Hitler e il nazismo magico: recensione saggio di Giorgio Galli

Il saggio Hitler e il nazismo magico di Giorgio Galli si propone di gettare luce su un aspetto poco esplorato della storia del Terzo Reich: il rapporto tra l’ideologia nazista e le correnti esoteriche che attraversavano la cultura tedesca a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Galli non si limita a tracciare un quadro delle credenze occulte diffuse in quel periodo, ma cerca di dimostrare come queste abbiano influito sulla formazione ideologica di alcune figure chiave del nazismo, influenzando tanto la loro visione del mondo quanto, potenzialmente, le loro politiche.

L’influenza dell’esoterismo sulla gerarchia nazista è un tema che Galli esplora con grande profondità, evidenziando come la fascinazione per l’occulto e il misticismo fosse ben radicata in alcune delle figure più importanti del regime, tra cui Heinrich Himmler, il capo delle SS. Himmler, come descritto da Galli, non era solo un fanatico della purezza razziale, ma anche un uomo profondamente affascinato dall’occultismo. Egli tentò di trasformare le SS in una sorta di ordine cavalleresco esoterico, ispirato ai miti nordici e al paganesimo precristiano. Himmler considerava le SS non solo come un’unità militare, ma come un corpo spirituale destinato a preservare la razza ariana e a dare vita a una nuova élite germanica. In questo contesto, il castello di Wewelsburg, che Himmler fece restaurare, divenne il simbolo di questa visione mistica, un luogo di culto e di rituali per la nuova aristocrazia spirituale che egli immaginava.

Il progetto di Himmler, come sottolinea Galli, aveva lo scopo di legittimare ideologicamente l’autorità delle SS non solo attraverso la forza militare, ma anche attraverso una giustificazione spirituale ed esoterica, che rimandava ai miti ancestrali della Germania. Questo tentativo di costruzione di un ordine mistico suggerisce quanto l’esoterismo fosse profondamente radicato nella mentalità di alcuni leader nazisti e non semplicemente una questione di propaganda superficiale.

Un altro aspetto fondamentale trattato da Galli è il ruolo della Società Thule, un gruppo esoterico fondato alla fine della Prima guerra mondiale che condivideva molte delle idee razziste e antisemite che avrebbero poi caratterizzato l’ideologia nazista. Galli evidenzia come la Thule abbia contribuito a plasmare le prime idee del nazismo, fornendo un terreno fertile per la diffusione di miti ariani e leggende nordiche. Hitler stesso, pur non essendo formalmente un membro della Thule, sembra essere stato influenzato da alcune delle sue teorie. Galli, tuttavia, invita alla cautela nel sopravvalutare l’impatto diretto della Società Thule sul pensiero hitleriano, poiché le sue convinzioni personali erano più pragmatiche e opportunistiche rispetto a quelle dei suoi colleghi più fanatici.

Il mito dell’arianesimo, cuore dell’ideologia nazista, è strettamente legato alle concezioni esoteriche promosse da Himmler e dagli altri ideologi del regime. Galli sottolinea come la costruzione del concetto di “razza ariana” fosse più che un mero strumento politico: veniva percepito dai leader nazisti come una verità spirituale e mitologica. Il ritorno alle radici ancestrali degli ariani, l’idea di un popolo puro e superiore destinato a dominare, non era solo una giustificazione per la discriminazione razziale e l’espansione militare, ma anche un tentativo di creare una nuova religione di Stato che sostituisse il cristianesimo, ritenuto troppo debole e universale. Himmler e altri, come Alfred Rosenberg, vedevano nella creazione di una religione nazista basata sui miti ariani una forma di rinascita spirituale per il popolo tedesco.

Le implicazioni politiche di questo esoterismo sono uno dei punti più controversi del saggio di Galli. Egli esplora se le idee occulte abbiano effettivamente influenzato le decisioni strategiche del regime, come l’espansionismo tedesco e la politica di sterminio razziale. Galli suggerisce che, pur non essendo la causa diretta delle atrocità naziste, l’esoterismo abbia contribuito a giustificare una visione del mondo che rendeva plausibili queste politiche agli occhi dei leader nazisti. Tuttavia, il legame tra esoterismo e azione politica non è sempre facile da dimostrare, e qui Galli invita alla cautela nel sovrapporre mito e realtà. Alcuni dei principali esponenti del regime, come Joseph Goebbels e lo stesso Hitler, sembravano meno interessati alle questioni esoteriche rispetto a Himmler, concentrandosi invece su questioni più pragmatiche come il consenso popolare e la gestione del potere.

In definitiva, il saggio di Galli solleva interrogativi importanti sul ruolo delle idee esoteriche nel nazismo, offrendo una prospettiva affascinante, anche se a tratti controversa. Mentre è chiaro che l’occultismo influenzò profondamente alcuni leader nazisti, resta da stabilire fino a che punto queste credenze abbiano effettivamente guidato le politiche del regime o se, come alcuni critici suggeriscono, fossero più che altro un sottofondo ideologico senza reali effetti pratici.

Nella seconda parte del suo saggio, Giorgio Galli si concentra sul rapporto tra scienza, pseudoscienza ed esoterismo nel contesto del nazismo, analizzando come queste dimensioni si siano intrecciate per legittimare e promuovere l’ideologia del Terzo Reich. Un aspetto cruciale di questo intreccio riguarda l’uso distorto della scienza per sostenere le teorie della supremazia razziale, in particolare attraverso la ricerca sull’origine ariana. Galli esplora il modo in cui il regime nazista ha adottato e manipolato concetti scientifici, come il darwinismo sociale, per giustificare la politica razziale e il genocidio. Le ricerche sull’origine ariana, sponsorizzate dalle SS e dall’Ahnenerbe (l’istituto di ricerca fondato da Himmler), si basavano su pseudoscienze che mescolavano elementi di antropologia, archeologia e mitologia. Galli sottolinea come queste teorie fossero intrinsecamente legate a un’esoterica visione del mondo, ma fossero principalmente strumentalizzate per fini politici, conferendo un’aura di legittimità scientifica alla superiorità razziale e all’espansionismo nazista.

Il völkisch, movimento culturale che esaltava le virtù della Germania precristiana e promuoveva il ritorno a una purezza etnica e spirituale originaria, gioca un ruolo fondamentale nel quadro esoterico delineato da Galli. Questo ritorno mitico a un passato glorioso, incarnato nelle saghe nordiche e nella mitologia germanica, divenne uno strumento ideologico per il nazismo. Galli analizza come il völkisch fosse impregnato di elementi esoterici, recuperando credenze pagane e l’immagine idealizzata di una Germania incontaminata, preindustriale e precristiana. L’idea di una Germania primordiale, libera dalla corruzione della modernità e del cristianesimo, era centrale nell’elaborazione dell’identità nazista e veniva usata per giustificare la purificazione razziale e l’espansione territoriale. Il culto degli antenati, l’adorazione delle forze della natura e il misticismo della terra erano tutti elementi che il regime sfruttò abilmente per radicare il nazismo nella cultura popolare e consolidare il consenso attorno a questa mitologia.

Una delle domande che Galli si pone è fino a che punto l’interesse per l’occultismo e l’esoterismo fosse diffuso tra il popolo tedesco. Egli nota che, mentre l’élite nazista, in particolare le SS, sembrava profondamente affascinata dalle credenze occulte, queste stesse idee non ebbero mai una diffusione significativa tra le masse. Il regime nazista, tuttavia, comprese il potere del simbolismo magico e dei miti ariani, utilizzandoli per consolidare il consenso popolare e attrarre segmenti della popolazione sensibili a una visione del mondo mistica e spirituale. Sebbene il nazismo si presentasse come un movimento razionalista e modernista, esso fece ampio ricorso a miti e simboli esoterici per creare un senso di appartenenza e legittimare la propria ideologia. Galli suggerisce che la propaganda nazista utilizzò abilmente tali credenze per rafforzare il culto della personalità di Hitler, che veniva ritratto come un leader quasi messianico, capace di incarnare il destino mistico della Germania. Tuttavia, è evidente che l’interesse popolare per l’occulto era più superficiale rispetto a quello delle élite naziste, rimanendo una componente secondaria nella costruzione del consenso di massa.

Il saggio di Galli ha, tuttavia, suscitato numerose critiche. Uno dei principali limiti del suo lavoro, secondo alcuni storici, riguarda l’eccessiva enfasi posta sulla componente esoterica del nazismo. Galli traccia un legame forte tra il nazismo e le credenze occulte, ma non tutti concordano sulla reale importanza di tali influenze. Molti storici sostengono che il nazismo fosse principalmente un movimento politico, radicato in questioni economiche, sociali e culturali concrete, e che l’esoterismo fosse un fenomeno marginale, coltivato da poche figure all’interno del regime. Galli, pur riconoscendo il pragmatismo di Hitler e di altri leader nazisti, rischia di sopravvalutare l’impatto delle credenze magiche sulle decisioni politiche effettive del Terzo Reich. Sebbene Himmler e alcuni membri delle SS fossero sinceramente convinti delle idee esoteriche, Hitler stesso mostrò un atteggiamento ambiguo nei confronti di tali credenze, preferendo sfruttarle per fini propagandistici piuttosto che farle parte integrante della sua visione politica.

Un altro punto di dibattito è il rischio di confondere mito e realtà. Galli stesso è consapevole della delicatezza dell’argomento e cerca di evitare interpretazioni eccessivamente sensazionalistiche, ma il suo lavoro si colloca comunque in un filone di studi che rischia di alimentare il mito del “nazismo magico”, un’idea che ha trovato terreno fertile nella cultura popolare. Film, libri e serie TV hanno contribuito a diffondere l’immagine del nazismo come un regime intriso di misticismo e occultismo, presentando i suoi leader come figure quasi sataniche legate a forze oscure. Il saggio di Galli, per quanto rigoroso, può essere visto da alcuni come parte di questa narrativa, che rischia di distorcere la comprensione storica del nazismo. Tuttavia, è innegabile che la fascinazione per il “nazismo magico” continui a esercitare un forte richiamo, tanto nella ricerca accademica quanto nella cultura popolare. Galli, consapevole di questo rischio, cerca di smantellare le esagerazioni, mostrando come l’esoterismo fosse solo una delle tante sfaccettature del nazismo, ma la forza del mito è difficile da contenere.

In conclusione, Hitler e il nazismo magico di Giorgio Galli rappresenta un contributo prezioso per comprendere l’intersezione tra ideologia politica ed esoterismo nel Terzo Reich, pur presentando dei limiti. Galli offre una lettura affascinante e inquietante del nazismo, ma il suo approccio rimane oggetto di discussione tra chi vede nell’esoterismo una dimensione centrale del nazismo e chi la considera un elemento marginale o addirittura mitologico.

Il Mattino dei Maghi: recensione critica

Il mattino dei maghi, pubblicato nel millenovecento sessanta, è uno dei saggi più influenti nel panorama delle teorie alternative e dell’esoterismo moderno. Scritto da Louis Pauwels e Jacques Bergier, l’opera si presenta come un manifesto di “realismo fantastico”, un nuovo approccio alla conoscenza che mescola scienza, mito e immaginazione. Pauwels, giornalista e scrittore, e Bergier, chimico ed esperto di fisica nucleare, combinano le loro competenze per dare vita a un testo che cerca di riscrivere i confini del possibile, esplorando un territorio dove il razionale e l’irrazionale si fondono, provocando sia fascino che controversie.

Uno degli elementi centrali del saggio è la fusione tra scienza e esoterismo. Gli autori partono dall’idea che la scienza tradizionale sia limitata da pregiudizi materialisti e da una visione riduzionista del mondo, e propongono invece un’esplorazione più ampia che abbraccia la conoscenza esoterica, inclusa l’alchimia, l’astrologia e il misticismo. In questo contesto, non vedono l’esoterismo come mera superstizione, ma come un campo di indagine parallelo che potrebbe svelare verità più profonde sulla natura dell’universo e del potenziale umano. Ad esempio, l’alchimia non è più considerata solo una pseudoscienza medievale, ma una metafora della trasformazione interiore e della capacità della mente di trascendere i limiti imposti dalla scienza moderna.

Questo approccio si lega al concetto di “realismo fantastico”, una delle idee più innovative e provocatorie del saggio. Pauwels e Bergier propongono una visione della realtà che non esclude il fantastico, ma che lo integra come parte integrante della comprensione del mondo. Il realismo fantastico non è semplice fiction, ma una ricerca di verità più alte che non si possono spiegare solo attraverso i metodi della scienza empirica. Il fantastico, in questa visione, diventa uno strumento per esplorare ciò che ancora non conosciamo o comprendiamo del tutto: dalla vita extraterrestre alle capacità mentali inespresse dell’uomo. Questa prospettiva ha influenzato in modo profondo la cultura degli anni ‘sessanta e settanta, aprendo la strada a un nuovo interesse per l’occulto e le teorie del complotto.

Un altro tema cruciale è la critica alla scienza ortodossa. Pauwels e Bergier sostengono che la scienza moderna sia spesso troppo chiusa nei confronti delle teorie alternative, etichettandole come pseudoscientifiche senza concedere loro il beneficio del dubbio. Gli autori puntano il dito contro il dogmatismo della scienza, che rifiuta di considerare possibilità come l’alchimia moderna, le antiche civiltà avanzate o la capacità umana di sviluppare facoltà straordinarie. In questo senso, Il mattino dei maghi può essere visto come un appello a un’apertura mentale che includa nuove forme di conoscenza, rompendo i confini rigidi tra il conosciuto e l’ignoto.

Un concetto centrale nel saggio è l’idea del “superuomo”, una figura capace di evolvere a livelli di coscienza superiori rispetto all’umanità attuale. Pauwels e Bergier sono affascinati dall’idea che l’evoluzione umana non sia solo biologica, ma anche spirituale e mentale. Esistono, secondo loro, individui con capacità mentali straordinarie, capaci di percepire e comprendere realtà che sfuggono ai comuni mortali. Questi “superuomini” rappresentano la speranza per un futuro in cui l’umanità possa trascendere i propri limiti attuali, accedendo a una dimensione più alta di conoscenza e potere. Questa visione si ricollega alla tradizione esoterica dell’uomo illuminato o iniziato, capace di utilizzare poteri nascosti per cambiare la realtà.

Infine, le teorie su Atlantide e le civiltà perdute giocano un ruolo di primo piano nel saggio. Pauwels e Bergier speculano che Atlantide non sia solo un mito, ma una civiltà reale che ha raggiunto livelli di conoscenza tecnologica e spirituale superiori a quelli della nostra epoca. Secondo gli autori, il progresso tecnologico e scientifico dell’antichità potrebbe essere andato perduto con la caduta di Atlantide e di altre civiltà avanzate, lasciando dietro di sé solo frammenti di conoscenza sotto forma di miti e leggende. Questa ipotesi si collega al desiderio degli autori di vedere oltre il passato documentato dalla storia ufficiale, esplorando possibilità affascinanti e alternative.

Il mattino dei maghi si propone come un’opera che sfida le convenzioni della scienza e della conoscenza, spingendo i lettori a interrogarsi su cosa sia realmente possibile e su cosa, invece, venga escluso dalla scienza tradizionale. È un saggio che, pur nella sua audacia e speculazione, ha il merito di proporre una visione alternativa del mondo e dell’uomo, unendo elementi esoterici e scientifici in un mix che ancora oggi stimola dibattiti e riflessioni.

Un tema particolarmente controverso sviluppato da Pauwels e Bergier è l’influenza dell’occultismo nel nazismo. Gli autori esplorano la tesi secondo cui il regime nazista avrebbe cercato di sfruttare il potere dell’occulto per i suoi fini ideologici e politici. In particolare, si soffermano sul legame tra alcuni esponenti di spicco del nazismo, come Heinrich Himmler, e le società esoteriche del tempo, suggerendo che il Reich non fosse solo interessato alla conquista materiale del mondo, ma anche alla conquista spirituale attraverso la conoscenza occulta. Le ricerche occulte condotte dai nazisti, secondo Pauwels e Bergier, includevano la ricerca di reliquie mistiche come la Lancia del Destino e indagini su antiche civiltà come Atlantide, ritenute depositarie di segreti tecnologici e spirituali in grado di garantire il dominio assoluto. Questa commistione tra potere politico e occultismo viene presentata come una delle cause più inquietanti del successo temporaneo del nazismo, nonché della sua caduta.

