Il Giardino dei peccati

Attraversai le colline del Piacentino sotto un cielo opaco, il cui colore sembrava riflettere una volontà oscura e imperscrutabile. Gli alberi, scheletrici e piegati dal vento, parevano testimoni muti di segreti antichi. Quando la sagoma imponente di Rocca Valtenuta apparve davanti a me, il mio cuore si fermò per un istante: non era una costruzione, ma un colosso innaturale, un’entità che pareva emergere dalla terra stessa, rivestito di pietra muschiosa e denso di presagi.

Il castello mi attendeva con il silenzio severo di un giudice. Le sue torri si protendevano verso il cielo, come artigli di un essere pietrificato, mentre un’ombra inquietante aleggiava tra le sue mura. In quel luogo, la leggenda e la realtà sembravano sovrapporsi fino a confondersi, e l’aria stessa sapeva di antico e corrotto.

L’interno di Rocca Valtenuta era un enigma di pietra e velluto, impregnato di un’aura antica. I pavimenti in marmo riflettevano fioche luci tremolanti di candele disposte con cura, mentre le pareti, ornate di arazzi e dipinti, narravano scene di caccia e riti pagani con un’arte che sembrava sfuggire al tempo.

Fui accolto da un servitore il cui volto era inespressivo come una maschera funebre. Mi condusse senza una parola lungo corridoi ornati di arazzi sbiaditi e arredi che sembravano essere stati prelevati da un’epoca più antica del tempo. L’incontro con la padrona della dimora, la marchesa Lucrezia Maldracini, fu un evento che non dimenticherò mai.

Ella incarnava una bellezza che sfidava ogni legge naturale: il suo volto pallido, gli occhi di smeraldo che sembravano scrutare l’anima, e il suo portamento, che la faceva sembrare più una divinità che un essere umano. Quando parlò, le sue parole fluivano con una musicalità ipnotica, intrise di una grazia che celava un potere invisibile.

Lucrezia mi accolse nel salone principale con un sorriso caloroso e un calice di vino. La sua figura, slanciata e aggraziata, sembrava emergere dalla stessa oscurità che permeava il castello. Il vestito che indossava era nero come la pece, punteggiato da ricami dorati che parevano mutare alla luce delle fiamme.

“Ecco il nostro giovane esploratore,” disse, la voce un filo di seta che scivolava nell’aria. “Spero che Rocca Valtenuta non vi appaia troppo austera. È una dimora severa, ma ospitale, se le si concede il tempo di svelare i suoi segreti.”

Mi porse il calice, e i nostri occhi si incontrarono. Il suo sguardo aveva una profondità ipnotica, un misto di calore e di qualcosa di più oscuro, un’eco di una verità non detta.

“È… magnifico,” risposi, sorseggiando il vino. Era forte, denso, con un sapore che mi rimase sulla lingua come un sussurro di qualcosa di proibito.

Le sere trascorrevano in un’atmosfera di quieto incanto. Nella grande sala del castello, il fuoco del camino proiettava ombre danzanti sui soffitti alti, mentre Lucrezia mi intratteneva con racconti che sembravano emergere da un altro mondo. Mi parlò di antiche famiglie che avevano abitato la rocca, di patti segreti con forze sconosciute, e del giardino, un luogo che descriveva con una devozione quasi religiosa.

“Ogni pianta ha un’anima,” mi disse una sera, gli occhi fissi sulle fiamme. “E il giardino è il cuore pulsante di Rocca Valtenuta. È vivo, come voi o me, e richiede attenzioni particolari.”

“Avete un legame speciale con il giardino, marchesa?” azzardai, affascinato dalla sua voce e dalla calma magnetica con cui parlava.

“Oh, Pier Maria,” disse, ridendo sommessamente, “è un legame antico e sacro. Il giardino è il mio rifugio, la mia confessione, il mio specchio.”

Le sue parole erano carezze di miele, e il mio cuore, inesorabilmente, iniziava a battere al ritmo delle sue.

Quando finalmente mi concesse di accedere al giardino, fu come entrare in un altro regno. Il portale che conduceva al cortile interno era fiancheggiato da colonne intarsiate con simboli che mi sfuggivano: spirali intrecciate, serpenti stilizzati e figure umanoidi che sembravano emergere dalle radici degli alberi.

Oltre il portale, il giardino si aprì davanti a me come un incantesimo. Fiori dai colori impossibili si piegavano al vento, e rampicanti si intrecciavano in disegni elaborati, quasi fossero opera di un’artista folle. Il terreno era scuro, quasi nero, e aveva un odore pungente, metallico.

