L’avvocato del Diavolo di Andrew Neiderman (1990): recensione critica

Nel romanzo L’avvocato del Diavolo di Andrew Neiderman, pubblicato nel 1990, l’antico mito del patto faustiano viene rielaborato in chiave contemporanea, con un’efficacia che non cede mai al compiacimento allegorico, ma anzi lo traveste di realismo psicologico e critica sociale. Il protagonista, Kevin Taylor, giovane e brillante avvocato penalista, non vende la propria anima in un atto formale: la cede un poco alla volta, sotto l’apparenza del merito, del successo, della libera scelta. È in questa graduale corruzione che si innesta la modernità del romanzo: il patto non è più un contratto rituale ma un processo mimetico, subdolo, che penetra nelle pieghe dell’ego e della vanità. Neiderman sembra dirci che Satana non compra le anime: semplicemente, si limita a non ostacolarne la svendita.

La figura del Diavolo, incarnata da John Milton – nome tutt’altro che casuale – non ha più nulla dell’arcaico demone fiammeggiante. È un uomo d’affari, un avvocato carismatico e sofisticato, dotato di un’intelligenza lucida e affilata, capace di leggere l’animo umano meglio di chiunque altro. È un maestro del linguaggio, un seduttore intellettuale, un manager dell’ambizione. E proprio questo è l’aspetto più disturbante della sua natura: non forza mai la mano. Al contrario, lascia che Kevin scelga, che desideri, che giustifichi ogni passo con il lessico della carriera. In questo senso, il romanzo solleva una domanda inquietante: quando si cade, chi ci ha spinto davvero? Il Male è esterno o è già stato introiettato, camuffato da desiderio legittimo?

L’ambiguità morale del successo è il vero centro incandescente della narrazione. Kevin non è un mostro, non è malvagio: è semplicemente ambizioso, determinato, affamato di riconoscimento. E in questo sta la sua fragilità. Ogni trionfo legale, ogni promozione, ogni lusinga ricevuta dal prestigioso studio Milton & Chadwick rappresenta un passo avanti nel vuoto. Ma lui non se ne accorge. Il lettore sì. Neiderman costruisce un crescendo inquietante, in cui la scalata sociale si trasforma lentamente in una discesa nell’inferno. E l’inferno, qui, non è un luogo metafisico, ma un paesaggio interiore: quello in cui si perde la capacità di distinguere il giusto dall’utile, il lecito dal necessario. Il vero peccato non è il crimine, ma l’autoassoluzione.

La giustizia, nel mondo di Neiderman, è una finzione. Il sistema legale appare come un meccanismo raffinato e implacabile, che trasforma l’etica in retorica, la verità in strategia. I tribunali non sono templi della legge, ma arene dove vince chi argomenta meglio, chi manipola più abilmente emozioni e prove. John Milton, in quanto eminenza oscura di questo sistema, non fa che esasperarne le logiche: non crea il Male, lo legalizza. E così la legge, da promessa di ordine, diventa uno strumento di dominio. Non è un caso che il titolo stesso del romanzo evochi un’oscura ironia: “l’avvocato del diavolo” è, letteralmente, colui che difende il male rendendolo ragionevole.

Ed è proprio qui che il romanzo si fa più disturbante: nella sua analisi della persuasione. Satana non impone nulla: suggerisce, accompagna, insinua. È maestro nell’arte dell’autoinganno. Kevin non è un burattino, ma un uomo il cui desiderio è stato previsto, compreso, orientato. La sua libertà è reale, ma profondamente condizionata. Satana non si serve della paura, ma della gratificazione. È una guida, un mentore, un modello. Ed è in questo rapporto apparentemente libero ma segretamente coercitivo che si consuma la tragedia. Kevin non perde il controllo in un momento, ma in un lungo processo di accettazione progressiva: accetta di vincere cause sporche, accetta la ricchezza, accetta la menzogna. E infine accetta se stesso, nella sua nuova forma. Una forma che è già perduta.

In questa prima parte, Neiderman costruisce un sofisticato romanzo morale, che rinuncia a ogni moralismo per mostrare quanto la corruzione possa essere elegante, convincente, quasi irresistibile. Un’opera che non demonizza il Diavolo, ma lo riconosce come parte del mondo, come sintesi estrema del successo disumano. La domanda che resta sospesa non è “chi è Satana?”, ma “chi siamo noi, quando lo ascoltiamo?”

In L’avvocato del Diavolo, New York non è soltanto lo sfondo, ma un personaggio occulto, parte integrante del disegno diabolico. La metropoli si erge come un nuovo inferno verticale, fatto non di fiamme ma di vetro, acciaio e cemento. Le torri altissime che svettano sull’isola di Manhattan sembrano proiezioni architettoniche dell’ambizione, specchi neri che riflettono un cielo senza luce. È qui che si consuma la vera dannazione: nella spersonalizzazione, nella frenesia, nell’indifferenza di un mondo che si muove senza pietà e senza pause. Gli uffici dello studio Milton & Chadwick – labirintici, impersonali, spietatamente eleganti – somigliano più a un tempio del profitto che a uno studio legale. Neiderman suggerisce che l’inferno moderno non ha più bisogno di fuoco e zolfo: basta un ascensore che porta ai piani alti del potere, dove le anime si perdono sorridendo.

In questo scenario asettico e disumano, si svolge la lenta frattura dell’identità del protagonista. Kevin Taylor entra a New York come giovane avvocato affamato di successo e ne esce, se ne esce, come un uomo svuotato. Il conflitto tra l’immagine che ha di sé e l’uomo che sta diventando si fa via via più lacerante. La figura del doppio emerge in tutta la sua potenza simbolica nel momento in cui si scopre la verità sull’identità di John Milton: non solo mentore, ma anche padre biologico. Il legame di sangue si sovrappone a quello spirituale, il conflitto edipico si fonde con quello faustiano. Kevin è, letteralmente, il figlio del Diavolo. Eppure, proprio in questo groviglio di relazioni e proiezioni, si rivela una delle domande centrali del romanzo: è possibile sfuggire al proprio destino, o il Male si trasmette come un’eredità genetica, un vizio d’origine? La crisi identitaria diventa dunque crisi ontologica: chi è Kevin Taylor, se non la somma delle sue scelte e delle sue ombre?

Accanto a lui, quasi relegata in un angolo ma mai davvero assente, si consuma la tragedia silenziosa di Mary Ann, sua moglie. Figura fragile, sensibile, acuta nel percepire il disordine che si cela dietro l’apparenza, Mary Ann rappresenta l’intuizione ferita, il femminile sacrificato sull’altare del potere. La sua progressiva discesa nella follia – o forse nella lucidità spirituale – è uno degli elementi più disturbanti del romanzo. Mentre Kevin si afferma, lei si frantuma. Mentre lui stringe la mano al Diavolo, lei vede gli angeli caduti. È la sola che intuisce l’orrore, che ne subisce le vibrazioni sottili. Il suo corpo, la sua mente, il suo sguardo diventano il campo di battaglia invisibile tra realtà e menzogna. E quando cede, quando crolla, il lettore non assiste solo alla perdita di un personaggio, ma alla distruzione simbolica della coscienza profonda, dell’umanità ferita. In questo senso, il romanzo mette in scena anche la devastazione del principio femminile: empatia, intuizione, amore vengono sacrificati alla logica fallica del dominio.

Sotto la superficie della trama legale, Neiderman dissemina simboli religiosi, riferimenti esoterici e suggestioni cabalistiche. Il nome stesso di John Milton richiama l’autore di Paradise Lost, e l’intero romanzo sembra costruito come una contro-teologia perversa. Il Diavolo, qui, non si presenta come negazione del divino, ma come sua parodia perfetta. Non distrugge, ma corrompe. Non impone, ma seduce. Gli ambienti dello studio ricordano templi, i colloqui con Milton hanno la solennità di riti iniziatici, e la retorica usata è spesso di matrice biblica: redenzione, sacrificio, peccato, scelta. Anche l’albero della conoscenza è presente, ma camuffato da curriculum, da successo, da competizione. E la mela che viene offerta non è velenosa: è dolcissima, e sa di giustizia.

La struttura del romanzo si chiude con un colpo di scena che ha il sapore dell’eterno ritorno. Kevin sembra tornare all’inizio, ma lo fa con una consapevolezza nuova, come se avesse vissuto tutto in un sogno lucido, un’allucinazione morale. Eppure, proprio quando pare aver scelto diversamente, ecco che il Diavolo ritorna, con un volto diverso, ma la stessa voce. L’ultima battuta, beffarda e ambigua, lascia intendere che il gioco non è mai finito, che la scelta non è mai libera davvero, e che il Male non ha bisogno di ripresentarsi due volte: basta solo cambiare maschera. La struttura circolare del romanzo non è un ritorno alla salvezza, ma una spirale che si stringe. La possibilità di redenzione è lasciata aperta, ma è fragile, sottile, forse illusoria. Neiderman sembra volerci dire che l’Inferno non è una destinazione: è un’abitudine. Una scelta quotidiana. E che spesso lo attraversiamo senza nemmeno accorgercene.

Salem’s Lot di Stephen King (1975): Recensione critica

Quando Stephen King pubblicò Salem’s Lot nel 1975, il successo del suo primo romanzo, Carrie, era ancora fresco, e molti si chiedevano se il giovane autore sarebbe riuscito a confermare il suo talento. La risposta arrivò con una storia che, pur rievocando l’archetipo gotico del vampiro, seppe radicarlo nella dimensione più inquietante: quella della quotidianità. King abbandona castelli nebbiosi e lande esotiche per concentrare l’orrore nella provincia americana, in una cittadina apparentemente serena, dove il vero mostro si annida non soltanto nei morti viventi, ma nella vita stessa.

L’orrore in Salem’s Lot si insinua senza clamore, come una muffa invisibile che corrode lentamente le fondamenta della normalità. Jerusalem’s Lot, con le sue case bianche, i suoi bar, la scuola e le chiacchiere da cortile, sembra all’inizio un luogo rassicurante, protetto dall’anonimato e dall’abitudine. Ma sotto la superficie, la città è già malata. Le relazioni sono permeate di ipocrisia, solitudine, rancore. Mariti che picchiano le mogli, bambini trascurati, vecchie faide mai sopite: è su questa terra arida che il male, incarnato dal vampiro Kurt Barlow, trova terreno fertile. King non rappresenta dunque l’arrivo del male come un’invasione violenta; al contrario, il male cresce dall’interno, coltivato dalle stesse fragilità, egoismi e corruzioni della comunità.

Questa idea è forse uno degli elementi più perturbanti del romanzo: il male, lungi dall’essere un’entità estranea, è già parte del tessuto sociale. Il vampiro diventa così una metafora potente, un catalizzatore di una decadenza morale già in atto. Barlow non fa altro che accelerare un processo di decomposizione etica che la cittadina aveva iniziato da sola molto tempo prima. I suoi poteri sovrannaturali sono meno spaventosi delle crepe che rivela nell’animo dei cittadini: l’avidità, l’invidia, la codardia. Il vampirismo in Salem’s Lot non è solo una condizione fisica, ma un fallimento spirituale, una resa dell’individuo e della collettività al lato più oscuro di sé.

A rendere ancora più potente questa narrazione è la scelta del protagonista, Ben Mears, uno scrittore che torna a Jerusalem’s Lot dopo anni di assenza. Il ritorno alle radici diventa per lui un viaggio nei propri traumi e nelle proprie paure più profonde. Non è solo la città ad essere cambiata: è lo stesso Ben a scoprire che i fantasmi che credeva di aver lasciato indietro non hanno mai smesso di vivere tra quelle strade. La memoria personale si intreccia con la memoria collettiva della comunità, e il ritorno non è una riconciliazione, ma un lento e doloroso disvelamento.

All’interno di questo affresco di corruzione e perdita, King dedica una particolare attenzione all’infanzia, rappresentata da personaggi come Mark Petrie. L’infanzia in Salem’s Lot non è un rifugio sicuro: al contrario, è una fase vulnerabile, dove il male può agire con maggiore crudeltà. Mark, con il suo coraggio precoce e la sua resilienza, si distingue dagli adulti troppo codardi o ciechi per reagire. Ma la sua lotta contro il male comporta inevitabilmente una perdita irreversibile dell’innocenza. King ci mostra come il contatto con l’orrore spezzi definitivamente il fragile guscio protettivo della giovinezza, lasciando spazio a una precoce e dolorosa consapevolezza della brutalità del mondo.

Salem’s Lot è dunque molto più di una semplice storia di vampiri: è una meditazione cupa e lucidissima sulla fragilità della civiltà, sulla facilità con cui il male può infiltrarsi e contaminare ogni cosa quando la memoria si fa debole, la comunità si sfalda e l’innocenza viene sacrificata.

Tra i temi più intensi che Stephen King affronta in Salem’s Lot, un posto centrale è occupato dalla religione e dalla fede, esplorati con un taglio sorprendentemente cupo. Attraverso la figura tormentata di Padre Donald Callahan, King riflette sulla fragilità della fede quando si scontra con l’orrore autentico. Callahan non è un eroe senza macchia: è un uomo stanco, insicuro, che ha smarrito la purezza del suo credo tra i compromessi della vita quotidiana. Quando si trova faccia a faccia con il male incarnato, la sua fede si rivela più debole delle paure che lo divorano. King suggerisce così che la fede autentica richiede più di semplici rituali o proclami: richiede un coraggio interiore che pochi, realmente, possiedono. Il fallimento di Callahan non è solo personale, ma simbolico: rappresenta la crisi di una società che, di fronte al male, scopre di non credere davvero in nulla.

Questa lacerazione interiore si intreccia perfettamente con la straordinaria costruzione della suspense che King orchestra in tutto il romanzo. Salem’s Lot è un’opera di lenta combustione, dove l’orrore cresce in modo impercettibile, insinuandosi nelle pieghe della normalità. Il lettore percepisce un senso di minaccia già dalle prime pagine, ma la vera esplosione dell’orrore avviene soltanto quando il terreno è stato ampiamente preparato. King dosa gli eventi in modo chirurgico: sparizioni inspiegabili, comportamenti strani, atmosfere soffocanti. Ogni dettaglio è un colpo di scalpello che lavora nella mente del lettore, costruendo una tensione che diventa quasi insostenibile prima del crollo finale. Non ci sono effetti speciali o shock improvvisi: c’è, piuttosto, un inesorabile accumulo di paura, un lento strangolamento emotivo.

A questo senso di inquietudine contribuisce anche il tema dell’isolamento, che attraversa tutta la narrazione. Jerusalem’s Lot è fisicamente tagliata fuori dal mondo: una cittadina sperduta, difficile da raggiungere, dimenticata. Ma l’isolamento più tragico è quello interiore. Ognuno dei personaggi principali, da Ben a Susan, da Mark a Callahan, affronta la propria battaglia contro il male nella più totale solitudine, incapace di contare davvero sugli altri. Gli affetti sono deboli, le relazioni sono superficiali o spezzate. Il male, in Salem’s Lot, non solo distrugge, ma isola: e in questo isolamento, gli individui si frantumano, diventano più facili da sottomettere.

Non meno significativo è il modo in cui King costruisce i suoi personaggi: nessuno è immune dal peso della colpa. Gli errori del passato, i peccati piccoli o grandi, i compromessi accettati per quieto vivere, tornano a galla e si rivelano ferite aperte che il male può facilmente sfruttare. Ben è tormentato dal senso di colpa per il trauma infantile legato alla Marsten House. Padre Callahan è consumato dalla consapevolezza della propria ipocrisia. Persino i cittadini più semplici, come Eva Miller o il dottor Cody, sono prigionieri di errori e debolezze che li rendono vulnerabili. King dipinge così un’umanità fragile, divisa tra il desiderio di redenzione e la resa alla disperazione.