Uno degli aspetti più affascinanti del saggio è l’enfasi posta sul potenziale della mente umana. Pauwels e Bergier sostengono che l’uomo possieda capacità mentali latenti ancora inespresse, che, se sviluppate, potrebbero rivoluzionare la scienza e la tecnologia del futuro. Questa idea si collega direttamente al concetto del “superuomo” già trattato, ma si allarga includendo possibilità come la telepatia, la levitazione e altre facoltà paranormali. Gli autori immaginano un’umanità futura in cui la mente sarà in grado di dominare la materia, di piegare le leggi della fisica attraverso la pura forza del pensiero. In questo scenario, la scienza, così come la conosciamo oggi, sarebbe solo una fase transitoria, destinata a essere superata da una conoscenza più profonda e completa delle potenzialità umane.

Uno dei messaggi centrali del saggio riguarda il rapporto tra scienza e immaginazione. Pauwels e Bergier sottolineano l’importanza di non confinare la scienza all’interno dei rigidi schemi della razionalità tradizionale, ma di lasciare spazio all’immaginazione come strumento di progresso. La scienza, secondo gli autori, non dovrebbe essere un dominio esclusivamente empirico e riduzionista, ma un campo aperto a nuove intuizioni, anche quelle che potrebbero sembrare irrazionali o paradossali. In questo senso, il loro approccio può essere visto come un invito a pensare oltre i limiti della scienza convenzionale, accettando l’idea che ciò che oggi appare fantastico o impossibile possa un giorno rivelarsi realtà. L’immaginazione scientifica, quindi, diventa non solo uno stimolo per l’innovazione, ma anche un modo per esplorare gli angoli più remoti della conoscenza umana.

Tuttavia, Il mattino dei maghi ha sollevato anche numerose critiche, soprattutto riguardo al rischio della pseudoscienza. Alcuni detrattori hanno accusato Pauwels e Bergier di promuovere idee speculative e poco fondate, contribuendo alla diffusione di teorie che non hanno un solido supporto scientifico. Le speculazioni sugli antichi astronauti, su Atlantide e sui poteri mentali straordinari, secondo i critici, rischiano di spingere i lettori verso una confusione tra ciò che è plausibile e ciò che è puramente fantastico. Nonostante ciò, i due autori cercano di mantenere un equilibrio, evitando di presentare le loro idee come verità assolute, ma piuttosto come possibilità da esplorare con apertura mentale e spirito critico. In questo senso, il libro rimane sospeso tra il confine sottile che separa la fantasia dalla plausibilità, cercando di stimolare la riflessione più che di imporre delle conclusioni definitive.

L’impatto culturale de Il mattino dei maghi è stato profondo, specialmente negli anni ’60 e ’70, quando il saggio ha influenzato la controcultura e il crescente interesse per l’esoterismo e le teorie alternative. Il libro ha ispirato intere generazioni di lettori a esplorare nuove strade di conoscenza e a mettere in discussione le verità scientifiche e storiche stabilite. Il suo contributo alla diffusione di idee alternative, dal potenziale latente della mente umana alla revisione della storia ufficiale, ha avuto un eco duraturo nella cultura popolare. Il movimento New Age, in particolare, ha ripreso molte delle teorie speculative proposte da Pauwels e Bergier, così come la narrativa fantascientifica e i numerosi documentari e libri sugli antichi misteri e i poteri occulti.

In conclusione, Il mattino dei maghi è un’opera che sfida il lettore a ripensare i limiti della scienza e della conoscenza, spingendo lo sguardo oltre l’orizzonte del razionale per esplorare ciò che è possibile, ma ancora inespresso. Nonostante le critiche per il suo carattere speculativo e, a tratti, pseudoscientifico, il saggio ha il merito di aver aperto nuove prospettive di riflessione su temi complessi e affascinanti, dalla potenza latente della mente umana alle antiche civiltà perdute. Pauwels e Bergier offrono una visione del mondo che, sebbene a volte audace, invita a un dialogo tra scienza, immaginazione e spiritualità, continuando a stimolare il pensiero critico e a ispirare la ricerca del mistero.

Dan Brown: dal Codice da Vinci ai misteri della massoneria, analisi critica dei suoi 5 romanzi più famosi

Dan Brown: un viaggio tra simboli, misteri e cospirazioni globali

Dan Brown è un maestro nel tessere trame intricate e avvincenti, intrecciando storia, arte, scienza e religione in un cocktail esplosivo che ha conquistato milioni di lettori in tutto il mondo. I suoi romanzi, con protagonista il professor di simbologia Robert Langdon, sono veri e propri thriller culturali che ci portano in un viaggio attraverso i luoghi più iconici del pianeta, alla scoperta di segreti millenari e cospirazioni globali.

“Angeli e Demoni”: un thriller all’ombra del Vaticano

La nostra avventura con Langdon inizia a Roma, nel cuore del Vaticano. In “Angeli e Demoni”, il professore è chiamato a risolvere un enigma legato agli Illuminati, una setta segreta che minaccia di distruggere la Città Eterna. Tra cripte nascoste, simboli alchemici e antichi rituali, Langdon si trova a inseguire un assassino che lascia dietro di sé macabri messaggi. Il romanzo è un mix perfetto di storia, religione e thriller, che tiene il lettore incollato alle pagine fino all’ultima parola.

“Il Codice da Vinci”: un capolavoro che ha fatto storia

Pubblicato nel 2003, “Il Codice da Vinci” è stato un vero e proprio fenomeno editoriale, capace di scatenare dibattiti e polemiche in tutto il mondo. Il romanzo, ambientato tra Parigi e Londra, ci trascina in un’avventura alla scoperta dei segreti nascosti nei dipinti di Leonardo da Vinci. Langdon e la criptologa Sophie Neveu sono alle prese con una cospirazione millenaria che coinvolge il Santo Graal e la discendenza di Gesù Cristo. Un thriller avvincente, ricco di enigmi e colpi di scena, che ha reso Dan Brown una superstar della letteratura.

“Il Simbolo Perduto”: i misteri della massoneria

In “Il Simbolo Perduto”, Langdon si ritrova a Washington D.C., alla ricerca di un amico scomparso. Le sue indagini lo porteranno a scoprire i segreti della massoneria e le origini esoteriche della capitale degli Stati Uniti. Un romanzo ricco di simbologia, che esplora le connessioni tra passato e presente, tra scienza e spiritualità.

“Inferno”: un viaggio nell’Inferno dantesco

“Inferno” ci porta a Firenze, sulle tracce di un folle scienziato che ha progettato un’arma biologica ispirata alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Langdon, insieme alla dottoressa Sienna Brooks, dovrà risolvere una serie di enigmi per sventare un piano che potrebbe portare alla distruzione dell’umanità. Un thriller avvincente, che combina l’azione alla riflessione sui grandi temi della vita e della morte.

“Origin”: la sfida tra scienza e fede

L’ultimo capitolo della saga, “Origin”, ci porta in Spagna, dove Langdon è chiamato a indagare su una scoperta scientifica rivoluzionaria che potrebbe mettere in discussione le fondamenta della religione. Un thriller avvincente che esplora i confini tra scienza e fede, tra ragione e fede.

Cosa accomuna questi romanzi?

  • Una trama avvincente: Ogni romanzo di Dan Brown è un viaggio emozionante, ricco di colpi di scena e misteri da risolvere.
  • Personaggi indimenticabili: Langdon è un protagonista carismatico e affascinante, affiancato da personaggi secondari altrettanto interessanti.
  • Un’accurata ricerca: Brown si documenta a fondo su storia, arte, scienza e religione, rendendo i suoi romanzi credibili e realistici.
  • Un ritmo serrato: La narrazione è sempre incalzante, con capitoli brevi che mantengono alta la tensione.
  • Un finale sorprendente: Ogni romanzo si conclude con un colpo di scena che lascia il lettore a bocca aperta.

Ma quali sono i punti deboli di questi romanzi?

  • Inesattezze storiche e scientifiche: Molti critici hanno sottolineato le numerose imprecisioni presenti nelle opere di Brown.
  • Personaggi stereotipati: Alcuni personaggi, come lo stesso Langdon, possono apparire poco complessi e stereotipati.
  • Stile di scrittura semplice: Lo stile di Brown, pur essendo efficace nel creare suspense, può risultare a volte troppo semplice e ripetitivo.

Nonostante queste critiche, i romanzi di Dan Brown continuano a riscuotere un enorme successo. Il motivo è semplice: sono romanzi avvincenti, facili da leggere e capaci di stimolare la curiosità del lettore. Chi cerca un thriller ricco di azione e misteri, non può fare a meno di leggere almeno uno dei libri di Dan Brown.

Aneddoti e curiosità

  • Il successo planetario: “Il Codice da Vinci” ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, scatenando un vero e proprio fenomeno culturale.
  • Le polemiche: I romanzi di Brown hanno spesso suscitato polemiche, in particolare per le loro interpretazioni della storia e della religione.
  • L’adattamento cinematografico: “Il Codice da Vinci” è stato adattato in un film di successo, interpretato da Tom Hanks.
  • L’influenza di Umberto Eco: Brown ha dichiarato di essersi ispirato a Umberto Eco per la costruzione dei suoi romanzi.
  • I viaggi di ricerca: L’autore è solito viaggiare in lungo e in largo per documentare i suoi romanzi, visitando i luoghi che faranno da sfondo alle sue storie.

Dan Brown è un autore capace di farci viaggiare nel tempo e nello spazio, alla scoperta di misteri millenari e cospirazioni globali. I suoi romanzi sono un perfetto mix di avventura, cultura e intrattenimento, che non mancheranno di appassionare anche i lettori più esigenti.

Il confronto con altri maestri del thriller

Dan Brown è spesso paragonato ad altri grandi autori di thriller come Umberto Eco e Stephen King. Se Eco è noto per la sua erudizione e la complessità dei suoi enigmi, Brown predilige un approccio più avventuroso e spettacolare. I romanzi di Brown, pur non raggiungendo la profondità intellettuale di quelli di Eco, offrono un intrattenimento più immediato e coinvolgente.

Stephen King, invece, si distingue per la sua capacità di creare atmosfere cupe e inquietanti, e di esplorare le paure più profonde dell’animo umano. Brown, al contrario, predilige un approccio più razionale e scientifico, anche se non manca di inserire elementi soprannaturali e misteriosi nelle sue storie.

Temi ricorrenti e influenze culturali

I romanzi di Dan Brown sono caratterizzati da alcuni temi ricorrenti:

  • Il conflitto tra scienza e fede: Molti romanzi di Brown esplorano la tensione tra la conoscenza scientifica e le credenze religiose, ponendo interrogativi sulla natura dell’uomo e sul significato della vita.
  • La simbologia e l’esoterismo: I simboli e i codici segreti sono elementi fondamentali nelle trame di Brown, che utilizza la simbologia per creare un’atmosfera misteriosa e affascinante.
  • Le cospirazioni globali: Le storie di Brown sono spesso incentrate su complotti segreti che minacciano l’ordine mondiale.
  • Il viaggio iniziatico: Il protagonista, Robert Langdon, è spesso coinvolto in un viaggio alla scoperta di sé stesso, alla ricerca di verità nascoste.

Le influenze culturali sui romanzi di Brown sono molteplici:

  • La storia dell’arte: L’arte, in particolare quella rinascimentale, è un elemento fondamentale nei romanzi di Brown. L’autore utilizza i dipinti, le sculture e gli edifici storici come scenari e come elementi simbolici.
  • La religione: La religione, in particolare il cristianesimo, è un altro tema ricorrente nei romanzi di Brown. L’autore esplora le diverse interpretazioni dei testi sacri e le antiche credenze.
  • La massoneria: La massoneria è un’altra delle passioni di Brown, che dedica diversi romanzi all’esplorazione dei misteri di questa società segreta.
  • La tecnologia: La tecnologia gioca un ruolo sempre più importante nei romanzi di Brown, che utilizza gli ultimi ritrovati scientifici per creare trame avvincenti e realistiche.

L’impatto culturale

I romanzi di Dan Brown hanno avuto un impatto significativo sulla cultura popolare, suscitando un rinnovato interesse per la storia, l’arte e la simbologia. Molti lettori, dopo aver letto i suoi libri, si sono appassionati alla storia dell’arte e hanno visitato i luoghi descritti nei romanzi. Inoltre, Brown ha contribuito a diffondere la passione per gli enigmi e i codici segreti, ispirando la creazione di numerosi giochi e applicazioni.

In conclusione

Dan Brown è un autore capace di coniugare intrattenimento e cultura, offrendo ai suoi lettori un’esperienza di lettura unica e coinvolgente. I suoi romanzi, pur presentando alcune limitazioni, sono un punto di riferimento per tutti gli appassionati di thriller e di misteri.

Cosa ne pensi di questa analisi? Vorresti approfondire qualche altro aspetto dei romanzi di Dan Brown? Qual è il suo romanzo che hai preferito? Lascia un commento e condividi la tua opinione!

Il Patto Oscuro: racconto horror di paura e perdizione

Era una di quelle notti in cui il bar sembrava un rifugio per anime perdute. Il fumo delle sigarette si mescolava con l’odore stantio della birra versata, e il jukebox suonava una vecchia canzone blues che nessuno ascoltava davvero. Il barista, un uomo con più cicatrici che sorrisi, asciugava bicchieri con un panno sporco, osservando i clienti con occhi stanchi.

Tra i soliti avventori, quella notte c’era una figura nuova. Un uomo alto, con un cappotto nero e un cappello che gli copriva metà del viso. Si sedette al bancone e ordinò una pinta di vino Malvasia frizzante dei Colli Piacentini, senza ghiaccio. Il barista lo servì senza fare domande, ma non poté fare a meno di notare le mani dell’uomo: erano coperte di lividi e tatuaggi, come se avesse combattuto una guerra personale.

“Brutta giornata?” chiese il barista, cercando di rompere il silenzio.

L’uomo alzò lo sguardo, rivelando occhi che sembravano vuoti, come pozzi senza fondo. “Le giornate sono tutte uguali,” rispose con una voce che sembrava provenire da un altro mondo.

Il barista annuì, riconoscendo quel tipo di disperazione. Aveva visto molti uomini come lui, uomini che cercavano di annegare i loro demoni in un bicchiere. Ma c’era qualcosa di diverso in quell’uomo, qualcosa che lo metteva a disagio.

La notte avanzava e il bar si svuotava. Alla fine, rimasero solo il barista e l’uomo con il cappotto nero. Il barista si avvicinò per chiudere, ma l’uomo lo fermò con uno sguardo.

“Non chiudere ancora,” disse. “Ho una storia da raccontarti.”

Il barista sospirò, ma si sedette. “Va bene, racconta.”

Era una notte senza luna, e il vento ululava tra gli alberi come un lupo affamato. Camminavo lungo una strada deserta, cercando di sfuggire ai miei pensieri. La mia vita era un disastro: avevo perso il lavoro, la casa, e la donna che amavo. Ero solo, disperato, e pronto a fare qualsiasi cosa per cambiare la mia sorte.

Fu allora che lo vidi. Un uomo alto, avvolto in un mantello nero, stava in piedi al centro della strada. I suoi occhi brillavano come carboni ardenti, e un sorriso sinistro gli deformava il volto. Mi avvicinai, attratto da una forza che non riuscivo a comprendere.

“Sembri un uomo in cerca di risposte,” disse con una voce che sembrava provenire dalle profondità della terra.

Annuii, incapace di parlare. Sentivo che quell’uomo sapeva tutto di me, dei miei fallimenti e delle mie paure.

Posso aiutarti,” continuò. “Posso darti tutto ciò che desideri. Ma c’è un prezzo da pagare.”

“Qualsiasi cosa,” risposi senza esitazione. Ero disposto a vendere l’anima pur di uscire da quell’inferno.

L’uomo sorrise ancora più ampiamente. “Molto bene. Allora, firma qui.” Estrasse un pezzo di pergamena e una penna d’oca. Senza pensarci due volte, firmai il mio nome con il sangue che sgorgava da una piccola ferita sul dito.

“Il patto è fatto,” disse l’uomo, e in un istante scomparve, lasciandomi solo nella notte.

Da quel momento, la mia vita cambiò. Trovai un lavoro ben pagato, una casa lussuosa, e una nuova compagna che mi amava. Tutto sembrava perfetto, ma c’era qualcosa che non andava. Ogni notte, avevo incubi terribili. Vedevo ombre che mi inseguivano, sentivo voci che sussurravano il mio nome, e mi svegliavo sudato e terrorizzato.

Una notte, l’incubo divenne realtà. Mi svegliai e trovai l’uomo con il mantello nero ai piedi del mio letto. “È ora di pagare il prezzo,” disse con un ghigno malvagio.

Cercai di scappare, ma le ombre mi avvolsero, immobilizzandomi. Sentii un dolore lancinante al petto, come se un artiglio mi stesse strappando il cuore. Urlai, ma nessuno poteva sentirmi. E mentre l’oscurità mi inghiottiva, capii che avevo commesso un errore fatale.

