflettono stelle antiche. Per un lungo momento rimase in silenzio, il volto immobile come se stesse ponderando la mia anima. Poi sorrise, un sorriso sottile, e mi invitò a seguirla al suo casolare.

La casa, che avevo osservato da lontano con timore reverenziale, era ancora più inquietante da vicino. Le pareti erano di pietra scura, coperte da muschio e rampicanti, ma non era questo a colpire la mia immaginazione. C’era un’aura di antichità che superava la semplice vecchiezza fisica: sembrava che l’edificio fosse un sopravvissuto di un’epoca dimenticata, un relitto che avrebbe dovuto essere spazzato via dal tempo ma che, per qualche ragione innominabile, si era ostinatamente rifiutato di morire.

Evelyn aprì la porta senza esitazione, ed entrammo in un’atmosfera che sembrava gravata da un peso invisibile. L’interno era un miscuglio di ordine e caos: libri dalle rilegature consunte erano ammucchiati su ogni superficie, candelabri anneriti dal tempo illuminavano appena la stanza, e il legno scricchiolava sotto i nostri passi come se protestasse contro la mia intrusione.

E poi lo vidi: il violino.

Era poggiato su un tavolo al centro della stanza, come un re sul trono. L’aria intorno a esso sembrava più densa, quasi palpabile, e ogni fibra del mio essere mi diceva di non avvicinarmi. Eppure non potevo distogliere lo sguardo. Non era un violino normale; la sua forma era simile a quella di qualsiasi altro strumento, ma il legno da cui era ricavato sembrava… vivo. Le sue venature non erano linee statiche, bensì flussi in movimento, che pulsavano come arterie sotto pelle.

“È magnifico, vero?” disse Evelyn, con una voce che era un sussurro e un incantesimo insieme.

“Da dove proviene?” chiesi, il timbro della mia voce strozzato dalla tensione.

Lei si sedette accanto al tavolo, accarezzando lo strumento con dita delicate. “È stato trovato in cima ad uno di questi monti,” disse, guardandomi di sfuggita. “Un luogo che i vecchi chiamano maledetto.”

Mi sedetti, o forse caddi su una sedia vicina. Le sue parole avevano risvegliato qualcosa in me, un ricordo confuso di racconti sentiti alla locanda, mormorati come avvertimenti a mezza voce.

“Uno di questi monti…” ripetei. “Perché maledetto?”

Evelyn sorrise ancora, ma questa volta il suo sorriso era freddo, come una lama di ghiaccio. “Molto tempo fa, prima ancora che questa terra avesse un nome, quel monte era sacro. Si dice che un albero cresceva sulla sua sommità, un albero antico e unico, con radici che penetravano più a fondo di qualsiasi altra pianta, fino a toccare ciò che sta sotto.”

“Cosa sta sotto?” chiesi, anche se il mio istinto mi diceva che non volevo saperlo.

“Non lo sappiamo,” rispose Evelyn, le sue dita sempre impegnate a tracciare motivi invisibili sul legno del violino. “Ma si racconta che l’albero fosse venerato da antiche genti. Si raccoglievano lì durante certi allineamenti astrali, suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue perdute. Quando l’albero fu abbattuto, un fulmine squarciò il cielo, e il legno si trasformò in qualcosa di… diverso.”

Ero impressionato, turbato da quel racconto, ma la domanda mi uscì da sola dalle labbra: “E il violino?”

“Fu intagliato dai resti di quell’albero,” disse Evelyn, il suo sguardo ora fisso su di me. “Chi lo suona… non può fare a meno di sentire ciò che l’albero sentiva.”

“E cosa sentiva?” domandai, anche se già temeva la risposta.

“Le voci,” disse lei, il tono così basso che quasi non lo sentii. “Le voci di ciò che è sotto.”

Cercai di guardare il violino con occhi più razionali, come se potessi smontare l’incantesimo che sembrava avvolgerlo. Ma ogni volta che lo osservavo, il legno sembrava mutare, le venature si spostavano, creando figure che non riuscivo a comprendere. Per un momento, mi sembrò di vedere un volto, o qualcosa che poteva vagamente somigliargli, emergere dalle profondità del legno. Distolsi lo sguardo, ero terrorizzato.

“Evelyn,” balbettai, “perché lo suoni?”

Lei rise, una risata che non aveva nulla di umano. “Non ho scelta,” disse. “Il violino vuole essere suonato. E più suono, più mi avvicino a ciò che esso vuole che io veda.”

“E cosa vedi?” chiesi, le mie parole quasi soffocate dal terrore.

“Non posso descriverlo,” rispose. “Ci sono luoghi, Lorenzo, che non appartengono alla nostra comprensione. Eppure esistono. Il violino… il violino è una chiave.”

Non sapevo cosa rispondere. Le sue parole erano come un veleno nella mia mente, contaminando ogni pensiero razionale. Sentivo un irresistibile desiderio di fuggire da quella casa, di abbandonare quel borgo e tutto ciò che riguardava Evelyn e la sua musica. Eppure, allo stesso tempo, sapevo che non potevo andarmene.

C’era qualcosa di seducente nel suo sguardo, qualcosa che mi chiamava. E poi c’era la musica. Anche solo la possibilità di ascoltarla di nuovo mi teneva prigioniero.

“Vieni con me,” disse Evelyn, alzandosi in piedi e afferrando il violino con una delicatezza quasi amorosa.

“Dove?” chiesi, la mia voce tremante.

“Al Monte maledetto,” rispose. “Devo mostrarti dove tutto ha avuto inizio.”

Non seppi dirle di no. Forse era la sua presenza magnetica, forse era la curiosità morbosa che mi aveva avvelenato l’anima, ma accettai. Mentre uscivamo dal casolare e ci dirigevamo verso la collina maledetta, non potevo fare a meno di sentire che stavo attraversando una soglia invisibile, oltre la quale nulla sarebbe stato più lo stesso.

Il Monte maledetto ci attendeva, la sua cima avvolta in una foschia irreale che sembrava danzare al ritmo di una melodia lontana, udibile solo nei recessi più oscuri della mia mente. Evelyn avanzava sicura, il violino stretto al petto, e io la seguivo, consapevole che, qualunque cosa avremmo trovato lassù, avrebbe cambiato per sempre il mio destino.

Il sentiero che conduceva alla sommità del Monte Maledetto era poco più di una traccia tortuosa e dimenticata, nascosta tra i vigneti e il fitto sottobosco che pareva nutrirsi di ogni frammento di luce. Camminavo dietro Evelyn, osservando il violino che portava stretto al petto come un reliquiario, il mio respiro che si faceva più affannoso a ogni passo. La collina sembrava crescere sotto i nostri piedi, come se il terreno si espandesse in un abisso senza fondo, e un’oscurità innaturale avvolgeva il nostro cammino, pur essendo ancora pieno giorno.

“Ti senti il peso?” chiese Evelyn, voltandosi appena per fissarmi con quegli occhi che erano troppo profondi per essere del tutto umani.

Annuii, incapace di rispondere. Sentivo il peso, ma non era quello della salita. Era un’energia strisciante, una pressione che mi schiacciava dall’interno, come se un’invisibile mano avesse afferrato la mia anima e la stesse stringendo sempre più forte.

Quando raggiungemmo finalmente la sommità del monte, il panorama si aprì davanti a noi come un anfiteatro dimenticato dagli dei. Un vento gelido spirava nonostante la stagione estiva, portando con sé odori metallici e terrosi che non appartenevano a quella regione. Al centro della radura spiccava una vasta depressione circolare, coperta da muschio e pietre nere come la pece. Evelyn si fermò sul bordo di quella voragine, poggiando una mano sulla sua superficie come se accarezzasse un animale dormiente.

“Qui sorgeva l’albero,” disse, la sua voce appena un sussurro.

Feci un passo avanti, avvicinandomi con esitazione. Le pietre intorno alla depressione non erano disposte a caso: formavano un cerchio quasi perfetto, interrotto da simboli incisi che sembravano non appartenere ad alcuna lingua conosciuta. Mi inginocchiai per osservarli da vicino, e fui sopraffatto da una sensazione di vertigine. Le linee dei simboli sembravano muoversi, distorcersi sotto i miei occhi, e un’eco di parole lontane sembrava risuonare nella mia mente.

“Che cosa sono questi segni?” chiesi, alzando lo sguardo verso Evelyn.

“Non lo sappiamo,” rispose lei. “Sono antichi. Più antichi di qualsiasi lingua umana. Qualunque cosa sia stata scritta qui, non era destinata a noi.”

Quelle parole mi fecero rabbrividire, ma non avevo tempo per il timore. Evelyn, con movimenti aggraziati ma decisi, posizionò il violino sotto il mento e alzò l’archetto. Quando iniziò a suonare, il mondo cambiò.

La prima nota sembrò aprire una ferita nell’aria stessa. Era una vibrazione che andava oltre l’udito, che si insinuava nelle ossa e si mescolava con il battito del cuore. Il vento che spirava sulla collina si arrestò di colpo, come se la natura trattenesse il respiro. La luce del giorno si affievolì, non per il calare del sole, ma come se il cielo stesso stesse oscurandosi da dentro.

La melodia che Evelyn suonava era impossibile da descrivere. Era insieme magnifica e terrificante, e ogni nota sembrava evocare immagini che non appartenevano al mondo conosciuto. Inizialmente vidi solo ombre, vaghe forme che si agitavano ai margini della mia percezione. Ma con il progredire della musica, quelle ombre si fecero più nitide.

Mi ritrovai a scrutare un paesaggio alieno, un’immensa distesa che si estendeva sotto un cielo brulicante di stelle mai viste. Montagne nere come il carbone si ergevano verso un firmamento in cui danzavano luci sconosciute, e in lontananza si scorgevano città ciclopiche, costruite con angoli e proporzioni che sfidavano ogni logica umana. Quella visione era insieme maestosa e opprimente, un panorama che sembrava fatto per occhi più grandi, per menti più vaste delle nostre.

Poi li vidi.

All’inizio erano solo macchie di movimento sullo sfondo, sagome che ondeggiavano come fumo o liquido. Ma mentre la musica si intensificava, quelle forme si avvicinarono. Erano creature gigantesche, con corpi che cambiavano costantemente forma, come se fossero fatte di un materiale plasmabile, una sostanza che non esiste sulla Terra. Tentacoli, arti, e sporgenze innaturali si contorcevano come in una danza macabra, e dove avrebbero dovuto esserci occhi c’erano spirali di luce che sembravano osservare ogni cosa, penetrando nella mia mente.

Urlai, o almeno tentai di farlo, ma nessun suono uscì dalla mia gola. Evelyn continuava a suonare, i suoi occhi chiusi come in trance, e io ero intrappolato in quella visione che mi risucchiava come un vortice.

Le creature avanzavano, e nonostante la loro forma in continuo mutamento, c’era una terribile consapevolezza nei loro movimenti. Sapevano di noi. Ci vedevano. Una delle creature si fermò e inclinò quella che poteva essere una testa, come se stesse osservando Evelyn con interesse. Poi qualcosa accadde.

Il violino emise una nota acuta, un grido che sembrava spaccare l’aria stessa, e la creatura rispose. Non con un suono, ma con un’ondata di energia che mi colpì come un muro invisibile. Mi sentii cadere, e la visione svanì di colpo.

Quando riaprii gli occhi, ero sdraiato sul terreno freddo della collina. Evelyn stava in piedi sopra di me, il violino ancora stretto in mano, ma il suo volto era cambiato. Sembrava più pallida, e le sue iridi erano di un colore che non riuscivo a definire, qualcosa tra l’argento e l’oro.

“Cosa… cosa sono quelle cose?” balbettai, sentendo la mia voce tremare come quella di un bambino spaventato.

“Non lo so,” rispose Evelyn, la sua voce distante. “Ma so che ci stanno aspettando.”

“Perché le chiami?” chiesi, disperato. “Perché continui a suonare?”

Lei mi guardò, e nei suoi occhi vidi una profondità spaventosa, orribile. “Perché non abbiamo scelta,” disse. “La musica è già stata scritta. Io sono solo lo strumento.”

Non ebbi modo di rispondere. L’aria sulla collina si fece pesante, e un rombo profondo cominciò a risuonare dal sottosuolo, un suono che non poteva essere naturale. Evelyn mi prese per il braccio, stringendo con una forza sorprendente per la sua esile figura.

“Dobbiamo andare,” disse. “Prima che sia troppo tardi.”

Mi trascinò giù per la collina, mentre il rombo si faceva sempre più forte. Non osai voltarmi, ma sapevo, sapevo con assoluta certezza, che qualcosa ci stava osservando da quella radura. Qualcosa di antico, di immenso, e di terribilmente affamato.

Tornato al borgo, scoprii che il mondo non era più lo stesso. O forse ero io a non essere più lo stesso. La collina, con le sue visioni e i suoi segreti innominabili, si era insinuata nella mia anima come una malattia, e non c’era forza umana che potesse estirparla. Evelyn aveva ripreso la sua vita di silenzi e melodie notturne, ma io non trovavo più pace.

Le visioni continuavano a perseguitarmi. Ogni volta che chiudevo gli occhi, rivedevo quei paesaggi impossibili, quelle creature colossali che sembravano osservare il mio essere con un’intelligenza primordiale e fredda. Quando aprivo gli occhi, la realtà intorno a me sembrava sbiadita, come se il mondo intero fosse solo un pallido riflesso di qualcosa di più vasto e terrificante.

Provai a tornare alla mia musica, ma il mio violino, che un tempo mi era così caro, sembrava ora un oggetto estraneo, inutile. Le note che provavo a suonare erano vuote, prive di vita, e ogni melodia che tentavo di comporre si spezzava come una fragile ragnatela al vento. Mi resi conto che il mio cuore non era più nel mio strumento; era rimasto su quella collina, intrappolato nelle note del violino di Evelyn.

Furono i miei sogni a tormentarmi di più. Sognavo spesso di trovarmi di nuovo sulla collina, al cospetto di quelle creature amorfe. Ma nei sogni non ero un semplice osservatore: ero parte di quel mondo alieno, e le cose che vedevo erano troppo orribili per essere descritte. Sognavo cieli striati di colori sconosciuti, città ciclopiche costruite con logiche imperscrutabili, e suoni che non avrebbero mai potuto essere prodotti da alcun essere vivente sulla Terra.

Non osavo parlare di queste cose con nessuno. Sapevo che mi avrebbero preso per pazzo, e forse non avrebbero avuto torto. Persino il locandiere, che inizialmente si era mostrato gentile, iniziò a guardarmi con sospetto, soprattutto quando mi vedeva vagare di notte, come un fantasma, in cerca di una pace che non trovavo mai.