Infine, Salem’s Lot si inserisce consapevolmente nella grande tradizione del romanzo gotico, rendendo omaggio ai suoi predecessori pur innovandone la struttura. L’influenza di Dracula di Bram Stoker è evidente, non solo nella figura del vampiro aristocratico che corrompe una comunità, ma anche nell’uso di alcuni topoi narrativi come la casa maledetta, la lotta tra Bene e Male, la contaminazione della purezza. Tuttavia, King non si limita a ripetere formule collaudate: li trapianta nel cuore dell’America contemporanea, in un mondo fatto di televisioni, automobili e strade asfaltate. L’effetto è dirompente: il gotico si fa quotidiano, il mostro non abita più castelli in rovina ma case di legno dipinte di bianco, e il terrore si annida non nei cimiteri abbandonati, ma nelle strade familiari della nostra infanzia.

Con Salem’s Lot, King non si limita a riscrivere il romanzo dell’orrore: lo reinventa, dimostrando che il male non ha bisogno di varcare oceani o di attraversare epoche. Basta che trovi terreno fertile nella nostra indifferenza, nelle nostre paure, nei nostri sogni infranti.

A volte ritornano di Stephen Edwin King (1978): recensione critica

Quando nel 1978 Stephen King pubblica Night Shift, tradotto in italiano con il titolo A volte ritornano, ha già all’attivo due romanzi fondamentali – Carrie e Shining – che lo hanno consacrato come nuova voce del terrore americano. Ma è con questa raccolta di racconti, scritti in buona parte negli anni precedenti e pubblicati su riviste e magazine, che il lettore ha per la prima volta la possibilità di osservare da vicino la varietà, l’ampiezza e la duttilità del suo immaginario. A volte ritornano è un campionario dell’orrore in tutte le sue forme, ma anche un testamento precoce del talento proteiforme di King: l’autore riesce a spaziare con naturalezza dall’horror gotico alla fantascienza distopica, dal weird più sottile al pulp a tinte forti, mantenendo sempre una voce riconoscibile e un’anima profondamente americana.

Già il racconto d’apertura, Jerusalem’s Lot, è una dichiarazione d’intenti. Scritto con uno stile epistolare che richiama direttamente i grandi classici del gotico ottocentesco – da Stoker a Poe – questo racconto è un omaggio esplicito a Lovecraft, di cui rievoca l’universo fatto di culti perduti, grimori impuri e genealogie maledette. Ma, al di là delle citazioni e degli omaggi, ciò che colpisce è la naturalezza con cui King riesce a rievocare le atmosfere cupe del gotico americano, innestandole in una narrazione modernamente ritmata, inquietante senza essere mai caricaturale. All’estremo opposto della raccolta si trova Camion, racconto breve e fulminante in cui l’orrore non è più ancestrale ma meccanico, industriale, pulsante di metallo e ruggine. Qui, i protagonisti sono assediati da camion animati da una volontà propria, in un mondo che sembra aver subito una silenziosa, apocalittica inversione dei ruoli tra uomo e macchina. Due racconti distanti, eppure figli dello stesso autore: segno di una versatilità che non è solo tecnica, ma soprattutto immaginativa.

King non ha bisogno di castelli, cripte o lande desolate per evocare l’orrore. Gli bastano una scuola, una lavanderia industriale, l’ufficio di un consulente per smettere di fumare, una stanza da letto buia. È qui che si insinua una delle cifre più riconoscibili del suo stile: la capacità di rendere il quotidiano profondamente inquietante. L’America che emerge da A volte ritornano è fatta di periferie e cittadine, di fast food e stazioni di servizio, di piccoli drammi e vite spezzate dalla noia o dal rimpianto. Ma proprio in questi contesti ordinari – anzi, proprio grazie a questi contesti – l’irruzione dell’orrore assume una potenza dirompente. È quando l’incubo bussa alla porta della normalità che King dà il meglio di sé, trasformando ciò che ci è familiare in qualcosa di improvvisamente ostile, deformato, irreversibile.

In molti racconti della raccolta, i mostri non sono solo presenze tangibili o creature immaginarie. Sono incarnazioni delle paure che ci abitano: la perdita dell’identità, la vendetta che cova per decenni, la solitudine che si fa allucinazione. Il baubau, forse uno dei racconti più celebri, si apre con una seduta psichiatrica apparentemente banale, ma affonda subito nella paura archetipica del bambino che teme il mostro nell’armadio. Solo che King, con la sua consueta crudeltà, lo rende reale – e lo lega indissolubilmente al trauma, alla colpa, al senso di impotenza. In A volte ritornano, il passato ritorna letteralmente a reclamare vendetta: compagni di scuola morti che si fanno vivi, incubi scolastici che si trasformano in persecuzioni. Non è solo l’orrore della morte, ma quello di ciò che abbiamo lasciato incompiuto, di ciò che ci siamo lasciati alle spalle credendo fosse sepolto.

L’influenza di Lovecraft, già evidente in Jerusalem’s Lot, riaffiora anche in Grano nero, in cui un giovane uomo scopre che la propria stirpe nasconde un’eredità impura, collegata a un culto antico e indicibile. Qui l’orrore si costruisce sul non detto, sul sussurrato, sull’inconoscibile che vive ai margini della razionalità. È l’orrore cosmico, quello che non si può combattere né comprendere, ma solo osservare – con terrore. King assimila questi stilemi con rispetto, ma senza mai rinunciare alla propria voce: il racconto non è una semplice imitazione, ma una rielaborazione personale, capace di integrarsi perfettamente nel suo universo narrativo.

Un ultimo elemento cruciale, spesso trascurato ma centrale in questa raccolta, è il ruolo dell’infanzia e dell’adolescenza. I bambini, in A volte ritornano, non sono mai semplici comparse: sono testimoni privilegiati dell’orrore, o le sue vittime predilette. Che si tratti del piccolo Lester in Il baubau, dello sfortunato fratello in Il cornicione, o del protagonista adolescente dell’omonimo racconto, King mostra una sensibilità straordinaria nel catturare le angosce dell’età più fragile – e forse proprio per questo più permeabile al soprannaturale. Ma non è mai un’innocenza banale, idealizzata: i bambini di King sono vulnerabili, certo, ma anche capaci di ferocia, di ambiguità, di un’intelligenza che spesso gli adulti non riescono a comprendere. E, talvolta, proprio per questo sono i soli a sopravvivere.

Con A volte ritornano, King non si limita a raccogliere racconti: disegna una mappa del terrore contemporaneo, capace di abbracciare l’immaginario gotico, la paranoia tecnologica, l’inquietudine quotidiana e il trauma psichico. Un laboratorio dell’orrore in cui ogni racconto è una scheggia, autonoma ma parte di un disegno più ampio. E proprio per questo, a distanza di quasi cinquant’anni, continuano a tornare.

Uno dei tratti più ossessivi e ricorrenti di A volte ritornano è il tema del trauma che riemerge, come un corpo mal sepolto che continua a spingere contro la terra smossa. I racconti di King sono spesso storie di ritorni: ritorni del rimosso, del colpevole, del passato che non ha mai smesso di reclamare attenzione. Il racconto eponimo della raccolta, A volte ritornano, è un manifesto di questa dinamica: un insegnante di liceo, vittima in gioventù di un trauma legato alla morte violenta del fratello e al bullismo subito, vede letteralmente i suoi carnefici ritornare dalla morte e presentarsi nella sua classe. Non è solo una storia di vendetta soprannaturale; è una parabola disturbante sull’impossibilità di chiudere i conti con il dolore, sull’inadeguatezza della razionalità adulta di fronte ai traumi infantili. Il protagonista non riesce a lasciarsi il passato alle spalle perché, in fondo, non l’ha mai davvero affrontato: e così il passato ritorna, più forte, più crudele, più vero della realtà.

Ma è in Quitters, Inc. che King esplora con tono grottesco e sadico il medesimo meccanismo di colpa e controllo. Un uomo decide di smettere di fumare rivolgendosi a un’agenzia specializzata, scoprendo troppo tardi che il prezzo del cambiamento sarà la minaccia costante di dolore – fisico e psicologico – inflitto ai suoi cari. Anche qui il passato pesa, ma in un modo più subdolo: è la compulsione, l’ossessione, l’autodistruttività di un vizio che si è radicato nella carne e nello spirito. Il protagonista si trova prigioniero di una promessa che non può infrangere, perché ogni sgarro costerebbe caro a chi ama. Il trauma diventa qui istituzionalizzato, trasformato in metodo, in azienda, in controllo sociale.

King padroneggia come pochi l’arte di raccontare l’orrore non solo con le immagini, ma con la voce. La scelta tra prima e terza persona, l’intonazione del narratore, il ritmo con cui vengono rivelate le informazioni: tutto concorre a costruire una tensione che non è mai gratuita, ma funzionale allo sviluppo del tema. Nei racconti in prima persona – come Il baubau o A volte ritornano – la voce narrante è spesso inaffidabile, emotivamente coinvolta, frammentaria, e proprio per questo più inquietante. È come ascoltare la confessione di un sopravvissuto che non ha ancora fatto i conti con l’orrore. Nei racconti in terza persona, invece, King gioca con la distanza: l’ironia, il cinismo, la freddezza apparente diventano strumenti per raccontare l’assurdo come fosse normale, e proprio così facendo ne amplificano la potenza. In entrambi i casi, la scrittura di King si distingue per una lucidità psicologica e una capacità di rendere credibili anche le situazioni più assurde: che si tratti di un giocattolo da guerra che prende vita (Campo di battaglia) o di un compressore che sviluppa un’ossessione omicida (Il compressore), l’autore riesce sempre a dare corpo e coerenza all’incubo.

In diversi momenti, la raccolta si colora di un’ironia nera e crudele, che sfiora il grottesco e lo abbraccia senza timore. Quitters, Inc. è una farsa nera sulla società della performance e del controllo; Campo di battaglia è una perla di umorismo macabro che trasforma un assassinio su commissione in una guerra privata tra un killer professionista e un plotone di soldatini giocattolo, in un crescendo di assurdità che sfocia in un finale tanto brutale quanto esilarante. È una risata che gela il sangue: perché anche quando ridiamo, King ci ricorda che il terrore è dietro l’angolo, e che spesso è proprio la comicità a preparare il terreno al colpo finale.

Non manca, in questa raccolta, un’attenzione inquieta e profetica per il ruolo della tecnologia e della macchina. Camion prefigura un mondo in cui la rivolta degli oggetti inanimati non è più soltanto una fantasia infantile, ma un incubo sistemico: i camion che si ribellano, schiavizzando gli uomini, sembrano anticipare con lucidità le angosce dell’automazione, della dipendenza tecnologica, della disumanizzazione dell’ambiente moderno. Il compressore spinge oltre questa idea, presentando una macchina da lavanderia animata da un istinto omicida, quasi sessuale, capace di fagocitare corpi e coscienze. L’uomo, in questi racconti, perde il controllo su ciò che ha creato: e non perché la tecnologia sia malvagia in sé, ma perché riflette ed esaspera le sue ossessioni e le sue manie. È una tecnologia posseduta, che amplifica le pulsioni umane fino a renderle mostruose.

Difficile sopravvalutare l’impatto che A volte ritornano ha avuto sulla cultura horror contemporanea. Non solo perché molti dei racconti sono stati adattati per il cinema e la televisione – alcuni con risultati memorabili, altri con esiti più discutibili – ma perché la raccolta rappresenta una vera e propria cassetta degli attrezzi narrativa per chiunque voglia scrivere (o leggere) storie dell’orrore. In questi racconti si trovano già in nuce molti dei temi, delle atmosfere, dei dispositivi narrativi che King svilupperà nei suoi romanzi successivi. È una sorta di laboratorio creativo, in cui lo scrittore sperimenta con forme brevi ciò che poi declinerà in modo più articolato nei suoi capolavori futuri.

Ma A volte ritornano è anche qualcosa di più: è una dichiarazione poetica, un’enciclopedia sentimentale della paura, un’indagine sulle ombre che ci portiamo dentro. Racconti che, come suggerisce il titolo, continuano a tornare. Forse perché ci somigliano troppo. O forse perché, in fondo, siamo noi che li chiamiamo.

Il Giardino dei peccati

Attraversai le colline del Piacentino sotto un cielo opaco, il cui colore sembrava riflettere una volontà oscura e imperscrutabile. Gli alberi, scheletrici e piegati dal vento, parevano testimoni muti di segreti antichi. Quando la sagoma imponente di Rocca Valtenuta apparve davanti a me, il mio cuore si fermò per un istante: non era una costruzione, ma un colosso innaturale, un’entità che pareva emergere dalla terra stessa, rivestito di pietra muschiosa e denso di presagi.

Il castello mi attendeva con il silenzio severo di un giudice. Le sue torri si protendevano verso il cielo, come artigli di un essere pietrificato, mentre un’ombra inquietante aleggiava tra le sue mura. In quel luogo, la leggenda e la realtà sembravano sovrapporsi fino a confondersi, e l’aria stessa sapeva di antico e corrotto.

L’interno di Rocca Valtenuta era un enigma di pietra e velluto, impregnato di un’aura antica. I pavimenti in marmo riflettevano fioche luci tremolanti di candele disposte con cura, mentre le pareti, ornate di arazzi e dipinti, narravano scene di caccia e riti pagani con un’arte che sembrava sfuggire al tempo.

Fui accolto da un servitore il cui volto era inespressivo come una maschera funebre. Mi condusse senza una parola lungo corridoi ornati di arazzi sbiaditi e arredi che sembravano essere stati prelevati da un’epoca più antica del tempo. L’incontro con la padrona della dimora, la marchesa Lucrezia Maldracini, fu un evento che non dimenticherò mai.

Ella incarnava una bellezza che sfidava ogni legge naturale: il suo volto pallido, gli occhi di smeraldo che sembravano scrutare l’anima, e il suo portamento, che la faceva sembrare più una divinità che un essere umano. Quando parlò, le sue parole fluivano con una musicalità ipnotica, intrise di una grazia che celava un potere invisibile.

Lucrezia mi accolse nel salone principale con un sorriso caloroso e un calice di vino. La sua figura, slanciata e aggraziata, sembrava emergere dalla stessa oscurità che permeava il castello. Il vestito che indossava era nero come la pece, punteggiato da ricami dorati che parevano mutare alla luce delle fiamme.

“Ecco il nostro giovane esploratore,” disse, la voce un filo di seta che scivolava nell’aria. “Spero che Rocca Valtenuta non vi appaia troppo austera. È una dimora severa, ma ospitale, se le si concede il tempo di svelare i suoi segreti.”

Mi porse il calice, e i nostri occhi si incontrarono. Il suo sguardo aveva una profondità ipnotica, un misto di calore e di qualcosa di più oscuro, un’eco di una verità non detta.

“È… magnifico,” risposi, sorseggiando il vino. Era forte, denso, con un sapore che mi rimase sulla lingua come un sussurro di qualcosa di proibito.

Le sere trascorrevano in un’atmosfera di quieto incanto. Nella grande sala del castello, il fuoco del camino proiettava ombre danzanti sui soffitti alti, mentre Lucrezia mi intratteneva con racconti che sembravano emergere da un altro mondo. Mi parlò di antiche famiglie che avevano abitato la rocca, di patti segreti con forze sconosciute, e del giardino, un luogo che descriveva con una devozione quasi religiosa.