Ora, sono condannato a vagare per l’eternità, un’anima perduta in cerca di redenzione. E ogni notte, rivivo quel momento, sentendo il dolore e la disperazione che mi hanno portato a fare quel patto maledetto.

Mentre l’uomo parlava, il barista sentì un freddo crescente, come se la temperatura fosse scesa improvvisamente.

Quando l’uomo finì, il barista si rese conto che non aveva mai sentito una storia così terribile. “E ora?” chiese, con la voce tremante.

L’uomo si alzò, lasciando una banconota sul bancone. “Ora, aspetti,” disse, e uscì nel buio della notte.

Il barista rimase lì, paralizzato dalla paura. Sentiva che qualcosa di terribile stava per accadere, ma non sapeva cosa. E mentre il silenzio della notte lo avvolgeva, capì che non avrebbe mai dimenticato quella storia, né l’uomo che l’aveva raccontata.

Poi chiuse il locale, ancora scosso dalla storia che aveva appena ascoltato. Le parole dell’uomo con il cappotto nero gli rimbombavano nella testa mentre camminava verso casa. La strada era deserta, e l’aria era fredda e umida. Ogni passo sembrava risuonare nel silenzio della notte.

Mentre girava l’angolo, vide qualcosa che lo fece fermare di colpo. Sul marciapiede, c’era una donna nuda, svenuta. Il suo corpo pallido e ben fatto brillava sotto la luce fioca del lampione, e il barista sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

Si avvicinò lentamente, il cuore che batteva all’impazzata. “Signora, sta bene?” chiese con voce tremante, ma non ottenne risposta. Si chinò per controllare se respirava, e notò delle strane cicatrici sul suo corpo, come se fosse stata graffiata da qualcosa di feroce.

Improvvisamente, la donna aprì gli occhi. Erano occhi vuoti, senza vita, e il barista si sentì investito da un’ondata di terrore. La donna si sollevò lentamente, come se fosse mossa da fili invisibili. “Aiutami,” sussurrò con voce baritonale.

Il barista indietreggiò, con il panico che lo attanagliava. “Chi sei? Cosa ti è successo?” chiese, ma la donna non rispose. Invece, iniziò a camminare verso di lui, le braccia tese come se volesse afferrarlo.

Il barista si girò e iniziò a correre, il respiro affannoso e il cuore che gli martellava nel petto. Sentiva i passi della donna dietro di lui, sempre più vicini. Girò un altro angolo e si trovò di fronte a un vicolo cieco. Era intrappolato.

Si voltò, pronto a difendersi, ma la donna era scomparsa. Il silenzio della notte era tornato, ma il barista sapeva che qualcosa di terribile era appena iniziato. Sentiva che le ombre lo osservavano, pronte a colpire. E mentre si affrettava verso casa, capì che la storia dell’uomo con il cappotto nero non era solo una semplice leggenda, ma una terribile realtà che stava per inghiottirlo.

Continuò a camminare a passo svelto sino a raggiungere casa. Una volta entrato chiuse la porta dietro di sé e si appoggiò contro di essa, cercando di calmarsi. Ma la paura non lo abbandonava. Le immagini della donna nuda e degli occhi vuoti lo assillavano.

Decise di non accendere le luci, sperando che l’oscurità potesse nasconderlo da qualsiasi cosa lo stesse seguendo. Si diresse verso la cucina, cercando una bottiglia di vino Gutturnio per calmare i nervi. Mentre riempiva un bicchiere, sentì un rumore provenire dal soggiorno. Un fruscio, come di passi leggeri sul pavimento.

Il barista si fermò, il bicchiere a mezz’aria. “C’è qualcuno?” chiese, con la voce tremante. Non ottenne risposta, ma il rumore continuava, avvicinandosi sempre di più. Prese un coltello dal cassetto e si avvicinò lentamente al soggiorno.

Quando entrò, vide una figura nell’ombra. Era la donna, ancora nuda, con gli occhi vuoti che lo fissavano. “Aiutami,” sussurrò di nuovo, ma questa volta la sua voce era più forte, più disperata.

Il barista indietreggiò, il coltello tremante nella sua mano. “Cosa vuoi da me?” gridò, ma la donna non rispose. Lui era terrorizzato. Lei avanzò allungando le mani rugose verso il suo collo.

Il barista cercò allora di scappare, ma inciampò e cadde a terra. La donna si avvicinò sempre di più, e lui sentì un freddo glaciale avvolgerlo. “Per favore, lasciami in pace,” implorò, ma la donna era sempre più vicina.

Improvvisamente, la porta della cucina si spalancò e una figura entrò nella stanza. Era l’uomo con il cappotto nero. “Basta,” disse con voce autoritaria. La donna si fermò, come se fosse stata colpita da una paresi, e poi scomparve nell’ombra.

Il barista rimase a terra, tremante e confuso. “Chi sei tu? Cosa sta succedendo?” chiese all’uomo.

L’uomo si avvicinò e lo aiutò a rialzarsi. “Sono colui che ha fatto il patto,” disse. “E ora, devi aiutarmi a rompere la maledizione.”

Il barista lo guardò, incredulo. “Come posso aiutarti?”

L’uomo sorrise tristemente. “Devi trovare il libro. Il libro che contiene il segreto per rompere il patto. È nascosto in un luogo oscuro, dove le ombre regnano sovrane.”

Il barista annuì, sentendo che non aveva altra scelta. “Dove devo cercare?”

L’uomo indicò una porta nascosta dietro una tenda. “Lì dentro. Ma fai attenzione. Le ombre non ti lasceranno andare facilmente.”

Il barista prese un respiro profondo e si avvicinò alla porta. La aprì lentamente, rivelando una scala che scendeva nell’oscurità.

Iniziò a scendere lentamente le scale, ogni passo un’eco nell’oscurità. La cantina era fredda e umida, e l’aria era densa di un odore di muffa e decomposizione. Le pareti erano coperte di muschio, e il pavimento era scivoloso sotto i suoi piedi. Sentiva il cuore battere come un tamburo, e ogni fibra del suo essere gli diceva di tornare indietro, ma sapeva che non poteva.

Arrivato in fondo alle scale, si trovò davanti a una porta di legno marcio. La aprì con cautela, e un’ondata di aria gelida e puzzolente lo investì. La stanza era immersa nell’oscurità, ma poteva vedere delle ombre muoversi ai margini della sua visione. Sentiva sussurri indistinti, come voci di anime tormentate.

Avanzò lentamente, cercando di non fare rumore. Al centro della stanza, vide un altare di pietra, e sopra di esso, un libro antico e polveroso. Sapeva che quello era il libro che doveva trovare. Si avvicinò, ma appena allungò la mano per prenderlo, le ombre si mossero.

Le ombre lo avvolsero, fredde come il ghiaccio, e sentì un dolore lancinante mentre artigli invisibili gli laceravano la pelle. Urlò, ma il suono fu soffocato dall’oscurità. Le ombre lo trascinarono a terra, e sentì il sangue scorrere dalle ferite aperte. Ogni respiro era una lotta, e il dolore era insopportabile.

Le ombre si fecero più dense, e il barista sentì come se stessero strappando la sua anima dal corpo. Le voci sussurravano parole incomprensibili, e sentiva la sua mente vacillare. Cercò di resistere, ma era inutile. Le ombre erano troppo forti.

Con un ultimo sforzo, cercò di afferrare il libro, ma le sue mani passarono attraverso di esso come se fosse fatto di fumo. Le ombre lo avvolsero completamente, e sentì il freddo penetrare fino alle ossa. Il dolore era insopportabile, e la sua visione si offuscò.

L’ultima cosa che vide fu il volto dell’uomo con il cappotto nero, che lo osservava con un sorriso sinistro. “Il patto è completo,” disse l’uomo, e poi tutto divenne buio.

Il barista fu divorato dalle ombre, il suo corpo e la sua anima persi per sempre nell’oscurità. La cantina rimase silenziosa, e il libro antico tornò al suo posto sull’altare, in attesa della prossima vittima.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Piacenza esoterica

L'orefice ed i bicchieri

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Nel pomeriggio del 22 giugno 1940, il professor Egidio Bardazzi partì alla volta della Primogenita per tenere una conferenza sulla Piacenza esoterica.

Prima di quella trasferta, Bardazzi si era recato più volte al Gatto Nero, la sua locanda preferita. Con la bella stagione gli abiti indossati dalla graziosa figlia dell’oste erano divenuti più leggeri. Le gonne un po’ più corte terminavano poco sopra le ginocchia e lasciavano scoperte e ben in vista le caviglie. Al professore piacevano le caviglie fini e sottili, pensava che una bella caviglia fosse importante almeno quanto delle belle gambe. Le gambe piacevano di più, come recitava il ritornello della canzone del 1938 cantata dal tenore Enzo Aita e dal Trio Lescano, ma era anche vero che in fatto di donne il professore aveva i suoi gusti particolari.

E per la giovanissima Marianna nutriva una passione inconfessata ed inconfessabile. Riteneva che fosse la ragazza più bella del suo quartiere, e non era sicuro se tutte le volte che gli era sembrata anche la più bella del mondo glielo avesse detto o lo avesse solo pensato. Poiché questo succedeva in genere dopo il terzo fiasco di vino, tutto era possibile. Il fatto che l’oste non lo avesse ancora picchiato, gli faceva però sospettare che sino ad allora si fosse attenuto ai soli pensieri. Eppure lui era certo che la fanciulla conoscesse il suo segreto. Sapeva come far capire ad una donna il suo desiderio con un solo sguardo. Ricordava di aver visto Marianna arrossire almeno un paio di volte dopo aver incrociato uno di quei suoi sguardi, e questo per il momento gli bastava. In futuro avrebbe trovato il coraggio di farsi avanti e di sedurla, ma a quell’altezza di tempo era distratto da altri pensieri e si accontentava di fantasticare attorno alle sensuali caviglie della giovane.

L’appuntamento con Metrofane Prassede, il filantropo che aveva organizzato il convegno sulla Piacenza esoterica a cui il professore doveva partecipare come uno dei relatori più importanti, era stato fissato per la sera, in una fiaschetteria vicina al centro della città, dietro la cattedrale.

Bardazzi arrivò a destinazione dopo un bagno di caldo. L’estate era appena iniziata e la pianura padana era già coperta da una cappa di umidità e arsura. Il cielo era terso e non si muoveva una foglia, tutto era fermo, come fosse stato fissato in una fotografia.

Il professore fu accolto dal proprietario della fiaschetteria verso l’orario di chiusura. Era un vecchietto simpatico, con le labbra permanentemente stirate in una smorfia beffarda, lunghi capelli bianchi e due occhietti furbi, oppure folli, o forse entrambe le cose.

Il vecchietto li condusse nel retrobottega dove era stato ricavato un cucinotto.

Il signor Prassede era in piedi dietro ad un tavolo e stava disossando un grosso prosciutto. Il suo volto paffuto era coperto da un paio di baffetti neri, gli occhi erano svegli, uno più grande dell’altro, ed erano di colori diversi: verde-grigio quello piccolo, color ambra quello più grande. Le sue dita erano piccole, ma le muoveva con perizia. Di mestiere faceva l’orafo, e sapeva bene dove mettere le mani.

“Mi sembra che non sia ancora abbastanza stagionato” disse il vecchietto in dialetto, toccando il prosciutto e guardando Prassede con quel ghigno da schiaffi stampato in faccia.

“Prova un poco a ficcartelo nel culo, e vediamo se non è abbastanza duro” gli rispose l’orefice, mentre affettava la coscia del maiale adagiata sul tagliere.

Alla sua destra sedeva un omone con una gamba di legno, i capelli grigi, la fronte larga, le labbra fini e il naso carnoso. Alla sua sinistra due ragazzotti piegati dal ridere sotto al tavolo con le lacrime agli occhi. Davanti a Prassede era seduto l’avvocato Segugio, l’altro principale relatore del convegno sulla Piacenza esoterica.

Sembrava che nessuno avesse fatto caso all’arrivo del professore.

Il vecchietto con la sua espressione scanzonata, tirò fuori da una dispensa incassata nel muro alcuni grossi bottiglioni di vino, ed iniziò ad offrire da bere a tutti.

Bardazzi fu naturalmente lieto di accettare, senza nemmeno informarsi circa la provenienza del vino rosso che il vecchietto stava già mescendo con letizia.

Si limitò ad osservare incuriosito l’orafo ed i suoi amici. Il passato di qualunque persona era in fondo un mistero. Un mistero che poteva essere svelato e compreso solo dai diretti interessati, e a volte nemmeno da loro.

“Credo sia opportuno fare le presentazioni” disse il signor Prassede, mentre il vecchietto era ancora intento a versare da bere ai due giovanotti.

Dopo i convenevoli Bardazzi si guardò attorno pigramente. Osservò le facce di Prassede e dei suoi amici e gli sembrarono tutti esseri insignificanti. L’uomo con la gamba di legno era un operaio in pensione, i ragazzi due studenti universitari. Sapeva già che i discorsi che avrebbero fatto quella sera sarebbero stati una montagna di banalità senza importanza. Del resto era del tutto logico e abituale, la gente parlava tanto per parlare, raccontando cose della propria vita che alla maggior parte delle altre persone non potevano in alcun modo interessare.

Si consolò con il vino. Non faceva a tempo a vuotare il bicchiere che subito il vecchietto lo riempiva di nuovo. Era quella l’unica nota positiva di una serata che si prospettava di una noia mortale.

Pensò ai relatori del convegno sulla Piacenza esoterica che avrebbe incontrato il giorno dopo.

Il suo principale rivale era proprio l’avvocato Segugio, un arrogante fascista della prima ora. Non ne aveva alcuna stima, ed appariva ai suoi occhi come un logorroico funzionario del partito e non certo un vero investigatore dell’occulto. Non si faceva mai domande astute, non faceva collegamenti sagaci, non aveva lo sguardo penetrante che teoricamente dovrebbe avere qualcuno che si dedica a scoprire le verità nascoste, esplorando un mondo fatto di simbolismi, allegorie e messaggi cifrati. Aveva metodo forse, aveva studiato i manuali più diffusi probabilmente, ma era privo di qualsiasi originalità e si comportava come un grigio e paludato burocrate.

Fuori dal negozio i raggi del sole sembravano ramati, come se a quell’ora della sera la luce si facesse più densa, sino a fondersi con l’orizzonte.

Nella cantina del negozio erano nascosti due terroristi, due militanti del partito comunista clandestino. Stavano armeggiando con dell’esplosivo che intendevano utilizzare per un attentato dinamitardo. Volevano assassinare l’avvocato Segugio.

Per non rischiare di addormentarsi, Bardazzi cercò di portare la conversazione, sino a quel momento concentrata sulla provenienza e stagionatura del prosciutto, su questioni a lui più congeniali.

“Ho saputo del furto avvenuto alla biblioteca comunale la settimana scorsa. Dei balordi hanno minacciato di morte la bibliotecaria per farsi consegnare uno dei volumi del libro di Madame Blavatsky, La dottrina segreta” disse il professore rivolgendosi a Prassede, “non è un testo prezioso, per quale ragione pensate lo abbiano voluto rubare?”

“Dire che è senza valore non sarebbe del tutto esatto” obiettò Prassede, “Ad un collezionista potrebbe interessare un’opera destinata al successo dopo la morte dell’autrice, e che nella prima edizione fu stampata in una tiratura limitata” precisò, continuando a distribuire fette di prosciutto. Andava avanti a tagliare, e le sue mani sempre svelte erano instancabili. Bardazzi notò che la destra era ricoperta dalla psoriasi, e dal quel momento iniziò a rifiutare l’appetitoso salume così generosamente offerto.

Gli occhi dei due giovanotti brillavano ogni volta che l’orefice riempiva loro il piatto o il vecchietto rabboccava i bicchieri. In breve tempo si erano già portati in avanzato stato di ebbrezza.

L’uomo dalla gamba di legno reggeva bene il vino, ma da quando erano arrivati l’avvocato Segugio ed il professor Bardazzi non aveva detto una sola parola. Si guardava attorno guardingo e silenziosamente osservava la caciara messa in piedi dal vecchietto.

Questo aveva iniziato a raccontare aneddoti sulle sue trasferte presso i più famosi bordelli di Milano, senza mai smettere di versare vino al professore ed ai ragazzi.

“Io dico che il bordello migliore che abbia mai visto è il Disciplini di Milano, con i suoi specchi e l’atmosfera principesca. Ci si trovano di quelle slandrone da far rizzare persino i capelli, immaginatevi il resto.”