Una sera, esasperato dalla mia stessa impotenza, decisi di affrontare Evelyn. Andai al suo casolare, ignorando il peso che mi gravava sul petto ogni volta che mi avvicinavo a quella casa maledetta. Quando bussai alla porta, il suono sembrò risuonare come un’eco vuota, e per un lungo momento pensai che non mi avrebbe aperto. Ma infine la porta si socchiuse, e il volto di Evelyn apparve nell’ombra.

“Lorenzo,” disse, con quella sua voce che sembrava sempre sul punto di dissolversi. “Perché sei qui?”

“Devo sapere,” risposi, senza riuscire a nascondere il tremore nella mia voce. “Devo sapere cosa stai facendo, cosa sta succedendo. Non posso più vivere così.”

Lei mi fissò per un lungo momento, e nei suoi occhi vidi qualcosa che non riuscivo a decifrare: pietà, forse, o forse un’amara consapevolezza. Senza una parola, si fece da parte e mi fece cenno di entrare.

La casa era più oscura di quanto ricordassi, e l’aria era pesante, come se qualcosa di invisibile la riempisse. Evelyn si sedette accanto al violino, che era posato sul tavolo come un idolo, e mi fece cenno di fare lo stesso.

“Non è troppo tardi,” disse, il suo sguardo fisso sullo strumento. “Puoi ancora andartene. Puoi lasciare questo posto e dimenticare tutto.”

“Non posso,” risposi, e in quel momento capii che era vero. Il violino mi aveva già catturato, e non c’era via di fuga.

Evelyn annuì lentamente. “Allora devi sapere la verità,” disse. “Ma sappi che una volta conosciuta, non potrai più tornare indietro.”

Le sue parole mi fecero rabbrividire, ma non dissi nulla. Evelyn prese il violino e iniziò a suonare.

La musica era diversa da qualsiasi altra che avessi mai sentito. Era più intensa, più terribile, e ogni nota sembrava risuonare direttamente nella mia anima. Le visioni tornarono, più vivide che mai. Vidi il Monte Maledetto come doveva essere stato in passato, con l’albero sacro che si ergeva maestoso sulla sua sommità. Intorno all’albero si raccoglievano figure umane, ma i loro volti erano distorti, e i loro movimenti non avevano nulla di naturale. Suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue che non potevo comprendere, ma che facevano risuonare una parte oscura della mia mente.

Poi vidi ciò che l’albero nascondeva. Le sue radici si estendevano in profondità, attraversando strati di terra e roccia fino a raggiungere qualcosa di vivo. Era una presenza immensa e informe, una coscienza antica che pulsava sotto la superficie della terra, in attesa di essere risvegliata. Le note del violino erano come un richiamo, e quella cosa rispondeva.

Gridai, cercando di interrompere la musica, ma Evelyn continuò a suonare, il suo volto pallido e immobile come una maschera. La visione si fece più intensa, e vidi le creature che avevo già intravisto sulla collina. Stavano emergendo, attraversando una frattura tra i mondi, attirate dalla musica e dal potere dell’albero.

Quando finalmente la musica cessò, mi ritrovai sdraiato sul pavimento della casa, il corpo tremante e sudato. Evelyn si chinò su di me, il suo volto ormai privo di emozioni.

“Capisci ora?” chiese. “Cosa sei tu?” balbettai, sentendo che la mia mente era sull’orlo della follia.

“Io sono come te,” rispose. “Una vittima di questa maledizione. Ma tu puoi ancora scegliere di andartene. Io, invece, appartengo già a loro.”

Non so come trovai la forza di alzarmi e lasciare quella casa. Quando tornai alla locanda, la notte era calata, e il borgo sembrava avvolto in un silenzio innaturale. Non dormii quella notte, né molte altre che seguirono.

Evelyn continuava a suonare, ogni notte, e ogni notte sentivo le sue note attraversare l’oscurità e risuonare nella mia mente. Sapevo che non sarei mai più stato libero. Ma ciò che mi terrorizzava di più era la consapevolezza che un giorno, forse presto, avrei seguito il suo esempio e suonato anche io quella melodia maledetta, per risvegliare ciò che non doveva essere risvegliato.

Non so dire con certezza quanto tempo trascorse dopo la notte in cui Evelyn mi rivelò la verità. I giorni si fusero in un’unica, interminabile attesa, e le notti furono tormentate dal suono della sua musica. Non avevo bisogno di avvicinarmi al suo casolare per ascoltarla: le note sembravano attraversare l’aria, infiltrandosi in ogni angolo del borgo, e poi nella mia mente, risuonando come un’eco che non si sarebbe mai spenta.

Evelyn stava preparando qualcosa; ne ero certo. La sua musica, prima così erratica e imprevedibile, era diventata più strutturata, più decisa. Ogni melodia sembrava costruire su quella precedente, formando un’architettura sonora che non riuscivo a comprendere ma che sapevo condurre a qualcosa di definitivo. Anche gli abitanti del borgo sembravano accorgersi del cambiamento. Li vedevo nei vicoli e nei campi, muoversi come ombre preoccupate, parlottare a bassa voce e lanciare occhiate verso la collina.

Ma il punto di svolta arrivò in una notte che sembrava destinata a non finire mai.

Ero nel mio alloggio alla locanda, incapace di dormire, come al solito. La musica di Evelyn riempiva l’aria, ma quella sera c’era qualcosa di diverso. Era più intensa, più profonda, e ogni nota sembrava risuonare come un colpo di martello su una porta antica. Quando aprii la finestra per cercare di capire cosa stesse succedendo, vidi che il cielo sopra il Monte Maledetto era diverso.

Non era più il cielo che conoscevo. Al posto delle stelle familiari, c’erano luci che si muovevano lentamente, tracciando schemi intricati. Sembravano stelle, ma non lo erano: erano troppo grandi, troppo vicine, e la loro luce era fredda e innaturale. Una nebbia densa e luminosa avvolgeva la collina, e dal cuore di quella foschia emanava una presenza che mi fece gelare il sangue.

Sapevo che dovevo andare lì. Non avevo scelta.

Afferrando il mio violino — per ragioni che non comprendevo del tutto — lasciai la locanda e mi avviai verso la collina. Il villaggio era deserto, o almeno così mi sembrò. Non c’era segno di vita, nessun rumore, solo il mio respiro affannato e il suono della musica che mi guidava, sempre più forte, sempre più inesorabile.

Quando raggiunsi il casolare di Evelyn, trovai la porta spalancata. La casa era vuota, ma l’aria all’interno era carica di energia, come se un fulmine stesse per colpire da un momento all’altro. La musica proveniva dalla collina, e sapevo che lei mi aspettava lì.

Il sentiero verso la sommità del Monte Maledetto, che avevo percorso una volta con tanto timore, era ora un corridoio di luce e ombre che sembravano vive. Ogni passo che facevo era accompagnato da un senso crescente di terrore e anticipazione, come se stessi camminando verso la mia condanna.

Quando finalmente raggiunsi la cima, trovai Evelyn al centro della radura, illuminata dalla luce innaturale che emanava dalla foschia. Suonava il suo violino con una concentrazione feroce, e le note che produceva non erano più musica: erano parole, frasi di una lingua che non avrei mai potuto comprendere ma che sentivo risuonare nei recessi più oscuri della mia anima.

“Evelyn!” gridai, cercando di farmi sentire sopra il tumulto della sua musica.

Lei alzò lo sguardo verso di me, e ciò che vidi nei suoi occhi mi fece vacillare. Non erano più occhi umani. Brillavano di una luce aliena, e dietro di essi c’era qualcosa di vasto, qualcosa di antico, che osservava attraverso di lei.

“È troppo tardi, Lorenzo,” disse, e la sua voce sembrava venire da un altro mondo.

La terra tremò sotto i miei piedi, e dal cerchio di pietre che delimitava la radura cominciarono a emergere delle ombre. Erano contorte, amorfe, eppure terribilmente vive. Erano le stesse creature che avevo visto nelle mie visioni, ma ora erano qui, nel nostro mondo, e la loro presenza era un oltraggio a ogni legge della natura.

Evelyn continuava a suonare, e con ogni nota quelle ombre si facevano più solide, più reali. Mi resi conto che il violino era la chiave, il ponte che stava aprendo la strada tra i mondi. Ero paralizzato dal terrore, incapace di muovermi o di distogliere lo sguardo da ciò che stava accadendo.

Ma poi sentii qualcosa dentro di me, una forza che non sapevo di possedere. Con mani tremanti, sollevai il mio violino e iniziai a suonare. Non sapevo cosa stessi facendo, ma le note che emettevo sembravano entrare in conflitto con quelle di Evelyn, creando un’armonia distorta che fece vacillare le ombre.

Evelyn mi guardò con un’espressione di pura disperazione. “Non capisci!” gridò. “Se interrompi la musica, loro ci distruggeranno entrambi!”

Ma non le diedi ascolto. Continuai a suonare, con tutta la forza e la determinazione che mi restavano. Le ombre si contorcevano, emettendo suoni che non erano di questo mondo, e il terreno sotto di noi cominciò a cedere. Evelyn gridò qualcosa, ma le sue parole furono coperte da un’esplosione di luce e suono che mi travolse.

Quando riaprii gli occhi, mi trovai da solo sulla collina. Il cerchio di pietre era crollato, e la foschia si era dissolta. Non c’era traccia di Evelyn né delle ombre. Solo il mio violino, rotto, giaceva a terra accanto a me.

Non so cosa accadde quella notte, né se il mondo sia mai stato veramente salvo. Ma una cosa è certa: la musica di Evelyn non mi abbandonerà mai. La sento ancora, nei miei sogni, nei miei pensieri, e so che un giorno, forse presto, mi chiamerà di nuovo. E questa volta, non ci sarà nessuno a fermarmi.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

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“Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” (1886) di Robert Louis Stevenson: recensione critica

Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson è un’opera che affonda le radici nelle più profonde angosce della psiche umana, dando vita a un racconto che trascende il semplice mistero gotico per diventare una riflessione inquietante sulla duplicità dell’anima e sulla fragilità dell’identità individuale. Il romanzo si sviluppa attorno alla figura del dottor Henry Jekyll, stimato scienziato e rispettabile gentiluomo londinese, e la sua controparte mostruosa, Edward Hyde, incarnazione di impulsi inconfessabili e violenze primordiali. Ma chi è veramente Hyde? È un’entità distinta da Jekyll o è semplicemente il suo lato oscuro, liberato dalle inibizioni morali della società vittoriana?

Stevenson costruisce una narrazione in cui la scissione tra bene e male non è mai netta, ma sempre più sfumata e inquietante. La trasformazione di Jekyll in Hyde non è un semplice esperimento scientifico, bensì il sintomo di un conflitto interiore insanabile. Il dottore non crea un nuovo essere: dà semplicemente corpo a ciò che ha sempre abitato in lui, permettendogli di esistere senza freni. Hyde non è altro che il Jekyll che si sottrae alle regole della decenza e della moralità, un’identità che si nutre della libertà dal senso di colpa. Il protagonista non è vittima di una scissione accidentale, ma piuttosto il prodotto di una società che impone una rigida separazione tra pubblico e privato, tra ciò che è mostrabile e ciò che deve rimanere nascosto.

Questo conflitto interiore è strettamente legato all’epoca vittoriana, un periodo segnato da un moralismo oppressivo e da una rigida divisione tra rispettabilità e desiderio. La Londra di Stevenson è una città in cui l’apparenza conta più della sostanza, e ogni uomo porta con sé un volto pubblico irreprensibile e un’anima segreta fatta di vizi, ossessioni e pulsioni inconfessabili. La società vittoriana era dominata da una netta separazione tra l’individuo e la sua interiorità, tra l’etica del dovere e le tentazioni dell’istinto. In questo senso, Jekyll incarna perfettamente la figura dell’uomo rispettabile che, nel privato, cede alle proprie debolezze e si crea un alter ego che possa soddisfare i suoi impulsi senza minare la sua posizione sociale. Hyde diventa così la valvola di sfogo di una cultura che impone la repressione come forma di controllo.

Stevenson amplifica il senso di mistero e di tensione attraverso una struttura narrativa volutamente frammentata. Il romanzo è raccontato attraverso lo sguardo di Gabriel John Utterson, un avvocato che indaga sul legame tra Jekyll e Hyde con un approccio razionale, ma che si trova sempre più coinvolto in un enigma che sfugge alla logica. Il lettore scopre la verità in modo graduale, attraverso testimonianze indirette, lettere e documenti che ricostruiscono i fatti in modo sempre più inquietante. Questa scelta narrativa, tipica del romanzo gotico, non solo accresce la suspense, ma riflette anche la difficoltà di afferrare la vera natura dell’uomo: nessuno conosce fino in fondo chi sia davvero Jekyll, neppure lui stesso.

Al centro del dramma si pone anche il ruolo della scienza, che nel romanzo assume una connotazione ambivalente. Da un lato, essa appare come un mezzo per superare i limiti della condizione umana, dall’altro diventa un veicolo di dannazione. Jekyll non si limita a esplorare il lato oscuro della sua personalità: lo crea, lo alimenta, ne diventa dipendente. La sua è un’ossessione che sfida i confini della natura e si scontra con le conseguenze di un’ambizione che travalica ogni etica. Il suo esperimento non è solo la scoperta di una nuova identità, ma la perdita della propria. Hyde non è un mostro esterno, ma la manifestazione di un desiderio di libertà che, una volta liberato, non può più essere controllato.

In questo senso, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è molto più di un racconto dell’orrore: è una profonda esplorazione della condizione umana, una riflessione sulla sottile linea che separa l’individuo dalla sua ombra. Il male non è un’entità separata, ma un elemento insito nell’uomo stesso, un aspetto che può essere contenuto ma mai del tutto cancellato. Stevenson ci costringe a chiederci: se avessimo la possibilità di liberarci dalle restrizioni della morale e della società, chi saremmo veramente?

Se Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è un’indagine sulla duplicità dell’animo umano, è altrettanto vero che questa tensione si riflette nell’ambientazione stessa del romanzo, una Londra gotica e nebbiosa, dominata da contrasti e ombre. Stevenson tratteggia una città che è un labirinto di strade cupe e viuzze secondarie, dove il confine tra rispettabilità e degrado è sottilissimo. I quartieri aristocratici, con le loro case eleganti e le facciate impeccabili, nascondono vicoli oscuri e sporchi, in cui Hyde si muove come un predatore tra i rifiuti e la miseria. Questa Londra è un doppio speculare dei suoi personaggi: di giorno è il volto della civiltà, ma di notte diventa il dominio dell’istinto e della violenza. La nebbia che avvolge la città non è solo un elemento atmosferico, ma un velo che nasconde la verità, amplificando la tensione e il senso di mistero. Come in ogni grande romanzo gotico, il paesaggio diventa un’estensione dell’anima dei protagonisti: Londra è la materializzazione del conflitto interiore di Jekyll, una città che cela i suoi vizi dietro una fragile facciata di ordine.