“Ogni pianta ha un’anima,” mi disse una sera, gli occhi fissi sulle fiamme. “E il giardino è il cuore pulsante di Rocca Valtenuta. È vivo, come voi o me, e richiede attenzioni particolari.”

“Avete un legame speciale con il giardino, marchesa?” azzardai, affascinato dalla sua voce e dalla calma magnetica con cui parlava.

“Oh, Pier Maria,” disse, ridendo sommessamente, “è un legame antico e sacro. Il giardino è il mio rifugio, la mia confessione, il mio specchio.”

Le sue parole erano carezze di miele, e il mio cuore, inesorabilmente, iniziava a battere al ritmo delle sue.

Quando finalmente mi concesse di accedere al giardino, fu come entrare in un altro regno. Il portale che conduceva al cortile interno era fiancheggiato da colonne intarsiate con simboli che mi sfuggivano: spirali intrecciate, serpenti stilizzati e figure umanoidi che sembravano emergere dalle radici degli alberi.

Oltre il portale, il giardino si aprì davanti a me come un incantesimo. Fiori dai colori impossibili si piegavano al vento, e rampicanti si intrecciavano in disegni elaborati, quasi fossero opera di un’artista folle. Il terreno era scuro, quasi nero, e aveva un odore pungente, metallico.

Mi avvicinai a un albero dai tronchi gemelli che pulsavano di una luce dorata, come se dentro di essi scorresse sangue vivo. Ero estasiato e inquieto allo stesso tempo. C’erano dettagli che mi sfuggivano, ma che percepivo ai margini della mia coscienza: radici che si avvolgevano come artigli attorno alle rocce, ombre che si muovevano dove non dovevano esserci.

Lucrezia mi raggiunse nel giardino, la sua figura eterea che sembrava fluttuare tra le piante. Mi osservava come un falco, ma il suo sorriso era dolce, quasi protettivo.

“Vi piace?” mi chiese, il tono della sua voce basso, intimo.

“È… unico,” risposi, incapace di trovare parole migliori.

Lei si avvicinò, sfiorandomi la spalla con la mano. Il suo tocco era lieve, ma mi scosse come un fulmine.

“Siete speciale, Pier Maria,” disse. “Il giardino lo percepisce. Lo vedete, vero? Sentite la sua energia?”

Annuii, incapace di mentire. La mia mente era un turbine di emozioni contrastanti: meraviglia, desiderio e un terrore sottile che non riuscivo a definire.

Da quel momento, le nostre conversazioni divennero più intime. Mi parlava del suo passato, accennando a una sofferenza che la legava al giardino. Mi mostrava i segreti del castello: una cappella pagana nascosta nei sotterranei, un libro rilegato in pelle che sembrava scritto con un alfabeto alieno.

Ogni suo gesto, ogni sua parola, mi avvolgeva in un bozzolo di sogni febbrili. Era come se il castello, il giardino e la marchesa fossero parte di un unico, grande organismo, un’entità viva che mi osservava e mi valutava.

Una notte, mentre sedevamo vicini davanti al camino, mi confidò qualcosa che mi scosse.

“Pier Maria,” disse, le mani che stringevano una coppa di vino. “Non sono la donna che credete. Non sono una creatura libera. Sono legata al giardino come un’ombra al suo padrone.”

“Che cosa intendete?” chiesi.

“C’è una magia oscura in questo luogo, una maledizione antica. Il giardino si nutre della vita… e io sono solo un tramite.”

La sua voce si spezzò, e per un istante, vidi qualcosa nei suoi occhi: una disperazione profonda, viscerale. Non potevo credere che una donna così forte e magnetica fosse tormentata da qualcosa di così crudele.

“Posso aiutarvi,” dissi, avvicinandomi a lei. “Vi libererò da qualunque maledizione. Vi giuro che lo farò.”

Lei mi guardò a lungo, il suo volto una maschera di tristezza e gratitudine. Poi, sorrise.

“Pier Maria… siete troppo puro per questo mondo.”

Non sapevo allora quanto vere fossero le sue parole.

Le piante che crescevano in quel luogo sembravano aliene. I loro colori, violenti e innaturali, pulsavano come creature vive, mentre un odore dolciastro e opprimente saturava l’aria. Sentii il cuore sussultare quando notai come le radici di alcune di esse si immergevano in pozze dal colore scarlatto, come se la terra stessa sanguinasse.

“Straordinario, non è vero?” sussurrò la marchesa, posandosi accanto a me. Il suo sguardo non era diretto verso il giardino, ma verso di me, come se stesse osservando la mia reazione con un interesse affamato.

Non potevo parlare. Sentivo un’energia arcana permeare l’ambiente, una presenza maligna e insondabile che sussurrava nei recessi della mia mente. Tuttavia, la mia curiosità di botanico era troppo forte, e nonostante il terrore che mi divorava, accettai di rimanere e studiare.

Nei giorni successivi esplorai il giardino sotto la supervisione costante della marchesa. Notai come le piante sembrassero crescere e contorcersi, quasi rispondendo alla mia presenza. Ogni notte, sogni inquietanti mi tormentavano: visioni di radici che mi avviluppavano, di volti deformi che si dissolvano in un’oscurità senza fine.

Una sera, spinto da un impulso che non potevo controllare, tornai nel giardino da solo. La luna, nascosta dietro nuvole opprimenti, illuminava debolmente il sentiero. Mi addentrai fino al centro, dove sapevo che il segreto più oscuro della marchesa mi attendeva.

“Pier Maria,” disse una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi la marchesa, il suo volto distorto da una strana, mostruosa espressione di piacere e dolore. “Avete trovato il cuore del giardino. È magnifico, vero?”

La notte era spessa come il velluto, priva di stelle e più nera della pece. Il vento, che di solito cantava tra i rampicanti del giardino, si era fermato, come un animale che fiuta un predatore. Non c’era luce, se non quella di una lanterna che Lucrezia teneva alta davanti a sé, il chiarore fioco che creava ombre danzanti sui contorni delle piante.

Raggiungemmo un’area che non avevo mai visto, un cerchio perfetto dove le piante sembravano piegarsi verso un unico punto, come in adorazione.

E lì, vidi l’innominabile. Un albero dalle dimensioni colossali si ergeva su un altare naturale, le sue radici immerse in un liquido vermiglio che emanava un bagliore spettrale. Il tronco sembrava composto di una materia impossibile, in costante mutazione, mentre i suoi rami si agitavano con movimenti innaturali.

Una cavità al centro del tronco pulsava, emettendo un bagliore rosso che sembrava vivo. Mi avvicinai, attratto e terrorizzato allo stesso tempo, il suono del mio respiro amplificato nel silenzio irreale del luogo.

“È qui che tutto ha inizio,” disse Lucrezia, la sua voce un sussurro che pareva venire dall’albero stesso.

Le sue mani si posarono sul mio viso, e i suoi occhi si piantarono nei miei. Erano pieni di qualcosa di indefinibile: un misto di desiderio, rimpianto e una fame che mi fece indietreggiare, seppur di un passo.

“Il giardino non è come gli altri,” continuò. “È vivo. Respira, sente… e ha bisogno.”

“Di cosa?” chiesi, la mia voce più debole di quanto avrei voluto.

“Di sangue.”

Rimasi immobile, mentre le sue parole si insinuavano nella mia mente come un veleno lento. Mi parlò di un rituale antico, di un patto sigillato con entità che non osava nominare. Ogni fiore, ogni radice, ogni foglia del giardino era nutrito dalla vita stessa, estratta da coloro che vi erano stati portati.

“Ma voi,” disse, avvicinandosi ancora, “siete diverso. La vostra purezza, il vostro amore per ciò che è vivo, sono perfetti. Siete l’offerta che il giardino ha atteso per tanto tempo.”

“Non può essere vero,” balbettai, cercando di allontanarmi, ma le sue mani si strinsero attorno ai miei polsi con una forza che non avrei mai immaginato da lei.

“Non temete,” disse, con una dolcezza agghiacciante. “Sarete parte di qualcosa di eterno. Il giardino vi amerà come io vi amo.”

Prima che potessi reagire, mi tirò verso di sé e mi baciò. Fu un bacio feroce, disperato, come se stesse cercando di imprimere la sua anima nella mia. Mi avvolse, rubandomi ogni pensiero e lasciandomi solo il calore travolgente del suo corpo contro il mio.

Quando mi resi conto del pugnale, era già troppo tardi. Era un’arma cerimoniale, la lama sottile e curva che scintillava di un bagliore malvagio. Con un movimento fluido, Lucrezia me la conficcò nel petto, dritta al cuore.

Sentii il freddo dell’acciaio attraversarmi, seguito da un’esplosione di dolore che mi fece cadere in ginocchio. Il sangue iniziò a sgorgare, caldo e abbondante, bagnando il terreno sotto di me.

Le radici dell’albero si mossero, come serpenti attratti dal richiamo di una preda. Si avvolsero intorno al mio corpo, affondando nella terra e assorbendo ogni goccia del mio sangue.

Lucrezia si inginocchiò accanto a me, accarezzandomi il viso con una tenerezza che mi spezzò.

“Non odiatemi,” sussurrò. “Il nostro amore vivrà per sempre, qui. Sarete parte di questa bellezza immortale.”

Le sue parole si fusero con il battito del mio cuore che rallentava, e la mia vista si offuscò. L’ultima cosa che vidi fu il giardino che esplodeva in una fioritura soprannaturale, i colori che si accendevano in tonalità impossibili, e i fiori che si piegavano verso l’albero come discepoli davanti al loro dio.

Il giardino era un’esplosione di vita e colori che sfidavano ogni logica naturale. Ogni petalo sembrava pulsare di un’energia propria, come se la linfa che scorreva in quelle piante fosse più di semplice nutrimento: era memoria, volontà, forse persino anima. Le aiuole si fondevano in un arabesco ipnotico di tonalità impossibili, dal viola che brillava come ametista, al nero profondo e lucente come l’onice.

Un profumo dolce e penetrante saturava l’aria, denso come miele, eppure portava con sé una nota di marcio, una dissonanza che strisciava in profondità, quasi impercettibile. Era il respiro del giardino, e nel cuore di esso, troneggiava l’albero.

Dalla cavità pulsante del tronco, in una nuova forma avevo preso vita: un bocciolo rosso sangue, la cui superficie pareva contrarsi alla luce del sole. Era l’unica cosa che Lucrezia non osava toccare, il suo sguardo mi sfiorava con una sorta di timore riverenziale.

Lucrezia Maldracini si specchiava nell’acqua immobile di una fontana circolare, incorniciata da rampicanti dorati che sembravano piegarsi per abbracciarla. Il suo volto, ora privo di ogni traccia di tempo, rifletteva una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e i suoi occhi brillavano come quelli di una predatrice soddisfatta.

Con un gesto lento, accarezzò la superficie dell’acqua. “Pier Maria,” sussurrò. Il nome scivolò via dalle sue labbra, mescolandosi al canto sommesso delle piante.

Dietro di lei, il castello era vivo di suoni. Musica, risate, e il tintinnio di calici si mescolavano in una sinfonia che si riversava dalle grandi finestre. Gli ospiti erano tornati a frotte, attratti dalla fama di Lucrezia e del suo giardino leggendario.

Una giovane donna con un abito azzurro si avvicinò alla fontana, portando con sé un vassoio di coppe di cristallo.

“Marchesa,” disse, con tono rispettoso, ma venato di un timore sottile. “I vostri ospiti vi attendono.”

Lucrezia si voltò lentamente, il sorriso sulle sue labbra una maschera che tradiva nulla di ciò che ribolliva nel suo animo. “Arriverò presto. Dite loro di godersi il giardino.”

La serva annuì, ma prima di andarsene, il suo sguardo scivolò sull’albero. Un tremito le percorse il corpo, e il bicchiere sul vassoio tintinnò piano.

“Qualcosa non va, cara?” chiese Lucrezia, il suo tono apparentemente gentile.

“N-niente, marchesa,” rispose la ragazza. “Solo… quel fiore. Mi sembra di sentirlo sussurrare.”

Lucrezia rise, un suono cristallino che rimbalzò tra le fronde. “Oh, cara, i miei fiori sono vivi. È solo il giardino che vi parla.”

Nessuno parlava apertamente della mia scomparsa. Coloro che si ricordavano di me, giovani nobili che mi avevano conosciuto a Parma, mi menzionavano solo accennando a una presunta partenza improvvisa per un viaggio di studio.

Eppure, nelle notti più silenziose, quando il vento smetteva di soffiare e il castello si addormentava, alcuni giuravano di udire qualcosa. Era un sussurro, debole come un respiro, che sembrava provenire dall’albero al centro del giardino. Un nome, ripetuto all’infinito, un mormorio che scivolava tra le foglie come un lamento disperato: “Lucrezia…”

Il giardiniere, un vecchio che aveva visto più primavere di quante ne potesse ricordare, si fermava spesso davanti all’albero, osservando quel bocciolo rosso sangue con un’espressione di cupa reverenza. Quella notte, mentre stava legando dei rampicanti su un arco vicino, il mio sussurrare divenne più forte. Egli lasciò cadere il filo di spago e indietreggiò, tremando.

“Tornerà,” sussurrò tra sé, senza sapere se lo credeva o lo temeva.

Nel grande salone del castello, gli ospiti si muovevano tra candelabri scintillanti e tappeti di velluto. I vini più rari scorrevano come fiumi, e i musicisti suonavano una melodia che pareva nata dalle stesse pietre di Rocca Valtenuta.

Lucrezia dominava la sala, la sua figura elegante in un abito nero con ricami d’oro che parevano brillare di luce propria. Gli uomini la circondavano, bevendo le sue parole come nettare, mentre le donne cercavano invano di catturare uno spiraglio della sua grazia.

“Marchesa,” disse un giovane conte, il viso arrossato dal vino. “Il vostro giardino è… semplicemente divino. Non ho mai visto niente di simile.”

“È unico,” rispose lei, sorseggiando il suo vino con un sorriso che sapeva di veleno dolce.

“E quell’albero al centro,” continuò l’uomo, “è… è come se avesse una presenza, quasi umana.”

Lucrezia lo fissò, i suoi occhi che lo trapassavano. “Il giardino riflette ciò che gli viene donato,” disse. “E ciò che gli viene donato, vive per sempre.”

L’uomo ridacchiò, imbarazzato, e alzò il calice. “Alla vostra eterna bellezza, marchesa!”

Ma Lucrezia non rispose. Il suo sguardo si era perso tra le ombre del giardino, dove, tra le fronde scosse da un vento che nessuno poteva sentire, sembrava muoversi qualcosa.

Quando la festa terminò e l’ultimo ospite lasciò il castello, Lucrezia tornò al giardino. La luna era alta e il suo bagliore argenteo rendeva il luogo ancora più irreale. Si fermò davanti all’albero, ed io sotto forma di bocciolo rosso pulsavo lentamente, come un cuore addormentato.

“Pier Maria,” mormorò.

Dal vento tra le foglie, giunse una risposta. Debole, spezzata, ma inconfondibile.

“Lucrezia…”

Lei sorrise, ma il sorriso tremava. Per un istante, il giardino non fu più un rifugio, ma una prigione. Eppure, era l’unico luogo dove il suo amore potesse vivere.