Bardazzi annuì. Il Disciplini era il suo postribolo preferito, il più lussuoso della città, dove una “semplice” costava 20 lire, quanto la paga da due giornate di un bracciante agricolo. Per il professore i casini non erano soltanto dei luoghi di piacere, per lui erano come una seconda casa, posti dove si sentiva a suo agio, dove poteva riflettere e rilassarsi. Si fumava un sigaro e poteva, con la complicità delle maitresses più generose, flanellare per ore, chiacchierando con altri clienti e guardando le ragazze alternarsi nelle “passate”. Alla fine saliva in camera, sempre e solo poco prima della chiusura, quando le ragazze erano più stanche e il suo desiderio più grande.

“Le donne son buone e son brave, ma se arrivano a prenderti la mano son dolori” disse all’improvviso l’uomo con la gamba di legno.

“Ma quale mano!” esclamò il vecchietto, “quelle là ti prendono ben altro” disse.

“E senza troppo parlare!” intervenne il signor Prassede ammiccando con gli occhi strambi.

“Una volta portai una mia amica nel fienile della cascina dove abitava” cominciò allora a raccontare l’uomo con la gamba di legno.

“Era bella, io la desideravo, e poiché non sapevo cosa dirle, le intimai: ‘Tira giù le mutande che ti devo parlare!’ e lo dissi con fermezza, senza esitazioni.”

“E lei cosa ha fatto? Ti ha dato uno schiaffo?” domandò uno dei ragazzotti, buttando giù un’altra copiosa sorsata di vino.

“No, mi ha ubbidito, e l’ho posseduta sulla paglia.”

Gamba di legno aveva la faccia tragica e gli occhi scaltri, non era diverso dagli abituali clienti del Gatto Nero, dove Bardazzi passava molte ore felici ad ubriacarsi, parlando poco ed ascoltando pochissimo, senza sforzarsi di farlo neanche quando era abbastanza lucido da poterci riuscire. Per quanto si sentisse attratto dalle persone umili, giudicava inutile tutto ciò che avevano da dire. Lo annoiavano tutte quelle considerazioni marginali, di quelle che stanno nella seconda o terza fila tra le cose importanti della vita.

Segugio guardò fuori dalla finestra e posò gli occhi sulla luna. Si era fatto buio, e per lui la notte si annunciava lunga e pericolosa.

Nello scantinato i ribelli comunisti avevano terminato il lavoro azionando il timer della bomba. Sarebbe esplosa alle 22:00 in punto. Si scambiarono spietate occhiate di complicità. Erano brutti, privi di scrupoli, e puzzavano di sudore, delinquenza e crudeltà.

L’esplosione avrebbe potuto uccidere molte persone innocenti, in alcun modo compromesse col regime che essi volevano rovesciare. Ma di tutto questo non si preoccupavano minimamente. Erano pronti a sacrificare molte vite sull’altare della rivoluzione, inclusa la loro.

Silenziosamente si allontanarono dalla cantina della fiaschetteria senza essere visti, così come nello stesso modo erano arrivati.

“Sospettate che i balordi che hanno sottratto il libro siano dunque esperti bibliofili?” chiese Bardazzi incuriosito.

“Non direi” rispose l’orefice aggrottando la fronte, “nella biblioteca ci sono volumi assai più preziosi, ma sono stati del tutto ignorati. Se si tratta di ladri in cerca di lucro, non si può certo dire che siano degli esperti.”

“Vi siete fatto un’idea del perché qualcuno abbia voluto rubare proprio quel libro e soltanto quello?” insistette Bardazzi, mentre con la lingua cercava di rimuovere del grasso rimasto incastrato tra i denti.

Prassede si lisciò i baffetti due volte, chiudendo gli occhi come a ricercare una più profonda concentrazione, come se stesse rovistando tra i meandri della sua memoria, in cerca di una risposta risolutiva.

“Si tratta pur sempre di un libro interessante” esordì dopo aver riordinato le idee, “e le teorie in esso riportate godono tuttora di un certo seguito. In molti tra i seguaci del movimento teosofico fondato dalla signora le ritengono del tutto attendibili, per quanto possano apparire stravaganti.”

“In effetti presentano analogie con la cosmogonia esiodea” concesse Bardazzi vuotando un altro bicchiere.

“Vedo che Vi piace questa delicata ambrosia piacentina” disse il vecchietto compiaciuto, versando altro vino nel calice del professore.

L’uomo con la gamba di legno era perplesso. Ignorava cosa fosse la cosmogonia esiodea e non riusciva a comprendere di che cosa stessero parlando. Il suo sguardo vagò per la stanza sino a posarsi su di un grosso orologio a pendolo appeso alla parete: erano le 21:55.

“La tesi di fondo della Blavatsky” iniziò a spiegare l’orefice, “si basa sull’esistenza di un etere psichico chiamato Akasa, di cui l’intero universo sarebbe permeato. Su questo Akasa rimangono registrati gli eventi del passato e alcune persone dotate di poteri particolari sono in grado di leggere queste registrazioni. Grazie a veggenti in contatto con misteriosi istruttori occulti, viene così ricostruita una storia dell’umanità che potremmo definire non convenzionale.”

Il signor Prassede si interruppe, per osservare le reazioni del suo uditorio. I due giovani ormai ubriachi fissavano nel vuoto immersi in uno stato di profondo sopore. Gamba di legno ascoltava tediato la dotta relazione. Il vecchietto guardava Prassede di sottecchi, nella sua vita semplice e spensierata aveva imparato a diffidare delle trappole insite nell’erudizione. Preferiva vivere da ignorante, inconsapevole di tutto quanto lo circondava e che avrebbe potuto rovinargli la vita. Se avesse sperimentato l’ansia per il futuro che il conoscere certe cose comportava, la sua vita sarebbe stata irrimediabilmente diversa. Così aprì un po’ di più gli occhi, lasciando intravedere il languore della vecchiaia, e versò del vino nel suo bicchiere, sino all’orlo.

Bardazzi in quel momento ascoltava interessato, conosceva già le tesi di Madam Blavatsky, ma gli piaceva come l’orefice le stava esponendo. Un tempo avrebbe anche pensato che si potesse trarre qualche insegnamento dalla saggezza altrui, ma dopo tanti anni aveva maturato la convinzione che ciò che si chiama esperienza, altro non sia che un fardello di pregiudizi, illusioni e false idee.

L’avvocato Segugio guardava tutti con occhi socchiusi e la faccia concentrata, si accomodò a gambe aperte su una sedia squadrata appoggiando le braccia sullo schienale, con l’aria di stare comodo.

“La prego signor Prassede, continui la sua esposizione” disse allora fingendo attenzione, senza però riuscire a simularla in modo convincente.

L’orefice non se ne accorse, o perlomeno non diede l’idea che la cosa lo riguardasse in qualche modo, e riprese a raccontare.

“L’umanità avrebbe avuto origini aliene, e sarebbe il frutto di esperimenti compiuti da esseri extraterrestri, che crearono diverse razze, collocandole in diverse parti del mondo: il nord dell’Asia, su di un continente ora scomparso, ma un tempo ubicato nell’oceano Indiano e chiamato Mu o Lemuria, ad Atlantide, sino a creare infine la quinta razza, quella attuale.”

“Una cosmogonia non convenzionale come dite Voi” commentò Bardazzi lanciando uno sguardo diretto contemporaneamente in molti posti, “eppure hanno avuto un seguito ed un altro membro della società teosofica, Scott Elliot, pubblicò altri due libri: La storia di Atlantide, nel 1895 e La perduta Lemuria, nel 1904″

“Molto pertinente” disse Segugio annuendo, “e nel testo del 1895 Elliot afferma che i potenti maghi di Atlantide, utilizzando i loro poteri a fini malefici, ruppero il legame con “gli istruttori occulti” e, trasformando la positiva magia bianca in una negativa magia nera, sconvolsero l’equilibrio naturale della terra, provocando grandi cataclismi.”

“Anche la Blavatsky scrive di uno scontro tra i maghi malefici di Atlantide, e quelli più saggi e buoni di una città chiamata Sham bha lah” aggiunse il professore con la voce impostata.

La barba corta con il pizzetto ed il tono serio, gli conferivano una certa credibilità, e anche l’orefice sembrava sensibile al suo charme. Da quando era stato invitato come relatore al convegno sulla Piacenza esoterica poi, Bardazzi sentiva di essere diventato più imperscrutabile ed interessante. Certamente non avrebbe esitato a sfruttare il suo nuovo fascino per irretire qualche signora sposata, oppure si sarebbe dedicato alla giovane Marianna, piena di vita e di salute, o forse avrebbe cercato di fare entrambe le cose.

Mancava un minuto alle ore 22:00.

“Direi di metter mano a quella botticella di vin santo che è arrivata giusto giusto al punto suo, e lo potremmo degustare nei miei bicchieri” propose allora l’orefice.

L’uomo con la gamba di legno afferrò un bauletto di legno appoggiato sul pavimento e lo depose sul tavolo, dopo aver creato un po’ di spazio spostando il tagliere ed il coltellaccio. Il prosciutto era finito.

Il vecchietto tornò a rovistare nel suo personalissimo tabernacolo, e vi tirò fuori un bottiglione di vetro bianco. Al suo interno brillava un nettare di colore intenso e dorato, e appena lo ebbe stappato una polposa fragranza si sprigionò nella stanza.

L’uomo con la gamba di legno sorrise, pregustando il piacere che quel vino gli avrebbe dato. Aprì il bauletto ed iniziò a tirare fuori dei preziosi calici a tulipano di cristallo blu, finemente lavorati con bassorilievi in oro bianco a tema bucolico.

“Sono proprio brutti” sentenziò il vecchietto, indicando i bicchieri dell’orefice con il dito alzato, reso esageratamente lungo dalla magrezza.

“Gli ho comprati a Parigi apposta, testa di cazzo!” replicò piccato il signor Prassede, mentre i suoi bicchieri scintillavano sotto la luce del lampadario.

Le lancette sul timer della bomba correvano inesorabili, ora mancavano dieci secondi all’esplosione.

Il vecchietto versò nei calici il pregiato e profumato vin santo.

Segugio guardò fuori dalla finestra chiusa, attraverso la quale filtrava la notte. Sospirò rassegnato a passare la serata con quella strana compagnia. Era sicuro che non sarebbe servito a nulla, ma certe volte era necessario espletare tediose formalità, prima di arrivare al cuore delle questioni. Per lui quella era ormai solo una formalità, certamente inconsueta, ma a cui non poteva sottrarsi. Accettò di bere il vin santo sperando che potesse aiutarlo a far passare il tempo più velocemente.

L’orefice portò il calice alla bocca, sorseggiando il delizioso vin santo.

In quel momento entrò nel cucinotto una ragazzina con i capelli biondi a caschetto e l’aria sbarazzina. Indossava solamente una lunga camicia di cotone e le mutandine bianche. Era la nipote del vecchietto, non aveva ancora compiuto i suoi primi quattordici anni e nell’innocenza della sua età non provava alcun imbarazzo ad indossare abiti così discinti. Attraversò ancheggiando il piccolo cucinotto per rovistare nella dispensa del nonno. Abitava al piano di sopra, e salutò distrattamente gli ospiti, quasi ignorando la loro presenza.

La sua apparizione suscitò al contrario forti emozioni. I due ragazzotti, di poco più grandi, la guardarono rapiti, con la vista appannata dall’alcol e un sorriso vacuo stampato sulla faccia. Erano sbronzi, ma il culetto delizioso della giovinetta era roba da concorso di bellezza. Sodo e fresco, come un frutto maturo pronto da gustare, aveva risvegliato tutte e cinque i loro sensi.

“Vieni da me Fiorella” disse il vecchietto afferrando la nipote per un braccio, “vi presento colei che mi chiuderà gli occhi.”

“Nonno! Non dire queste cose, lo sai che non mi piacciono” protestò l’adolescente, senza offrire resistenza e lasciandosi abbracciare.

“Un brindisi alla nipote dell’oste” biascicò uno dei giovani barcollando pericolosamente sulla sedia.

“Un brindisi alla mia bambina” disse il vecchietto allungando la mano sui quei glutei perfetti.

Anche il professore lo aveva notato, la ragazzina era innocente e priva di malizia, ma sapeva già dimenare il fondoschiena come una navigata donna di mondo.

Certe cose dovevano essere innate, stabilì Bardazzi, guardando il vecchietto che le pizzicava affettuosamente il culetto, come se lei fosse ancora una bambina. Fu in quel momento che il professore comprese di sentirsi attratto da lei. Aveva bevuto troppo. Non era possibile che quella mezza donnina brufolosa potesse suscitargli certe reazioni. Si accese la pipa e cercò di distogliere lo sguardo dal corpo acerbo e conturbante di Fiorella, sforzandosi di allontanare i pensieri peccaminosi che la giovinetta gli stava già suscitando. Guardò i cinque bottiglioni vuoti ordinatamente collocati sul pavimento uno in fila all’altro. Ne aveva bevuti, lui solo, almeno tre, poi il vin santo. Il vino piacentino del vecchietto era sincero, ma traditore. Bicchiere dopo bicchiere lo aveva buttato giù senza preoccuparsi, ed ora si trovava ad un sorso da quella condizione ebbra nella quale non sarebbe stato più padrone di sé.

Le campane del duomo di Piacenza iniziarono a suonare, erano le ore 22:00 di quel caldo 22 giugno 1940.

Gamba di legno si era mezzo appisolato sulla sedia, mentre i due giovanotti fissavano con aria inebetita le mutandine bianche di Fiorella, che dopo aver sorseggiato un po’ di vin santo dal bicchiere del nonno, aveva cominciato a ridere e cantare.

Prassede sembrava soltanto interessato a recuperare i suoi calici di cristallo blu finemente lavorati e comperati a Parigi. Si domandò, fissando meditabondo uno dei suoi preziosi bicchieri, se anche nell’antichità le civiltà del passato avessero saputo creare manufatti di analoga bellezza. Immaginò che qualcosa di simile fosse anche esistito, ma nulla di ciò che era stato creato in precedenza o che lo sarebbe stato nel futuro, poteva gareggiare in splendore con i suoi calici. Quando ebbe terminato di riporli nel bauletto provò un’intensa soddisfazione. Li avrebbe lavati uno ad uno, prendendosi cura di loro, come fossero vivi, come fossero la cosa più importante che aveva al mondo. Nessuno gli avrebbe mai sottratto i calici di cristallo. A costo della vita li avrebbe sempre protetti con ogni mezzo.

La deflagrazione fu terrificante.

Si udì una sorda esplosione sotterranea, simile ad un terremoto. Le finestre della cantina esplosero verso l’esterno. Ci fu una serie di schianti. Le fiamme si sprigionarono dal seminterrato. Il pavimento della fiaschetteria scoppiò: mattoni, piastrelle, legno volarono in aria. Il professore e tutti gli altri dentro al cucinotto vennero scaraventati a terra ed inghiottiti dalle viscere dell’edificio. Alcuni presero fuoco, altri furono travolti da una pioggia di schegge, pietre e mattoni.

I calici di cristallo dell’orefice andarono distrutti.

Non ci furono superstiti.

Il corpo della piccola Fiorella fu ritrovato semicarbonizzato con le mutandine bruciacchiate ed annerite dalle fiamme.

L’ultimo pensiero del professor Egidio Bardazzi fu per le gambe della bella Marianna, la giovane locandiera del Gatto Nero.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Bellamorte

 

Era un bel mattino di fine estate e, come tutte le domeniche, Piero Bellamorte si recò al parco comunale per fare una passeggiata e scambiare quattro chiacchiere con gli anziani ospiti della vicina casa di riposo. Anche se ormai la sua impresa di pompe funebri aveva da tempo sbaragliato la concorrenza sino a diventare l’unica in tutta la vallata, Piero non aveva perso le sue abitudini e continuava ad esercitare il suo potere segreto, quello che gli aveva consentito di creare la sua fortuna materiale su questa terra.

Si da quando era bambino aveva scoperto di possedere un dono, una speciale qualità grazie alla quale era in grado di capire quando le altre persone sarebbero morte. Gli bastava prendere un uomo per mano, concentrarsi per qualche secondo e guardarlo negli occhi. Ciò che avrebbe visto nei pochi istanti successivi gli avrebbe rivelato quanto tempo restava da vivere a quella persona. Come un qualunque ciarlatano capace di leggere i fondi del caffè, Piero era capace di leggere dentro l’anima della gente attraverso i loro occhi, con l’unica differenza che Piero non era un ciarlatano, e che le sue previsioni erano sempre esatte.

Anche se conoscere in anticipo la data, e talvolta le circostanze, della dipartita degli altri poteva risultare sgradevole, Piero aveva presto imparato a trarne profitto. Ci riusciva soprattutto con le persone anziane che per via dell’età erano meglio predisposte a fare i conti con l’inevitabile momento del trapasso. E poiché nel corso degli anni almeno nella zona si era diffusa la voce circa le capacità divinatorie di Piero, oramai erano i suoi futuri clienti a cercarlo per scoprire quanto gli restasse da vivere, e lui non doveva nemmeno più prendersi il disturbo di convincere i morituri a concedergli la propria fiducia.