Questa atmosfera di costante ambiguità è filtrata attraverso gli occhi di Gabriel John Utterson, il rispettabile avvocato che funge da guida del lettore nel dedalo di segreti e sospetti che avvolgono il caso di Jekyll e Hyde. Utterson è il perfetto gentiluomo vittoriano, simbolo della razionalità e del conformismo, un uomo che affronta il mistero con l’ostinazione di chi cerca spiegazioni logiche in un mondo che sembra rifiutarle. La sua posizione di osservatore esterno è fondamentale per la costruzione della suspense: il lettore scopre gli eventi insieme a lui, condividendo il suo sgomento e la sua incredulità. Eppure, Utterson è anche una figura tragica, un uomo che, pur essendo moralmente integro, si dimostra incapace di comprendere fino in fondo la profondità del male. La sua tendenza a minimizzare e a cercare giustificazioni razionali lo rende cieco davanti all’orrore che si consuma sotto i suoi occhi. Il suo ruolo è quello di testimone impotente di una verità che solo alla fine gli verrà svelata, troppo tardi per poter fare qualcosa.

Se il mistero che avvolge Hyde è uno degli elementi più inquietanti del romanzo, è il suo stesso corpo a rivelare la vera natura del personaggio. La trasformazione fisica di Jekyll in Hyde è molto più di una semplice mutazione: è la manifestazione visibile della corruzione morale. Hyde è più basso, più deforme, più animalesco, una figura che incarna il degrado dell’anima. La sua apparenza suscita un senso di repulsione istintiva in chi lo guarda, come se il suo aspetto tradisse qualcosa di profondamente innaturale. Stevenson suggerisce che il male non è solo un’idea astratta, ma qualcosa che si incarna, che prende forma nel corpo stesso. Hyde non è soltanto il riflesso degli istinti più bassi di Jekyll, ma il risultato di una progressiva perdita di controllo: più Jekyll cede al suo alter ego, più Hyde diventa forte, fino a prendere il sopravvento in modo irreversibile. L’orrore non sta solo nella trasformazione, ma nella consapevolezza che il processo è unidirezionale: Jekyll può evocare Hyde con facilità, ma tornare indietro diventa sempre più difficile.

È proprio questa inquietante visione della psiche umana che ha reso Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde una delle opere più influenti della letteratura moderna. Il romanzo ha avuto un impatto straordinario sulla cultura popolare, diventando un paradigma del doppio e della dissociazione mentale. Il concetto di una personalità nascosta, che si manifesta al di fuori del controllo del protagonista, è stato ripreso in innumerevoli adattamenti teatrali e cinematografici, ma anche in opere letterarie successive, dalla psicanalisi freudiana ai thriller moderni. Il nome stesso di Jekyll e Hyde è diventato un’espressione comune per indicare persone dalla doppia natura, un segno della potenza archetipica di questa storia. Il tema della doppia identità ha influenzato non solo il genere gotico, ma anche la letteratura noir, il cinema horror e la narrativa psicologica.

Tutta questa costruzione culmina in un finale che non offre né redenzione né speranza. Jekyll, ormai sopraffatto da Hyde, si rende conto che la sua fine è inevitabile: non può più tornare indietro, perché la sua volontà è stata erosa dall’abitudine al vizio. Il suicidio di Hyde segna la fine della battaglia, ma non è una vittoria: non è Jekyll a sconfiggere il male, bensì il male stesso che, una volta scatenato, si autodistrugge. Il romanzo non offre una lettura moralistica in senso stretto, ma piuttosto una riflessione amara sulla natura umana. Jekyll non è un mostro, ma un uomo che ha osato troppo, che ha creduto di poter dominare le proprie pulsioni e che invece ne è stato travolto. La sua fine può essere letta come un monito contro l’ambizione scientifica, contro la presunzione dell’uomo di poter controllare i meccanismi profondi della psiche e della natura. Ma è anche, più sottilmente, una condanna della debolezza umana: Jekyll soccombe perché non è abbastanza forte da resistere alla tentazione, perché, come ogni uomo, è in fondo attratto dal lato oscuro.

Con Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Stevenson ha scritto non solo un racconto di terrore, ma un’indagine senza tempo sulla fragilità dell’identità e sull’ineluttabilità del male. Il romanzo rimane una delle più profonde esplorazioni letterarie della psiche umana, un’opera che continua a interrogare il lettore con una domanda scomoda e disturbante: fino a che punto siamo davvero padroni di noi stessi?

La seduzione di Artemisia

La bottiglia di Gutturnio sul tavolo era quasi vuota, e la luce tremolante della lampada sembrava emanare un fremito vivo, come se anch’essa partecipasse al torpore innaturale che gravava sull’antica villa. Un gelo anomalo impregnava le stanze, una morsa crudele che sembrava strisciare lungo le pareti scrostate, come dita invisibili che tastassero i confini della mia sanità. Non era un freddo semplice, bensì un respiro latente, il bisbiglio di qualcosa di inimmaginabile che sfiorava i limiti del mio campo visivo.

Mi ero ritirato nel mio angolo prediletto, quella poltrona decrepita accanto alla finestra, con la stoffa logora intrisa di muffa e vecchie esalazioni di tabacco. Da lì, osservavo le colline che circondavano la villa come un anello di guardiani antichi. Di giorno, la loro presenza era scomoda, ma di notte si trasformavano in schiene contorte di bestie dormienti, una barriera tra il conosciuto e l’ignoto.

Quella notte, però, c’era qualcosa di nuovo. Le colline sembravano respirare, chiamarmi con un muto canto di abissi insondabili. Non avevo toccato laudano da settimane, ma le ombre si sfaldavano comunque ai margini del mio sguardo, un riflesso della mia mente stanca o, forse, di qualcosa di molto più oscuro. Con un gesto febbrile, passai una mano tra i capelli umidi e fissai il fondo del bicchiere, come se il liquido ambrato potesse rivelarmi i segreti che mi sfuggivano.

La prima volta che vidi Artemisia fu in sogno, ma non un sogno comune, bensì una visione tanto vivida da incidere nella mia mente come un marchio rovente. Mi trovavo in un campo d’erba secca e tagliente, dove il cielo pulsava di un viola innaturale, un’ombra pestilenziale di livore. Al centro di quel deserto si ergeva lei, una figura avvolta in un’oscura veste che ondeggiava senza vento. I suoi capelli argentei cadevano come un manto di fili sottili e freddi, scintillanti come catene lunari. Quando parlò, non fu con la voce umana, ma con un suono che riverberò nel mio cranio come un’onda impossibile da fermare.

«Riccardo.»

Non c’era dolcezza in quel richiamo, né compassione; solo un comando ineluttabile, un’eco che risuonava nelle profondità più intime della mia anima.

«Devi venire.»

E poi, il terreno si squarciò sotto i miei piedi. Non caddi, ma fui inghiottito da una voragine che sembrava fatta di fame e vuoto. Mi svegliai con un urlo che rimbalzò nei corridoi deserti della villa, un grido che pareva appartenere più a una bestia che a un uomo.

La villa era ormai un guscio vuoto, una carcassa abbandonata alla lenta corruzione del tempo. Una volta grandiosa, con i suoi soffitti alti e la biblioteca ricca, ora era solo un reliquiario di umidità e ombre. Evitavo la biblioteca da sempre, ma quella notte, guidato da una forza che non era la mia, vi entrai. L’odore era soffocante, un miscuglio di carta marcia e un vago sentore di carne decomposta. Camminai tra gli scaffali come un automa, le dita sfiorando i dorsi ammuffiti dei libri, fino a fermarmi davanti a un piccolo tavolo su cui giaceva un diario.

La copertina in pelle, screpolata e rigida, mostrava un simbolo inciso: un cerchio deformato da linee spezzate, come raggi contorti di un sole morente. Le pagine interne sembravano impregnate di oscurità, un inchiostro così nero da sembrare sangue rappreso. Mentre leggevo, una nausea crescente mi assalì.

“Questo luogo è maledetto. Il sangue della nostra famiglia ha nutrito la terra, e ora la terra reclama ciò che è suo.”

Frammenti di rituali blasfemi, invocazioni a divinità innominabili, simboli incomprensibili: tutto conduceva a un altare nascosto tra le colline, “là dove il primo canto del corvo squarcia il silenzio.”

Dopo quella notte, Artemisia non mi lasciò più. Tornava nei miei sogni, cambiando forma ma mantenendo intatta la sua aura spettrale. La sua presenza si insinuava nelle mie giornate, nei sussurri del vento e nelle ombre che sembravano muoversi al limitare del mio sguardo. Sapevo di essere perduto, ma una parte di me si aggrappava a quella follia, come un uomo che abbraccia la tempesta sapendo di non poterla sfuggire.

Quando finalmente vidi Artemisia sulla cima di una collina, immobile come una statua d’avorio, la mia mente si spezzò. Tornai alla villa, incapace di pensare, incapace di dormire. Il diario era ancora lì, e lo riaprii con mani tremanti. L’inchiostro sembrava brillare di una luce oscura, pulsante. Era una mappa verso la rovina, eppure non potevo distogliere lo sguardo.

Le colline, con il loro silenzioso richiamo, erano ormai inevitabili. Artemisia mi attendeva, e io, come uno strumento docile, rispondevo al suo richiamo. Nella notte gelida, con il cuore stretto dalla paura e dalla devozione, mi preparai a seguire il sentiero verso l’altare. Verso l’ignoto. Verso lei.

Quando le prime luci del giorno tinsero il cielo di un grigiore spettrale, sentii dentro di me un’unica certezza: avrei trovato quell’altare, o il mio corpo avrebbe marcito sulle colline che mi chiamavano.

Ritornai alla biblioteca della villa, che sembrava essersi fatta più ostile. L’odore, un tempo sopportabile, era diventato un miasma soffocante, un sentore di putrefazione antica e disperazione. Forse era solo una proiezione della mia anima. Non mi importava. Mi gettai con febbrile determinazione tra i libri ammuffiti e i documenti sparsi come ossa spolpate dal tempo.

Trovarlo fu sorprendentemente semplice. Una mappa, sepolta tra le pagine ingiallite di un vecchio registro, si rivelò come un segreto troppo a lungo celato. Le colline erano delineate con mano insicura, ma i simboli tracciati sopra erano inequivocabili. Una stella rossa marcava un punto specifico, un fulcro attorno al quale sembrava ruotare l’intera mappa. Mi persi a fissare quel disegno, come se un incantesimo legasse il mio sguardo ai segreti che conteneva.

Le mani mi tremavano mentre ripiegavo la carta con una cura ossessiva, infilandomela nella tasca del cappotto.

Quella notte fu priva di sogni. Artemisia non venne. Non c’era alcuna visione, alcun bisbiglio. Solo un silenzio così profondo che sembrava gravare sul mio petto, rendendo ogni respiro una sfida. L’universo tratteneva il fiato, come se fosse in attesa del passo fatale.

All’alba, con il diario sotto il braccio e la mappa salda nella mente, mi incamminai verso le colline. Quando il primo canto rauco di un corvo lacerò il silenzio del mattino, sentii un brivido, come se l’aria stessa si fosse caricata di un’oscura aspettativa.

Le colline erano sempre state lì, indifferenti e immobili, come guardiani silenziosi di segreti che non appartenevano al mondo degli uomini. Ma quel giorno, mentre seguivo il sentiero delineato dalla mappa, sentivo il loro sguardo su di me. Il vento portava con sé un odore dolciastro e nauseabondo, come quello del sangue antico o della carne lasciata a decomporsi sotto un sole impietoso.

Il sentiero era quasi invisibile, una ferita dimenticata nella terra coperta d’erba alta. Ogni passo che facevo sembrava spingermi più lontano dal mondo conosciuto. I suoni familiari del bosco – il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle foglie – si mescolavano con altri rumori più ambigui: uno scricchiolio distante, un battito d’ali che pareva appartenere a una creatura troppo grande per essere reale.

La prima radura che incontrai era un cerchio di erba schiacciata, apparentemente privo di significato. Eppure, il silenzio che lo avvolgeva era innaturale, un vuoto che sembrava assorbire ogni suono e ogni pensiero. Mi inginocchiai per esaminare il terreno e notai segni tracciati con una precisione inquietante, linee sottili che si intrecciavano a formare un simbolo che mi risultava familiare eppure incomprensibile.

«Non toccare.»

La voce giunse come una frustata, facendomi sobbalzare. Mi voltai di scatto e incontrai una figura che sembrava appartenere più a un incubo che alla realtà. Era una vecchia, curva e decrepita, la pelle ridotta a pergamena bruciata. Indossava una sciarpa scura che nascondeva parte del volto, ma i suoi occhi, neri come abissi, brillavano di una luce maligna.

«Non è per te,» disse con un tono che sembrava racchiudere l’autorità di secoli.

«Chi sei?» chiesi, la voce incrinata da un tremito che non riuscivo a mascherare.

«Una vecchia,» rispose con semplicità, «come mi vedi.»

C’era qualcosa di profondamente sbagliato in lei, un’aura di certezza che sfidava ogni logica umana. Lasciò cadere ai miei piedi un piccolo oggetto: un amuleto fatto di legno intrecciato e ciocche di capelli che non avrei voluto esaminare più da vicino.

«Portalo con te,» mormorò. «Non ti proteggerà, ma ti farà comprendere.»

Prima che potessi replicare, si voltò e scomparve tra gli alberi, lasciandomi solo con il suono del mio respiro affannoso e l’amuleto che pulsava debolmente sotto la luce fioca. Lo raccolsi con esitazione e lo infilai in tasca, riprendendo il cammino con una sensazione di oppressione crescente.

Il sentiero si fece più ripido e il terreno mutò, diventando duro e sterile, come se anche la natura stessa avesse abbandonato quel luogo. Quando incontrai la seconda figura, il cuore mi balzò in gola. Era un uomo, o almeno una parodia di un uomo: alto e magro, con una barba selvaggia e capelli intrecciati di radici.

«Ti aspettavo,» disse, la voce un sussurro che sembrava emergere dal terreno stesso.

«Non credo.»

Rise, ma il suono era alieno, un sussurro corrotto. «Stai cercando l’altare,» proseguì.

«Come lo sai?» chiesi, cercando di mascherare la mia inquietudine.

«Non è difficile.» I suoi occhi affondati sembravano trapassarmi, leggendo ogni mio pensiero. «Tutti cercano qualcosa, ma nessuno torna con ciò che sperava.»

«Non posso tornare indietro.»