Per sempre.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

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La malvagia giovane violinista

Mi chiamo Lorenzo Bellati, e questa è la cronaca di un’ossessione che ancora oggi mi perseguita, un’ossessione che mi ha condotto sull’orlo della follia e oltre, lasciandomi incapace di distinguere i confini tra il reale e l’incubo. Tutto ebbe inizio in un’estate che sembrava non voler finire, nei colli piacentini, tra vigneti inondati di luce e borghi dimenticati dal tempo. Eppure, anche sotto il sole più luminoso, le ombre del passato e le forze che vi si annidano non si lasciano scacciare facilmente.

Ero giunto ad un borgo abbarbicato su una delle vette più alte della regione, per cercare ispirazione per la mia musica. Dopo anni trascorsi a suonare per piccole orchestre e in spettacoli di poco conto, avevo perso ogni fiducia nella mia arte. Il mio violino, un tempo mio fedele compagno, sembrava muto tra le mie mani. Avevo bisogno di silenzio, di solitudine, di un luogo dove poter ritrovare il mio spirito e forse riconciliarmi con quella passione che tanto mi era costata.

Il posto era perfetto. Case di pietra annerite dal tempo, vicoli stretti che si arrampicavano come serpenti, e un’aria di immobilità che sembrava congelare ogni movimento umano. La locanda dove avevo preso dimora era modesta ma accogliente, e il locandiere, un uomo corpulento con mani segnate dal lavoro, sembrava apprezzare il mio desiderio di discrezione.

La mia routine quotidiana era semplice: passeggiate tra i vigneti, ore trascorse con il mio violino nella stanza fresca della locanda, e serate a scrutare il cielo stellato, cercando nel cosmo l’ispirazione che sulla terra non riuscivo più a trovare. Fu durante una di quelle sere che sentii per la prima volta quella musica.

Una melodia, fragile come il filo di un ragno al vento, si insinuò nella mia mente mentre stavo tornando dal belvedere che dominava il borgo. Mi arrestai incuriosito, e ascoltai. Non saprei descrivere esattamente ciò che sentii, perché quella musica sembrava sfidare ogni descrizione umana. Era un intreccio di note che evocavano un senso di struggimento e di terrore insieme, una melodia che non apparteneva né alla gioia né al dolore, ma a qualcosa di completamente diverso.

Seguendo quel suono, mi ritrovai di fronte a un casolare ai margini del borgo, un edificio antico e malandato, con le imposte sbilenche e i muri invasi dall’edera. La musica proveniva chiaramente da lì, e per un momento fui tentato di avvicinarmi e bussare. Ma qualcosa mi trattenne. C’era un’energia nell’aria, un peso invisibile che mi premeva sul petto e mi costrinse a restare dov’ero.

Quando tornai alla locanda, cercai di chiedere al locandiere di chi fosse quel casolare e chi vi abitasse. L’uomo si fece scuro in volto, e dopo un lungo silenzio mormorò soltanto: “È meglio non impicciarsi degli affari altrui, soprattutto lassù.”

Non potei accettare quell’ambiguità. Nei giorni seguenti, mi sforzai di ignorare quella musica, ma essa sembrava farsi strada nella mia mente anche quando non la udivo. Era come se quelle note vivessero dentro di me, mutando il ritmo del mio respiro, influenzando i miei sogni. E quando, al calare del sole, la melodia riprendeva, non potevo fare a meno di seguirla con la mente, come un insetto attratto da una fiamma.

Un giorno, mentre passeggiavo per il borgo, un’anziana donna mi fermò. Aveva occhi vivaci e una voce roca che sembrava scaturire da un profondo pozzo di esperienze. Mi chiese se fossi il violinista che aveva preso dimora alla locanda. Quando le confermai, annuì, un’ombra attraversandole il volto.

“Avete sentito anche voi, vero?” sussurrò. “La musica di quella ragazza.”

“Di chi parlate?” chiesi, cercando di non apparire troppo interessato.

“Evelyn,” rispose, con un tono che era insieme di ammirazione e timore. “Si è trasferita qui pochi mesi fa. Nessuno sa da dove venga. Non parla con nessuno, eppure tutti noi la conosciamo… per via della musica. Dicono che il suo violino sia maledetto.”

Rimasi in silenzio, e la donna proseguì: “La musica non è normale, capite? Le note che suona… non sono per le nostre orecchie. A volte sembra che parlino, che raccontino storie di cose che non dovrebbero essere ricordate.”

Le sue parole mi colpirono, ma allo stesso tempo accesero la mia curiosità. Dovevo conoscere Evelyn, dovevo scoprire il segreto di quella musica.

Fu qualche sera dopo che finalmente la vidi. Era al tramonto, e il cielo era dipinto di sfumature di rosso e arancio. Evelyn stava nel cortile del suo casolare, con il violino appoggiato alla spalla. Era una figura esile, avvolta in un abito chiaro che sembrava catturare la luce morente del sole. Non vidi il suo volto, ma le sue mani si muovevano con una grazia che mi tolse il respiro.

Quando iniziò a suonare, mi nascosi tra le ombre di un albero vicino, incapace di farmi avanti. La melodia che scaturì dal suo violino era ancora più intensa di quanto ricordassi, e per un istante mi sembrò che il tempo stesso si fermasse. Era come se il mondo intorno a me fosse stato sospeso, come se ogni cosa—gli alberi, le pietre, persino l’aria—stesse trattenendo il respiro per ascoltare.

Non so per quanto rimasi lì, ma quando finalmente smise di suonare, mi accorsi che ero in ginocchio, con le mani affondate nella terra. Evelyn si voltò leggermente, come se avesse percepito la mia presenza, ma non fece alcun movimento per avvicinarsi. Poi, con un gesto fluido, rientrò nel casolare, lasciandomi solo con il mio battito cardiaco accelerato e una sensazione di vuoto che non riuscivo a spiegare.

Nei giorni successivi, cercai di avvicinarmi a Evelyn in diverse occasioni, ma era come se il destino stesso cospirasse per tenerci separati. Ogni volta che mi avvicinavo al casolare, qualcosa accadeva per distogliermi: un temporale improvviso, un senso di nausea inspiegabile, o semplicemente un terrore irrazionale che mi bloccava i piedi. Eppure, non potevo smettere di pensarci.

Quella musica mi stava cambiando. Avevo iniziato a sognare visioni di luoghi che non avevo mai visto, di cieli attraversati da stelle fredde e lontane, di creature che sembravano osservare il mio passaggio con occhi che bruciavano di intelligenza aliena. Ogni mattina mi svegliavo con una sensazione di perdita, come se fossi stato strappato via da qualcosa di immenso e incomprensibile.

Non sapevo ancora cosa Evelyn e il suo violino rappresentassero, ma una cosa era certa: quella musica non apparteneva a questa terra, e io stavo per scoprire, nel bene o nel male, il perché.

Non passò molto tempo prima che riuscissi finalmente a ottenere un incontro con Evelyn. Fu un incontro casuale solo in apparenza, eppure sospettavo che lei sapesse più di quanto lasciasse intendere. La mia ossessione per quella musica era ormai manifesta nei miei sguardi, nei miei movimenti, persino nelle mie parole, che si spezzavano quando provavo a parlare con chiunque altro. Quando finalmente le rivolsi parola, non ricordo con esattezza cosa dissi: le parole mi sgorgarono come un torrente disordinato, piene di ammirazione per la sua musica e del desiderio, a malapena nascosto, di conoscerla meglio.

Evelyn, per tutta risposta, mi osservò con occhi che non avevo mai visto su un volto umano. Erano occhi chiari, ma profondi, come laghi su cui si riflettono stelle antiche. Per un lungo momento rimase in silenzio, il volto immobile come se stesse ponderando la mia anima. Poi sorrise, un sorriso sottile, e mi invitò a seguirla al suo casolare.

La casa, che avevo osservato da lontano con timore reverenziale, era ancora più inquietante da vicino. Le pareti erano di pietra scura, coperte da muschio e rampicanti, ma non era questo a colpire la mia immaginazione. C’era un’aura di antichità che superava la semplice vecchiezza fisica: sembrava che l’edificio fosse un sopravvissuto di un’epoca dimenticata, un relitto che avrebbe dovuto essere spazzato via dal tempo ma che, per qualche ragione innominabile, si era ostinatamente rifiutato di morire.

Evelyn aprì la porta senza esitazione, ed entrammo in un’atmosfera che sembrava gravata da un peso invisibile. L’interno era un miscuglio di ordine e caos: libri dalle rilegature consunte erano ammucchiati su ogni superficie, candelabri anneriti dal tempo illuminavano appena la stanza, e il legno scricchiolava sotto i nostri passi come se protestasse contro la mia intrusione.

E poi lo vidi: il violino.

Era poggiato su un tavolo al centro della stanza, come un re sul trono. L’aria intorno a esso sembrava più densa, quasi palpabile, e ogni fibra del mio essere mi diceva di non avvicinarmi. Eppure non potevo distogliere lo sguardo. Non era un violino normale; la sua forma era simile a quella di qualsiasi altro strumento, ma il legno da cui era ricavato sembrava… vivo. Le sue venature non erano linee statiche, bensì flussi in movimento, che pulsavano come arterie sotto pelle.

“È magnifico, vero?” disse Evelyn, con una voce che era un sussurro e un incantesimo insieme.

“Da dove proviene?” chiesi, il timbro della mia voce strozzato dalla tensione.

Lei si sedette accanto al tavolo, accarezzando lo strumento con dita delicate. “È stato trovato in cima ad uno di questi monti,” disse, guardandomi di sfuggita. “Un luogo che i vecchi chiamano maledetto.”

Mi sedetti, o forse caddi su una sedia vicina. Le sue parole avevano risvegliato qualcosa in me, un ricordo confuso di racconti sentiti alla locanda, mormorati come avvertimenti a mezza voce.

“Uno di questi monti…” ripetei. “Perché maledetto?”

Evelyn sorrise ancora, ma questa volta il suo sorriso era freddo, come una lama di ghiaccio. “Molto tempo fa, prima ancora che questa terra avesse un nome, quel monte era sacro. Si dice che un albero cresceva sulla sua sommità, un albero antico e unico, con radici che penetravano più a fondo di qualsiasi altra pianta, fino a toccare ciò che sta sotto.”

“Cosa sta sotto?” chiesi, anche se il mio istinto mi diceva che non volevo saperlo.

“Non lo sappiamo,” rispose Evelyn, le sue dita sempre impegnate a tracciare motivi invisibili sul legno del violino. “Ma si racconta che l’albero fosse venerato da antiche genti. Si raccoglievano lì durante certi allineamenti astrali, suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue perdute. Quando l’albero fu abbattuto, un fulmine squarciò il cielo, e il legno si trasformò in qualcosa di… diverso.”

Ero impressionato, turbato da quel racconto, ma la domanda mi uscì da sola dalle labbra: “E il violino?”

“Fu intagliato dai resti di quell’albero,” disse Evelyn, il suo sguardo ora fisso su di me. “Chi lo suona… non può fare a meno di sentire ciò che l’albero sentiva.”

“E cosa sentiva?” domandai, anche se già temeva la risposta.

“Le voci,” disse lei, il tono così basso che quasi non lo sentii. “Le voci di ciò che è sotto.”

Cercai di guardare il violino con occhi più razionali, come se potessi smontare l’incantesimo che sembrava avvolgerlo. Ma ogni volta che lo osservavo, il legno sembrava mutare, le venature si spostavano, creando figure che non riuscivo a comprendere. Per un momento, mi sembrò di vedere un volto, o qualcosa che poteva vagamente somigliargli, emergere dalle profondità del legno. Distolsi lo sguardo, ero terrorizzato.

“Evelyn,” balbettai, “perché lo suoni?”

Lei rise, una risata che non aveva nulla di umano. “Non ho scelta,” disse. “Il violino vuole essere suonato. E più suono, più mi avvicino a ciò che esso vuole che io veda.”

“E cosa vedi?” chiesi, le mie parole quasi soffocate dal terrore.

“Non posso descriverlo,” rispose. “Ci sono luoghi, Lorenzo, che non appartengono alla nostra comprensione. Eppure esistono. Il violino… il violino è una chiave.”

Non sapevo cosa rispondere. Le sue parole erano come un veleno nella mia mente, contaminando ogni pensiero razionale. Sentivo un irresistibile desiderio di fuggire da quella casa, di abbandonare quel borgo e tutto ciò che riguardava Evelyn e la sua musica. Eppure, allo stesso tempo, sapevo che non potevo andarmene.

C’era qualcosa di seducente nel suo sguardo, qualcosa che mi chiamava. E poi c’era la musica. Anche solo la possibilità di ascoltarla di nuovo mi teneva prigioniero.

“Vieni con me,” disse Evelyn, alzandosi in piedi e afferrando il violino con una delicatezza quasi amorosa.

“Dove?” chiesi, la mia voce tremante.

“Al Monte maledetto,” rispose. “Devo mostrarti dove tutto ha avuto inizio.”

Non seppi dirle di no. Forse era la sua presenza magnetica, forse era la curiosità morbosa che mi aveva avvelenato l’anima, ma accettai. Mentre uscivamo dal casolare e ci dirigevamo verso la collina maledetta, non potevo fare a meno di sentire che stavo attraversando una soglia invisibile, oltre la quale nulla sarebbe stato più lo stesso.

Il Monte maledetto ci attendeva, la sua cima avvolta in una foschia irreale che sembrava danzare al ritmo di una melodia lontana, udibile solo nei recessi più oscuri della mia mente. Evelyn avanzava sicura, il violino stretto al petto, e io la seguivo, consapevole che, qualunque cosa avremmo trovato lassù, avrebbe cambiato per sempre il mio destino.

Il sentiero che conduceva alla sommità del Monte Maledetto era poco più di una traccia tortuosa e dimenticata, nascosta tra i vigneti e il fitto sottobosco che pareva nutrirsi di ogni frammento di luce. Camminavo dietro Evelyn, osservando il violino che portava stretto al petto come un reliquiario, il mio respiro che si faceva più affannoso a ogni passo. La collina sembrava crescere sotto i nostri piedi, come se il terreno si espandesse in un abisso senza fondo, e un’oscurità innaturale avvolgeva il nostro cammino, pur essendo ancora pieno giorno.

“Ti senti il peso?” chiese Evelyn, voltandosi appena per fissarmi con quegli occhi che erano troppo profondi per essere del tutto umani.

Annuii, incapace di rispondere. Sentivo il peso, ma non era quello della salita. Era un’energia strisciante, una pressione che mi schiacciava dall’interno, come se un’invisibile mano avesse afferrato la mia anima e la stesse stringendo sempre più forte.

Quando raggiungemmo finalmente la sommità del monte, il panorama si aprì davanti a noi come un anfiteatro dimenticato dagli dei. Un vento gelido spirava nonostante la stagione estiva, portando con sé odori metallici e terrosi che non appartenevano a quella regione. Al centro della radura spiccava una vasta depressione circolare, coperta da muschio e pietre nere come la pece. Evelyn si fermò sul bordo di quella voragine, poggiando una mano sulla sua superficie come se accarezzasse un animale dormiente.

“Qui sorgeva l’albero,” disse, la sua voce appena un sussurro.

Feci un passo avanti, avvicinandomi con esitazione. Le pietre intorno alla depressione non erano disposte a caso: formavano un cerchio quasi perfetto, interrotto da simboli incisi che sembravano non appartenere ad alcuna lingua conosciuta. Mi inginocchiai per osservarli da vicino, e fui sopraffatto da una sensazione di vertigine. Le linee dei simboli sembravano muoversi, distorcersi sotto i miei occhi, e un’eco di parole lontane sembrava risuonare nella mia mente.