Quella mattina era seduto sulla solita panchina di cemento a godersi il sole con nell’aria il profumo dei mosti e della vendemmia, quando ad avvicinarlo fu una bella ragazza dai capelli dorati e la pelle bianca e liscia. Non poteva avere più di vent’anni.

“Mi hanno detto che sai prevedere quando muore la gente” dichiarò con aria seria rivolgendosi a Piero.

“A volte ci riesco” si schernì lui. Non gli interessavano i giovani. Se fossero morti prematuramente sarebbe stata una disgrazia, e se fossero morti molti anni dopo, probabilmente non si sarebbero serviti dei servizi offerti dalla sua impresa di pompe funebri.

“Conosci anche quando arriverà il tuo momento?” domandò la ragazza scrutandolo con sguardo indagatore.

“No, anche se forse potrei scoprirlo, ma non ho mai voluto farlo.”

“Perché allora lo dici gli altri? Non pensi che nessuno in fondo voglia saperlo?”

“Forse” disse lui con un ghigno, “ma in certe circostanze, e ad una certa età, cambiano le prospettive, le priorità sono diverse e per alcuni saperlo può essere un vantaggio.”

Piero non aveva ancora compiuto i cinquant’anni ed almeno sino ad allora non aveva ancora sentito il bisogno di conoscere quando sarebbe stato il suo giorno.

“Tu ti sei servito di questo talento per arricchirti e vendere i servizi della tua impresa di pompe funebri” sentenziò la ragazza con voce ferma ed un espressione sul viso vagamente accusatoria.

“Le persone si fidano di me, non faccio nulla di sbagliato” disse Piero abbassando lo sguardo. Era la prima volta che qualcuno lo rimproverava per aver tratto vantaggio dalla sua particolare dote. Lui pensava fosse naturale farlo, come le attrici usavano la propria avvenenza, gli scienziati il cervello ed i calciatori le proprie gambe. Avrebbe voluto dirlo anche a quella ragazza bella come un angelo, ma quando rialzò la testa per parlarle, lei era scomparsa.

Piero tornò a casa prima del solito, aveva perso il desiderio di lavorare per quel giorno. Il breve colloquio con quella bionda lo aveva turbato nel profondo. Il dubbio di aver mal vissuto la propria vita iniziò ad insinuarsi nel suo cervello come un tarlo. Improvvisamente avvertì la necessità di redimersi, di recuperare il tempo perduto, di dedicarsi al prossimo, magari anche di utilizzare il suo talento segreto ma in modo nuovo e diverso, senza più metterlo al servizio della sua smisurata sete di ricchezza. Ma ne avrebbe avuto il tempo? Quanto ancora gli restava da vivere? Ecco che per la prima volta volle sapere quando sarebbe giunto il giorno della sua morte.

Si recò con passo incerto sino al bagno, gli si strinse lo stomaco in preda all’ansia, ora che aveva deciso di indagare la propria dipartita. Appoggiò il peso del proprio corpo sulle braccia aggrappandosi al lavandino mentre iniziò a guardare il suo volto riflesso dallo specchio.

Era ancora giovane in fin dei conti, si sentiva in forze, certamente avrebbe ancora avuto il tempo necessario.

Fissò i suoi occhi riflessi dallo specchio e dopo alcuni secondi il suo corpo fu attraversato da un brivido, si sentì avvolgere dal gelo mentre la morte gli sorrideva beffarda e un infarto fulminante lo stroncava sul posto in quella tarda, calda e profumata mattina di fine estate.

Piero Bellamorte fu trovato senza vita soltanto alcuni giorni dopo, e quasi nessuno presenziò al suo funerale.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Bella morte

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Delitto comunista

sator arepo tenet opera rotas

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Verso le 11:30 del 17 marzo 1943 il maresciallo dei carabinieri Melchiade Maffeo era pronto per recarsi sul luogo del delitto, un delitto comunista: una giovane donna stuprata e poi uccisa dai partigiani. Avendo avuto notizia che il castello piacentino dove avevano trovato il cadavere della donna era decorato con mosaici e simboli sacri, ritenne quindi più prudente coinvolgere anche il brigadiere Rubiano Rufina, che era un appassionato d’arte e magari poteva tornare utile. Inserire una relazione del Rufina nel proprio rapporto, pensò sorridendo compiaciuto della propria astuzia, gli avrebbe conferito un certo spessore culturale.

Il brigadiere Rufina dal canto suo pensava più o meno la stessa cosa. Si augurava che una breve interpretazione di qualche simbolo allegorico gli sarebbe bastata per dimostrare la propria competenza in campo artistico. Avrebbe lasciato al maresciallo tutti gli onori, ma soprattutto gli oneri, di dover scoprire chi era la ragazza morta, chi l’aveva uccisa e perché. Lui aveva altro a cui pensare, ancora poche ore e sarebbe partito per una licenza di tre giorni.

Si incamminarono così verso il castello in cima alla collina, entrambi convinti di dover sbrigare una pratica ordinaria o poco di più, senza sospettare minimamente quali inaspettate sorprese quel luogo antico e misterioso avesse in serbo per loro.

Appena giunti davanti all’edificio, il brigadiere Rufina capì subito ad un primo sguardo che non si trattava di una castello qualunque, e che non vi avrebbe trovato delle semplici immagini allegoriche, ma molto di più. Sperduto sulle colline del piacentino era stato edificato un maniero alla cui custodia erano stati affidati numerosi messaggi esoterici.

Dentro al timpano, incastonato nel muro sopra l’ingresso principale, campeggiava un triangolo equilatero attorniato da fiamme rosse con al centro l’occhio che tutto vede. L’iconografia egizia dell’occhio racchiuso nella piramide era divenuta nel tempo uno dei modelli usati dagli artisti del Medioevo per raffigurare il Dio cristiano. Ma in epoche successive la medesima simbologia era stata adottata anche dalla massoneria. Si trattava di un caso o poteva avere un qualche significato occulto? Rufina pensò che lo avrebbe scoperto visitando meglio il vecchio edificio.

Sotto al timpano si apriva il portone a due ante, entrambe erano state rinforzate con una spessa inferriata. Ad attirare l’attenzione del brigadiere fu la grossa croce patente rossa stampigliata sullo stipite destro.

Il maresciallo osservava il Rufina con sufficienza, senza badare allo sguardo rapito con il quale si era messo ad osservare attentamente quell’architettura, come un bambino guarderebbe la carovana che conduce al paese dei balocchi.

Entrarono e il Rufina ebbe conferma delle sue iniziali intuizioni. La pianta a forma rettangolare era perfettamente disposta secondo i quattro punti cardinali con l’ingresso orientata ad occidente e l’ampia vetrata del salone delle feste orientato ad oriente, verso la Terra Santa, come le più importanti cattedrali gotiche sparse per tutta Europa. L’interno era in stile barocco e molte camere erano decorate da affreschi alle pareti e mosaici sul pavimento. Il brigadiere comprese che l’edificio doveva aver subito diverse ristrutturazioni nel corso dei secoli, variando il proprio aspetto originale. Ritenne di poter datare il pian terreno come quello più antico, vecchio di almeno otto o nove secoli. I soggetti di cui era composto il coevo mosaico pavimentale, in tessere bianche e nere con inserti policromi, erano solo parzialmente visibili e distribuiti in modo disordinato, senza nessun apparente criterio logico. Le iconografie erano inscritte in cerchi concentrici elaborati, disposti in un reticolo di tredici quadrati che si ispiravano a temi sacri e profani. Molte parti dell’opera originaria erano andate chiaramente perdute.

A fianco del grande camino in marmo, sulla parte sinistra del pavimento e in posizione defilata, il Rufina individuò dei frammenti di misteriose lettere, proprio nel punto dove il mosaico aveva subito nel corso del tempo i più vistosi rimaneggiamenti, risultando irrimediabilmente alterato. Questo fatto gli sembrò insolito, perché altre zone più esposte al calpestio, come quelle al centro del salone, erano invece intatte. Sembrava quasi che nel passato qualcuno avesse voluto cancellare le tracce di un messaggio lasciato in precedenza dagli autori del mosaico originale.

Rufina si soffermò ad analizzare quella zona dove l’opera musiva era più confusa: i tondi in cui si vedevano delle fiere erano capovolti, vi erano pezzi di altri soggetti indecifrabili, troncati e frammentati ad altri che erano stati ricomposti alla rinfusa, facendo disperdere l’armonica ed organica lettura che in origine l’autore doveva avere impresso alla propria opera.

In tutta quella mescolanza, il brigadiere riconobbe delle lettere superstiti e ben leggibili, collocate in verticale:  R, O, T, una A intuibile ed una S girata di 90 gradi. Ritenne che le prime quattro lettere fossero le finali delle parole SATOR, AREPO, TENET, OPERA, e la S di ROTAS dovesse probabilmente seguirle nell’ordine, ma a causa di inspiegabili modificazioni era finita in quella anomala posizione. Le lettere ben leggibili erano inoltre affiancate da delle linee verticali nere e spesse, come se fossero state poste a delimitare le parole entro delle caselle, le 25 caselle che formavano il quadrato magico del SATOR.

Il brigadiere era sicuro della sua intuizione e decise di prendere degli appunti riproducendo il quadrato magico sul proprio taccuino.

 

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

 

Dopo aver così scoperto la presenza della famosa frase latina palindroma, leggibile da destra verso sinistra, dall’alto verso il basso, ma allo stesso modo dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra, il Rufina proseguì ad analizzare i mosaici nelle parti meglio conservate e che mostravano nel loro inalterato splendore animali reali e fantastici, tipici del bestiario medievale. La sua attenzione fu particolarmente attratta da una di queste allegorie pagane, una grossa sirena con due code, sormontata da un curioso berretto frigio e con il volto bruno, quasi mascolino.

Il brigadiere continuò a prendere appunti: la sirena bicaudata era un simbolo di femminilità e di fertilità, nelle chiese cristiane rappresentava la duplicità della natura umana, il dualismo bene-male, ragione-istinto. Terminò poi l’ispezione di quel luogo misterioso. Il cadavere della ragazza era stato rinvenuto in cantina, abbandonato in posizione fetale alla fine di una galleria sotterranea che si incuneava nel ventre profondo della collina, ma che ad un certo punto era stata interrotta da uno spesso muro di sassi e mattoni.

“Quando è stato fatto questo muro?” chiese il maresciallo avvicinandosi al brigadiere e indicando l’ostacolo che ostruiva il passaggio.

“Probabilmente qualche secolo fa, ma non ho idea del motivo, né potrei dire dove conducesse questa galleria. Forse era una via di fuga sotterranea, nel caso il castello fosse stato preso d’assedio. Possiamo fare solo delle ipotesi.”

“Secondo Voi, per quale motivo l’assassino ha abbandonato il cadavere della ragazza proprio in questo punto?”  chiese ancora Melchiade, illuminando con una torcia la pozza di sangue rappreso sopra al pavimento in pietra del cunicolo.

“Non saprei proprio dire maresciallo”.

“Ditemi, allora, avete travato qualcosa di interessante, o meglio di utile per scoprire chi è l’assassino? Ho visto che state prendendo persino degli appunti”  disse allora Melchiade in modo beffardo.

Il Rufina non raccolse la provocazione, sorrise maliziosamente e disse sibillino: “Dovessi scoprire il nome dell’assassino, sareste il primo a saperlo.”

“Bene” chiosò il maresciallo, “cosa avete trovato allora di tanto interessante?”

“Per il momento solo i resti di una frase palindroma: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS.”

“E cosa diavolo significa?”

“Il significato esatto è ancora oggetto di studio, a causa della parola AREPO che non ha una traduzione certa poiché non è latina, a differenza delle altre. Poiché il quadrato del Sator è presente in molte chiese e non solo in Italia, si pensa che abbia avuto origine ai tempi dei primi cristiani, e identificando la figura del seminatore, il Sator, in quella del Creatore, la versione più accreditata è questa: Il Creatore, l’autore di tutte le cose, mantiene con cura le proprie opere.”

“Una frase piuttosto enigmatica, come pensate che possa esserci utile?” chiese il maresciallo senza nascondere il suo abituale sorrisetto ironico.

“Ancora non lo so, forse lo scopriremo più avanti” rispose piccato il brigadiere.

“A mio avviso abbiamo a che fare con un pazzo fuori di senno” giudicò il maresciallo, mentre osservava quel luogo tetro e claustrofobico.

Il brigadiere stava maturando un’opinione diversa, ma preferì tacere tenendo i propri pensieri per sé. Non erano pensieri confortanti e nella sua mente si consolidava il sospetto che l’autore di quei gesti non fosse affatto guidato dalla follia, ma seguisse piuttosto una logica precisa.

“Con ogni probabilità la vittima ha cercato di difendersi” continuò il maresciallo richiamando l’attenzione del Rufina, “sono state rinvenute tracce di pelle sotto le unghie della ragazza. Il medico legale ritiene che lei abbia cercato di fuggire prima di essere uccisa, in una delle mani impugnava ancora la maniglia spezzata di una porta.”

“Chiunque abbia commesso l’omicidio, deve dunque aver fatto un gran rumore, non ci sono persone che abbiano sentito qualche cosa?” domandò il brigadiere, pensando di fare una domanda pertinente.

“Abbiamo già interrogato gli abitanti delle case più vicine, nessuno ha udito nulla” rispose il maresciallo mostrandosi dubbioso. Al brigadiere sembrò di scorgere sul volto del suo superiore la medesima perplessità che egli stesso nutriva. Forse qualche testimone esisteva ma aveva paura di esporsi, pensò. Un così efferato e crudele omicidio e la paura di una vendetta partigiana avrebbe indotto chiunque ad una certa prudenza.

Terminato il sopralluogo sulla scena del delitto, i due carabinieri si avviarono verso l’uscita, e fu a quel punto che accadde l’imprevedibile.

Un rumore basso e smorzato catturò la loro attenzione. Inizialmente non riuscirono a capire da dove provenisse, poi lo sentirono di nuovo. E ancora una terza volta, sempre uguale, profondo e angosciante.

“Mi sembra che provenga dal muro infondo alla galleria” disse il brigadiere con la faccia contratta dalla tensione.

“Ma non ha senso”, obiettò il maresciallo, “come può un muro emettere suoni così sinistri, come i rintocchi di una campana rotta?”

Il brigadiere decise di ispezionare meglio la parete, per studiare il muro da vicino. La malta ingiallita era irregolare, l’intonaco consumato dal tempo era in gran parte scrostato, le pietre trasudavano umidità. Accostò l’orecchio al muro, ma i rumori erano cessati. Cominciò a picchiettare sulla superficie levigata di alcuni mattoni e sentì un rimbombo sordo risuonare nelle sue orecchie. Un sospetto si fece strada nella sua mente, forse che oltre quella parete si nascondesse qualcosa, forse un’alta stanza, oppure un passaggio segreto?

Continuò ad armeggiare lì intorno fino a quando riuscì a trovare quello che stava cercando. Sul lato destro, a mezza altezza, fuoriusciva dal muro la capocchia di un grosso chiodo, era fatta di ferro battuto, ma facendovi sopra pressione rientrava leggermente dentro la parete. Il brigadiere spinse con maggiore energia, e la capocchia penetrò in profondità dentro al muro azionando un meccanismo.

Il muro cominciò ad aprirsi cigolando verso l’interno. Era stato costruito su di un telaio di ferro arrugginito incardinato su tre grossi perni d’acciaio.

Lo sguardo del maresciallo fu rapito dallo stupore, il suo sottoposto aveva appena fatto funzionare una porta segreta che conduceva ad una camera sotterranea del castello, occultata proprio al centro della collina sulla quale il maniero era stato costruito secoli prima.

L’interno era buio e i due furono investiti da una vampata d’aria calda proveniente dalla stanza che avevano appena scoperto.

Il maresciallo Melchiade Maffeo squarciò l’oscurità con la luce della sua torcia elettrica. All’interno della camera c’era una bella scrivania in mogano, sulla quale era collocata una lampada da tavolo. I due si avvicinarono e il brigadiere l’accese.

Una flebile luce filtrata da un paralume di stoffa rossa illuminò debolmente l’ambiente. Era una specie d’ufficio: con delle cassettiere di legno, una fornita libreria traboccante di testi scritti in cirillico, e un piccolo salottino con un comodo divano imbottito. Sul muro dietro alla scrivania era appesa una fotografia di Giuseppe Stalin, sulla parete opposta una grande bandiera rossa con la falce ed il martello. Non vi erano altri ingressi, non c’erano finestre. In un angolo era ubicato un grosso orologio a pendolo, segnava le 3:10 del pomeriggio ora di Mosca. Il maresciallo capì da dove provenivano i rintocchi che avevano attirato la loro attenzione qualche minuto prima.