Lui annuì, come se avesse previsto quella risposta. «Lo so. Buona fortuna. Non servirà.»

Proseguì e si dissolse nel nulla, lasciandomi solo con l’oscurità che calava.

Quando raggiunsi l’ultima radura, il sole stava tramontando, e l’aria si era fatta gelida. Gli alberi si piegavano verso il centro del cerchio, come se tentassero di celarlo. Al centro si ergevano pietre antiche, disposte in un disegno che sembrava sfidare ogni geometria razionale. L’altare era lì, e con esso l’inizio della fine.

Mi avvicinai con cautela, il diario stretto tra le mani tremanti, cercando disperatamente di intrecciare i segni che ora scorgevo sulle pietre con i criptici simboli che avevo decifrato tra le pagine ingiallite. Quei glifi, scolpiti con una precisione che sfidava il tempo, sembravano pulsare di una vitalità oscura, come se fossero stati tracciati non da mani umane, ma da entità il cui pensiero sfugge alla comprensione mortale. Mi chinai, ogni muscolo teso, e nel momento in cui sfiorai quelle incisioni, il mondo sembrò trattenere il respiro.

Fu allora che udii il suono.

Non era un suono naturale, ma qualcosa di più primordiale e terrificante: un rimbombo basso e profondo, più simile a una vibrazione che a un rumore. Penetrò nelle ossa, scuotendo ogni fibra del mio essere. Mi resi conto, con un terrore strisciante, che proveniva dal terreno sotto di me. Mi ritrassi, alzandomi di scatto, il respiro spezzato e gli occhi febbrili che scrutavano il buio circostante.

«Sei vicino.»

La voce era quella di Artemisia, chiara come un campanello d’argento, eppure nessuna figura si scorgeva intorno a me. Mi voltai, il cuore martellante, ma trovai solo le ombre degli alberi, più lunghe, più distorte, come se seguissero geometrie aliene. Mi immersi nel sentiero con passo incerto, il diario stretto come un talismano contro il buio che sembrava avvolgermi, stringermi. Non sapevo dove stessi andando, ma sentivo che le colline mi chiamavano, che ogni passo risuonava di un destino già scritto.

Infine, giunsi a un punto in cui il sentiero si interruppe bruscamente. Davanti a me si spalancava una scalinata scavata nella roccia, scendendo nell’abisso. Un gelo senza nome mi avvolse, ma sapevo di non poter tornare indietro. Presi un respiro profondo e iniziai a discendere.

Fu allora che la pioggia cominciò.

Sottile, quasi impercettibile, sembrava cadere senza peso né suono, come un sudario trasparente calato sul mondo. Era iniziata mentre scendevo i gradini, ma non cessò nemmeno quando cercai rifugio sotto le radici contorte di un albero il cui tronco sembrava piegarsi in un’agonia silente. Non era una pioggia ordinaria. Era come se il cielo stesso trasudasse la sostanza dei sogni più nefasti, un’acqua che non bagnava ma penetrava, insinuandosi fino all’anima.

Il terreno sotto i miei piedi sembrava cedere, o forse ero io a scivolare su qualcosa d’invisibile. Mi pareva di muovermi in cerchio, anche se ogni curva del sentiero rivelava un nuovo orrore. Sopra di me, il cielo era una distesa grigia e uniforme, come un’immensa tela logora che nascondeva qualcosa di vivo, qualcosa che si muoveva appena oltre il velo.

Fu in quel momento che scorsi la figura.

All’inizio, la confusi con una roccia o un albero contorto. Era piegata in un’angolazione innaturale, un’essenza che sfuggiva alla definizione. Quando mi avvicinai, i suoi contorni sembrarono mutare, come se la realtà stessa si piegasse intorno a lei. «Chi sei?» balbettai, ma la mia voce si spezzò nel nulla. La figura non rispose, ma la testa – o ciò che presi per tale – si voltò leggermente. Mi fissò con occhi che non erano occhi, ma pozzi neri e insondabili. Poi, con un orrore strisciante, semplicemente svanì, come se non fosse mai stata lì.

Avanzando, mi accorsi che il mondo attorno a me si deformava. Le ombre si allungavano in modo impossibile, e gli alberi, vivi in un modo che sfidava la natura, sembravano protendersi verso di me con rami scheletrici, come arti ossuti di qualche essere affamato.

E Artemisia era ovunque.

La sua voce mi giungeva in sussurri persistenti, ora dolci come il miele, ora taglienti come lame. «Non fermarti, Riccardo.» Era un comando che mi trascinava avanti, anche quando il mio stesso istinto mi supplicava di fermarmi. La vidi più volte, o credetti di vederla, sempre ai margini della mia visione. Era una figura oscura, con capelli argentati che ondeggiavano come se danzassero in un vento invisibile.

Quando giunsi alla capanna, pensai, per un attimo, di essere arrivato alla fine. Era una costruzione angusta, eretta con legno annerito e avvolta da un’aura di rovina. All’interno, non c’era nulla se non un tavolo e una sedia, e il silenzio pesava come piombo.

«Aspetti qualcuno?» La voce mi fece sobbalzare. Mi voltai, trovandomi davanti a un uomo che sembrava scolpito nella stessa sostanza dei miei incubi. Era magro, con occhi troppo grandi e un sorriso che rivelava denti neri e scheggiati.

«Chi sei?» domandai, la mia voce ridotta a un filo.

Lui sorrise, un’espressione che sembrava contorcersi in un modo disumano. «Non importa chi sono. Importa cosa stai cercando.»

E allora capii, con un orrore che sfidava la ragione, che ciò che cercavo non era altro che il principio di una fine che non avrei potuto comprendere, né tantomeno fermare.

Quella notte, trovai un’altra radura, diversa da tutte le altre che avevo attraversato nel mio cammino tormentato. Era come se il bosco stesso l’avesse celata agli occhi degli estranei, un luogo che non avrebbe dovuto esistere. Al centro della radura, eretta come un’antica sentinella dimenticata, sorgeva una pietra alta e sottile, coperta di simboli incisi. Quei segni non appartenevano a nessun alfabeto terrestre; avevano una qualità al contempo aliena e primordiale, come se contenessero il linguaggio delle stelle o il mormorio degli abissi insondabili.

Mi inginocchiai, spinto da una forza che non riuscivo a controllare, e avvicinai il viso alla superficie scabra della pietra. Più li osservavo, più quei simboli sembravano sfuggirmi, muovendosi in un modo che sfidava la logica. Linee che mutavano forma, curve che si torcevano su sé stesse come per beffarsi della mia percezione.

Poi, la pietra parlò.

Non usò parole come le intendiamo noi, ma un coro di suoni che si insinuarono nella mia mente come dita gelide. Era una melodia dissonante, un rumore che non proveniva dalle mie orecchie ma dalla mia stessa coscienza. Le mani mi corsero istintivamente alle orecchie per bloccare quell’orrore, ma fu inutile. Il suono continuava, penetrante, insidioso, fino a far vibrare ogni pensiero nella mia testa.

«Non puoi scappare.»

La voce di Artemisia. O almeno così mi sembrava. Non sapevo più distinguere la realtà dalla follia. Mi alzai vacillando, il cuore martellante e il respiro spezzato, e in quell’istante mi accorsi che la pietra era sparita. Al suo posto, il terreno era coperto da una pozzanghera scura, una macchia liquida che rifletteva la luce in un modo innaturale. Mi chinai per guardare, e ciò che vidi mi fece gelare il sangue.

Era il mio volto, ma non era il mio volto. L’immagine riflessa era più vecchia, scavata, con occhi spenti che tradivano un’esistenza divorata dalla disperazione. «Chi sei?» sussurrai, ma il riflesso non rispose. Rimase lì, immobile, osservandomi con una fissità che mi fece dubitare di ogni cosa.

Ripresi a camminare, spinto da una forza che non potevo combattere. Sentivo che mi stavo avvicinando a qualcosa, anche se non sapevo cosa. Ogni passo mi avvolgeva in un buio più profondo, un’oscurità che sembrava strisciare dentro di me, corrodendo ciò che restava della mia sanità. Non volevo ammetterlo, ma sapevo che le colline mi stavano cambiando. O forse stavano solo rivelando la mia vera natura.

Il tempo perse significato. Potevano essere passati giorni o ore; la mia mente era un vortice di frammenti sconnessi, intrappolata in un ciclo di paura e confusione. Mi trovai infine davanti a un’apertura nel bosco, una radura che sembrava essere comparsa dal nulla. Non c’era stato alcun avvertimento, nessun segnale del cambiamento. Il silenzio che vi regnava era così assoluto da risultare opprimente, come se l’intero mondo avesse smesso di respirare.

Al centro della radura, giaceva l’altare.

Era una lastra di pietra scura, screpolata dal tempo ma non indebolita, come una reliquia di una civiltà dimenticata. Simboli erano incisi attorno ad essa, tracciati nel terreno con una precisione così perfetta da sembrare il lavoro di mani divine o infernali. La luce non proveniva dal cielo – un cielo grigio e immutabile, privo di sole o stelle – ma dall’altare stesso. Un bagliore tenue, inquietante, come un riflesso di qualcosa che bruciava in un’altra dimensione.

Mi avvicinai, i piedi affondando nella terra molle. Ogni passo sembrava un atto di volontà impossibile, come se l’aria stessa mi trattenesse. Quando fui di fronte all’altare, riconobbi i simboli incisi sulla sua superficie. Erano gli stessi del diario, gli stessi che avevo visto nelle mie visioni. Linee e curve che sfidavano ogni principio della geometria terrena.

E poi sentii la sua voce.

«Finalmente.»

Mi voltai di scatto, e la vidi. Artemisia era lì, reale come non lo era mai stata. La sua figura era avvolta in una veste nera che si muoveva come fumo nell’aria immobile. I suoi capelli, lunghi e argentati, scintillavano come fili di luna, e i suoi occhi – due abissi insondabili – mi catturavano, obbligandomi a fissarli.

«Sei arrivato,» disse, con un sorriso che trasudava una sinistra combinazione di sollievo e predazione.

«Sei reale?» chiesi, la mia voce incrinata.

Lei inclinò la testa, un movimento che sembrava al contempo affascinante e spaventoso. «Più reale di quanto tu sia mai stato.»

Mi voltai verso l’altare, il suo bagliore che sembrava attirarmi e respingermi allo stesso tempo. Artemisia avanzò fino a posare le mani sulla pietra. «Questo è il cuore di tutto,» disse, la sua voce come un sussurro che scivolava dentro di me. «Qui inizia e finisce il tormento della tua famiglia.»

Non potevo distogliere lo sguardo. Le sue parole pesavano sulla mia mente come catene, e sapevo che non c’era via di fuga. L’altare pulsava sotto le sue mani, vivo, affamato. Non ero più certo di cosa fossi disposto a sacrificare, ma sentivo che la scelta mi avrebbe consumato per sempre.

Mi sollevai con la lentezza di un’anima gravata da innumerevoli eoni di tormento. Ogni fibra del mio essere pareva intrisa di un’inerzia innaturale, e il silenzio attorno a me non era semplice assenza di suono, ma un’entità tangibile, pulsante, che mi soffocava con il suo peso opprimente. L’aria nella radura era densa, quasi viscida; respirarla era come ingerire un veleno invisibile, un’essenza corrotta che s’insinuava nei polmoni e nel sangue.

Attorno all’altare si addensava un’atmosfera arcana, un’energia indescrivibile che permeava la terra sotto i miei piedi. Il suolo vibrava impercettibilmente, un ritmo lento e sinistro che sembrava risuonare con il battito del mio cuore. Sapevo, senza più alcun dubbio, che l’altare non era una costruzione morta: respirava, pulsava, viveva. O, peggio ancora, ospitava una presenza che non avrebbe dovuto esistere.

Il diario tremava nelle mie mani, le sue pagine ingiallite e lise animate da un movimento che non apparteneva a questo mondo. Le parole incise in quell’inchiostro scuro, che sembrava quasi sanguinare dalla carta, si stagliavano con una nitidezza inquietante, come se implorassero di essere lette. Non era la prima volta che scorrevo quelle righe, ma ora esse sembravano gravide di un significato che andava oltre la comprensione umana. Erano più che istruzioni: erano un comando, una legge ineluttabile.

Il rituale, nella sua crudele semplicità, chiedeva solo ciò che ogni anima teme: sangue, terra, volontà. Non c’erano formule ornate né reliquie sacre; solo carne e spirito, offerti senza riserve. Tirai fuori il coltello che avevo portato con me, un oggetto ordinario che, nella sua banale freddezza, ora sembrava emanare un’aura minacciosa. Il metallo ghiacciato contro la mia pelle era una realtà insopportabilmente tangibile, un contrasto crudele con il mondo che stava lentamente dissolvendosi attorno a me.

Esitai per un istante, il tempo di un respiro che parve un’eternità. Poi premetti la lama contro il palmo della mia mano. La carne cedette con un dolore acuto e bruciante, e il sangue sgorgò con una vividezza che sembrava sfidare la notte stessa. Ogni goccia che colpiva la pietra dell’altare si raccoglieva in minuscole pozze che parevano muoversi da sole, spingendosi verso le incisioni che ora brillavano con un’intensità crescente.

Un ronzio basso e profondo iniziò a risuonare, un suono che non proveniva da alcuna fonte visibile, ma che sembrava emergere dall’interno della terra e delle stelle stesse. Poi, con un lampo che non era né luce né tenebra, venne la visione.

Mi ritrovai in una distesa di terra sterile, oscura come la pece. Intorno a me, alberi scheletrici si ergevano come monumenti funebri deformi, le loro radici contorte protese verso un cielo innaturale. Era un cielo vivo, un vortice pulsante di rosso e nero, che respirava e gemeva come una creatura ferita. Nell’oscurità lontana, sagome si muovevano con andature innaturali, i loro corpi spezzati in forme che sfidavano ogni legge della fisica. Sebbene non avessero occhi, sentivo il peso del loro sguardo su di me, un’attenzione divorante che trascendeva la carne.

E allora apparve Artemisia.

Non era più la donna che conoscevo, ma qualcosa di infinitamente più grande e terribile. La sua figura, avvolta in un manto di ombre vorticanti, torreggiava su di me, e i suoi occhi erano pozzi di luce bruciante, due soli neri che trapassavano la mia anima. Ogni passo che compiva risuonava come il rintocco di un giudizio cosmico.

«Riccardo,» pronunciò il mio nome con una voce che era un sussurro e un grido al contempo, echeggiando nelle profondità della mia mente.

«Cosa sta accadendo?» balbettai, ma le parole mi uscirono come un lamento spezzato.

«Questo è ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà,» rispose lei. «Tu sei parte di tutto questo.»