Mi avvicinai a un albero dai tronchi gemelli che pulsavano di una luce dorata, come se dentro di essi scorresse sangue vivo. Ero estasiato e inquieto allo stesso tempo. C’erano dettagli che mi sfuggivano, ma che percepivo ai margini della mia coscienza: radici che si avvolgevano come artigli attorno alle rocce, ombre che si muovevano dove non dovevano esserci.

Lucrezia mi raggiunse nel giardino, la sua figura eterea che sembrava fluttuare tra le piante. Mi osservava come un falco, ma il suo sorriso era dolce, quasi protettivo.

“Vi piace?” mi chiese, il tono della sua voce basso, intimo.

“È… unico,” risposi, incapace di trovare parole migliori.

Lei si avvicinò, sfiorandomi la spalla con la mano. Il suo tocco era lieve, ma mi scosse come un fulmine.

“Siete speciale, Pier Maria,” disse. “Il giardino lo percepisce. Lo vedete, vero? Sentite la sua energia?”

Annuii, incapace di mentire. La mia mente era un turbine di emozioni contrastanti: meraviglia, desiderio e un terrore sottile che non riuscivo a definire.

Da quel momento, le nostre conversazioni divennero più intime. Mi parlava del suo passato, accennando a una sofferenza che la legava al giardino. Mi mostrava i segreti del castello: una cappella pagana nascosta nei sotterranei, un libro rilegato in pelle che sembrava scritto con un alfabeto alieno.

Ogni suo gesto, ogni sua parola, mi avvolgeva in un bozzolo di sogni febbrili. Era come se il castello, il giardino e la marchesa fossero parte di un unico, grande organismo, un’entità viva che mi osservava e mi valutava.

Una notte, mentre sedevamo vicini davanti al camino, mi confidò qualcosa che mi scosse.

“Pier Maria,” disse, le mani che stringevano una coppa di vino. “Non sono la donna che credete. Non sono una creatura libera. Sono legata al giardino come un’ombra al suo padrone.”

“Che cosa intendete?” chiesi.

“C’è una magia oscura in questo luogo, una maledizione antica. Il giardino si nutre della vita… e io sono solo un tramite.”

La sua voce si spezzò, e per un istante, vidi qualcosa nei suoi occhi: una disperazione profonda, viscerale. Non potevo credere che una donna così forte e magnetica fosse tormentata da qualcosa di così crudele.

“Posso aiutarvi,” dissi, avvicinandomi a lei. “Vi libererò da qualunque maledizione. Vi giuro che lo farò.”

Lei mi guardò a lungo, il suo volto una maschera di tristezza e gratitudine. Poi, sorrise.

“Pier Maria… siete troppo puro per questo mondo.”

Non sapevo allora quanto vere fossero le sue parole.

Le piante che crescevano in quel luogo sembravano aliene. I loro colori, violenti e innaturali, pulsavano come creature vive, mentre un odore dolciastro e opprimente saturava l’aria. Sentii il cuore sussultare quando notai come le radici di alcune di esse si immergevano in pozze dal colore scarlatto, come se la terra stessa sanguinasse.

“Straordinario, non è vero?” sussurrò la marchesa, posandosi accanto a me. Il suo sguardo non era diretto verso il giardino, ma verso di me, come se stesse osservando la mia reazione con un interesse affamato.

Non potevo parlare. Sentivo un’energia arcana permeare l’ambiente, una presenza maligna e insondabile che sussurrava nei recessi della mia mente. Tuttavia, la mia curiosità di botanico era troppo forte, e nonostante il terrore che mi divorava, accettai di rimanere e studiare.

Nei giorni successivi esplorai il giardino sotto la supervisione costante della marchesa. Notai come le piante sembrassero crescere e contorcersi, quasi rispondendo alla mia presenza. Ogni notte, sogni inquietanti mi tormentavano: visioni di radici che mi avviluppavano, di volti deformi che si dissolvano in un’oscurità senza fine.

Una sera, spinto da un impulso che non potevo controllare, tornai nel giardino da solo. La luna, nascosta dietro nuvole opprimenti, illuminava debolmente il sentiero. Mi addentrai fino al centro, dove sapevo che il segreto più oscuro della marchesa mi attendeva.