“Mondo boia! Abbiamo scoperto una sezione clandestina del partito comunista” esclamò il brigadiere, sconvolto dalla scoperta.

Questa volta una promozione non me la leva nessuno, pensò il maresciallo senza parlare, ma con gli occhi dilatati dall’eccitazione.

Il brigadiere iniziò ad ispezionare la scrivania. Uno dei cassetti sotto al tavolo era chiuso a chiave. Forzò la serratura con il calcio della sua pistola.

Dentro al cassetto c’era la copia di un documento della NKVD, classificato come “segretissimo” ed indirizzato all’agente italiano compagno Pietro Dinamite.  Il frontespizio titolava: “Idi di Marzo”

Era scritto in italiano, ed il maresciallo cominciò a leggerlo avidamente. Ogni tanto alzava lo sguardo dal fascicolo per guardarsi attorno, poi dopo aver bisbigliato tra sé frasi incomprensibili, riprendeva la lettura.

Il rapporto era dettagliato, nelle premesse faceva riferimento alle informazioni raccolte da un confidente estero ritenuto affidabile. La fonte riferiva l’esistenza di un laboratorio militare segreto, ubicato nell’Italia del nord, dove erano in corso ricerche segretissime su nuove armi il cui “sabotaggio” era definito “vitale allo sforzo bellico sovietico.

“Questa è roba grossa, roba che scotta” commentò ad alta voce il maresciallo.

Il brigadiere annuì trionfante, aveva trovato uno schedario pieno zeppo di nomi e di indirizzi di fiancheggiatori della cellula comunista. Erano decine, sparsi in diverse città, arrestarli tutti avrebbe richiesto un’operazione in grande stile.

“Qui ci becchiamo una medaglia” disse il Rufina senza nascondere il suo entusiasmo.

Melchiade Maffeo non disse nulla. Il suo volto era improvvisamente divenuto pallido, i suoi occhi ora fissavano il vuoto. Dalla pancia gli usciva una lunga ed affilata e sanguinante lama d’acciaio. Era stato trafitto alle spalle con uno stocco medioevale e passato da parte a parte. Un rivolo di sangue uscì dalla bocca e gli sporcò il mento.

Il Rufina non capì cosa stava succedendo, e quando vide il corpo del maresciallo cadere a terra privato della vita era troppo tardi. L’assassino era già davanti a lui e lo teneva sotto tiro con la pistola rubata al Maffeo, prima che il suo cadavere rovinasse sul pavimento.

“Ma cosa state facendo? Avete ammazzato il maresciallo!” provò a protestare il Rufina.

“E adesso ucciderò anche Voi” disse l’uomo con la pistola.

“Ma Voi non potete, Voi siete il segretario del Partito Fascista!” urlò il brigadiere, che aveva riconosciuto il suo interlocutore.

L’uomo con la pistola annuì: “Ma sono anche una spia al soldo dell’Unione Sovietica” replicò l’uomo con la pistola esibendo un ghigno spavaldo.

“Siete un traditore allora!”

“Io la vedo sotto un’altra prospettiva, sono solo passato dalla parte dei più forti. La guerra per l’Asse è perduta, ed io mi sono già riposizionato con i vincitori.”

“Voi siete un pazzo!” protestò il brigadiere, “un pazzo e un traditore!”

L’uomo con la pistola non replicò. Premette il grilletto è sparò in faccia al brigadiere.

La testa del carabiniere esplose spruzzando sangue e cervella sul ritratto di Stalin appeso alla parete.

“Merda” mormorò il comunista, “ora dovrò procurarmene uno nuovo.”

Era il terzo delitto comunista di cui si macchiava in pochi giorni.

Poi uscì dalla stanza, chiuse il passaggio segreto e tornò a casa. L’ora del pranzo era passata da un pezzo, e lui non aveva ancora mangiato.

 

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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La moglie del gerarca

La vita del professor Carlo Centodonne non era più stata la stessa da quando aveva vinto il concorso per quella cattedra all’Università. Si era sentito arrivato dopo anni di studi e di sacrifici, e da allora aveva cominciato ad assumere uno stile di vita scapestrato, dedito all’alcol, alle scommesse sui cavalli, alle donne ed ai romanzi d’avventura. Le numerose amanti e soprattutto il vizio del gioco gli avevano ormai messo a soqquadro l’esistenza.

Come ogni mattino, prima di radersi si guardò allo specchio. Aveva una faccia tremenda, quasi tragica. La barba incolta sottolineava il colorito smunto del volto che a sua volta evidenziava due grosse borse sotto agli occhi. La bocca era impastata ed aveva sete. Si era alzato tardi, ma le molte ore di sonno non avevano cancellato le tracce degli eccessi della notte precedente. Si era ubriacato pesantemente risvegliandosi nel proprio letto con una giovane donna che non ricordava di aver conosciuto. Non ricordava nemmeno come avesse fatto a tornarci a casa insieme. La guardò attraverso la porta socchiusa del bagno, lei era stesa nuda sul letto profondamente addormentata.

Non sapeva neanche come lei si chiamasse, però aveva un bel culo. I capelli erano scuri e lunghi, il volto innocente e grazioso tradiva la sua età, non poteva avere più di vent’anni. Il professore si interrogò sulle ragioni che lo spingevano a desiderare sempre nuove donne e sempre più giovani, pur avendone già avute moltissime. Doveva essere la paura di invecchiare, oppure della morte. Sapeva di sentirsi attratto da cose sbagliate come il gioco d’azzardo e l’amore a pagamento, ma non riusciva a sottrarsi al seducente richiamo del vizio e del peccato. Se pur la sua coscienza ogni tanto lo costringeva a riflettere sulla propria condotta, un cinico fatalismo lo induceva a perseverare. Per pentirsi c’era ancora tempo, ripeteva a sé stesso in quelle occasioni.

Dopo essersi rasato si vestì con cura, ci teneva a mantenere un contegno ed un decoro eleganti. Il clima di fine inverno era ancora fresco, e sopra ad una  camicia di cotone a quadri si infilò una giacca di tweed  con una cravatta fantasia. Indossò dei pantaloni di velluto a coste color cachi e si sentì pronto per una nuova giornata.

Andò nel suo studio, sulla scrivania vi erano due lettere.

Aprì la prima: era un sollecito di pagamento della drogheria sotto casa. Ci aveva dato dentro con vino, birra e altri alcolici e adesso non aveva i soldi per pagare il conto. Appallottolò la missiva e la buttò nel cestino. Negli ultimi tempi era andato tutto storto. Alle corse dei cavalli aveva perso una montagna di soldi. Era anche indietro con l’affitto ed ora rischiava seriamente lo sfratto.

Prese la seconda lettera ed iniziò a leggerla. Era scritta da una sua ammiratrice che desiderava conoscerlo, aveva letto il suo libro di argomento esoterico dal titolo: Occulto misterioso. Aveva dedicato a quella fatica vent’anni delle sue ricerche, ed ora era considerato tra i massimi esperti italiani della materia. Anche Julius Evola aveva scritto una lusinghiera recensione della sua pubblicazione, complimentandosi per l’accuratezza e la profondità dell’opera. Tutto ciò risaliva alla metà degli anni trenta però. Ora la vita del professore aveva preso tutt’altra piega, per colpa dei suoi vizi: le corse dei cavalli e l’alcol.

La sua ammiratrice aveva anche accluso una fotografia: era una ragazza giovane e molto carina, scriveva da Bologna. Lui pensò che le avrebbe certamente risposto, poi prese la lettera e la mise dentro ad un cassetto della sua scrivania. Decise che si sarebbe dedicato a quella corrispondenza in un secondo momento, per quel giorno aveva questioni più urgenti a cui dedicarsi. Chiuse il cassetto e restò pensieroso a guardare fuori dalla finestra. Il sole era già alto nel cielo e vide delle rondini sbucare fuori dal sottotetto di un palazzo sull’altro lato della via. Viveva nella periferia sud di Milano, vicino a viale Isonzo. Da casa sua si potevano ancora vedere rogge, campi coltivati e bambini scalzi correre per i prati.

La ragazza nel letto si era intanto svegliata, e lo raggiunse nello studio con indosso solo una vestaglia da uomo, volutamente lasciata aperta sul davanti. Salutandolo lo baciò sulla bocca.

“L’ho presa nel tuo armadio, non ho trovato altro. Vivi da solo?” chiese lei.

“Ancora ci riesco, con un po’ di mestiere” rispose lui, pensando con fastidio alle norme che obbligavano i dipendenti pubblici ad essere sposati per poter far carriera.

La ragazza lo guardò con occhi languidi, lasciando intravedere le proprie nudità con consumata malizia.

“Ora te ne devi andare” disse il professore con freddezza, come faceva sempre quando voleva sbarazzarsi di una donna.

“Sta bene, ma prima devi pagarmi, questa notte ti sei divertito, ma eri troppo ubriaco, hai detto di non ricordare dove avevi messo i soldi. Ora voglio quel che mi spetta” disse lei senza scomporsi, sorridendo con complicità.

Un’altra puttana, pensò lui. Avrebbe dovuto smettere di farsi succhiare via i soldi in quel modo. Si frugò nelle tasche ma le trovò vuote. Aprì un paio di raccoglitori accatastati sulla sua scrivania, ma erano pieni solo di carte e qualche cambiale. Provò un senso di disagio, ma alla fine ammise imbarazzato:

“Sono rimasto al verde dolcezza, potrò pagarti non prima della settimana prossima.”

“Sei un stronzo” disse la ragazza incrociando le braccia sul petto, sembrava non credergli.

“Non dovresti fidarti dei clienti ubriachi” la rimproverò.

“Vai a farti fottere!” replicò lei.

Il professore fece spallucce, poi andò in cucina e cominciò a prepararsi la colazione. La giovane donna raccolse le proprie cose, si rivestì in fretta e andò via sbattendo la porta, senza salutare.

Carlo aveva altro per la testa, si fece un surrogato di caffè e lo corresse con una dose abbondante di grappa, poi si affettò del salame che mangiò insieme a del pane secco. Per ammorbidirlo lo inzuppò in una tazza piena di vino. Erano quasi le due del pomeriggio, e la giornata si annunciava poco stimolante. Avrebbe passato il pomeriggio nel suo studio a correggere le bozze di alcune tesi di laurea, scritte da laureandi che lo avevano imprudentemente scelto come relatore.

La sera, al contrario, sarebbe stata molto più interessante. Aveva ricevuto un invito a cena da una delle sue amanti, una ricca signora, moglie di un alto papavero del Partito Fascista milanese. Nella sua mente stava già iniziando ad elaborare un piano per farsi prestare del denaro da quella donna. Chiedere soldi senza compromettere la propria dignità ed il proprio orgoglio, questo era quanto stava cercando di architettare. Gli serviva una scusa plausibile e decorosa. Stabilì che le avrebbe chiesto un’offerta per l’orfanotrofio dei Martinitt, presso il quale era cresciuto e aveva fatto qualche volta del volontariato. Era uno stratagemma spregevole, ma se domenica avesse indovinato un paio di corse, avrebbe potuto tamponare la situazione, e magari un giorno devolvere davvero dei soldi ai poveri orfanelli della città.

Si sedette alla sua scrivania ed iniziò a leggere il Corriere della Sera del giorno prima,  il 16 marzo 1939. Il titolo era ad otto colonne: “AUMENTI DEGLI STIPENDI E DELLE PAGHE.” Il giorno antecedente la Germania aveva invaso la Boemia e la Moravia, ma il Corriere aveva dato la notizia soltanto in terza pagina e con solo un modesto richiamo in prima. Al professore non era sfuggito il puerile tentativo di minimizzare la portata dell’evento. Per questo aveva conservato quel numero del giornale. Forse ci sarebbe stata un’altra Monaco, o più probabilmente l’Europa sarebbe precipitata in una nuova guerra, aveva pensato leggendo quelle notizie la prima volta. Conosceva bene gli inglesi, e sapeva che non avrebbero mai permesso a Hitler di conquistare tutto il continente. Aveva ragione, come quando aveva immaginato che qualsiasi italiano avrebbe rinunciato volentieri all’aumento della paga, pur di avere la certezza di evitare la guerra.

Lui invece aveva maledettamente bisogno di denaro. Cercò di non pensarci e cominciò a leggere un dattiloscritto sulla “Carta di Wala”, opera di uno dei suoi studenti. Lo trovò banale e noioso, un lavoro meramente accademico. La figura dell’abate francese Wala, nipote di Carlo Martello e cugino di Carlo Magno, era indagata senza alcuna originalità. Si sarebbe persino addormentato se quella lettura non gli avesse ricordato una delle sue conquiste di gioventù. Una giovane contadinella di Bobbio, la stessa città dove Wala era stato abate della famosa abbazia di San Colombano. Non riusciva a ricordare il nome di quella florida fanciulla, ma non poteva dimenticare la piacevole estate che vent’anni prima aveva condiviso con lei. Pensò a quei giorni con nostalgia, non tanto perché sentisse la mancanza di quella ragazza, quanto piuttosto perché avrebbe voluto avere ancora i suoi trent’anni, l’energia di quell’età e la spensieratezza di quei tempi. Allora una guerra era da poco terminata, e lui aveva davanti una vita intera colma di promesse. Adesso invece l’avvenire non prospettava nulla di buono.

Fuori dal palazzo dove abitava il professore il pomeriggio trascorreva pigramente, e l’uomo vestito di nero, seduto su di una panchina poco distante, aveva gli occhi e le orecchie ben aperti. Stava fingendo di leggere un quotidiano, ma intanto si guardava intorno e prendeva nota di tutto quanto accadeva in quella via. Controllava chi e quando entrava oppure usciva dal portone del civico 17, quello dove abitava Carlo Centodonne, annotava le targhe delle automobili, ascoltava il chiacchiericcio dei passanti. Indossava un cappello di feltro e portava gli occhiali da sole con il bavero dell’impermeabile alzato per nascondere il volto. Nessuno sembrava accorgersi di lui, tutti erano affaccendati nei propri affari.

Quando scese la sera, dopo aver ascoltato il notiziario alla radio, Carlo uscì per andare all’appuntamento galante carico di aspettative, era sicuro di convincere la sua amante a sganciargli una somma ingente.

La signora si chiamava Eleonora, aveva cinquantacinque anni ed era sposata da trenta, ma non era riuscita ad avere figli. Questo increscioso problema era stato motivo d’imbarazzo per il marito, e ne aveva in parte ostacolato la carriera nel partito. Lui la ritenne responsabile, e non l’aveva mai perdonata. Così la loro vita di coppia si era incrinata ed Eleonora aveva iniziato a desiderare consolazione. Il marito ormai la ignorava e quando capitava ancora che si occupasse di lei, il più delle volte era solo per colpevolizzarla di non avergli dato dei figli. Eleonora aveva così da tempo smesso di sentirsi amata. Quando ad una festa aveva conosciuto Carlo, non aveva saputo resistere alle sue premure ed attenzioni. Aveva certamente perduto l’avvenenza della giovinezza, e l’interesse mostrato dal professore aveva per questo fatto più facilmente breccia nel suo cuore.

Per il professore, invece, era soltanto l’ennesima avventura. Aveva cercato di sedurla per il puro piacere di aggiungere un altro trofeo alla sua collezione di donne sposate. Quando poi aveva scoperto che la signora Eleonora dava il meglio di sé sotto le lenzuola, aveva piacevolmente prolungato quella relazione clandestina. Ora che aveva così tanto bisogno di denaro e pensando che lei avrebbe potuto aiutarlo, era particolarmente compiaciuto di sé stesso e della propria lungimiranza, almeno in fatto di donne.

Quando Eleonora venne ad aprire la porta però, lui capì subito al primo sguardo che la faccenda sarebbe stata più complicata di quanto aveva sperato.

Lei era bassa, con il naso grosso e la fronte larga, ma vestiva sempre con eleganza quando doveva incontrarlo, e poi normalmente era allegra e simpatica, e ci sapeva fare con il sesso. Quest’ultimo talento compensava ampiamente il fatto che fosse bruttina e un po’ sovrappeso. Ma quella sera non era per nulla contenta, quando Carlo entrò in casa, lei nemmeno lo salutò.

“Bene” disse Eleonora, “dove siete stato ieri notte?”

Il professore simulò indifferenza, e cercò di eludere la domanda.

“Niente bacio di benvenuto?” disse forzando un sorriso.

“Ditemi dove eravate ieri notte.”