La visione mutò con la violenza di un fulmine. Ora mi trovavo nella villa, ma non in quello stato di decadimento che conoscevo. Le stanze brillavano di una luce impossibile, le pareti ornate di quadri che parevano fissarmi con occhi vivi. Uomini e donne in abiti eleganti danzavano al ritmo di una musica che si insinuava nel mio spirito, dolce e perversa.

Poi la luce svanì, lasciando il posto a un abisso. Le risate si mutarono in urla lancinanti, e le figure eleganti si contorsero in forme grottesche, mentre il sangue colava dai muri come una piaga biblica. Cercai di fuggire, ma ogni porta conduceva a un’altra stanza identica, in un incubo di specchi e illusioni.

Alla fine mi ritrovai di nuovo davanti all’altare, ma quello che vidi mi fece gelare il sangue. Davanti a me stava una versione più vecchia e spezzata di me stesso, le sue mani sporche di sangue. Artemisia lo osservava, con un sorriso enigmatico che racchiudeva promesse di orrore eterno.

«Ora sai,» disse lei.

E poi, tornai. Il freddo della pietra sotto le mie mani mi svegliò dalla visione, ma sapevo che nulla era finito. Sentivo una presenza attorno a me, un’ombra vasta e infinita che mi scrutava con un’intelligenza inumana.

«Devi decidere,» sussurrò Artemisia, il suo volto emergendo dall’oscurità come un riflesso distorto.

E nel coro di mille voci che si levava dall’altare, compresi che la mia scelta avrebbe sigillato il mio destino e quello del mondo stesso.

Mi osservai le mani, tremanti e macchiate di un’essenza scura che non era sangue. Era qualcosa di più vischioso, una sostanza oleosa e fredda che sembrava pulsare di vita propria. Tentai di strofinarla via, ma era inutile: si aggrappava alla mia pelle come un parassita. Fu allora che lo compresi, in un lampo di orrore che mi lacerò l’anima. L’altare aveva preso ciò che voleva. Ma cosa, in cambio, mi aveva lasciato?

Non c’era trionfo, né catarsi. Quando il rituale si concluse, l’altare era soltanto un blocco di pietra inerte, il terreno sotto i miei piedi un semplice pantano. L’aria, un tempo così pesante e viva, si era ritirata come un’onda che lascia dietro di sé una spiaggia desolata. Rimasi lì, immobile, il suono del mio respiro affannato e il battito irregolare del mio cuore come un metronomo di un incubo ancora in corso.

Guardai di nuovo le mie mani. La sostanza scura si era seccata, formando una crosta fragile che si sgretolava a ogni movimento. Rimasi fermo, aspettando che qualcosa accadesse: un lampo, un segno, qualsiasi cosa che giustificasse l’orrore che avevo affrontato. Ma il nulla mi accolse con il suo silenzio implacabile.

«È tutto qui?» chiesi, la mia voce ridotta a un sussurro roco, rivolgendomi all’altare come a un idolo muto e sordo. Nessuna risposta giunse. Nessuna presenza, nessun sussurro. Artemisia era sparita. Non c’era traccia di lei, né ombra né voce che potesse guidarmi in quel momento di smarrimento.

Mi voltai verso il sentiero, ogni passo un’impresa titanica. La terra pareva trattenere i miei piedi con una forza invisibile, ma sapevo di non poter restare lì. Camminare era l’unico modo per sottrarmi alla follia. Eppure, con ogni passo, la foresta intorno a me si trasformava. Gli alberi, simili a sentinelle contorte, sembravano piegarsi verso di me, le loro ombre deformi allungandosi come artigli sul terreno. Era solo il tramonto, mi dissi, ma non potevo ignorare la sensazione di essere osservato.

Quando raggiunsi una radura, crollai. Il mio corpo, sfinito e scosso fino alle ossa, non poteva sopportare altro. Mi accasciai contro un tronco nodoso, chiudendo gli occhi nella vana speranza di sfuggire a quella realtà. Ma il buio dietro le palpebre non mi portò sollievo. Anche lì, Artemisia mi attendeva. Vedevo il suo volto, il suo sorriso enigmatico, e vedevo me stesso inginocchiato davanti all’altare, mentre il sangue si mescolava alla terra come un tributo profano.

«Non è reale,» mormorai, ma le parole suonarono vuote. E se non lo fosse stato? Se tutto fosse stato solo un inganno, un’illusione creata dalla mia mente? L’altare, Artemisia, le visioni: erano così vivide, così tangibili, eppure ora sembravano sogni in frantumi. Ma i sogni svaniscono. Questo, invece, restava.

Mi passai una mano sul viso, cercando di scacciare il turbine di pensieri che mi tormentava. Le immagini nella mia mente si sovrapponevano, si spezzavano, si ricomponevano in modi che sfidavano ogni logica. La villa, l’altare, la foresta: tutto era intrecciato in un flusso confuso e disturbante che minacciava di trascinarmi via.

«Cosa sta succedendo a me?» La mia voce si spezzò, ridotta a un gemito disperato. Non so quanto tempo rimasi lì, seduto nella radura. Quando finalmente mi alzai, il mondo intorno a me sembrava identico e al tempo stesso irrevocabilmente mutato. Nulla era cambiato – gli alberi erano gli stessi, il cielo ancora grigio – ma percepivo tutto come estraneo, ostile. Come se fossi un intruso in un luogo proibito.

Ripresi a camminare, ma non ero solo. Lo capii dai sussurri che si alzavano nel vento, dal ridacchiare spettrale che si perdeva tra gli alberi. Mi voltavo, ma non c’era nessuno. Poi apparvero le figure.

La prima la intravidi con la coda dell’occhio: un’ombra fugace che svanì prima che potessi metterla a fuoco. Poi un volto emerse tra i rami, un volto senza occhi che mi osservava con una fissità intollerabile. Le sagome si fecero più frequenti, più tangibili. Una forma curva che mi seguiva a distanza, un’altra che si muoveva tra i tronchi come un serpente di fumo.

«Chi siete?» gridai, ma il mio grido si perse nell’abisso silente della foresta. Nessuna risposta, solo il vento che trasportava il suo carico di voci indistinte.

Raggiunsi un torrente e mi inginocchiai per bere, ma l’acqua limpida aveva un retrogusto metallico che mi fece sputare. Mi guardai intorno, cercando un riferimento, ma ogni cosa sembrava uguale: una prigione di ombre e silenzi. Poi mi chinai di nuovo sull’acqua e il gelo mi percorse la schiena.

Il riflesso che mi fissava non era mio. Era un volto familiare, ma consumato dal tempo e dalla follia, scavato da linee profonde e occhi che brillavano di una luce malata. Le labbra del riflesso si mossero, e una voce estranea ruppe il silenzio.

«Non appartieni a questo luogo.»

Balzai indietro, terrorizzato, cadendo nel fango. Quando guardai di nuovo nell’acqua, il riflesso era svanito. Ma le parole, come una maledizione, continuavano a risuonare nella mia mente.

Non appartieni a questo luogo.

Il sussurro, appena percepibile, sembrava provenire dalle profondità stesse della terra, un’eco di qualcosa di antico e dimenticato. Mi ridestai con un sobbalzo, il cuore che batteva come se rispondesse a un richiamo oscuro. Attorno a me, gli alberi s’erano serrati, i rami intrecciandosi sopra il mio capo in una gabbia opprimente. Un gelo innaturale pervadeva l’aria.

«Lasciatemi in pace!» gridai, ma le mie parole sembravano dissolversi prima ancora di infrangere quel silenzio opprimente. E le voci—oh, quelle voci!—continuavano, sussurrando frammenti di un idioma sconosciuto, come se creature invisibili tramassero appena al di là del velo della realtà.

Alla vista della villa, un sollievo effimero mi travolse, un’onda che si spezzò subito contro le rocce della percezione. Era lì, la villa, con le sue mura scrostate e le finestre che sembravano orbite vuote; immutata, eppure… diversa. Più mi avvicinavo, più un’inquietudine primordiale si insinuava nel mio animo. La porta, aperta, mi attendeva come un’ombra spalancata.

L’interno era freddo, glaciale, come se ogni briciola di calore fosse stata divorata da qualcosa di invisibile. Ogni passo rimbombava nei corridoi vuoti, un suono che sembrava risuonare in un’eco senza fine.

«C’è qualcuno?» chiesi, la mia voce debole, quasi soffocata dall’aria densa. Nessuna risposta.

Mi diressi alla biblioteca, quella stanza che aveva custodito il diario. Doveva tornare lì, al suo posto, come se quel gesto potesse riparare una crepa invisibile nel tessuto della realtà.

Quando lo sollevai, un brivido mi attraversò. Il peso… non era giusto. Troppo leggero. Aprii il libro con mani tremanti e trovai… il nulla.

Pagine vuote, bianche come ossa sbiancate dal tempo. Sfogliai con crescente frenesia, un panico muto che mi serrava il petto. Nessun simbolo, nessuna parola, nessun segno che attestasse la sua esistenza. Solo quel vuoto sardonico che pareva sogghignare da ogni foglio immacolato.

«No… non è possibile,» mormorai, la voce un sibilo estraneo anche a me stesso. Gettai il libro sul tavolo, e per un istante lo vidi: nello specchio incrinato accanto alla finestra, un volto. Il mio volto. Eppure… non mio.

La biblioteca sembrava respirare, le ombre animandosi come viscere oscure. Gli scaffali traboccavano di tomi che non ricordavo di aver mai visto, eppure mi erano disturbantemente familiari. In un angolo, lo specchio incrinato continuava a osservarmi con il suo riflesso deformato, come un occhio che non poteva chiudersi.

Chiusi gli occhi, tentando di scacciare i ricordi che cominciavano a sgorgare, viscosi e inarrestabili. Artemisia. Il suo nome era un veleno che scorreva nella mia mente, un’ossessione che mi aveva consumato e spinto oltre il limite.

Ma quando riaprii gli occhi, la biblioteca era vuota, un guscio cavo che echeggiava della mia follia. Oltre le finestre, le colline si stagliavano sotto un cielo plumbeo, guardandomi con indifferenza cosmica.

Un pensiero mi colpì, freddo come una lama. Artemisia non era mai stata reale. Era un’eco, un’illusione che avevo creato per riempire il vuoto che avevo scavato nel mio cuore. Oppure… era reale, e la sua realtà mi era stata strappata, consumata da qualcosa di molto più grande di me.

Mi alzai, i passi lenti, guidati da una volontà che non sentivo più mia. Attraversai i corridoi, le fotografie appese ai muri distorte come in un incubo. Nelle immagini sbiadite, volti che conoscevo e che non conoscevo mi fissavano, i loro occhi pieni di accuse e segreti.

Quando tornai nella biblioteca, la stanza sembrava pulsare. La bottiglia sul tavolo era un richiamo tentatore, ma non bevvi. Non osai. L’aria vibrava, e un rumore sottile mi fece voltare.

Nell’angolo più oscuro, qualcosa si mosse.

Il volto che mi guardava non era il mio, non del tutto. Gli occhi brillavano di un’oscurità insondabile, e il sorriso… oh, quel sorriso! Era l’abisso stesso che mi fissava.

«Non appartieni a questo luogo,» disse la voce, e questa volta, non c’era dubbio. Non era solo una frase. Era una sentenza.

E sapevo che non sarei mai uscito da quel luogo. Da quella villa. Da me stesso.

Mi destai in un letto estraneo, circondato da un ambiente che emanava una sensazione di distacco e freddezza che sembrava permeare fino al mio stesso midollo. L’odore pungente del disinfettante graffiava le narici, sconcertante e innaturale, come se ogni molecola d’aria fosse stata sterilizzata fino a perdere ogni traccia di vita. Le lenzuola erano rigide, quasi abrasive, e il cuscino sotto la mia testa pareva riempito di pietre levigate da mani senza pietà.

Ogni movimento era una sfida. Un dolore sordo e persistente percorreva le ossa, non semplice affaticamento ma un peso che sembrava radicato nel profondo della mia carne, come se qualcosa di innaturale vi si fosse annidato.

La stanza era spoglia, le pareti bianche come un obitorio, illuminate da una luce fredda e impietosa che pareva trarre forza dal nulla. Un ronzio basso, ipnotico, percorreva l’aria, un rumore monotono che poteva appartenere a un condizionatore o a un dispositivo medico nascosto nelle ombre. Dall’eco distante di voci mi giunsero parole indistinte, poi un dialogo:

«È sveglio?»
«Dategli un momento. Ha avuto un episodio intenso.»

Il mio corpo obbedì a fatica quando cercai di sollevarmi. Mi sedetti lentamente, il respiro affannoso mentre cercavo di scacciare la nebbia mentale che sembrava avvolgermi come una seconda pelle. Quando i miei occhi si sollevarono, incontrarono due figure.

Davanti a me stavano una donna, il cui camice bianco contrastava con la sua compostezza professionale, e un uomo alto, dal portamento rigido e severo, avvolto in un completo scuro che sembrava grottescamente fuori luogo in quell’ambiente asettico. Gli occhi della donna erano scrutatori, carichi di qualcosa che oscillava tra la compassione e il distacco.

«Come si sente, Riccardo?» domandò lei, la voce carezzevole ma segnata da un’inflessione di artificiosa pazienza.

Non risposi subito, lasciando che il mio sguardo vagasse nella stanza spoglia, sterile come un sogno al margine del reale. Le pareti erano interrotte solo da un orologio che scandiva ogni secondo con un ticchettio implacabile, una condanna costante al passaggio del tempo.

«Dove sono?» mormorai, la voce roca e spezzata, come se fossi stato in silenzio per anni.

La donna scambiò uno sguardo rapido con l’uomo, che annuì lentamente, un movimento che sembrava pesato come un giudizio.

«Sei in un ospedale psichiatrico, Riccardo,» disse, con una morbidezza che pareva mascherare una verità molto più tagliente.

Quelle parole penetrarono come un pugnale gelido, svuotando la mia mente e lasciando un silenzio che echeggiava con forza disumana.

«Cosa?» balbettai, il fiato che mi si strozzava in gola.

L’uomo parlò allora, la sua voce profonda e autoritaria come un martello che colpiva una campana vuota: «Ti abbiamo trovato vagare sulle colline, ferito e disidratato. Parlavi di un altare e di una donna… Artemisia, se non erro.»

Il suono di quel nome squarciò il velo della mia memoria, liberando visioni torbide e sconnesse. L’altare. Artemisia. Il sangue che impregnava la terra sotto di me. Ma erano reali? La confusione e il gelo si insinuarono nel mio petto come artigli.

«Non capisco,» mormorai, la mente che si arrampicava invano per trovare un punto d’appiglio.