“Che cosa sono questi segni?” chiesi, alzando lo sguardo verso Evelyn.

“Non lo sappiamo,” rispose lei. “Sono antichi. Più antichi di qualsiasi lingua umana. Qualunque cosa sia stata scritta qui, non era destinata a noi.”

Quelle parole mi fecero rabbrividire, ma non avevo tempo per il timore. Evelyn, con movimenti aggraziati ma decisi, posizionò il violino sotto il mento e alzò l’archetto. Quando iniziò a suonare, il mondo cambiò.

La prima nota sembrò aprire una ferita nell’aria stessa. Era una vibrazione che andava oltre l’udito, che si insinuava nelle ossa e si mescolava con il battito del cuore. Il vento che spirava sulla collina si arrestò di colpo, come se la natura trattenesse il respiro. La luce del giorno si affievolì, non per il calare del sole, ma come se il cielo stesso stesse oscurandosi da dentro.

La melodia che Evelyn suonava era impossibile da descrivere. Era insieme magnifica e terrificante, e ogni nota sembrava evocare immagini che non appartenevano al mondo conosciuto. Inizialmente vidi solo ombre, vaghe forme che si agitavano ai margini della mia percezione. Ma con il progredire della musica, quelle ombre si fecero più nitide.

Mi ritrovai a scrutare un paesaggio alieno, un’immensa distesa che si estendeva sotto un cielo brulicante di stelle mai viste. Montagne nere come il carbone si ergevano verso un firmamento in cui danzavano luci sconosciute, e in lontananza si scorgevano città ciclopiche, costruite con angoli e proporzioni che sfidavano ogni logica umana. Quella visione era insieme maestosa e opprimente, un panorama che sembrava fatto per occhi più grandi, per menti più vaste delle nostre.

Poi li vidi.

All’inizio erano solo macchie di movimento sullo sfondo, sagome che ondeggiavano come fumo o liquido. Ma mentre la musica si intensificava, quelle forme si avvicinarono. Erano creature gigantesche, con corpi che cambiavano costantemente forma, come se fossero fatte di un materiale plasmabile, una sostanza che non esiste sulla Terra. Tentacoli, arti, e sporgenze innaturali si contorcevano come in una danza macabra, e dove avrebbero dovuto esserci occhi c’erano spirali di luce che sembravano osservare ogni cosa, penetrando nella mia mente.

Urlai, o almeno tentai di farlo, ma nessun suono uscì dalla mia gola. Evelyn continuava a suonare, i suoi occhi chiusi come in trance, e io ero intrappolato in quella visione che mi risucchiava come un vortice.

Le creature avanzavano, e nonostante la loro forma in continuo mutamento, c’era una terribile consapevolezza nei loro movimenti. Sapevano di noi. Ci vedevano. Una delle creature si fermò e inclinò quella che poteva essere una testa, come se stesse osservando Evelyn con interesse. Poi qualcosa accadde.

Il violino emise una nota acuta, un grido che sembrava spaccare l’aria stessa, e la creatura rispose. Non con un suono, ma con un’ondata di energia che mi colpì come un muro invisibile. Mi sentii cadere, e la visione svanì di colpo.

Quando riaprii gli occhi, ero sdraiato sul terreno freddo della collina. Evelyn stava in piedi sopra di me, il violino ancora stretto in mano, ma il suo volto era cambiato. Sembrava più pallida, e le sue iridi erano di un colore che non riuscivo a definire, qualcosa tra l’argento e l’oro.

“Cosa… cosa sono quelle cose?” balbettai, sentendo la mia voce tremare come quella di un bambino spaventato.

“Non lo so,” rispose Evelyn, la sua voce distante. “Ma so che ci stanno aspettando.”

“Perché le chiami?” chiesi, disperato. “Perché continui a suonare?”

Lei mi guardò, e nei suoi occhi vidi una profondità spaventosa, orribile. “Perché non abbiamo scelta,” disse. “La musica è già stata scritta. Io sono solo lo strumento.”

Non ebbi modo di rispondere. L’aria sulla collina si fece pesante, e un rombo profondo cominciò a risuonare dal sottosuolo, un suono che non poteva essere naturale. Evelyn mi prese per il braccio, stringendo con una forza sorprendente per la sua esile figura.

“Dobbiamo andare,” disse. “Prima che sia troppo tardi.”

Mi trascinò giù per la collina, mentre il rombo si faceva sempre più forte. Non osai voltarmi, ma sapevo, sapevo con assoluta certezza, che qualcosa ci stava osservando da quella radura. Qualcosa di antico, di immenso, e di terribilmente affamato.

Tornato al borgo, scoprii che il mondo non era più lo stesso. O forse ero io a non essere più lo stesso. La collina, con le sue visioni e i suoi segreti innominabili, si era insinuata nella mia anima come una malattia, e non c’era forza umana che potesse estirparla. Evelyn aveva ripreso la sua vita di silenzi e melodie notturne, ma io non trovavo più pace.

Le visioni continuavano a perseguitarmi. Ogni volta che chiudevo gli occhi, rivedevo quei paesaggi impossibili, quelle creature colossali che sembravano osservare il mio essere con un’intelligenza primordiale e fredda. Quando aprivo gli occhi, la realtà intorno a me sembrava sbiadita, come se il mondo intero fosse solo un pallido riflesso di qualcosa di più vasto e terrificante.

Provai a tornare alla mia musica, ma il mio violino, che un tempo mi era così caro, sembrava ora un oggetto estraneo, inutile. Le note che provavo a suonare erano vuote, prive di vita, e ogni melodia che tentavo di comporre si spezzava come una fragile ragnatela al vento. Mi resi conto che il mio cuore non era più nel mio strumento; era rimasto su quella collina, intrappolato nelle note del violino di Evelyn.

Furono i miei sogni a tormentarmi di più. Sognavo spesso di trovarmi di nuovo sulla collina, al cospetto di quelle creature amorfe. Ma nei sogni non ero un semplice osservatore: ero parte di quel mondo alieno, e le cose che vedevo erano troppo orribili per essere descritte. Sognavo cieli striati di colori sconosciuti, città ciclopiche costruite con logiche imperscrutabili, e suoni che non avrebbero mai potuto essere prodotti da alcun essere vivente sulla Terra.

Non osavo parlare di queste cose con nessuno. Sapevo che mi avrebbero preso per pazzo, e forse non avrebbero avuto torto. Persino il locandiere, che inizialmente si era mostrato gentile, iniziò a guardarmi con sospetto, soprattutto quando mi vedeva vagare di notte, come un fantasma, in cerca di una pace che non trovavo mai.

Una sera, esasperato dalla mia stessa impotenza, decisi di affrontare Evelyn. Andai al suo casolare, ignorando il peso che mi gravava sul petto ogni volta che mi avvicinavo a quella casa maledetta. Quando bussai alla porta, il suono sembrò risuonare come un’eco vuota, e per un lungo momento pensai che non mi avrebbe aperto. Ma infine la porta si socchiuse, e il volto di Evelyn apparve nell’ombra.

“Lorenzo,” disse, con quella sua voce che sembrava sempre sul punto di dissolversi. “Perché sei qui?”

“Devo sapere,” risposi, senza riuscire a nascondere il tremore nella mia voce. “Devo sapere cosa stai facendo, cosa sta succedendo. Non posso più vivere così.”

Lei mi fissò per un lungo momento, e nei suoi occhi vidi qualcosa che non riuscivo a decifrare: pietà, forse, o forse un’amara consapevolezza. Senza una parola, si fece da parte e mi fece cenno di entrare.

La casa era più oscura di quanto ricordassi, e l’aria era pesante, come se qualcosa di invisibile la riempisse. Evelyn si sedette accanto al violino, che era posato sul tavolo come un idolo, e mi fece cenno di fare lo stesso.

“Non è troppo tardi,” disse, il suo sguardo fisso sullo strumento. “Puoi ancora andartene. Puoi lasciare questo posto e dimenticare tutto.”

“Non posso,” risposi, e in quel momento capii che era vero. Il violino mi aveva già catturato, e non c’era via di fuga.

Evelyn annuì lentamente. “Allora devi sapere la verità,” disse. “Ma sappi che una volta conosciuta, non potrai più tornare indietro.”

Le sue parole mi fecero rabbrividire, ma non dissi nulla. Evelyn prese il violino e iniziò a suonare.

La musica era diversa da qualsiasi altra che avessi mai sentito. Era più intensa, più terribile, e ogni nota sembrava risuonare direttamente nella mia anima. Le visioni tornarono, più vivide che mai. Vidi il Monte Maledetto come doveva essere stato in passato, con l’albero sacro che si ergeva maestoso sulla sua sommità. Intorno all’albero si raccoglievano figure umane, ma i loro volti erano distorti, e i loro movimenti non avevano nulla di naturale. Suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue che non potevo comprendere, ma che facevano risuonare una parte oscura della mia mente.

Poi vidi ciò che l’albero nascondeva. Le sue radici si estendevano in profondità, attraversando strati di terra e roccia fino a raggiungere qualcosa di vivo. Era una presenza immensa e informe, una coscienza antica che pulsava sotto la superficie della terra, in attesa di essere risvegliata. Le note del violino erano come un richiamo, e quella cosa rispondeva.

Gridai, cercando di interrompere la musica, ma Evelyn continuò a suonare, il suo volto pallido e immobile come una maschera. La visione si fece più intensa, e vidi le creature che avevo già intravisto sulla collina. Stavano emergendo, attraversando una frattura tra i mondi, attirate dalla musica e dal potere dell’albero.

Quando finalmente la musica cessò, mi ritrovai sdraiato sul pavimento della casa, il corpo tremante e sudato. Evelyn si chinò su di me, il suo volto ormai privo di emozioni.

“Capisci ora?” chiese. “Cosa sei tu?” balbettai, sentendo che la mia mente era sull’orlo della follia.

“Io sono come te,” rispose. “Una vittima di questa maledizione. Ma tu puoi ancora scegliere di andartene. Io, invece, appartengo già a loro.”

Non so come trovai la forza di alzarmi e lasciare quella casa. Quando tornai alla locanda, la notte era calata, e il borgo sembrava avvolto in un silenzio innaturale. Non dormii quella notte, né molte altre che seguirono.

Evelyn continuava a suonare, ogni notte, e ogni notte sentivo le sue note attraversare l’oscurità e risuonare nella mia mente. Sapevo che non sarei mai più stato libero. Ma ciò che mi terrorizzava di più era la consapevolezza che un giorno, forse presto, avrei seguito il suo esempio e suonato anche io quella melodia maledetta, per risvegliare ciò che non doveva essere risvegliato.

Non so dire con certezza quanto tempo trascorse dopo la notte in cui Evelyn mi rivelò la verità. I giorni si fusero in un’unica, interminabile attesa, e le notti furono tormentate dal suono della sua musica. Non avevo bisogno di avvicinarmi al suo casolare per ascoltarla: le note sembravano attraversare l’aria, infiltrandosi in ogni angolo del borgo, e poi nella mia mente, risuonando come un’eco che non si sarebbe mai spenta.

Evelyn stava preparando qualcosa; ne ero certo. La sua musica, prima così erratica e imprevedibile, era diventata più strutturata, più decisa. Ogni melodia sembrava costruire su quella precedente, formando un’architettura sonora che non riuscivo a comprendere ma che sapevo condurre a qualcosa di definitivo. Anche gli abitanti del borgo sembravano accorgersi del cambiamento. Li vedevo nei vicoli e nei campi, muoversi come ombre preoccupate, parlottare a bassa voce e lanciare occhiate verso la collina.

Ma il punto di svolta arrivò in una notte che sembrava destinata a non finire mai.

Ero nel mio alloggio alla locanda, incapace di dormire, come al solito. La musica di Evelyn riempiva l’aria, ma quella sera c’era qualcosa di diverso. Era più intensa, più profonda, e ogni nota sembrava risuonare come un colpo di martello su una porta antica. Quando aprii la finestra per cercare di capire cosa stesse succedendo, vidi che il cielo sopra il Monte Maledetto era diverso.

Non era più il cielo che conoscevo. Al posto delle stelle familiari, c’erano luci che si muovevano lentamente, tracciando schemi intricati. Sembravano stelle, ma non lo erano: erano troppo grandi, troppo vicine, e la loro luce era fredda e innaturale. Una nebbia densa e luminosa avvolgeva la collina, e dal cuore di quella foschia emanava una presenza che mi fece gelare il sangue.

Sapevo che dovevo andare lì. Non avevo scelta.

Afferrando il mio violino — per ragioni che non comprendevo del tutto — lasciai la locanda e mi avviai verso la collina. Il villaggio era deserto, o almeno così mi sembrò. Non c’era segno di vita, nessun rumore, solo il mio respiro affannato e il suono della musica che mi guidava, sempre più forte, sempre più inesorabile.

Quando raggiunsi il casolare di Evelyn, trovai la porta spalancata. La casa era vuota, ma l’aria all’interno era carica di energia, come se un fulmine stesse per colpire da un momento all’altro. La musica proveniva dalla collina, e sapevo che lei mi aspettava lì.

Il sentiero verso la sommità del Monte Maledetto, che avevo percorso una volta con tanto timore, era ora un corridoio di luce e ombre che sembravano vive. Ogni passo che facevo era accompagnato da un senso crescente di terrore e anticipazione, come se stessi camminando verso la mia condanna.

Quando finalmente raggiunsi la cima, trovai Evelyn al centro della radura, illuminata dalla luce innaturale che emanava dalla foschia. Suonava il suo violino con una concentrazione feroce, e le note che produceva non erano più musica: erano parole, frasi di una lingua che non avrei mai potuto comprendere ma che sentivo risuonare nei recessi più oscuri della mia anima.

“Evelyn!” gridai, cercando di farmi sentire sopra il tumulto della sua musica.

Lei alzò lo sguardo verso di me, e ciò che vidi nei suoi occhi mi fece vacillare. Non erano più occhi umani. Brillavano di una luce aliena, e dietro di essi c’era qualcosa di vasto, qualcosa di antico, che osservava attraverso di lei.

“È troppo tardi, Lorenzo,” disse, e la sua voce sembrava venire da un altro mondo.

La terra tremò sotto i miei piedi, e dal cerchio di pietre che delimitava la radura cominciarono a emergere delle ombre. Erano contorte, amorfe, eppure terribilmente vive. Erano le stesse creature che avevo visto nelle mie visioni, ma ora erano qui, nel nostro mondo, e la loro presenza era un oltraggio a ogni legge della natura.

Evelyn continuava a suonare, e con ogni nota quelle ombre si facevano più solide, più reali. Mi resi conto che il violino era la chiave, il ponte che stava aprendo la strada tra i mondi. Ero paralizzato dal terrore, incapace di muovermi o di distogliere lo sguardo da ciò che stava accadendo.

Ma poi sentii qualcosa dentro di me, una forza che non sapevo di possedere. Con mani tremanti, sollevai il mio violino e iniziai a suonare. Non sapevo cosa stessi facendo, ma le note che emettevo sembravano entrare in conflitto con quelle di Evelyn, creando un’armonia distorta che fece vacillare le ombre.

Evelyn mi guardò con un’espressione di pura disperazione. “Non capisci!” gridò. “Se interrompi la musica, loro ci distruggeranno entrambi!”