“Pier Maria,” disse una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi la marchesa, il suo volto distorto da una strana, mostruosa espressione di piacere e dolore. “Avete trovato il cuore del giardino. È magnifico, vero?”

La notte era spessa come il velluto, priva di stelle e più nera della pece. Il vento, che di solito cantava tra i rampicanti del giardino, si era fermato, come un animale che fiuta un predatore. Non c’era luce, se non quella di una lanterna che Lucrezia teneva alta davanti a sé, il chiarore fioco che creava ombre danzanti sui contorni delle piante.

Raggiungemmo un’area che non avevo mai visto, un cerchio perfetto dove le piante sembravano piegarsi verso un unico punto, come in adorazione.

E lì, vidi l’innominabile. Un albero dalle dimensioni colossali si ergeva su un altare naturale, le sue radici immerse in un liquido vermiglio che emanava un bagliore spettrale. Il tronco sembrava composto di una materia impossibile, in costante mutazione, mentre i suoi rami si agitavano con movimenti innaturali.

Una cavità al centro del tronco pulsava, emettendo un bagliore rosso che sembrava vivo. Mi avvicinai, attratto e terrorizzato allo stesso tempo, il suono del mio respiro amplificato nel silenzio irreale del luogo.

“È qui che tutto ha inizio,” disse Lucrezia, la sua voce un sussurro che pareva venire dall’albero stesso.

Le sue mani si posarono sul mio viso, e i suoi occhi si piantarono nei miei. Erano pieni di qualcosa di indefinibile: un misto di desiderio, rimpianto e una fame che mi fece indietreggiare, seppur di un passo.

“Il giardino non è come gli altri,” continuò. “È vivo. Respira, sente… e ha bisogno.”

“Di cosa?” chiesi, la mia voce più debole di quanto avrei voluto.

“Di sangue.”

Rimasi immobile, mentre le sue parole si insinuavano nella mia mente come un veleno lento. Mi parlò di un rituale antico, di un patto sigillato con entità che non osava nominare. Ogni fiore, ogni radice, ogni foglia del giardino era nutrito dalla vita stessa, estratta da coloro che vi erano stati portati.

“Ma voi,” disse, avvicinandosi ancora, “siete diverso. La vostra purezza, il vostro amore per ciò che è vivo, sono perfetti. Siete l’offerta che il giardino ha atteso per tanto tempo.”

“Non può essere vero,” balbettai, cercando di allontanarmi, ma le sue mani si strinsero attorno ai miei polsi con una forza che non avrei mai immaginato da lei.

“Non temete,” disse, con una dolcezza agghiacciante. “Sarete parte di qualcosa di eterno. Il giardino vi amerà come io vi amo.”

Prima che potessi reagire, mi tirò verso di sé e mi baciò. Fu un bacio feroce, disperato, come se stesse cercando di imprimere la sua anima nella mia. Mi avvolse, rubandomi ogni pensiero e lasciandomi solo il calore travolgente del suo corpo contro il mio.

Quando mi resi conto del pugnale, era già troppo tardi. Era un’arma cerimoniale, la lama sottile e curva che scintillava di un bagliore malvagio. Con un movimento fluido, Lucrezia me la conficcò nel petto, dritta al cuore.

Sentii il freddo dell’acciaio attraversarmi, seguito da un’esplosione di dolore che mi fece cadere in ginocchio. Il sangue iniziò a sgorgare, caldo e abbondante, bagnando il terreno sotto di me.

Le radici dell’albero si mossero, come serpenti attratti dal richiamo di una preda. Si avvolsero intorno al mio corpo, affondando nella terra e assorbendo ogni goccia del mio sangue.

Lucrezia si inginocchiò accanto a me, accarezzandomi il viso con una tenerezza che mi spezzò.

“Non odiatemi,” sussurrò. “Il nostro amore vivrà per sempre, qui. Sarete parte di questa bellezza immortale.”

Le sue parole si fusero con il battito del mio cuore che rallentava, e la mia vista si offuscò. L’ultima cosa che vidi fu il giardino che esplodeva in una fioritura soprannaturale, i colori che si accendevano in tonalità impossibili, e i fiori che si piegavano verso l’albero come discepoli davanti al loro dio.

Il giardino era un’esplosione di vita e colori che sfidavano ogni logica naturale. Ogni petalo sembrava pulsare di un’energia propria, come se la linfa che scorreva in quelle piante fosse più di semplice nutrimento: era memoria, volontà, forse persino anima. Le aiuole si fondevano in un arabesco ipnotico di tonalità impossibili, dal viola che brillava come ametista, al nero profondo e lucente come l’onice.