La donna si avvicinò, sedendosi accanto al letto. La sua presenza era calma, ma nella sua compostezza c’era un’inquietudine appena percettibile. «Riccardo, hai vissuto isolato troppo a lungo. La villa, la solitudine… tutto questo ha avuto un impatto su di te. La tua mente… ha cercato di riempire i vuoti.»

Scossi la testa, una negazione disperata. «No, non capite. Io ho visto Artemisia. Lei era reale. Mi ha parlato.»

La donna non si mosse, ma il suo sguardo si fece più grave, come se ogni parola che pronunciava fosse una sentenza. «Riccardo, non c’era nessuna Artemisia. Nessun altare. Quando ti hanno trovato, il sangue sulle tue mani era il tuo. Ti sei ferito da solo.»

Quelle parole scavarono nel mio petto una voragine. L’aria sembrò svanire dalla stanza, e le pareti, quelle pareti bianche, si avvicinarono inesorabilmente, come se volessero inghiottirmi.

«Non è possibile,» sussurrai, un mantra vuoto di significato.

La donna scambiò un’altra occhiata con l’uomo, che rimase immobile, una figura incombente che sembrava più un simulacro che un essere umano. Lei parlò ancora, la voce un filo di acciaio mascherato da velluto: «La tua mente ha creato Artemisia. Ha preso i frammenti di ciò che hai vissuto—di chi hai perduto—e li ha trasformati in un simbolo. Ma è tutto qui, Riccardo: un simbolo, un’illusione.»

Il nome che pronunciò allora, Maria, squarciò i ricordi come un fulmine. Le immagini si riversarono nella mia mente: il suo viso, la sua voce, i litigi e il bicchiere infranto. E quella notte… quella notte eterna.

«No,» dissi, la voce rotta. «Non voglio ricordare.»

Ma il ricordo non si lasciò ignorare. Era lì, un mostro che mi divorava dall’interno. E con esso, una consapevolezza terribile: non c’era mai stata Artemisia. Solo Maria. E me stesso, con la mia incapacità di affrontare ciò che avevo fatto.

Il ronzio nella stanza crebbe, assorbendo ogni altro suono, finché non sembrò provenire direttamente dalle viscere della terra. O forse… dalla mia mente. E allora la vidi.

Nell’angolo più buio della stanza, avvolta in ombre pulsanti, c’era Artemisia. O forse Maria. Non aveva più importanza. Mi fissava, e nei suoi occhi c’era l’abisso.

Il suo sorriso era l’ultima cosa che vidi prima che il mio mondo si spezzasse definitivamente.

La mente è un abisso insondabile, un recesso di intricati meandri e pulsioni che solo pochi osano esplorare. La dottoressa parlava con una calma irreale, un tono che pareva studiato per infondere una tranquillità artificiosa, mentre ogni sua parola scivolava come un veleno mellifluo.

«Quando subisce traumi,» disse, i suoi occhi che sembravano scrutarmi ma senza vedermi, «la mente può rifugiarsi in immagini familiari, costruendo un labirinto di realtà alternative per proteggersi dal dolore.»

La sua spiegazione era come un coltello smussato che scava senza pietà. Mi trovavo seduto sulla sedia di fronte alla sua scrivania, avvolto dalla luce grigia e spenta che filtrava dalla finestra. Anche il sole, pensai, sembrava stanco di tutto questo.

«E se quelle immagini non fossero semplici illusioni?» domandai, la voce ridotta a un sussurro, come se la domanda stessa potesse attirare qualcosa di oscuro e invisibile.

La dottoressa sorrise allora, un sorriso vuoto e professionale, tanto misurato quanto fragile. «Lavoreremo insieme per distinguere la realtà dalla fantasia.»

Sorrisi a mia volta, ma il mio era un sorriso carico di disperazione, un gesto beffardo che mascherava il vuoto che mi divorava. «E se non volessi distinguere?»

Per un istante, il suo volto si incrinò, il sorriso sparì come una maschera troppo a lungo indossata. «La tua guarigione dipende da questo,» disse infine, ma le sue parole suonavano come un’eco vuota, priva di reale convinzione.

Guarigione? No, non era quello che cercavo. L’idea di accettare una realtà in cui Artemisia non fosse mai esistita, in cui l’altare e le incisioni non fossero altro che frutti avvelenati della mia immaginazione, mi pareva una condanna più crudele di qualsiasi visione infernale.

Così iniziai a cercarla.

I corridoi dell’ospedale, un tempo semplici e monotoni, si trasformarono in un dedalo di ombre e silenzi. Ogni svolta sembrava condurmi più lontano dalla sanità mentale, ogni angolo nascondeva una minaccia indefinita. Le porte socchiuse rivelavano scorci di altri mondi, e talvolta udivo il suo nome—Artemisia—nei bisbigli delle infermiere o nei rintocchi cadenzati dei miei stessi passi.

Fu una notte, in una stanza comune, che la vidi di nuovo. Era seduta su una delle sedie accanto alla finestra, la sua figura avvolta in una luce lunare spettrale che la rendeva più reale di qualsiasi altra cosa in quel luogo.

«Artemisia,» chiamai, la mia voce tremante e rotta, come se pronunciare quel nome fosse già un rituale proibito.

Lei si voltò lentamente. I suoi occhi, scuri e insondabili, mi trafissero con la forza di mille incubi. Non c’era rabbia in quel volto, né amore, ma solo un vuoto cosmico, un abisso che sembrava tirarmi verso di lei con una gravità irresistibile.

«Riccardo,» mormorò, la sua voce lieve come un soffio, eppure piena di un’autorità primordiale. «Sai cosa devi fare.»

«Non so più cosa è reale,» risposi, e le lacrime che scivolavano sul mio viso erano tanto fredde quanto il tocco della morte.

Lei non rispose. Mi osservò con un sorriso enigmatico, un gesto che conteneva tutto: pietà, saggezza e una conoscenza che sfidava la comprensione umana.

Quella notte, la realtà si spezzò come un cristallo infranto. Artemisia tornò mentre giacevo nel letto della mia stanza. Prima udii il suo respiro, un sussurro che sembrava emergere direttamente dalle ombre. Poi, lentamente, la sua figura si delineò ai piedi del mio letto, avvolta in un mantello di tenebre che sembrava scivolare e pulsare come un’entità vivente.

«Devi venire con me,» disse, la sua voce come un canto funebre.

«Dove?» chiesi, le parole un tremito privo di volontà.

«All’altare,» rispose, e quelle due parole risuonarono nella stanza come un eco di antichi rituali.

Mi alzai, incapace di oppormi, e la seguii. Ma i corridoi non erano più quelli dell’ospedale. Le pareti bianche e asettiche erano svanite, sostituite da pietre grezze e sudice che sembravano vibrare di una vita propria. Il pavimento era umido sotto i miei piedi nudi, e l’aria aveva un odore di terra antica, mescolata a qualcosa di indefinibilmente dolciastro e putrido.

Quando raggiungemmo la radura, l’altare era lì, come un monolite dimenticato da un’epoca primordiale. La luce della luna illuminava le incisioni sulla sua superficie, rune che pulsavano di un bagliore spettrale, come vene attraverso cui scorreva una linfa ultraterrena.

Artemisia si voltò verso di me, i suoi occhi ardenti di un’intensità che mi immobilizzò. «Questa è la tua verità, Riccardo. L’unica verità che ti resta.»

Mi inginocchiai di fronte all’altare, le mani che sfioravano la pietra fredda e ruvida, sentendo il peso di millenni gravare sulle mie spalle. Il mondo intorno a me si dissolveva; le voci dell’ospedale, gli echi della razionalità, tutto svaniva come un sogno al risveglio.

«Sono pronto,» sussurrai, benché non sapessi a cosa stessi offrendo me stesso.

Artemisia si avvicinò allora, le sue mani eteree che si posarono sulle mie, un tocco che mi riempì di gelo e riverenza. «Allora ricominciamo,» disse, e il suo sorriso fu l’ultima cosa che vidi prima che tutto si spegnesse.

Mi svegliai nel letto dell’ospedale, il corpo sudato e sfinito, ma la mente in un silenzio opprimente. La stanza era vuota, eppure un piccolo oggetto sul tavolino attirò il mio sguardo.

Era un amuleto, intrecciato con legno antico e corde consunte. Lo stesso amuleto che la vecchia nel bosco mi aveva donato, o forse un altro. Era reale?

Lo afferrai con mani tremanti, e capii con una chiarezza terribile, che il cerchio non si sarebbe mai chiuso.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2025 racconti-brevi.com

L’orribile Guardiano della notte bianca

La neve cadeva leggera quella notte, posandosi silenziosa su ogni cosa, coprendo con il suo manto bianco le strade, le case, le colline ed i vigneti, e perfino i rami spogli degli alberi che circondavano il piccolo villaggio.

Le luci di Natale brillavano in ogni finestra, sfumate dalla bruma invernale e dalla neve che si accumulava sui vetri. In ogni casa si percepiva l’attesa, quella gioia febbrile e quasi palpabile che solo il Natale sa portare con sé.

Eppure, c’era qualcos’altro, un’ombra sottile che serpeggiava tra le strade deserte e le case addormentate, come un’inquietudine che, per un istante, faceva dimenticare a tutti la magia della festa.

Mia nonna mi aveva raccontato della leggenda del Guardiano della Notte Bianca, un essere che appariva sulle colline piacentine ogni anno proprio a Natale. Non era Babbo Natale, e nessun bambino sarebbe mai stato felice di incontrarlo.

La leggenda diceva che il Guardiano si aggirava tra le case quando tutto era silenzio, osservando le finestre illuminate, spiando i volti addormentati dietro i vetri appannati. Era una figura alta e magra, dai tratti gelidi, con occhi che riflettevano solo il bianco della neve e un sorriso che si allargava freddo e tagliente sul viso come una ferita.

I bambini più piccoli venivano ammoniti a non fare rumore la notte di Natale, a non scendere dal letto e, soprattutto, a non guardare fuori dalla finestra se udivano il suono di passi sulla neve.

All’inizio pensavo fosse solo una storia, una di quelle favole spaventose per tenere buoni i bambini. Ma poi, qualcosa iniziò a cambiare nel villaggio. Si cominciò a parlare di figure di neve che apparivano nei cortili, sagome indistinte che, al mattino, sembravano aver assunto sembianze quasi umane, con occhi vuoti e bocche contorte in smorfie inquietanti.

Oggetti piccoli e insignificanti sparivano dalle case: giocattoli, pupazzi, a volte persino piccoli oggetti che erano stati lasciati davanti alla finestra. Le persone trovavano impronte che non sapevano spiegarsi, tracce che partivano da un punto e si dissolvevano senza lasciare alcun indizio su dove fossero finite.

Poi, proprio la notte di Natale, accadde qualcosa che scosse l’intero villaggio. Il piccolo Marco, il figlio di una giovane coppia della nostra strada, scomparve senza lasciare traccia. I suoi genitori erano disperati, l’intero villaggio si mobilitò per cercarlo.

Entrai nella sua cameretta, chiamato dai genitori in cerca di risposte, e vidi una scena che ancora mi gela il sangue. Sul letto c’era un pacchetto regalo, strappato e vuoto, come se qualcosa lo avesse aperto dall’interno. Sul vetro della finestra, che dava sul cortile innevato, c’era un’impronta – una mano sottile e allungata, impressa nella condensa, lasciando solo l’ombra di un gelo innaturale.

Quella sera, incontrai il vecchio Jacopo, un anziano che viveva alla periferia del villaggio. Ricordo il suo sguardo, severo e pieno di un’angoscia antica. “Non lasciate porte o finestre aperte, neanche per un istante,” ci avvertì. “Ho visto il Guardiano della Notte Bianca, tanto tempo fa, e non è nulla che un uomo dovrebbe vedere. La sua mano è fredda come il ghiaccio e il suo sguardo… il suo sguardo ti congela l’anima. Non fate rumore, non chiamatelo. Restate chiusi in casa e sperate che non noti la vostra presenza.”

In quel momento capii che non si trattava più solo di una leggenda.

Ogni notte, al calare delle tenebre, il villaggio si faceva sempre più silenzioso, come se tutti gli abitanti trattenessero il respiro. Non era il silenzio placido della neve che cadeva, ma un silenzio carico di attesa e timore. Poi, allo scoccare della mezzanotte, un suono inaspettato squarciava quell’atmosfera sospesa: le campane della chiesa, che non dovevano suonare. Quel rintocco profondo si propagava nell’aria fredda come un richiamo arcano, un presagio che faceva rabbrividire chiunque fosse ancora sveglio.

Il vecchio Jacopo mi aveva detto che quel suono annunciava l’arrivo del Guardiano, e da allora ogni notte, quando sentivo quel cupo rintocco, non potevo fare a meno di tremare. Più di una volta mi sono svegliato nel cuore della notte, scosso da un senso di angoscia. Guardavo fuori dalla finestra, cercando di scorgere un movimento, un’ombra, qualsiasi cosa… e in lontananza, tra le case, mi sembrava di intravedere una figura, un’ombra sottile che avanzava nella neve.

Poi l’ultimo giorno dell’anno qualcosa di raccapricciante fu trovato nel bosco, appena fuori dal villaggio. Alcuni abitanti avevano visto delle figure strane, sagome congelate nella neve che sembravano formare una sorta di macabra composizione. Mi avvicinai e vidi ciò che loro avevano descritto: corpi di piccoli animali, congelati, disposti a formare disegni stilizzati che ricordavano figure umane. Le loro sagome tracciavano nella neve una danza inquietante, con volti che sembravano fissarci con espressioni di terrore. Uno dei disegni, il più grande, aveva un volto che mi parve stranamente familiare… il volto del piccolo Marco, il bambino scomparso.

Fu in quei giorni che qualcuno trovò il diario di un bambino scomparso molti anni prima. Le pagine erano ingiallite e fragili, ma le parole raccontavano una storia terribile. Il bambino scriveva di aver incontrato una figura durante la notte di Natale, una presenza che gli parlava dolcemente, come un amico immaginario. Lo chiamava “Il Guardiano”, e nelle prime pagine il bambino raccontava con entusiasmo di come quella figura lo osservasse dalla finestra e gli facesse cenni amichevoli. Ma, man mano che le pagine scorrevano, il tono cambiava. Il Guardiano appariva sempre più spesso, e il bambino iniziava a sentire freddo, anche nel sonno, un gelo che sembrava invadergli il cuore. Le ultime pagine del diario erano piene di scarabocchi e parole spezzate, interrotte da frasi come “È qui… non riesco a respirare” e “Non è un amico… vuole me”.