Carlo non rispose, la notte prima si era ubriacato ed era andato a puttane, ovviamente non poteva confessarlo. Rimase in silenzio pensando a cosa dire, ma non gli veniva in mente nulla.

“Allora Vi dirò io dove siete stato Carlo, eravate con una donna, una di quelle per giunta.” La voce di Eleonora si affievolì sul finale, aveva gli occhi rossi ed era sul punto di iniziare a piangere.

“Non capisco di cosa stiate parlando, ieri non sono nemmeno uscito di casa” mentì il professore.

“Siate sincero, adesso. Vi ho veduto con i miei occhi mentre passeggiavate ubriaco a braccetto di quella donnaccia. Come avete potuto?” squittì lei esternando tutto il suo sgomento.

Carlo era imbarazzato e la fronte gli si imperlò di sudore. Era stato scoperto, ed ora avrebbe avuto un bel da fare per recuperare la situazione.

“Ma lo capite cosa mi avete fatto? E se fossi stata io a tradirvi? Come Vi sentireste?” disse iniziando a singhiozzare, mentre le lacrime presero a sgorgarle dagli occhi rigandole il viso.

“Non è il caso di prenderla in questo modo” abbozzò lui goffamente, “in effetti ieri ho bevuto un po’ troppo, ma con quella ragazza non vi è stato nulla, stavamo solo passeggiando.”

Eleonora gridò, e si mise a piangere più forte.

Il professore cercò di afferrarle la mano, ma lei la ritrasse stizzita.

“Ho veduto che la baciavate” protestò, “siete un bugiardo e un mascalzone!”

Le previsioni del professore erano state del tutto fallaci. La signora aveva scoperto che lui si dava da fare anche con altre donne, più giovani per giunta, e come se non bastasse, persino di facili costumi.

“Be’, ecco… io non ricordo” cercò maldestramente di giustificarsi, “lo avete detto anche Voi, ero ubriaco, non so spiegarmi come sia successo.”

“Lo avete fatto perché era più bella o perché era così giovane, oppure per entrambi i motivi?”

“Oh, per Dio, Eleonora…”

“Non siate evasivo, ditemi perché lo avete fatto.”

“Io non so perché l’ho fatto, non vi è una ragione per queste cose, semplicemente accadono” disse lui esasperato.

“Mi avete mai baciato come baciavate ieri notte quella là?” Eleonora aveva smesso di piangere, ed il suo tono si era ora fatto inquisitorio.

“No, penso di no… non credo almeno.”

“E allora come? Come l’avete baciata?”

“Santo cielo, Eleonora, cose volete che vi dica, non lo so..”

“Come!?” ringhiò lei. Adesso sembrava molto arrabbiata.

“Ecco, io.. credo che fosse in modo diverso.”

“Diverso come?”

“Dannazione Eleonora, Io non me lo ricordo, ero ubriaco.”

“Siete un mostro!” gridò la signora, poi gli diede uno schiaffo. Carlo abbassò lo sguardo, lei gli voltò le spalle e riprese a singhiozzare. Era rimasta profondamente offesa e indignata.

Sulla strada intanto, dentro ad una Fiat Balilla scura, due uomini con la faccia da ceffi  tenevano d’occhio la situazione. Erano vestiti di nero, erano armati, ed avevano seguito il professore sin da quando era uscito. Ci sapevano fare, nessuno si era ancora accorto di loro, nessuno poteva immaginare cosa avrebbero fatto e perché.

La luna era bella sopra al cielo, ma il professore dovette penare tutta la sera per riuscire a recuperare la situazione, per evitare di essere scaricato. Dovette accantonare i propositi che aveva elaborato per ottenere dei soldi. La signora lo mandò in bianco lasciandolo al verde, e non gli offrì nemmeno da bere. Quando tornò a casa a notte inoltrata era prostrato. La giornata si era conclusa nel peggiore dei modi, e per consolarsi si attaccò alla bottiglia, affogando il suo fallimento nell’alcol.

Si ubriacò a tal punto da non accorgersi di nulla, quando gli uomini vestiti di nero fecero irruzione nel suo appartamento, il professore dormiva stordito dalla sbornia.

Gli intrusi erano stati mandati dal marito della signora, che non aveva preso sportivamente il fatto che lei lo tradisse. Per vendicarsi aveva deciso di dare una lezione all’impudente professore, e per farlo aveva assoldato i due sicari vestiti di nero.

Quelli fecero un lavoro preciso e ben fatto.

Il giorno dopo Carlo Centodonne si svegliò senza più le palle. Lo avevano castrato, così come si fa con un cane qualunque. Lui da quel momento non toccò più una donna per il resto dei suoi giorni. Fu solo dopo alcuni anni di assoluta disperazione che riuscì a trovare consolazione. Decise allora di iscriversi al coro delle voci bianche della sua parrocchia.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com

La testa parlante

 

 

Il cielo sopra l’abbazia si era oscurato, il vento sferzava l’interno del chiostro sollevando nuvole di polvere e scuotendo le piante. I monaci si erano già tutti ritirati all’interno dell’edificio, per evitare di essere sorpresi dal temporale in arrivo. Soltanto il vecchio era rimasto.

Attese che anche l’ultimo religioso se ne fosse andato, poi camminò sino a raggiungere il lato occidentale dell’austero cortile. Si avvicinò al muro logorato dal tempo, individuò il cerchio magico graffito nell’intonaco consunto e spinse la pietra ottagonale collocata ai suoi piedi. Il meccanismo si azionò con un rumore basso e lugubre, aprendo il passaggio segreto. Si guardò attorno con circospezione, per assicurarsi di non essere visto, poi si lanciò all’interno dell’oscuro pertugio, un attimo prima che il muro di pietra si richiudesse alle sue spalle. Fuori da lì, oltre la parete, un tuono fragoroso squassò l’aria e cominciò a piovere copiosamente.

Da sotto il mantello il vecchio tirò fuori una torcia elettrica e l’accese. Davanti a lui, come una tetra catacomba, si dipanava una buia galleria che lo avrebbe condotto nel cuore dell’edificio, si fece allora coraggio e si incamminò. Avanzò con cautela, le pareti trasudavano umidità e brulicavano di insetti ripugnanti, il terreno sul quale stava camminando era molliccio, sotto le travi di pietra che sostenevano il soffitto da non meno di sei secoli. L’aria era pesante, viziata da un pungente  odore sulfureo la cui provenienza non era in grado di individuare. Continuò ad avanzare sino a raggiungere la scalinata che scendeva alla camera sotterranea. Il cuore gli martellava forte nel petto e rimase immobile per un po’, prima di procedere lungo la ripida rampa.

Intorno a lui tutto era silenzio, e poteva udire solo l’affanno del proprio respiro e il battito del suo cuore. Mentre scendeva sulle gambe incerte vide un grosso pipistrello appeso allo stipite della porta, in fondo alle scale, circondato  dall’oscurità. Quando varcò la soglia il chirottero spiccò il volo e scomparve rumorosamente oltre il cunicolo.

Era la terza volta in tre giorni che entrava nella camera segreta, ma l’emozione era ancora grande. Come uno scolaretto  davanti al suo primo racconto di fantascienza, avanzò timidamente verso il centro della stanza.

Un volto privo di umanità brillava di luce aurea, nascosto nel buio di quell’ambiente plumbeo e soffocante, e due occhi smeraldini privi di vita fissarono il vecchio, penetrando la sua coscienza e mettendo a nudo la sua vanità.

Il desiderio di conoscenza e la brama di sapere si erano accresciuti in lui nelle ultime ore, così come il sospetto e la paura che le conseguenze di quella scoperta potessero essergli fatali. Voleva avere cognizione del suo destino e non sapendo più trattenersi porse una nuova domanda, dopo le molte che aveva già fatto nei giorni precedenti e che gli avevano svelato molte verità sconcertanti.

“Mi resta molto da vivere?”

“No” risuonò nella camera una voce metallica e spaventosa, mentre gli occhi smeraldini si accendevano emanando un bagliore sinistro.

Il vecchio impallidì, i suoi più cupi presentimenti trovavano crudele conferma, ora sapeva di dover fare in fretta, misteriosi ed invisibili nemici minacciavano la sua vita.

“Sarò dunque ucciso?” chiese nuovamente cercando di nascondere il tremore delle mani.

“Si” fu la nuova terribile risposta che si diffuse raccapricciante nella stanza.

La torcia elettrica gli cadde di mano rimbalzando sul pavimento di pietra, ed il vecchio si sentì mancare. Ciò che aveva trovato sarebbe dovuto restare segreto, qualcuno agiva nell’ombra per mantenerlo nascosto, qualcuno senza scrupoli, che non avrebbe esitato ad uccidere per raggiungere il suo scopo. Ed il vecchio sapeva con chi avrebbe avuto a che fare. Da sette secoli quelle stesse persone proteggevano il segreto, lo avevano sottratto al mondo per impedire che si conoscesse la verità, e non gli avrebbero mai permesso di svelarla.

Lui era troppo vecchio e debole per affrontarli. Comprese di avere ancora poco tempo e si chiese cosa fare. Avrebbe potuto restare in quel luogo per appagare la propria sete di conoscenza in attesa della fine, ma quanto aveva già appreso era ormai sufficiente. Decise allora che avrebbe agito. Sapeva di non poterli battere, ma forse poteva ancora ingannarli. Con astuzia e intelligenza aveva già lasciato degli indizi alle sue spalle. Avrebbe avuto bisogno di altro aiuto e sapeva dove cercarlo. Con un po’ di fortuna avrebbe sottratto il segreto all’oblio per consegnarlo all’umanità.

Si voltò per tornare sui suoi passi e mettere in pratica i suoi intendimenti, quando un dolore atroce lo investì alla base della testa. Crollando inerme sul pavimento realizzò di essere stato colpito. Gli occhi gli si chiusero e la sua anima fu avvolta dalle tenebre.  Poi fu l’oblio.

 

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Scritto da Anonimo Piacentino

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L’alchimista della Val Tidone

 

Acacio Rovinati, da tutti conosciuto come l’alchimista della Val Tidone, si sollevò dal letto nel tardo pomeriggio, la testa gli scoppiava come dopo la peggiore delle sbornie e qualsiasi movimento facesse gli procurava dolore, come se fosse intrappolato in qualche racconto breve scritto da un malvagio scrittore.

Era nervoso, si condusse a forza sino al soggiorno e dal cassetto della scrivania tirò fuori una bottiglia di Scotch Whisky, riempì un bicchiere e ricominciò subito a bere. Si abbandonò sulla sedia dietro al tavolo e appoggiato allo schienale iniziò a domandarsi come fosse potuto accadere proprio a lui. Aveva fantasticato più di una volta di dover affrontare la morte per mano di qualche marito geloso, ma mai avrebbe immaginato di essere licenziato per aver sedotto la figlia di un generale dell’esercito.

Suonarono alla porta.

“Avanti, è aperto” urlò lui dal soggiorno.

Pur confuso per i postumi della sbornia riuscì a distinguere chiaramente i passi pesanti del visitatore che si avvicinava, poi alzò lo sguardo verso la porta e la vide.

Era la signora Elvira Birondisi, la padrona di casa, un’orrenda vecchia, mai stata moglie, inacidita e inesorabile.

“Siete indietro con l’affitto Rovinati, già di due settimane. Non penserete di farla franca senza pagare vero?”

Acacio non sapeva cosa rispondere, per un attimo, come si era già proposto di fare in passato, pensò di sedurre l’orribile arpia, ma, guardandola in faccia per alcuni secondi, abbandonò l’idea turbato dall’incredibile bruttezza di quella figura.

La Birondisi indossava un’improbabile abito di stoffa a tinta unita color carta da zucchero, la linea del busto aderente metteva in risalto i fianchi sfatti e abbondanti, il soprabito elegante e le piume di struzzo le davano un tono grottesco.

“Cosa succede Rovinati? Il gatto Vi ha mangiato la lingua? Esigo di avere ciò che mi spetta, come intendete giustificare il Vostro imbarazzante ritardo?”

Sembrava che la donna non avesse fatto alcun caso al volto sconvolto di Acacio che alla fine, dopo un lungo silenzio, replicò:

“Signora Elvira, dovrete perdonarmi, questo mese ho avuto alcune impreviste difficoltà, ma salderò il mio debito quanto prima, è mia ferma intenzione farlo” disse barcollando nel tentativo di alzarsi dalla sedia.

“L’unica Vostra fermezza consiste nell’abusare dell’alcol. Guardate come Vi siete ridotto, fate ribrezzo. O Vi decidete a pagarmi entro la settimana o Vi sbatterò fuori!”

Lui non poteva confessare quale fosse la reale causa dell’improvviso dissesto finanziario, cercò allora, ma senza successo, di imbonire la padrona di casa millantando una serie di poco credibili spese straordinarie cui era stato costretto.

“Non credo ad una sola delle stupidaggini che mi avete raccontato. Siete solo un pagliaccio. Dovreste ambire ad un più rispettabile decoro. Ma, evidentemente, non avete alcuna cognizione dei vostri limiti e siete solo un vecchio ubriacone.”

La signora Birondisi se ne andò senza lasciare il tempo per una qualunque replica, che comunque Acacio non era più in grado di elaborare. La visita di quella vecchia malvagia aveva aggiunto altro sale alla ferita. Doveva in qualche modo far fronte ai debiti che aveva accumulato, doveva trovarsi in fretta un nuovo lavoro, altrimenti si sarebbe trovato in mezzo ad una strada.

Andò al cesso e vomitò. Poi si fece un bagno caldo nel tentativo di ritemprarsi. Servì a poco.

Asciugatosi indossò biancheria e abiti puliti. Desiderava distrarsi dai suoi problemi, ma il whisky era finito. Si preparò la pipa seduto alla sua scrivania. Rimase seduto a meditare per diversi minuti lisciandosi la lunga barba grigia, poi sentì il bisogno di bere e decise di uscire.

Un po’ d’aria fresca e la brezza della sera gli avrebbero fatto bene, pensò. Si incamminò lungo la via principale del suo paese, la ridente cittadina di Borgonovo Val Tidone. Dopo un centinaio di metri entrò nella locanda Il Gatto Nero, una bettola di provincia dove gli facevano ancora credito e dove era solito ubriacarsi in compagnia di altri disperati ai margini della società: barboni, prostitute, fannulloni senza un fisso lavoro.

Tutti gli abituali avventori di quella taverna lo conoscevano: per via dei suoi vestiti stravaganti e del parlar forbito. Non poteva certo passare inosservato.

Appena fu arrivato, la signorina Marianna, vedendogli il volto solcato dalle occhiaie, gli si fece incontro interessandosi per la sua salute, una parentesi di umanità che gli offrì conforto.

“O mio Dio, cosa Vi è successo signor Acacio, avete un aspetto terribile” disse premurosa la figlia dell’oste.

Marianna era giovane e graziosa, dai lunghi capelli nero corvino e il corpo ben fatto. Non somigliava per nulla al padre, un omone enorme, più simile ad una scimmia gigantesca che ad un essere umano. I maligni sparlavano alle sue spalle sostenendo che il vero padre della bella ragazza fosse un altro.

“Andateci piano con quella roba” finse di lamentarsi Acacio, mentre la giovane donna gli riempiva un piatto di pisarei fumanti e profumati.

“Chi Vi ha ridotto in questo modo?” si interessò uno dei vecchi ubriaconi seduti al tavolo vicino.

Lui non rispose, iniziando a mangiare in silenzio.

L’oste era intento a mescere il vino ed anche Rovinati, che non desiderava altro, ebbe la sua dose. Non era un gran che bere, ma in quello stato faceva pure poca differenza. La figlia continuava intanto ad occuparsi dei clienti servendo la cena a chi l’aveva ordinata. Era brava, ormai in età da marito e con numerosi pretendenti.

Lo stesso Acacio non era rimasto insensibile alle grazie dell’attraente Marianna, ma la mole poderosa del padre, vero o presunto che fosse, lo aveva sempre indotto a miti consigli, e anche da ubriaco non aveva mai osato insidiarla.

I minuti passavano veloci al Gatto Nero e il Rovinati se ne stava seduto in un angolo con il fiasco di vino aperto e la pipa in bocca: beveva, fumava, si grattava la barba e pensava alle sue disgrazie, dando di tanto in tanto un occhiata furtiva alle gambe della figlia dell’oste, che lo ricambiava con sguardi ingenui ed innocenti.

Verso la mezzanotte una donna si sedette al suo tavolo. Si faceva chiamare Romualda e praticava il mestiere più antico del mondo.

“Salve Bambolo” disse, “Volete fare quattro salti? Mi sembrate un po’ giù di corda, ma io saprei bene come farvi risollevare” continuò con tono ammiccante.