Ma non le diedi ascolto. Continuai a suonare, con tutta la forza e la determinazione che mi restavano. Le ombre si contorcevano, emettendo suoni che non erano di questo mondo, e il terreno sotto di noi cominciò a cedere. Evelyn gridò qualcosa, ma le sue parole furono coperte da un’esplosione di luce e suono che mi travolse.

Quando riaprii gli occhi, mi trovai da solo sulla collina. Il cerchio di pietre era crollato, e la foschia si era dissolta. Non c’era traccia di Evelyn né delle ombre. Solo il mio violino, rotto, giaceva a terra accanto a me.

Non so cosa accadde quella notte, né se il mondo sia mai stato veramente salvo. Ma una cosa è certa: la musica di Evelyn non mi abbandonerà mai. La sento ancora, nei miei sogni, nei miei pensieri, e so che un giorno, forse presto, mi chiamerà di nuovo. E questa volta, non ci sarà nessuno a fermarmi.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

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“Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” (1886) di Robert Louis Stevenson: recensione critica

Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson è un’opera che affonda le radici nelle più profonde angosce della psiche umana, dando vita a un racconto che trascende il semplice mistero gotico per diventare una riflessione inquietante sulla duplicità dell’anima e sulla fragilità dell’identità individuale. Il romanzo si sviluppa attorno alla figura del dottor Henry Jekyll, stimato scienziato e rispettabile gentiluomo londinese, e la sua controparte mostruosa, Edward Hyde, incarnazione di impulsi inconfessabili e violenze primordiali. Ma chi è veramente Hyde? È un’entità distinta da Jekyll o è semplicemente il suo lato oscuro, liberato dalle inibizioni morali della società vittoriana?

Stevenson costruisce una narrazione in cui la scissione tra bene e male non è mai netta, ma sempre più sfumata e inquietante. La trasformazione di Jekyll in Hyde non è un semplice esperimento scientifico, bensì il sintomo di un conflitto interiore insanabile. Il dottore non crea un nuovo essere: dà semplicemente corpo a ciò che ha sempre abitato in lui, permettendogli di esistere senza freni. Hyde non è altro che il Jekyll che si sottrae alle regole della decenza e della moralità, un’identità che si nutre della libertà dal senso di colpa. Il protagonista non è vittima di una scissione accidentale, ma piuttosto il prodotto di una società che impone una rigida separazione tra pubblico e privato, tra ciò che è mostrabile e ciò che deve rimanere nascosto.

Questo conflitto interiore è strettamente legato all’epoca vittoriana, un periodo segnato da un moralismo oppressivo e da una rigida divisione tra rispettabilità e desiderio. La Londra di Stevenson è una città in cui l’apparenza conta più della sostanza, e ogni uomo porta con sé un volto pubblico irreprensibile e un’anima segreta fatta di vizi, ossessioni e pulsioni inconfessabili. La società vittoriana era dominata da una netta separazione tra l’individuo e la sua interiorità, tra l’etica del dovere e le tentazioni dell’istinto. In questo senso, Jekyll incarna perfettamente la figura dell’uomo rispettabile che, nel privato, cede alle proprie debolezze e si crea un alter ego che possa soddisfare i suoi impulsi senza minare la sua posizione sociale. Hyde diventa così la valvola di sfogo di una cultura che impone la repressione come forma di controllo.

Stevenson amplifica il senso di mistero e di tensione attraverso una struttura narrativa volutamente frammentata. Il romanzo è raccontato attraverso lo sguardo di Gabriel John Utterson, un avvocato che indaga sul legame tra Jekyll e Hyde con un approccio razionale, ma che si trova sempre più coinvolto in un enigma che sfugge alla logica. Il lettore scopre la verità in modo graduale, attraverso testimonianze indirette, lettere e documenti che ricostruiscono i fatti in modo sempre più inquietante. Questa scelta narrativa, tipica del romanzo gotico, non solo accresce la suspense, ma riflette anche la difficoltà di afferrare la vera natura dell’uomo: nessuno conosce fino in fondo chi sia davvero Jekyll, neppure lui stesso.

Al centro del dramma si pone anche il ruolo della scienza, che nel romanzo assume una connotazione ambivalente. Da un lato, essa appare come un mezzo per superare i limiti della condizione umana, dall’altro diventa un veicolo di dannazione. Jekyll non si limita a esplorare il lato oscuro della sua personalità: lo crea, lo alimenta, ne diventa dipendente. La sua è un’ossessione che sfida i confini della natura e si scontra con le conseguenze di un’ambizione che travalica ogni etica. Il suo esperimento non è solo la scoperta di una nuova identità, ma la perdita della propria. Hyde non è un mostro esterno, ma la manifestazione di un desiderio di libertà che, una volta liberato, non può più essere controllato.

In questo senso, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è molto più di un racconto dell’orrore: è una profonda esplorazione della condizione umana, una riflessione sulla sottile linea che separa l’individuo dalla sua ombra. Il male non è un’entità separata, ma un elemento insito nell’uomo stesso, un aspetto che può essere contenuto ma mai del tutto cancellato. Stevenson ci costringe a chiederci: se avessimo la possibilità di liberarci dalle restrizioni della morale e della società, chi saremmo veramente?

Se Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è un’indagine sulla duplicità dell’animo umano, è altrettanto vero che questa tensione si riflette nell’ambientazione stessa del romanzo, una Londra gotica e nebbiosa, dominata da contrasti e ombre. Stevenson tratteggia una città che è un labirinto di strade cupe e viuzze secondarie, dove il confine tra rispettabilità e degrado è sottilissimo. I quartieri aristocratici, con le loro case eleganti e le facciate impeccabili, nascondono vicoli oscuri e sporchi, in cui Hyde si muove come un predatore tra i rifiuti e la miseria. Questa Londra è un doppio speculare dei suoi personaggi: di giorno è il volto della civiltà, ma di notte diventa il dominio dell’istinto e della violenza. La nebbia che avvolge la città non è solo un elemento atmosferico, ma un velo che nasconde la verità, amplificando la tensione e il senso di mistero. Come in ogni grande romanzo gotico, il paesaggio diventa un’estensione dell’anima dei protagonisti: Londra è la materializzazione del conflitto interiore di Jekyll, una città che cela i suoi vizi dietro una fragile facciata di ordine.

Questa atmosfera di costante ambiguità è filtrata attraverso gli occhi di Gabriel John Utterson, il rispettabile avvocato che funge da guida del lettore nel dedalo di segreti e sospetti che avvolgono il caso di Jekyll e Hyde. Utterson è il perfetto gentiluomo vittoriano, simbolo della razionalità e del conformismo, un uomo che affronta il mistero con l’ostinazione di chi cerca spiegazioni logiche in un mondo che sembra rifiutarle. La sua posizione di osservatore esterno è fondamentale per la costruzione della suspense: il lettore scopre gli eventi insieme a lui, condividendo il suo sgomento e la sua incredulità. Eppure, Utterson è anche una figura tragica, un uomo che, pur essendo moralmente integro, si dimostra incapace di comprendere fino in fondo la profondità del male. La sua tendenza a minimizzare e a cercare giustificazioni razionali lo rende cieco davanti all’orrore che si consuma sotto i suoi occhi. Il suo ruolo è quello di testimone impotente di una verità che solo alla fine gli verrà svelata, troppo tardi per poter fare qualcosa.

Se il mistero che avvolge Hyde è uno degli elementi più inquietanti del romanzo, è il suo stesso corpo a rivelare la vera natura del personaggio. La trasformazione fisica di Jekyll in Hyde è molto più di una semplice mutazione: è la manifestazione visibile della corruzione morale. Hyde è più basso, più deforme, più animalesco, una figura che incarna il degrado dell’anima. La sua apparenza suscita un senso di repulsione istintiva in chi lo guarda, come se il suo aspetto tradisse qualcosa di profondamente innaturale. Stevenson suggerisce che il male non è solo un’idea astratta, ma qualcosa che si incarna, che prende forma nel corpo stesso. Hyde non è soltanto il riflesso degli istinti più bassi di Jekyll, ma il risultato di una progressiva perdita di controllo: più Jekyll cede al suo alter ego, più Hyde diventa forte, fino a prendere il sopravvento in modo irreversibile. L’orrore non sta solo nella trasformazione, ma nella consapevolezza che il processo è unidirezionale: Jekyll può evocare Hyde con facilità, ma tornare indietro diventa sempre più difficile.

È proprio questa inquietante visione della psiche umana che ha reso Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde una delle opere più influenti della letteratura moderna. Il romanzo ha avuto un impatto straordinario sulla cultura popolare, diventando un paradigma del doppio e della dissociazione mentale. Il concetto di una personalità nascosta, che si manifesta al di fuori del controllo del protagonista, è stato ripreso in innumerevoli adattamenti teatrali e cinematografici, ma anche in opere letterarie successive, dalla psicanalisi freudiana ai thriller moderni. Il nome stesso di Jekyll e Hyde è diventato un’espressione comune per indicare persone dalla doppia natura, un segno della potenza archetipica di questa storia. Il tema della doppia identità ha influenzato non solo il genere gotico, ma anche la letteratura noir, il cinema horror e la narrativa psicologica.

Tutta questa costruzione culmina in un finale che non offre né redenzione né speranza. Jekyll, ormai sopraffatto da Hyde, si rende conto che la sua fine è inevitabile: non può più tornare indietro, perché la sua volontà è stata erosa dall’abitudine al vizio. Il suicidio di Hyde segna la fine della battaglia, ma non è una vittoria: non è Jekyll a sconfiggere il male, bensì il male stesso che, una volta scatenato, si autodistrugge. Il romanzo non offre una lettura moralistica in senso stretto, ma piuttosto una riflessione amara sulla natura umana. Jekyll non è un mostro, ma un uomo che ha osato troppo, che ha creduto di poter dominare le proprie pulsioni e che invece ne è stato travolto. La sua fine può essere letta come un monito contro l’ambizione scientifica, contro la presunzione dell’uomo di poter controllare i meccanismi profondi della psiche e della natura. Ma è anche, più sottilmente, una condanna della debolezza umana: Jekyll soccombe perché non è abbastanza forte da resistere alla tentazione, perché, come ogni uomo, è in fondo attratto dal lato oscuro.

Con Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Stevenson ha scritto non solo un racconto di terrore, ma un’indagine senza tempo sulla fragilità dell’identità e sull’ineluttabilità del male. Il romanzo rimane una delle più profonde esplorazioni letterarie della psiche umana, un’opera che continua a interrogare il lettore con una domanda scomoda e disturbante: fino a che punto siamo davvero padroni di noi stessi?

Il Vampiro di John William Polidori: l’aristocratico che ha cambiato la letteratura gotica

Pubblicato nel 1819, Il Vampiro di John William Polidori segna una svolta fondamentale nella storia della letteratura gotica, introducendo per la prima volta la figura del vampiro aristocratico che avrebbe influenzato generazioni di autori. Nato in un contesto leggendario, durante l’estate del 1816 trascorsa a Villa Diodati sulle rive del Lago di Ginevra, il racconto deve la sua genesi a una notte di temporali e al gioco letterario proposto da Lord Byron ai suoi compagni di viaggio. Polidori, medico personale di Byron e partecipe di quelle serate, trovò nell’ombra del celebre poeta una fonte di ispirazione complessa e ambigua.

Il racconto, inizialmente attribuito proprio a Byron, si lega indissolubilmente alla personalità del suo protagonista, Lord Ruthven. Questo vampiro, tanto elegante quanto spietato, rappresenta una netta rottura con la tradizione folklorica. Polidori abbandona l’immagine del vampiro come creatura demoniaca e ripugnante, tipica delle superstizioni rurali, per dare vita a un essere sofisticato, freddo e manipolatore, che si muove con disinvoltura nei salotti dell’alta società. Ruthven è più un predatore sociale che una creatura del mito: seduce, corrompe e distrugge le sue vittime con una disarmante eleganza, incarnando un male nascosto dietro l’apparenza del fascino e dello status.

Questa trasformazione non è solo stilistica, ma rivela un sottotesto morale e sociale profondo. Ruthven è il simbolo della decadenza dell’aristocrazia, un uomo che sfrutta il potere e il privilegio per soddisfare la sua sete di distruzione. Attraverso di lui, Polidori costruisce una critica implicita alla nobiltà del suo tempo, mettendo in evidenza il contrasto tra virtù e decadenza. Le vittime di Ruthven, come il giovane e innocente Aubrey, non sono solo individui, ma rappresentano l’intera società che soccombe alla corruzione morale mascherata da fascino e carisma.

L’influenza di Lord Byron, sia come ispirazione diretta per il protagonista sia come figura reale che aleggia sul racconto, è impossibile da ignorare. Polidori, che nutriva un rapporto conflittuale con il poeta, sembra aver riversato in Ruthven un ritratto deformato e maligno di Byron stesso, enfatizzandone i lati più oscuri: il magnetismo pericoloso, l’indifferenza per le conseguenze delle proprie azioni e l’attitudine a manipolare chiunque gli stia vicino. Questo rende Il Vampiro non solo una pietra miliare della narrativa gotica, ma anche una sorta di vendetta letteraria, in cui Polidori elabora la propria frustrazione verso una figura tanto ammirata quanto temuta.

Con questo racconto, Polidori non ha solo ridefinito la figura del vampiro, trasformandolo in un’icona letteraria sofisticata e inquietante, ma ha anche aperto una nuova strada per la narrativa dell’orrore. Il vampiro di Il Vampiro è molto più che un semplice mostro: è una metafora potente dei mali della società, una critica alla decadenza del privilegio e un’esplorazione dell’ambiguità morale. L’opera di Polidori, nata quasi per caso in una notte di giochi letterari, continua a risuonare nella cultura contemporanea come un archetipo immortale.

La struttura narrativa de Il Vampiro si distingue per la sua essenzialità e per un ritmo sorprendentemente rapido, soprattutto se confrontato con le lente e spesso prolisse narrazioni gotiche dell’epoca. Polidori costruisce una trama che, pur nella sua brevità, riesce a mantenere il lettore costantemente in tensione. L’uso della suspense è sapiente: l’inquietante presenza di Lord Ruthven domina il racconto, rendendolo un personaggio che si muove come un’ombra tra gli eventi, sempre al limite tra il visibile e l’ignoto. L’atmosfera gotica, alimentata da paesaggi esotici e cupi, non è mai sovrabbondante ma essenziale, creata con pochi dettagli evocativi che amplificano il senso di minaccia e mistero. Il ritmo serrato non sacrifica l’intensità emotiva e narrativa, ma la esalta, mantenendo viva l’attenzione del lettore fino alla tragica conclusione.

Uno dei temi centrali del racconto è il fascino e il terrore dell’immortalità, incarnati nella figura di Ruthven. La sua natura vampirica lo rende un essere che trascende i limiti umani, ma questa eternità non è priva di orrore. Polidori non descrive mai direttamente il peso dell’immortalità su Ruthven, ma il suo comportamento e la sua natura predatoria suggeriscono un’esistenza priva di scopo, animata solo dal perpetuo ciclo di distruzione. Questa immortalità è posta in netto contrasto con la fragilità di Aubrey, la giovane vittima umana che, nonostante la sua ingenuità e il suo fervore morale, si rivela impotente di fronte alla manipolazione e al male. Polidori, in questo modo, esplora il divario tra il desiderio umano di trascendere la morte e l’orrore di un’esistenza eterna svuotata di valori.