Alla vigilia dell’epifania, io e alcuni amici decidemmo che era giunto il momento di affrontare quella creatura, qualsiasi cosa fosse. Non potevamo lasciare che un’altra famiglia perdesse qualcuno. Ci armammo di coraggio, portando con noi solo delle torce e i nostri amuleti, quelli che ci avevano detto che avrebbero tenuto lontano il Guardiano. Ci posizionammo fuori dalle case, sul limite del bosco, e aspettammo in silenzio, con il fiato sospeso. Le campane iniziarono a suonare ancora, e in quel momento apparve lui.

Non era come lo immaginavo, eppure era anche peggio. La figura sembrava fatta di neve e ombre, alta, con occhi vuoti e gelidi che brillavano di una luce inquietante. Il suo volto sembrava muoversi, assumendo forme diverse come se stesse cercando qualcosa che riconoscessimo, qualcosa che ci facesse abbassare la guardia. Sentivo un freddo intenso, il gelo che sembrava provenire direttamente da lui. Ci guardava, come se sapesse esattamente chi fossimo, come se riconoscesse ogni nostra paura.

Quella notte riuscii a malapena a scappare. Lo vidi avanzare, lento, con una mano tesa verso di me, e solo l’urlo di uno dei miei amici mi distolse da quello sguardo gelido. Riuscimmo a rifugiarci nelle nostre case, chiudendo porte e finestre, ascoltando in preda al terrore i suoi passi fuori, che si allontanavano.

Il mattino seguente, il villaggio sembrava tornato alla normalità. La neve copriva ogni cosa, e le case erano di nuovo tranquille. Ma quando uscii, trovai un piccolo giocattolo nel cortile, semi-sepolto nella neve, il giocattolo preferito di Marco. Solo allora capii che il Guardiano non sarebbe mai andato via.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

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Il Fantasma di Rivergaro

Le colline piacentine sembravano sempre avvolte da un segreto, un respiro antico che sussurrava tra i filari di vite e i ruderi dimenticati. In autunno, soprattutto, una nebbia pesante calava su quei luoghi, come se il paesaggio stesso volesse nascondere qualcosa. Tra i contadini del luogo, quella stagione era anche la più temuta, perché portava con sé le storie su Elisabetta Terza di Rivergaro, una donna dal passato oscuro e avvolto in leggende di sangue e magia.

Elisabetta era stata una nobildonna fiera e impietosa, discendente di una famiglia ricca e influente. Era cresciuta circondata dal lusso, ma ciò che desiderava più di ogni altra cosa era il potere – un potere che, si diceva, avesse trovato nel vino delle sue vigne e nel sangue versato dai servi più fedeli. A ogni vendemmia, Elisabetta pretendeva tributi dai contadini: animali, oggetti preziosi e, quando le voci correvano più spaventose, anche sacrifici umani. Gli anziani narravano che la sua bellezza nascondesse un cuore corrotto, e che le sue terre prosperassero solo grazie a un patto oscuro che aveva stretto con forze che andavano oltre il mondo dei vivi.

Un giorno, quando i contadini provarono a ribellarsi alla sua crudeltà, Elisabetta rispose con una maledizione. Minacciò che chiunque attraversasse i suoi confini senza il dovuto tributo avrebbe subito una sorte terribile. Fu così che, una notte, le autorità del tempo la catturarono e la condannarono per stregoneria, trascinandola fuori dal suo castello e gettandola in un pozzo. Ma Elisabetta non si ribellò: aveva già oltrepassato il confine tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, e il suo ultimo respiro risuonò come un’eco nelle colline, promettendo vendetta e tenendo legata la sua anima a quei luoghi.

Da allora, nelle notti d’autunno, quando la nebbia si addensa, gli abitanti delle colline non escono di casa. Le famiglie locali lasciano piccoli tributi ai margini dei vigneti: monete d’argento, bicchieri di vino, perfino pezzi di pane avvolti in panni rossi. Alcuni dicono che questi doni siano l’unico modo per tenere lontana l’ombra di Elisabetta, che vaga tra i filari alla ricerca di chi ha osato sfidare il suo riposo.

Quella notte, due ragazzi di città, Lara e Filippo, si avventurarono tra quei vigneti, ridendo delle storie che avevano sentito. Lara era stata titubante, ma Filippo, il più scettico dei due, la aveva convinta a seguirlo. Erano cresciuti insieme, un’amicizia che col tempo aveva acquisito sfumature più profonde. Filippo scherzava sempre, cercando di far ridere Lara, ma quella notte, mentre camminavano tra i filari, si rese conto che la sua amica sembrava più inquieta del solito.

“E dai, sono solo storie! Sono state inventate per tenere lontani i curiosi come noi,” disse lui, con una risata forzata. Ma, in fondo, anche lui non riusciva a scrollarsi di dosso una strana sensazione. Lara, invece, sembrava ascoltare ogni suono attorno a loro, come se temesse di disturbare qualcosa di sacro. Teneva stretto un piccolo amuleto di giada verde, un dono della nonna, che le aveva detto di portarlo sempre con sé come protezione.

Il sentiero si fece più stretto mentre si avvicinavano al castello. L’aria era umida, e l’odore di foglie bagnate e di terra impregnata di rugiada li avvolgeva. Il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal vento lontano che fischiava tra le colline. La luna piena illuminava appena i ruderi del castello, che sembravano occhi vuoti, osservatori silenziosi e immutabili.

Quando giunsero al cancello, i due ragazzi si fermarono. Il castello era in rovina, le mura annerite dal tempo e coperte di rampicanti spogli. Filippo si avvicinò con passo deciso, aprendo il cancello con un cigolio che ruppe il silenzio. Fece cenno a Lara di seguirlo, e lei lo seguì, ma con un misto di apprensione e curiosità.

Si avvicinarono al cortile, dove una pergola antica si ergeva ancora, coperta da viti contorte e secche. In quell’oscurità, le radici sembravano affondare direttamente nella terra, nutrendosi di qualcosa di ben diverso dalla semplice acqua. Lara si fermò, posando il suo amuleto a terra come offerta, ricordando le storie che la nonna le aveva raccontato. Filippo, sorridendo per farsi coraggio, estrasse una vecchia moneta che portava in tasca, trovata in una vecchia cassa nella soffitta del nonno, e la lasciò accanto all’amuleto di Lara.

Per un istante tutto rimase immobile. Poi, il vento soffiò tra le rovine, e Lara si sentì stringere le budella. Una risata, sottile e crudele, sembrò risuonare nell’aria. I due ragazzi si guardarono, pallidi, sentendo di aver appena oltrepassato un confine che non avrebbero mai dovuto attraversare.

Lara e Filippo rimasero immobili nel cortile del castello, respirando a fatica nell’aria gelida che sembrava farsi più densa a ogni passo. Attorno a loro, il castello emergeva come un gigante scheletrico contro la luna, con mura annerite e finestre vuote come orbite prive di vita. Ogni angolo sembrava reclamare silenzio, un silenzio che soffocava anche i pensieri. Lara si voltò verso Filippo, il cuore accelerato, e sussurrò: “Forse dovremmo andare…”

Ma Filippo, affascinato dal mistero che si nascondeva tra quelle mura, si avvicinò all’entrata principale, richiamando Lara con uno sguardo. Avanzarono tra pietre sparse e tralci di vite contorti che sembravano mani scheletriche. Alcuni di quei rami sembravano animati, piegandosi come se cercassero di afferrarli. Il cortile era un deserto di rovine e foglie marce, ma l’odore della terra, umida e densa, era permeato da una strana dolcezza, come di uva fermentata da tempo.

Superata l’entrata, i ragazzi si ritrovarono in un lungo corridoio in penombra, con muri che si sgretolavano e antichi arazzi ridotti a brandelli. Ogni passo faceva scricchiolare il pavimento di pietra, e Lara percepiva un’inquietante sensazione di occhi puntati su di loro. Proseguirono fino a raggiungere una stanza più ampia, quella che doveva essere stata una sala di ricevimento. Al centro, un antico lampadario pendeva dal soffitto, i cristalli rotti riflettevano la luce lunare in bagliori che parevano occhi vacui.

Poi, accadde qualcosa. Un movimento rapido, quasi impercettibile, al limite del loro campo visivo. Filippo si voltò di scatto, ma non c’era nulla. Solo un lieve sussurro tra le pareti. “Hai visto anche tu?” mormorò, cercando gli occhi di Lara. Lei annuì lentamente, incapace di trovare le parole. In quell’istante, un sussurro serpeggiò nell’aria: una lagnanza distante, come se qualcuno stesse parlando tra sé e sé, lamentele dolenti che si spegnevano nel silenzio.

Scossi, si spostarono verso una porta aperta alla fine della sala. Era socchiusa, come se li invitasse a entrare. Dietro quella porta si trovava una scalinata in pietra che scendeva ripida nel buio. Lara esitò, ma Filippo, con un’ultima occhiata rassicurante, si fece avanti, la mano stretta attorno a una piccola torcia che illuminava appena i gradini davanti a loro.

La cantina del castello era un intrico di corridoi e archi bassi, una volta usata probabilmente per conservare botti di vino. Adesso, era un labirinto silenzioso, con vecchie botti spaccate e residui di antiche travi annerite. Lara avvertiva una presenza pesante nell’aria; le sembrava quasi che il suo respiro rallentasse. Mentre si addentravano nella penombra, la torcia cominciò a vacillare, e nell’ombra intravidero delle figure: uomini e donne, volti trasfigurati dal terrore. Apparivano e svanivano in un battito di ciglia, ma ogni volto, ogni figura, portava i segni di una sofferenza antica.

“Li vedi anche tu?” sussurrò Lara, senza distogliere lo sguardo da quelle apparizioni spettrali. Filippo annuì, senza fiato. Una figura in particolare li fece gelare: una donna in abiti antichi, dagli occhi spenti e il volto consumato dall’odio. Era Elisabetta. Sembrava che stesse ripetendo un antico rituale, le mani alzate verso l’alto e un sorriso contorto sul volto. I suoi occhi si spostarono lentamente su di loro, e il suo sguardo li perforò come lame di ghiaccio.

All’improvviso, Lara si sentì trascinata altrove, come risucchiata in un ricordo non suo. Era come se stesse vivendo la vita di qualcun altro: si trovava davanti a Elisabetta, nel suo castello, circondata da servitori timorosi. In un lampo vide la nobildonna gettare polveri scure sul pavimento, mentre sussurrava parole in una lingua arcana. Intuì che Elisabetta stava invocando forze oscure, patti di sangue per mantenere il suo potere. Lara riuscì a sentire l’orrore dei servi che la osservavano, troppo terrorizzati per ribellarsi, troppo intimoriti per fuggire.

Un secondo dopo, era di nuovo nel presente, con Filippo che la scuoteva leggermente. “Lara, che ti succede?” chiese, la voce carica di paura. Ma Lara non riusciva a rispondere: la visione le aveva lasciato un senso di nausea e angoscia. Sentiva di essere stata toccata dall’oscurità stessa.

Le ombre nella cantina cominciarono a muoversi di nuovo. Una figura, un uomo pallido, avanzò verso di loro, con gli occhi vuoti e un sussurro che sembrava un lamento. “Non ci lascia andare… Nessuno… sfugge al suo potere…” Le sue parole sembravano uscire dal nulla, un sussurro privo di vita, eppure così dolorosamente reale.

Improvvisamente, un urlo straziante squarciò il silenzio. Lara e Filippo si voltarono di scatto, vedendo l’ombra di Elisabetta ingigantirsi contro il muro. Ora non era più una figura vaga: la sua forma era solida, i suoi occhi bruciavano di un odio intenso. Avanzava verso di loro, e ogni passo sembrava portare con sé il suono di vetri infranti e ossa spezzate.

“Tributi…” sibilò. “Non bastano mai…”

I ragazzi si voltarono e corsero, inciampando tra le botti e cercando disperatamente una via d’uscita. Ma il castello sembrava vivo, il percorso si perdeva in corridoi senza uscita, mentre il suono dei passi di Elisabetta si faceva sempre più vicino, quasi li soffocasse. Lara inciampò, e in quel momento la vide: Elisabetta, inginocchiata accanto a lei, con il volto distorto da un sorriso crudele. Lara strinse l’amuleto che ancora portava al collo, sussurrando una preghiera. Era l’ultima speranza.

Senza sapere come, riuscirono a trovare la scala e salirono, ma mentre raggiungevano la superficie, Lara si sentiva come se l’oscurità la seguisse. Uscirono dal castello e si lanciarono verso il sentiero, ma Elisabetta non li lasciava. Si voltò un’ultima volta, vedendo la sagoma di Elisabetta sfumare nella nebbia, con quel sorriso agghiacciante che le rimase impresso.

Tornarono al villaggio in silenzio, senza mai parlare di ciò che avevano visto. Ma la maledizione non finì con la fuga. Da quella notte, Lara iniziò a vedere ombre anche nella sua stanza, figure che si muovevano alle sue spalle. Filippo, invece, sentiva sussurri nell’oscurità, e ogni notte si svegliava col cuore in gola, come se una presenza gli stesse rubando l’anima a poco a poco.

Capirono troppo tardi che nessuno sfugge a Elisabetta.

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Scritto da Anonimo Piacentino

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Il Ritratto di Dorian Gray: recensione critica del romanzo

Il Ritratto di Dorian Gray, capolavoro di Oscar Wilde, è un’opera che affascina e inquieta per la sua capacità di esplorare il tema del doppio e della decadenza morale, offrendo una critica tagliente dell’estetismo. Il romanzo ci immerge nel mondo di Dorian Gray, un giovane di straordinaria bellezza che, grazie a un patto implicito con il destino, vede la sua immagine fisica rimanere immutata mentre il suo ritratto invecchia e si deteriora al posto suo. Questo sdoppiamento tra l’apparenza e la realtà è uno dei temi portanti del romanzo e rappresenta una riflessione sulla natura dell’essere umano e sul conflitto tra ciò che si mostra agli altri e ciò che si è realmente.

Dorian, protetto dall’eternità che il suo ritratto gli garantisce, è libero di vivere una vita di eccessi e trasgressioni senza che il suo aspetto ne risenta. Tuttavia, questo privilegio si rivela una maledizione: mentre il ritratto si corrompe, Dorian si distacca progressivamente dalla sua umanità, incapace di affrontare le conseguenze delle sue azioni. L’opera di Wilde, attraverso il simbolismo del ritratto, diventa una meditazione sul rapporto tra bellezza esteriore e decadimento interiore, mostrando come l’anima di un uomo possa essere distrutta dall’ossessione per l’apparenza e dal rifiuto di affrontare le proprie colpe.