“Mi spiace tesoro, non ho più un soldo, la sorte oggi mi è avversa” rispose triste Acacio.

“Oh, poverino, come mi dispiace” aggiunse lei senza troppa convinzione, accendendosi una sigaretta.

Mostrava più dei suoi anni, le labbra erano carnose e ricoperte da uno spesso strato di rossetto, i fianchi e il petto ben forniti. Sapeva come fare il suo lavoro, ed in passato il Rovinati aveva con soddisfazione fruito dei suoi servizi. Non era un gran che bella, ma si capiva che ci metteva impegno, e questo a lui era piaciuto. Gli piaceva sempre quando una donna ci metteva passione, quale che fosse il motivo per cui decideva di darsi: per noia o per capriccio, per denaro o per amore.

“Al massimo posso offrirti un calice di barbera” biascicò Acacio.

“Be’ piuttosto che niente, meglio il vino, amico sincero e generoso” sorrise lei.

Bevvero insieme augurandosi fortuna l’un l’altra e si fece notte fonda. L’osteria andava svuotandosi e ciascuno degli avventori tornava alle sue miserie. Anche Acacio salutò Romualda, l’oste e i pochi clienti rimasti. Malfermo sulle gambe rincasò barcollante. Una decente dormita, ragionò con un lampo di residua lucidità, gli avrebbe certamente giovato, e l’indomani poteva ancora pianificare il da farsi per aggiustare i pasticci nei quali si era venuto a trovare.

Si svegliò tardi, quasi a mezzodì. Andò in bagno ed espletò le incombenze del caso, vomitò un po’ di sangue. Aveva fame.  In cucina aprì la credenza e si fece un grappino, tanto per cominciare.

Si accorse di non essere solo, dei colpi sordi provenivano dal soggiorno, come se qualcuno stesse bussando sui vetri delle finestre. La faccenda gli parve strana, perché il suo appartamento era al secondo piano e non aveva balconi. Si avvicinò silenzioso attraversando il corridoio, i colpi sul vetro non calavano di intensità. Iniziò a sudare freddo e a preoccuparsi, sbirciò nel soggiorno dallo stipite della porta, per non essere visto.

Imprecò per la rabbia quando realizzò che si trattava solo di uno stupido gatto, entrato chissà quando e da chissà dove, probabilmente durante la notte. Nel tentativo di acchiappare la dannata bestiaccia rimediò pure dei graffi profondi sulle braccia, ma alla fine il detestabile felino sgattaiolò fuori dalla porta d’ingresso. Acacio la chiuse e tornò in cucina per un secondo grappino.

Consumò un pasto semplice e solitario riflettendo sulle possibili opzioni a sua disposizione. Non poteva espatriare perché gli mancava il denaro necessario, emigrare era dunque impensabile e del resto non avrebbe avuto alcun senso, l’Europa era sconvolta da una nuova guerra, e lasciare il paese era diventato complicato. C’era comunque il problema dei debiti e dell’affitto. Concluse quindi che gli servivano dei soldi, molti e in fretta. Si immaginò di rapinare una banca o di rubare in casa di qualche ricca signora, di quelle che aveva corteggiato nel passato. Tuttavia valutò che l’impresa fosse troppo rischiosa e lo esponesse inoltre al pericolo di essere arrestato.

Aprì le finestre del suo studio, facendo entrare l’aria fresca della primavera, auspicando di trovare una soluzione. Si sentì un po’ meglio, ma nessuna buona idea parve attraversargli il cervello. Si abbandonò sulla sua poltrona, le ferite provocate dai graffi del fottuto gattaccio bruciavano, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Rimase a lungo seduto, rimuginando sul proprio destino e senza toccare bicchiere per diverse ore. Osservava le persone passeggiare lungo la via sotto casa e ne provava ribrezzo: la gente non gli piaceva, nemmeno gli animali gli piacevano, forse soltanto le piante gli andavano a genio, ma nemmeno di questo era sicuro. Aveva sempre guardato con simpatia agli uomini del passato, e pensava che la modernità non facesse al caso suo. Era nato nell’epoca sbagliata e i suoi guai derivano forse da questo dispetto comminatogli dal fato, cinico e baro.

Quando il sole fu tramontato e le stelle si alzarono alte nel cielo, tutte le luci si spensero per via dell’oscuramento, e Acacio accese la lampada da tavolo che teneva sulla sua scrivania. Poi si alzò per chiudere le finestre.

Il gran buio fuori dalla casa pesava, copriva ogni cosa e lui cominciò ad avere brutti presentimenti.

Proprio in quel momento tre uomini vestiti di nero entrarono nel portone del suo palazzo e salirono svelti le scale. Alcuni secondi dopo, mentre Acacio Rovinati era ancora assorto nei suoi pensieri, un frastuono improvviso lo fece sobbalzare. Si alzò spaventato ed uscì dal soggiorno per dirigersi verso l’ingresso, da dove aveva sentito provenire il rumore. Giunto in anticamera notò che la porta dell’appartamento era socchiusa. Gli sembrò un indizio sinistro. Trattenne il respiro ma non successe nulla, intorno a lui ora c’era solo silenzio. La luce in anticamera si accese quando premette l’interruttore. Vide che la porta d’ingresso era stata forzata e un brivido gli attraversò la schiena. Ispezionò con cautela la cucina, ma non vi era nessuno. Senza sentirsi per questo sollevato si diresse nuovamente in soggiorno, guadagnò la scrivania per afferrare il tagliacarte, ma fu pietrificato da delle parole che lo fecero paralizzare.

“Buona sera Rovinati, fossi in voi lascerei stare quell’oggetto contundente, potreste anche farvi male” disse una voce calma e impostata.

Acacio si voltò e rimase sorpreso. Sprofondato nella poltrona collocata nell’angolo dello studio tra la libreria e la finestra, con le braccia mollemente adagiate sui braccioli, sedeva un ragazzo. Vestito sobriamente in nero indossava la divisa della milizia fascista, portava un paio di baffi tagliati corti per sembrare più vecchio, ma era sulla trentina, con due profondi occhi scuri e la carnagione bianca.

“Chi siete?” chiese il Rovinati confuso, mentre altri due tipacci con le facce orrende apparvero sulla porta, bloccando l’unica via di fuga.

“Sono il capitano Renzo Mattei dell’OVRA, la polizia segreta, e sono venuto a prendervi.”

Acacio si lasciò cadere incredulo e senza fiato sulla sedia della scrivania, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi terrorizzato, restando in silenzio per alcuni secondi. Mille pensieri si affollarono nella sua mente in quel momento terribile. Cosa poteva volere da lui la polizia politica del regime? Erano venuti ad arrestarlo? Cosa diavolo aveva combinato per finire in un simile guaio? Possibile che il generale a cui aveva sedotto la figlia fosse a tal punto incarognito da non accontentarsi di averlo fatto licenziare?

“Cosa volete?” fu l’unica cosa che riuscì a dire, con la voce tremante.

“Ve l’ho appena detto Rovinati, siamo venuti a prendervi” replicò il giovane senza scomporsi, con la bocca piegata in un ghigno crudele.

“Perché? Io non ho fatto niente” protestò timidamente Acacio.

“Questi sono gli ordini che ho ricevuto” disse il giovane con indifferenza.

“Ho il diritto di sapere per quale ragione volete arrestarmi. Non so nemmeno di cosa sono accusato.”

“Le questioni che ignorate sono infinite mio caro Rovinati, diciamo pure che non sapete proprio nulla. Ma non dovete agitarvi, non siamo qui per arrestarvi, altrimenti lo avremmo già fatto.”

Acacio era ora ancora più confuso, volevano portarlo via, ma senza arrestarlo, forse che quel giovane si stesse prendendo gioco di lui?

“Se mi rifiutassi di venire con Voi?” chiese allora, cercando di darsi coraggio.

“Non potete rifiutarvi” fu la laconica risposta.

“Dite che non mi state arrestando, ma non posso rifiutarmi di venire con Voi. Se non è un arresto dunque, Voi come lo chiamate?” obiettò Acacio.

“Lo chiamiamo accompagnamento coatto, mi stupisco che non lo sappiate” disse il capitano con tono sarcastico.

“E di grazia, potrei sapere dove volete portarmi e per quale ragione?”

“Siete stato scelto” iniziò a spiegare il capitano, “perché a Roma pensano di potervi utilizzare come informatore.”

“A Roma si stanno grossolanamente sbagliando, non sono per nulla portato alla delazione, trovo sia un’attività ignobile” si lamentò Acacio, offeso.

“Temo abbiate equivocato il significato di informatore. Sono richieste le Vostre competenze per contribuire allo nostro sforzo bellico” disse Mattei sorridendo in modo ironico.

Acacio si irrigidì, gli veniva prospettato qualcosa di assolutamente inaspettato.

“Ma io sono solo un vecchio, come posso essere utile allo sforzo bellico?” domandò dopo l’iniziale esitazione.

“Sappiamo tutto Rovinati. La nostra organizzazione tutto deve sapere e conoscere, così vanno le cose di questi tempi e non esiste modo per sfuggire questo destino. Voi non siete un semplice vecchio. C’è anche dell’altro… ”

Acacio non sapeva cosa dire, si sentiva intimidito, vulnerabile, non capiva a cosa Mattei si stesse riferendo e rimase in silenzio.

“Si tratta delle Vostre competenze nel campo della filosofia e della storia di quella dottrina nota con il nome di alchimia. Secondo le nostre informazioni siete tra i massimi esperti del Regno in questa materia” concluse il giovane ufficiale dell’OVRA.

Rovinati sorrise, era onorato da tanta considerazione, ma allo stesso tempo si preoccupò anche più di prima. Come era possibile che la polizia segreta si interessasse all’alchimia? Per quale ragione erano a conoscenza dei suoi studi su questa antica disciplina? E soprattutto come intendevano servirsene?  Tutte queste domande si affastellarono nella sua mente sconvolta come sacchi di sabbia lungo l’argine di un fiume in piena. Cercò di guadagnare tempo, per riflettere.

“Io non so nulla di utile in merito all’arte alchemica, ho solo letto qualche vecchio libro e nulla di più” cercò di sminuirsi. In realtà aveva dedicato alla materia gran parte della propria vita. Aveva anche pubblicato, usando uno pseudonimo, molti articoli su riviste come Atanor o Ignis prima che venissero soppresse[1], e che evidentemente non erano sfuggiti all’attenzione dei pignoli funzionari dell’OVRA.

“La vostra falsa modestia è in questo caso fuori luogo Rovinati, nell’ambiente sanno tutti della Vostra passione per questioni esoteriche, occultismo, alchimia e altro ciarpame annesso e connesso. Personalmente non nutro alcuna fiducia in questo genere di ricerche, retaggio di superstizioni medioevali o prodotto di ridicole congetture oscurantiste, ma io ho dei superiori e devo eseguire degli ordini. Diciamo che qualcuno ai piani alti ritiene che questo tipo di immondizia possa avere una qualche utilità.”

Acacio non disse nulla, osservò Mattei senza commentare, scrutando a lungo quel volto dai lineamenti fanciulleschi, così almeno gli sembravano nella penombra dello studio, scarsamente illuminato dalla lampada collocata sulla sua scrivania. Fece un profondo sospiro poi disse ispirato: “Secondo l’insegnamento dei loro predecessori, gli alchimisti di oggi devono ricordare che solo uomini dal cuore puro e dalle intenzioni elevate possono dedicarsi a questa antichissima disciplina. Continuo a dubitare che le informazioni di cui dispongo possano servirvi.”

“Concordo intimamente con quanto mi dite Rovinati, ma a Roma hanno una opinione differente e la mia missione è solo quella di portarvi sino alla capitale.”

Acacio scosse il capo con disappunto sfidando il suo giovane interlocutore: “Se mi rifiutassi di collaborare potreste fallire la Vostra missione dunque. Una prospettiva che forse non avete adeguatamente considerato.”

“Se credete che il marito tradito possa evirandosi dare la giusta punizione alla moglie infedele, allora potete anche immaginare di non assecondare la mia volontà. Ma diciamo che non credo siate così stupido. In fondo non avete scelta. Con le buone o con le cattive, Voi verrete via con me.”

“Parliamo della mia ricompensa allora, voglio sperare non Vi aspettiate che io accetti senza un’adeguata remunerazione.”

“Posso garantirvi la massima soddisfazione sotto questo profilo” annui Mattei allungandogli una busta.

“E’ solo un anticipo una tantum, in contanti ed esentasse. Servire la Patria può essere un affare assai soddisfacente” disse il fascista, con fare compiaciuto.

Acacio impiegò diversi secondi per contare il denaro contenuto nella busta, corrispondeva ad almeno tre mensilità del suo vecchio lavoro. Con quei denari avrebbe tenuto tranquilla la Birondisi. Forse poteva anche cavarsela a buon mercato, imbrogliando qualche alto gerarca con storie misteriose su antiche civiltà e oscuri presagi. Forse tutta quella storia non sarebbe stata poi tanto pericolosa, pensò prendendo coraggio.

“E quando dovremmo partire?” domandò ingenuamente.

“Prepari le valige Rovinati, una macchina è già qui sotto che ci sta aspettando” rispose il capitano Mattei con un ghigno soddisfatto che gli illuminò il volto.

Acacio si recò meccanicamente nelle propria camera da letto e rassegnato raccolse i pochi effetti personali che gli permisero di portar via. Scrisse sotto dettatura due lettere per spiegare le ragioni della sua improvvisa partenza: una per la governante e una per la signora Birondisi. Fu costretto a lasciare quasi tutti i soldi che poco prima gli erano stati consegnati, in quel modo avrebbe pagato gli arretrati e anticipato i prossimi mesi dell’affitto. Gli fu fatto scrivere che si stava trasferendo a Roma per svolgere una consulenza presso il Ministero della Cultura Popolare. Così avrebbe iniziato la sua nuova attività sotto copertura. Con qualche telefonata e cartolina, avrebbe in seguito avvisato i pochi amici.

Era buio da parecchio tempo, quando il capitano Mattei, gli sgherri ai suoi ordini e Rovinati uscirono silenziosamente dal palazzo. Una volta in strada montarono a bordo di una Fiat Balilla nera dell’OVRA, parcheggiata davanti al portone d’ingresso. Il tipaccio più alto sedette al posto di guida. Mattei senza manifestare alcuna emozione sedette davanti, cinicamente distaccato. Acacio e l’altro agente salirono dietro. Nessuno parlò. La macchina  partì e si diresse lentamente verso la stazione di Piacenza. I fari erano coperti con le mascherine per via dell’oscuramento e il viaggio richiese più tempo di quanto il lui si aspettasse.

Durante tutto il tragitto non fece altro che pensare a questa nuova e inaspettata svolta nella sua vita. In fin dei conti poteva anche essere considerato un colpo di fortuna, un modo come un altro per mettere insieme i denari di cui aveva bisogno per pagare i suoi debiti. La città eterna inoltre era bellissima, nel tempo libero non avrebbe certo corso il rischio di annoiarsi.

Quando finalmente arrivarono a destinazione, giusto in tempo per prendere l’ultimo treno notturno per Roma, Acacio cercò di raccogliere qualche nuova informazione.

“Chi dovrò incontrare di tanto importante da dover fare tutto così di corsa e all’improvviso?”

Mattei si fece scuro in volto. Sembrava disturbato dalla domanda.

“Lo scoprirete domani, che fretta avete?” disse con voce contrita.

Acacio percepì nell’atteggiamento di Mattei qualcosa di strano, per un attimo pensò che potesse addirittura essere invidia. Ma sapeva che non poteva avere senso. Tuttavia era curioso e provò ancora a stuzzicare il giovane ufficiale.

“Cosa succede? Avete paura che io possa cambiare idea e cercare di scappare durante la notte?”

“No” rispose il capitano con freddezza, “non avete scelta. Dovete venire a Roma, perché il Duce vuole vedervi.”

L’alchimista della Val Tidone Acacio Rovinati rimase di sasso. La guerra era iniziata da tre giorni, la polizia segreta lo aveva preso in custodia per condurlo a Roma con accompagnamento coatto, e Mussolini in persona voleva incontrarlo. In quel momento gli tornarono alla mente le parole di Papa Pio XII: “Nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra.” E la guerra di Acacio con la vita e con i suoi guai era appena cominciata.


[1] Atanor è una storica casa editrice italiana specializzata in esoterismo. Nella prima meta del Novecento, la casa editrice diede alle stampe le riviste Atanòr e Ignis, considerate le più note rassegne del secolo passato dedicate agli studi tradizionali e iniziatici.

Chiusa nel 1926 a seguito delle leggi contro la Massoneria, le edizioni Atanòr riaprirono dopo il 1945.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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