La relazione tra Ruthven e Aubrey è il cuore pulsante del racconto, un gioco di potere e seduzione che riflette la dinamica tra carnefice e vittima. Ruthven non usa mai la forza per piegare Aubrey; lo seduce, non in senso sessuale, ma psicologico. Il giovane è attratto dal fascino e dal carisma di Ruthven, senza rendersi conto di essere strumentalizzato. Questa dinamica di potere è particolarmente significativa: Ruthven rappresenta il predatore definitivo, capace di distruggere senza mai esporsi, lasciando che le sue vittime si perdano nella propria ingenuità e fiducia. Polidori traccia con grande finezza questo processo di annientamento, rendendo Ruthven un personaggio che affascina e spaventa in egual misura.

L’influenza de Il Vampiro sulla letteratura successiva non può essere sottovalutata. Sebbene spesso oscurato da opere più celebri come Dracula di Bram Stoker, il racconto di Polidori è il primo a consolidare l’archetipo del vampiro moderno. La figura di Ruthven, con il suo fascino aristocratico e la sua crudeltà raffinata, trova eco diretta in Dracula, così come in innumerevoli altre opere di narrativa e cinema. L’idea del vampiro come predatore elegante e sofisticato è una creazione di Polidori, che trasforma la figura folklorica in un’icona letteraria universale, capace di adattarsi ai contesti più disparati.

Ma Il Vampiro non è solo una pietra miliare della letteratura gotica; è anche una sottile critica alla società dell’epoca. Polidori dipinge un’aristocrazia corrotta e ipocrita, incarnata in Ruthven, che usa il suo potere non per proteggere o guidare, ma per distruggere. Dietro il fascino e il lusso dell’aristocrazia si nasconde un vuoto morale, un’inclinazione al male che riflette le tensioni sociali del tempo. Il contrasto tra apparenza e realtà è un tema ricorrente nel racconto, con Ruthven che simboleggia la facciata perfetta sotto cui si cela la corruzione più profonda.

Il Vampiro di Polidori è quindi molto più di un semplice racconto dell’orrore. È una riflessione sull’immortalità, sul potere, sulla corruzione e sulla vulnerabilità umana, racchiusa in una narrazione tanto breve quanto incisiva. Il suo impatto sulla letteratura e sulla cultura rimane innegabile, un testamento alla capacità di Polidori di catturare, in poche pagine, l’essenza del gotico e la complessità dell’animo umano.

“Il monaco” (1796) di Matthew Gregory Lewis: recensione critica

Pubblicato nel 1796, Il monaco di Matthew Gregory Lewis ha suscitato scandalo e fascino fin dal suo primo apparire. Definito da molti un’opera sconcertante e audace, il romanzo esplora temi che spingono i lettori a interrogarsi su peccato, redenzione, attrazione per il proibito e il soprannaturale. Lewis ci porta nelle pieghe più oscure dell’animo umano attraverso la figura di Ambrosio, un monaco di cui seguiamo la discesa nella corruzione e nella perdizione. La storia si snoda in un’atmosfera di tensione crescente, in cui il divieto e il tabù diventano forze irresistibili, capaci di piegare anche chi, come il protagonista, dovrebbe incarnare la virtù e la purezza.

Il monaco non si limita a descrivere la caduta morale di un singolo individuo; piuttosto, attraverso Ambrosio, Lewis offre un potente monito sulla fragilità dell’uomo di fronte alla tentazione. Ambrosio è l’immagine dell’ipocrisia morale: inizialmente venerato come un uomo di fede esemplare, il monaco si dimostra tutt’altro che immune al richiamo del peccato. Spinto dalla sua stessa arroganza e dalla convinzione di essere al di sopra delle debolezze umane, Ambrosio cade preda del desiderio, della lussuria e della violenza, arrivando a compromettere ogni valore per cui si era sempre battuto. Lewis non risparmia nulla al lettore: ogni decisione, ogni cedimento di Ambrosio è un passo in più verso l’abisso, una tappa in un viaggio che lo condurrà a perdere la sua stessa anima.

L’atmosfera gotica che pervade Il monaco è costruita con abilità e profondità, creando una tensione costante che avvolge il lettore e lo trasporta in un mondo cupo e disturbante. Sotterranei oscuri, conventi isolati, apparizioni di fantasmi e visioni soprannaturali si susseguono in un crescendo di inquietudine, riflettendo la tormentata psicologia del protagonista. Il sovrannaturale non è mai solo un abbellimento della trama, ma diventa uno specchio dei conflitti interiori di Ambrosio, amplificando il senso di angoscia che accompagna il lettore fino all’ultima pagina. L’influenza gotica è palpabile in ogni dettaglio, e l’inquietante rappresentazione della religione corrotta e decadente dà un ulteriore strato di profondità a questa narrazione.

Un altro aspetto innovativo e controverso di Il monaco è la critica alla religione e al clero. Lewis sfida le convenzioni dell’epoca rappresentando il mondo ecclesiastico come una realtà perversa, intrisa di ipocrisia e corruzione. Ambrosio stesso, nel suo ruolo di monaco, dovrebbe essere un faro morale per la comunità, ma la sua caduta sottolinea proprio la fragilità di quell’autorità religiosa che dovrebbe preservare i valori della fede. Lewis insinua dubbi sull’integrità di un sistema religioso che, invece di combattere il male, finisce per esserne strumento e complice. Il romanzo, così, non è solo un racconto di perdizione individuale, ma una riflessione acuta e critica sulla morale dell’epoca e sulle contraddizioni di un clero più attento al potere che alla cura delle anime.

La presenza femminile nel romanzo contribuisce a rendere Il monaco un’opera ancora più complessa e ambigua. Le donne, in questa storia, non sono mai semplicemente personaggi passivi o decorativi. Rappresentano la tentazione, la forza destabilizzante che sfida l’autorità maschile e spirituale di Ambrosio. Da una parte, troviamo figure femminili pure e innocenti, vittime della brama incontrollabile del protagonista; dall’altra, compaiono personaggi sensuali e provocanti, incarnazioni dell’erotismo e della perversione. Lewis tratta la sessualità come una forza oscura, potente e irrefrenabile, capace di abbattere ogni resistenza morale e ogni barriera di virtù. Le donne diventano così il simbolo del proibito, l’oggetto del desiderio che conduce il protagonista alla rovina.

Il monaco di Matthew Gregory Lewis è molto più di un semplice romanzo gotico; è una disamina spietata delle debolezze e delle ipocrisie umane, una riflessione sulla natura del peccato e della redenzione. La storia di Ambrosio non è solo un racconto di perdizione, ma una potente allegoria sulla difficoltà di resistere alla tentazione e sull’inquietante potere che il proibito esercita su ciascuno di noi.

La dimensione soprannaturale di Il monaco costituisce uno dei cardini dell’intero impianto narrativo. Lewis sfrutta il mondo dell’invisibile e dell’inspiegabile come strumento per rafforzare l’effetto gotico e amplificare la tensione emotiva che pervade il romanzo. Apparizioni diaboliche, magie oscure e presenze infernali non sono semplici espedienti decorativi, ma parti integranti di una realtà che diventa sempre più angosciante per il protagonista e, di riflesso, per il lettore. Ogni intervento sovrannaturale agisce come una forza destabilizzante, che trascina Ambrosio verso il punto di non ritorno. I confini tra ciò che è umano e ciò che è demoniaco si sfaldano, offrendo una rappresentazione potente dell’attrazione verso il male e della distruzione morale che ne consegue. L’irruzione del sovrannaturale non è solo un ornamento gotico, ma incarna le tentazioni e il progressivo smarrimento di Ambrosio: più l’elemento demoniaco invade la narrazione, più il protagonista si allontana dall’umanità, perdendo ogni barlume di redenzione.

La componente macabra e violenta è un altro aspetto che contribuisce a rendere Il monaco un romanzo unico e potente. Lewis descrive scene di violenza e orrore con una brutalità inusuale per l’epoca, abbandonando ogni tentativo di edulcorazione. Le sue pagine sono piene di immagini sconvolgenti: tortura, omicidio, morte e persino necrofilia trovano spazio nella narrazione, generando un senso di disgusto che colpisce e scuote profondamente. Questi elementi suscitano un misto di orrore e attrazione, mantenendo il lettore in un costante stato di tensione e suspense. La violenza diventa un riflesso estremo della caduta morale di Ambrosio, una rappresentazione visiva del degrado che lo consuma. L’effetto è potente: Lewis non vuole solo impressionare, ma intende mostrare fino a che punto la natura umana possa cadere in preda al male.

L’influenza letteraria di Il monaco è stata profonda e duratura. L’opera ha lasciato un segno indelebile nella letteratura gotica, spingendo il genere verso nuove direzioni di introspezione psicologica e audacia narrativa. Lewis ha ispirato numerosi autori, da Mary Shelley a Edgar Allan Poe, che hanno ripreso l’uso dell’elemento soprannaturale come riflesso di conflitti interiori e delle ombre che abitano la psiche umana. Anche il tema della corruzione religiosa e dell’ipocrisia morale è stato ripreso da altri scrittori gotici, consolidando una tradizione che, ancora oggi, trova eco in opere contemporanee di horror e dark fantasy. Il monaco, con la sua complessità e la sua carica sovversiva, ha contribuito a ridefinire i limiti del genere, spingendo la narrativa gotica verso nuovi orizzonti.

Dal punto di vista simbolico, Il monaco si presta a diverse letture allegoriche. Il diavolo, che appare in varie forme, rappresenta l’incarnazione delle tentazioni che insidiano l’anima del protagonista, mentre il convento, luogo apparentemente sacro, diventa uno spazio di repressione e oscurità, dove il peccato si annida dietro le facciate della virtù. Ambrosio stesso è un simbolo dell’ipocrisia religiosa, della fragilità morale e della perversione che nasce dall’abuso di potere. Lewis mette in scena una rappresentazione allegorica del cammino verso la perdizione, in cui ogni simbolo, dalla figura demoniaca al chiostro monastico, contribuisce a costruire un quadro di corruzione spirituale e ribellione ai principi morali.

Non sorprende, dunque, che Il monaco abbia suscitato forti reazioni al momento della sua pubblicazione. L’audacia dei temi trattati e la rappresentazione esplicita del soprannaturale, della violenza e della sessualità resero il romanzo un’opera scandalosa per l’epoca. Le critiche furono aspre: molti lo accusarono di immoralità, altri di blasfemia. La critica più conservatrice condannò l’audacia narrativa di Lewis, vedendo nel romanzo una pericolosa minaccia per i valori morali della società. Eppure, nonostante o forse proprio grazie a queste controversie, Il monaco divenne un’opera di culto, un romanzo che non solo attirò un vasto pubblico, ma aprì la strada a una nuova generazione di scrittori gotici e pose le basi per una letteratura che esplora senza timori gli abissi dell’animo umano.

Il giro di vite, di Henry James (1898): recensione critica

Pochi romanzi nella storia della letteratura hanno saputo suscitare il livello di dibattito critico che Il giro di vite di Henry James continua a generare. Pubblicato nel 1898, questo racconto lungo o novella è un’opera stratificata che si offre al lettore come un enigma irrisolvibile, in cui l’ambiguità non è solo un tratto caratteristico, ma il vero cuore pulsante della narrazione. La trama, in apparenza lineare, cela una complessità sottile: la storia di una giovane istitutrice che assume il compito di badare a due bambini in una remota dimora di campagna si trasforma presto in un crescendo di inquietudine, in cui il confine tra il reale e il soprannaturale si dissolve.

Uno degli aspetti più affascinanti del romanzo è la sua ambiguità narrativa. Henry James costruisce una trama che sembra oscillare costantemente tra due poli interpretativi. I fantasmi di Peter Quint e Miss Jessel sono entità reali che perseguitano i bambini e l’istitutrice, o sono semplicemente proiezioni della mente turbata di quest’ultima? James, con grande maestria, si rifiuta di fornire una risposta definitiva. Questa ambivalenza non solo tiene il lettore sospeso, ma amplifica il senso di terrore, rendendo ogni pagina un terreno instabile su cui camminare. L’assenza di prove tangibili delle apparizioni fantasmatiche e l’insistenza del punto di vista dell’istitutrice creano un vortice di dubbi: ciò che vediamo è una realtà oggettiva o una realtà filtrata attraverso la lente deformante della sua psiche?

Il personaggio dell’istitutrice è cruciale per comprendere questa ambiguità. Narratrice inaffidabile per eccellenza, rappresenta un enigma psicologico che sfida le categorie tradizionali. La sua ossessione per la protezione dei bambini assume connotazioni inquietanti, al punto che il lettore si interroga sulla sua sanità mentale. Le sue paure e le sue nevrosi diventano parte integrante della narrazione, fondendo realtà e immaginazione in un tutt’uno indistinguibile. La sua determinazione a combattere le presunte presenze maligne può essere letta tanto come un gesto eroico quanto come una manifestazione di un delirio persecutorio. La costruzione psicologica dell’istitutrice, così meticolosamente orchestrata da James, è il principale motore dell’atmosfera opprimente e soffocante del romanzo.

Un altro tema fondamentale, strettamente legato alla prospettiva dell’istitutrice, è quello dell’infanzia e della corruzione. Miles e Flora sono inizialmente descritti come incarnazioni dell’innocenza, ma ben presto emergono segnali inquietanti. Il comportamento ambiguo dei bambini e la loro possibile complicità con i fantasmi sollevano domande sulla loro moralità. James sembra suggerire che l’innocenza infantile, così spesso idealizzata, possa essere solo una facciata dietro cui si nascondono forze oscure. I bambini sono vittime degli eventi che li circondano o, in qualche modo, coautori di essi? La risposta, come sempre in James, è lasciata aperta, e questo accresce il fascino del testo.

La dimora di Bly, con la sua atmosfera gotica, svolge un ruolo centrale nella narrazione. Questo luogo isolato e carico di mistero diventa un simbolo del passato oscuro e irrisolto, una metafora tangibile della psiche tormentata dell’istitutrice. Ogni stanza, ogni corridoio sembra custodire un segreto, e il senso di claustrofobia che permea la casa si riflette nel crescente senso di oppressione psicologica dei personaggi. Bly non è solo un’ambientazione; è un personaggio a sé stante, vivo e pulsante, che contribuisce in modo determinante a creare l’atmosfera di terrore sottile che attraversa il romanzo.

Infine, la presenza – o meglio, l’assenza – dei fantasmi è un elemento che merita una riflessione approfondita. James evita descrizioni dettagliate o confronti diretti con le presunte entità, affidandosi piuttosto al potere della suggestione. Le apparizioni di Quint e Jessel sono brevi e spesso mediate dalla visione dell’istitutrice, il che lascia ampio spazio all’immaginazione del lettore. Questa strategia narrativa aumenta la tensione, poiché ciò che è appena intravisto o intuito è sempre più spaventoso di ciò che è pienamente rivelato.

Il giro di vite è un romanzo che si nutre di ombre e incertezze, un’opera che invita il lettore a perdersi in un labirinto di dubbi. Henry James, con la sua prosa elegante e carica di sfumature, ha creato un capolavoro che continua a sfidare e affascinare, mantenendo intatta la sua capacità di inquietare e sedurre anche a distanza di oltre un secolo dalla sua pubblicazione.