Un ruolo cruciale in questa discesa nella corruzione è giocato da Lord Henry Wotton, una delle figure più enigmatiche e influenti del romanzo. Lord Henry è l’incarnazione dell’estetismo e del cinismo intellettuale, un personaggio che affascina e manipola Dorian con le sue teorie sulla vita e il piacere. La sua filosofia, che esalta la ricerca del piacere e la bellezza come valori assoluti, diventa una trappola per Dorian, spingendolo a vivere senza alcun riguardo per le conseguenze morali. Wilde, attraverso la figura di Lord Henry, riflette sull’influenza delle idee e delle parole, mostrandoci come la mente umana possa essere modellata e corrotta dal potere della retorica.

In questo contesto, il ritratto diviene non solo un riflesso della coscienza di Dorian, ma anche un simbolo dell’anima stessa. Ogni peccato, ogni atto di crudeltà, viene registrato non sul volto di Dorian, ma sulla tela che lo rappresenta. Questa dissociazione tra il corpo e l’anima è una delle metafore più potenti del romanzo: Dorian rimane giovane e bello, ma la sua anima – rappresentata dal ritratto – si deforma e si incupisce. Wilde, con questa scelta narrativa, solleva questioni profonde sull’identità e sul ruolo della bellezza nella società, suggerendo che dietro ogni apparenza perfetta può nascondersi una realtà oscura e corrotta.

L’ossessione di Dorian per la giovinezza e l’immortalità è un altro tema cardine dell’opera. Il suo desiderio di fermare il tempo, di restare per sempre giovane, riflette una paura universale: quella della morte e della perdita della bellezza. Wilde esplora questo tema con un’ironia sottile, mostrando come l’immortalità apparente di Dorian si riveli una condanna, anziché una benedizione. Il prezzo della giovinezza eterna è la progressiva perdita di sé, e Dorian, nell’atto di preservare il suo aspetto, sacrifica la sua umanità.

Il Ritratto di Dorian Gray è un’opera che va oltre la semplice narrazione di un uomo corrotto dalla vanità. Attraverso il suo protagonista, Wilde riflette sul rapporto tra arte e vita, tra moralità e bellezza, offrendo una critica sottile della società vittoriana e della sua ipocrisia. La bellezza, lungi dall’essere un ideale da perseguire a ogni costo, si rivela una trappola pericolosa, capace di condurre alla rovina chi, come Dorian, ne fa il fulcro della propria esistenza. Oscar Wilde, con il suo stile elegante e la sua sagacia, ci lascia con una riflessione amara e profonda sull’animo umano, sulla fragilità delle apparenze e sul prezzo della vanità.

In Il Ritratto di Dorian Gray, il tema della responsabilità personale è centrale. Wilde ci pone di fronte al dilemma del libero arbitrio e delle conseguenze delle scelte individuali, sfidando il lettore a riflettere sul grado di colpevolezza di Dorian. Anche se Lord Henry Wotton esercita una forte influenza su di lui, incitandolo a vivere seguendo i dettami dell’edonismo e del piacere senza considerazioni morali, Dorian è comunque artefice delle proprie azioni. Lord Henry può essere visto come un tentatore, ma non si può dire che Dorian sia una vittima passiva. Le sue decisioni – dall’abbandonare Sybil Vane alla dissolutezza morale sempre più profonda – sono il risultato di una sua volontaria adesione a un modo di vivere privo di scrupoli. In questo senso, il ritratto diventa la manifestazione concreta di una colpa che egli cerca disperatamente di ignorare, ma che, attraverso il deterioramento dell’immagine dipinta, si rende visibile agli occhi del lettore. Il quadro non è solo una rappresentazione estetica, ma anche la testimonianza silenziosa della colpevolezza di Dorian, che accumula peccati e segreti senza mai affrontare direttamente le proprie responsabilità.

La tensione tra destino e libero arbitrio è un’altra problematica che percorre il romanzo. Dorian sembra intrappolato in un destino predeterminato dal momento in cui desidera che la sua giovinezza sia eterna, abdicando così alla legge naturale del tempo. Il suo patto implicito con il ritratto potrebbe far pensare a una sorta di destino ineluttabile, come se la sua corruzione fosse già inscritta nel suo desiderio di immortalità. Tuttavia, Wilde lascia spazio alla possibilità che Dorian possa scegliere diversamente, soprattutto nelle prime fasi della sua discesa morale. Questo rende ancora più tragica la sua parabola, poiché l’opera suggerisce che, nonostante le influenze esterne, egli avrebbe potuto cambiare strada. La sua incapacità di farlo lo trasforma in una figura determinata a perdere la sua umanità, portando a un senso di fatalismo che permea il finale. In questo modo, Wilde esplora la sottile linea tra il destino imposto e le scelte volontarie che plasmano la nostra identità.

Un altro tema implicito ma potente è quello dell’omosessualità velata e del desiderio repressivo. Sebbene Wilde non affronti apertamente la questione, ci sono numerosi momenti nel romanzo che alludono a una complessità di desideri omoerotici. Il rapporto tra Dorian e Basil Hallward, ad esempio, è profondamente ambiguo: Basil non solo vede in Dorian un ideale estetico, ma la sua adorazione sembra andare oltre la semplice ammirazione artistica, sconfinando in un desiderio inespresso. Anche il legame tra Dorian e Lord Henry è intriso di tensioni omoerotiche sottili, con Dorian che si lascia sedurre intellettualmente e moralmente da Lord Henry, sviluppando un’attrazione quasi fatale per la sua filosofia di vita. Questi sottotesti riflettono le esperienze personali di Wilde, che viveva in una società dove l’omosessualità era criminalizzata e repressa. Il desiderio, quindi, emerge nel romanzo non solo come una forza vitale, ma anche come un impulso pericoloso e inconfessabile, che deve essere nascosto o sublimato, con conseguenze distruttive.

Il ruolo delle donne nel romanzo è un altro aspetto interessante, spesso trascurato. Le figure femminili, pur essendo marginali rispetto alla narrazione principale, offrono una chiave di lettura importante sulla condizione della donna nella società vittoriana e sulla percezione maschile del genere. Sybil Vane, l’attrice che rappresenta la purezza e l’ideale romantico, è forse la figura femminile più significativa. La sua distruzione avviene quando Dorian, deluso dalla sua interpretazione teatrale, decide che non vale più il suo amore, mostrando come le donne siano viste come proiezioni degli ideali maschili, piuttosto che come individui autonomi. La sua morte rappresenta il fallimento di questo ideale e la crudeltà di una società in cui le donne sono facilmente sacrificate sull’altare dei desideri maschili. Anche la madre di Dorian, benché poco presente nella narrazione, offre uno sguardo critico sul ruolo delle donne nell’alta società, in cui spesso esse sono limitate a posizioni subalterne e imprigionate dalle aspettative sociali.

Wilde costruisce un romanzo che, pur dedicando grande attenzione alla bellezza e all’estetica, è profondamente critico nei confronti delle dinamiche di potere, delle relazioni umane e delle norme sociali, sfidando il lettore a confrontarsi con temi di colpa, desiderio, repressione e ruoli di genere. Il Ritratto di Dorian Gray non è solo una meditazione filosofica sulla bellezza e la moralità, ma anche un’opera che riflette sulla complessità e la fragilità della condizione umana.

In Il Ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde offre una satira penetrante della società vittoriana, mettendo in evidenza la superficialità e l’ipocrisia che dominano i salotti dell’alta società. Attraverso i dialoghi pungenti di Lord Henry e le interazioni di Dorian con l’élite londinese, Wilde svela una realtà in cui l’apparenza è tutto e il valore di una persona viene misurato dalla sua bellezza e dal suo fascino piuttosto che dalle sue qualità morali. In questo mondo, l’immoralità è tollerata, purché nascosta sotto una facciata di eleganza e decoro. Dorian, con la sua immutabile bellezza esteriore, diventa l’emblema di questa superficialità. Il suo ritratto, invece, rappresenta ciò che la società si rifiuta di vedere: il lato oscuro dell’indulgenza e del narcisismo, che lentamente ma inesorabilmente corrompe l’individuo. Wilde critica aspramente un mondo che, pur di mantenere le apparenze, ignora le conseguenze di una vita priva di sostanza e di valori autentici.

Un aspetto centrale del romanzo è la riflessione sull’arte e il suo rapporto con la vita. Wilde, in linea con il movimento estetico, promuove l’idea che l’arte debba esistere per se stessa, libera da vincoli morali o utilitaristici. Questa visione si riflette nella figura del pittore Basil Hallward, che vede in Dorian la sua opera d’arte più grande, la personificazione della bellezza pura. Tuttavia, il romanzo esplora anche le pericolose conseguenze di questa concezione dell’arte, mostrando come, nel caso di Dorian, la separazione tra arte e vita conduca alla distruzione morale. Dorian, che diventa lui stesso un’opera d’arte vivente, sacrifica la sua umanità in nome della bellezza, dimostrando come l’estetismo, se portato agli estremi, possa risultare distruttivo. L’opera d’arte, in questo caso il ritratto, non è più una semplice rappresentazione, ma una manifestazione fisica del degrado interiore, mostrando che, contrariamente a quanto affermato dall’estetismo, l’arte non può essere completamente disgiunta dalle implicazioni morali della vita.

Nel corso del romanzo, Dorian perde progressivamente la sua identità, alienandosi da se stesso e dagli altri. La sua ossessione per la giovinezza eterna e il piacere lo allontana dalla sua essenza più profonda, conducendolo in una spirale di autodistruzione. Wilde mostra come il desiderio di evitare il dolore e le responsabilità, che sono parte integrante dell’esperienza umana, porti Dorian a separarsi dalla sua vera natura, fino a diventare una mera maschera vuota, incapace di empatia o rimorso. Questa perdita di identità è strettamente legata al tema della decadenza morale: man mano che Dorian si abbandona a una vita edonistica e priva di limiti, perde progressivamente il senso di chi è e di cosa significa essere umano. Il suo distacco dalla realtà e dalla propria coscienza lo rende prigioniero del proprio narcisismo, incapace di riconciliarsi con la sua parte più autentica.

Dorian è, a tutti gli effetti, una figura tragica. Nonostante la sua bellezza e il suo fascino irresistibile, è destinato alla rovina a causa delle sue scelte egoistiche. Il suo narcisismo, alimentato dall’influenza di Lord Henry e dalla sua incapacità di accettare il passare del tempo, lo condanna a una vita priva di autenticità e a una solitudine interiore sempre più opprimente. In questo senso, Dorian è un personaggio che suscita compassione: non è solo vittima delle sue stesse debolezze, ma anche del contesto sociale in cui vive, un mondo che celebra l’apparenza e ignora le conseguenze del vuoto morale. La sua tragica fine, più che una punizione divina, sembra il risultato inevitabile di una vita vissuta senza responsabilità e senza scrupoli. Wilde sembra dirci che il vero prezzo della bellezza eterna non è la giovinezza, ma la perdita dell’anima.

Il finale del romanzo, con la distruzione del ritratto e la morte di Dorian, è carico di significato simbolico. Nel gesto di pugnalare il quadro, Dorian tenta di liberarsi del fardello delle sue colpe, ma invece pone fine alla propria esistenza. Il ritratto, ormai simbolo della sua coscienza corrotta, torna alla sua forma originaria, mentre il corpo di Dorian si trasforma in quello di un vecchio deforme. Questo atto finale rappresenta una sorta di resa dei conti con la sua stessa anima: Dorian, incapace di sopportare il peso delle sue azioni, cerca disperatamente la redenzione, ma è ormai troppo tardi. Wilde ci mostra che non è possibile fuggire dalle conseguenze dei propri atti e che la bellezza, per quanto perfetta e duratura, non può cancellare il senso di colpa e il bisogno di espiazione. La morte di Dorian è la conclusione tragica di una vita consumata dall’egoismo e dall’illusione, un ammonimento potente sui pericoli dell’estetismo estremo e della negazione della moralità.

Alla sua pubblicazione nel milleottocento novanta, Il Ritratto di Dorian Gray suscitò un grande scandalo, soprattutto a causa dei suoi temi provocatori e delle implicite sfide ai valori morali dell’epoca vittoriana. La critica iniziale fu spesso feroce, accusando Wilde di immoralità e di corrompere i giovani lettori con la sua celebrazione dell’estetismo e della decadenza. Il romanzo fu percepito come un attacco ai pilastri della società borghese, con alcuni recensori che lo definivano addirittura “velenoso”. Le tematiche legate alla sessualità e all’omosessualità, pur trattate in modo sottile e allusivo, contribuirono alla sua controversa accoglienza. La figura di Dorian, con la sua vita dissoluta e il rifiuto delle norme sociali e morali, incarnava una minaccia all’ordine stabilito, rendendo l’opera ancora più scandalosa agli occhi dei lettori conservatori.

Nonostante le critiche iniziali, il romanzo conquistò presto uno status di classico della letteratura inglese, apprezzato per la sua prosa elegante, la sua profondità filosofica e la sua acuta riflessione sull’estetismo e la moralità. Nel corso del tempo, l’opera è stata rivalutata in modo sempre più positivo, con la critica moderna che ha riconosciuto la sua importanza come specchio della società vittoriana e come indagine sui temi universali del narcisismo, della decadenza e della lotta interiore tra l’apparenza e la realtà. Oggi, Il Ritratto di Dorian Gray è considerato una delle opere più significative di Oscar Wilde e uno dei pilastri della letteratura decadente.

Quanto al genere letterario in cui si colloca, Il Ritratto di Dorian Gray può essere visto come una fusione di diversi stili e generi. Da un lato, si tratta di un romanzo decadente, un’espressione del movimento letterario che esaltava la bellezza, l’arte e il piacere sensuale sopra la moralità e l’utilità sociale. Questo legame con il decadentismo è evidente nella figura di Dorian, che vive in una continua ricerca del piacere e dell’esperienza estetica, indifferente alle implicazioni morali delle sue azioni. Dall’altro, il romanzo presenta elementi tipici del gotico, con l’uso di simboli oscuri e sovrannaturali come il ritratto, che funge da strumento magico per esplorare il tema della corruzione interiore. La suspense e l’atmosfera inquietante che permeano l’opera, insieme ai temi della doppia identità e del conflitto tra il bene e il male, richiamano le caratteristiche classiche del romanzo gotico.

Infine, Il Ritratto di Dorian Gray può essere considerato anche un romanzo filosofico, in quanto Wilde utilizza la narrazione per esplorare idee complesse sull’estetica, la moralità e la natura umana. L’influenza delle correnti di pensiero dell’estetismo e del dandyismo si manifesta chiaramente nella riflessione continua sulla bellezza e l’arte, mentre il personaggio di Lord Henry funge da portavoce per una visione cinica e amoralistica del mondo.

In sintesi, Il Ritratto di Dorian Gray è un’opera poliedrica che sfida una facile classificazione, ma la sua combinazione di elementi decadenti, gotici e filosofici lo rende un romanzo di straordinaria complessità e fascino duraturo.