In Il giro di vite, Henry James intreccia una rete complessa di significati nascosti, in cui il tema della repressione sessuale gioca un ruolo fondamentale. L’istitutrice, protagonista e narratrice, sembra incarnare una figura consumata da desideri non espressi e da un bisogno ossessivo di controllo. La sua interazione con i fantasmi di Peter Quint e Miss Jessel, descritti come figure trasgressive, è carica di tensioni che trascendono il semplice orrore sovrannaturale. Quint e Jessel non sono solo spiriti maligni: rappresentano forze destabilizzanti che mettono in discussione le rigide convenzioni morali e sociali dell’epoca vittoriana. La relazione tra Quint e Jessel, carica di sensualità e potere, si pone in netto contrasto con la rigida rispettabilità dell’istitutrice, suggerendo che i fantasmi potrebbero essere manifestazioni simboliche dei desideri repressi della protagonista. James, con il suo stile sottile e allusivo, lascia intravedere che il conflitto tra il razionale e l’irrazionale potrebbe essere, in realtà, una proiezione dei conflitti interiori dell’istitutrice stessa.

La struttura narrativa del romanzo accentua questa ambiguità. La storia è incorniciata da un narratore anonimo che introduce il manoscritto dell’istitutrice, presentandola come una testimonianza diretta. Questo dispositivo narrativo distanzia ulteriormente il lettore dagli eventi descritti, creando una sorta di filtro interpretativo che rende ogni dettaglio più dubbio e più enigmatico. La voce dell’istitutrice domina il racconto, ma è già mediata dal narratore introduttivo, il cui tono neutro e obiettivo amplifica la sensazione di trovarsi di fronte a un enigma insolubile. James utilizza questa doppia cornice per mettere in discussione la natura stessa della verità narrativa, spingendo il lettore a considerare l’affidabilità di ogni dettaglio e a interrogarsi su ciò che è realmente accaduto.

Lo stile di James è un altro elemento essenziale nella costruzione dell’atmosfera inquietante del romanzo. La sua prosa, ricca di descrizioni dettagliate e di lunghe frasi complesse, crea un ritmo lento e ipnotico che intrappola il lettore in un mondo di ambiguità e tensione crescente. Ogni parola sembra carica di significato, ogni pausa e ogni descrizione suggeriscono che sotto la superficie degli eventi si cela qualcosa di più oscuro e inafferrabile. L’attenzione maniacale ai dettagli ambientali e psicologici costruisce un senso di suspense che si accumula lentamente, rendendo l’inquietudine ancora più palpabile.

Il tema del controllo emerge con forza nel rapporto tra l’istitutrice e i bambini. La sua ossessione per la loro protezione diventa rapidamente un meccanismo di dominio, che sconvolge l’equilibrio della casa e la relazione tra i personaggi. L’istitutrice non è semplicemente una figura materna, ma una presenza oppressiva che tenta di imporre la propria volontà su Miles e Flora. Questo desiderio di controllo è una risposta alle forze che percepisce come caotiche e pericolose, rappresentate dai fantasmi, ma finisce per trasformarsi in una forma di violenza psicologica. Il modo in cui i bambini reagiscono – con ambiguità, sfida e, talvolta, un’inquietante serenità – rende la dinamica ancora più disturbante e lascia aperta la questione di chi sia realmente la vittima e chi il carnefice.

Infine, la dualità tra razionale e soprannaturale è forse il tema più affascinante del romanzo. James non offre mai una soluzione definitiva al mistero, permettendo al lettore di oscillare tra due interpretazioni. Da un lato, il romanzo può essere letto come una storia di fantasmi in senso tradizionale, con presenze maligne che minacciano la serenità della casa. Dall’altro, può essere visto come un’indagine psicologica, in cui i fantasmi rappresentano le proiezioni mentali di un’istitutrice sopraffatta dalle proprie paure e desideri. Questa ambivalenza è il segreto della duratura popolarità del romanzo: ogni lettura è un nuovo confronto con un enigma che sfida la nostra comprensione della realtà.

Con Il giro di vite, Henry James ci consegna un’opera che non è solo un capolavoro del gotico, ma una profonda esplorazione della mente umana e dei suoi abissi. Attraverso il gioco di luci e ombre, di omissioni e allusioni, James non ci dà risposte, ma ci invita a indagare le nostre paure più profonde, trasformando il romanzo in un’esperienza tanto inquietante quanto irresistibile.

Il Fantasma di Rivergaro

Le colline piacentine sembravano sempre avvolte da un segreto, un respiro antico che sussurrava tra i filari di vite e i ruderi dimenticati. In autunno, soprattutto, una nebbia pesante calava su quei luoghi, come se il paesaggio stesso volesse nascondere qualcosa. Tra i contadini del luogo, quella stagione era anche la più temuta, perché portava con sé le storie su Elisabetta Terza di Rivergaro, una donna dal passato oscuro e avvolto in leggende di sangue e magia.

Elisabetta era stata una nobildonna fiera e impietosa, discendente di una famiglia ricca e influente. Era cresciuta circondata dal lusso, ma ciò che desiderava più di ogni altra cosa era il potere – un potere che, si diceva, avesse trovato nel vino delle sue vigne e nel sangue versato dai servi più fedeli. A ogni vendemmia, Elisabetta pretendeva tributi dai contadini: animali, oggetti preziosi e, quando le voci correvano più spaventose, anche sacrifici umani. Gli anziani narravano che la sua bellezza nascondesse un cuore corrotto, e che le sue terre prosperassero solo grazie a un patto oscuro che aveva stretto con forze che andavano oltre il mondo dei vivi.

Un giorno, quando i contadini provarono a ribellarsi alla sua crudeltà, Elisabetta rispose con una maledizione. Minacciò che chiunque attraversasse i suoi confini senza il dovuto tributo avrebbe subito una sorte terribile. Fu così che, una notte, le autorità del tempo la catturarono e la condannarono per stregoneria, trascinandola fuori dal suo castello e gettandola in un pozzo. Ma Elisabetta non si ribellò: aveva già oltrepassato il confine tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, e il suo ultimo respiro risuonò come un’eco nelle colline, promettendo vendetta e tenendo legata la sua anima a quei luoghi.

Da allora, nelle notti d’autunno, quando la nebbia si addensa, gli abitanti delle colline non escono di casa. Le famiglie locali lasciano piccoli tributi ai margini dei vigneti: monete d’argento, bicchieri di vino, perfino pezzi di pane avvolti in panni rossi. Alcuni dicono che questi doni siano l’unico modo per tenere lontana l’ombra di Elisabetta, che vaga tra i filari alla ricerca di chi ha osato sfidare il suo riposo.

Quella notte, due ragazzi di città, Lara e Filippo, si avventurarono tra quei vigneti, ridendo delle storie che avevano sentito. Lara era stata titubante, ma Filippo, il più scettico dei due, la aveva convinta a seguirlo. Erano cresciuti insieme, un’amicizia che col tempo aveva acquisito sfumature più profonde. Filippo scherzava sempre, cercando di far ridere Lara, ma quella notte, mentre camminavano tra i filari, si rese conto che la sua amica sembrava più inquieta del solito.

“E dai, sono solo storie! Sono state inventate per tenere lontani i curiosi come noi,” disse lui, con una risata forzata. Ma, in fondo, anche lui non riusciva a scrollarsi di dosso una strana sensazione. Lara, invece, sembrava ascoltare ogni suono attorno a loro, come se temesse di disturbare qualcosa di sacro. Teneva stretto un piccolo amuleto di giada verde, un dono della nonna, che le aveva detto di portarlo sempre con sé come protezione.

Il sentiero si fece più stretto mentre si avvicinavano al castello. L’aria era umida, e l’odore di foglie bagnate e di terra impregnata di rugiada li avvolgeva. Il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal vento lontano che fischiava tra le colline. La luna piena illuminava appena i ruderi del castello, che sembravano occhi vuoti, osservatori silenziosi e immutabili.

Quando giunsero al cancello, i due ragazzi si fermarono. Il castello era in rovina, le mura annerite dal tempo e coperte di rampicanti spogli. Filippo si avvicinò con passo deciso, aprendo il cancello con un cigolio che ruppe il silenzio. Fece cenno a Lara di seguirlo, e lei lo seguì, ma con un misto di apprensione e curiosità.

Si avvicinarono al cortile, dove una pergola antica si ergeva ancora, coperta da viti contorte e secche. In quell’oscurità, le radici sembravano affondare direttamente nella terra, nutrendosi di qualcosa di ben diverso dalla semplice acqua. Lara si fermò, posando il suo amuleto a terra come offerta, ricordando le storie che la nonna le aveva raccontato. Filippo, sorridendo per farsi coraggio, estrasse una vecchia moneta che portava in tasca, trovata in una vecchia cassa nella soffitta del nonno, e la lasciò accanto all’amuleto di Lara.

Per un istante tutto rimase immobile. Poi, il vento soffiò tra le rovine, e Lara si sentì stringere le budella. Una risata, sottile e crudele, sembrò risuonare nell’aria. I due ragazzi si guardarono, pallidi, sentendo di aver appena oltrepassato un confine che non avrebbero mai dovuto attraversare.

Lara e Filippo rimasero immobili nel cortile del castello, respirando a fatica nell’aria gelida che sembrava farsi più densa a ogni passo. Attorno a loro, il castello emergeva come un gigante scheletrico contro la luna, con mura annerite e finestre vuote come orbite prive di vita. Ogni angolo sembrava reclamare silenzio, un silenzio che soffocava anche i pensieri. Lara si voltò verso Filippo, il cuore accelerato, e sussurrò: “Forse dovremmo andare…”

Ma Filippo, affascinato dal mistero che si nascondeva tra quelle mura, si avvicinò all’entrata principale, richiamando Lara con uno sguardo. Avanzarono tra pietre sparse e tralci di vite contorti che sembravano mani scheletriche. Alcuni di quei rami sembravano animati, piegandosi come se cercassero di afferrarli. Il cortile era un deserto di rovine e foglie marce, ma l’odore della terra, umida e densa, era permeato da una strana dolcezza, come di uva fermentata da tempo.

Superata l’entrata, i ragazzi si ritrovarono in un lungo corridoio in penombra, con muri che si sgretolavano e antichi arazzi ridotti a brandelli. Ogni passo faceva scricchiolare il pavimento di pietra, e Lara percepiva un’inquietante sensazione di occhi puntati su di loro. Proseguirono fino a raggiungere una stanza più ampia, quella che doveva essere stata una sala di ricevimento. Al centro, un antico lampadario pendeva dal soffitto, i cristalli rotti riflettevano la luce lunare in bagliori che parevano occhi vacui.

Poi, accadde qualcosa. Un movimento rapido, quasi impercettibile, al limite del loro campo visivo. Filippo si voltò di scatto, ma non c’era nulla. Solo un lieve sussurro tra le pareti. “Hai visto anche tu?” mormorò, cercando gli occhi di Lara. Lei annuì lentamente, incapace di trovare le parole. In quell’istante, un sussurro serpeggiò nell’aria: una lagnanza distante, come se qualcuno stesse parlando tra sé e sé, lamentele dolenti che si spegnevano nel silenzio.

Scossi, si spostarono verso una porta aperta alla fine della sala. Era socchiusa, come se li invitasse a entrare. Dietro quella porta si trovava una scalinata in pietra che scendeva ripida nel buio. Lara esitò, ma Filippo, con un’ultima occhiata rassicurante, si fece avanti, la mano stretta attorno a una piccola torcia che illuminava appena i gradini davanti a loro.

La cantina del castello era un intrico di corridoi e archi bassi, una volta usata probabilmente per conservare botti di vino. Adesso, era un labirinto silenzioso, con vecchie botti spaccate e residui di antiche travi annerite. Lara avvertiva una presenza pesante nell’aria; le sembrava quasi che il suo respiro rallentasse. Mentre si addentravano nella penombra, la torcia cominciò a vacillare, e nell’ombra intravidero delle figure: uomini e donne, volti trasfigurati dal terrore. Apparivano e svanivano in un battito di ciglia, ma ogni volto, ogni figura, portava i segni di una sofferenza antica.

“Li vedi anche tu?” sussurrò Lara, senza distogliere lo sguardo da quelle apparizioni spettrali. Filippo annuì, senza fiato. Una figura in particolare li fece gelare: una donna in abiti antichi, dagli occhi spenti e il volto consumato dall’odio. Era Elisabetta. Sembrava che stesse ripetendo un antico rituale, le mani alzate verso l’alto e un sorriso contorto sul volto. I suoi occhi si spostarono lentamente su di loro, e il suo sguardo li perforò come lame di ghiaccio.

All’improvviso, Lara si sentì trascinata altrove, come risucchiata in un ricordo non suo. Era come se stesse vivendo la vita di qualcun altro: si trovava davanti a Elisabetta, nel suo castello, circondata da servitori timorosi. In un lampo vide la nobildonna gettare polveri scure sul pavimento, mentre sussurrava parole in una lingua arcana. Intuì che Elisabetta stava invocando forze oscure, patti di sangue per mantenere il suo potere. Lara riuscì a sentire l’orrore dei servi che la osservavano, troppo terrorizzati per ribellarsi, troppo intimoriti per fuggire.

Un secondo dopo, era di nuovo nel presente, con Filippo che la scuoteva leggermente. “Lara, che ti succede?” chiese, la voce carica di paura. Ma Lara non riusciva a rispondere: la visione le aveva lasciato un senso di nausea e angoscia. Sentiva di essere stata toccata dall’oscurità stessa.

Le ombre nella cantina cominciarono a muoversi di nuovo. Una figura, un uomo pallido, avanzò verso di loro, con gli occhi vuoti e un sussurro che sembrava un lamento. “Non ci lascia andare… Nessuno… sfugge al suo potere…” Le sue parole sembravano uscire dal nulla, un sussurro privo di vita, eppure così dolorosamente reale.

Improvvisamente, un urlo straziante squarciò il silenzio. Lara e Filippo si voltarono di scatto, vedendo l’ombra di Elisabetta ingigantirsi contro il muro. Ora non era più una figura vaga: la sua forma era solida, i suoi occhi bruciavano di un odio intenso. Avanzava verso di loro, e ogni passo sembrava portare con sé il suono di vetri infranti e ossa spezzate.

“Tributi…” sibilò. “Non bastano mai…”

I ragazzi si voltarono e corsero, inciampando tra le botti e cercando disperatamente una via d’uscita. Ma il castello sembrava vivo, il percorso si perdeva in corridoi senza uscita, mentre il suono dei passi di Elisabetta si faceva sempre più vicino, quasi li soffocasse. Lara inciampò, e in quel momento la vide: Elisabetta, inginocchiata accanto a lei, con il volto distorto da un sorriso crudele. Lara strinse l’amuleto che ancora portava al collo, sussurrando una preghiera. Era l’ultima speranza.

Senza sapere come, riuscirono a trovare la scala e salirono, ma mentre raggiungevano la superficie, Lara si sentiva come se l’oscurità la seguisse. Uscirono dal castello e si lanciarono verso il sentiero, ma Elisabetta non li lasciava. Si voltò un’ultima volta, vedendo la sagoma di Elisabetta sfumare nella nebbia, con quel sorriso agghiacciante che le rimase impresso.

Tornarono al villaggio in silenzio, senza mai parlare di ciò che avevano visto. Ma la maledizione non finì con la fuga. Da quella notte, Lara iniziò a vedere ombre anche nella sua stanza, figure che si muovevano alle sue spalle. Filippo, invece, sentiva sussurri nell’oscurità, e ogni notte si svegliava col cuore in gola, come se una presenza gli stesse rubando l’anima a poco a poco.

Capirono troppo tardi che nessuno sfugge a Elisabetta.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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