Un profumo dolce e penetrante saturava l’aria, denso come miele, eppure portava con sé una nota di marcio, una dissonanza che strisciava in profondità, quasi impercettibile. Era il respiro del giardino, e nel cuore di esso, troneggiava l’albero.

Dalla cavità pulsante del tronco, in una nuova forma avevo preso vita: un bocciolo rosso sangue, la cui superficie pareva contrarsi alla luce del sole. Era l’unica cosa che Lucrezia non osava toccare, il suo sguardo mi sfiorava con una sorta di timore riverenziale.

Lucrezia Maldracini si specchiava nell’acqua immobile di una fontana circolare, incorniciata da rampicanti dorati che sembravano piegarsi per abbracciarla. Il suo volto, ora privo di ogni traccia di tempo, rifletteva una bellezza così perfetta da sembrare irreale, e i suoi occhi brillavano come quelli di una predatrice soddisfatta.

Con un gesto lento, accarezzò la superficie dell’acqua. “Pier Maria,” sussurrò. Il nome scivolò via dalle sue labbra, mescolandosi al canto sommesso delle piante.

Dietro di lei, il castello era vivo di suoni. Musica, risate, e il tintinnio di calici si mescolavano in una sinfonia che si riversava dalle grandi finestre. Gli ospiti erano tornati a frotte, attratti dalla fama di Lucrezia e del suo giardino leggendario.

Una giovane donna con un abito azzurro si avvicinò alla fontana, portando con sé un vassoio di coppe di cristallo.

“Marchesa,” disse, con tono rispettoso, ma venato di un timore sottile. “I vostri ospiti vi attendono.”

Lucrezia si voltò lentamente, il sorriso sulle sue labbra una maschera che tradiva nulla di ciò che ribolliva nel suo animo. “Arriverò presto. Dite loro di godersi il giardino.”

La serva annuì, ma prima di andarsene, il suo sguardo scivolò sull’albero. Un tremito le percorse il corpo, e il bicchiere sul vassoio tintinnò piano.

“Qualcosa non va, cara?” chiese Lucrezia, il suo tono apparentemente gentile.

“N-niente, marchesa,” rispose la ragazza. “Solo… quel fiore. Mi sembra di sentirlo sussurrare.”

Lucrezia rise, un suono cristallino che rimbalzò tra le fronde. “Oh, cara, i miei fiori sono vivi. È solo il giardino che vi parla.”

Nessuno parlava apertamente della mia scomparsa. Coloro che si ricordavano di me, giovani nobili che mi avevano conosciuto a Parma, mi menzionavano solo accennando a una presunta partenza improvvisa per un viaggio di studio.

Eppure, nelle notti più silenziose, quando il vento smetteva di soffiare e il castello si addormentava, alcuni giuravano di udire qualcosa. Era un sussurro, debole come un respiro, che sembrava provenire dall’albero al centro del giardino. Un nome, ripetuto all’infinito, un mormorio che scivolava tra le foglie come un lamento disperato: “Lucrezia…”

Il giardiniere, un vecchio che aveva visto più primavere di quante ne potesse ricordare, si fermava spesso davanti all’albero, osservando quel bocciolo rosso sangue con un’espressione di cupa reverenza. Quella notte, mentre stava legando dei rampicanti su un arco vicino, il mio sussurrare divenne più forte. Egli lasciò cadere il filo di spago e indietreggiò, tremando.

“Tornerà,” sussurrò tra sé, senza sapere se lo credeva o lo temeva.

Nel grande salone del castello, gli ospiti si muovevano tra candelabri scintillanti e tappeti di velluto. I vini più rari scorrevano come fiumi, e i musicisti suonavano una melodia che pareva nata dalle stesse pietre di Rocca Valtenuta.

Lucrezia dominava la sala, la sua figura elegante in un abito nero con ricami d’oro che parevano brillare di luce propria. Gli uomini la circondavano, bevendo le sue parole come nettare, mentre le donne cercavano invano di catturare uno spiraglio della sua grazia.

“Marchesa,” disse un giovane conte, il viso arrossato dal vino. “Il vostro giardino è… semplicemente divino. Non ho mai visto niente di simile.”

“È unico,” rispose lei, sorseggiando il suo vino con un sorriso che sapeva di veleno dolce.

“E quell’albero al centro,” continuò l’uomo, “è… è come se avesse una presenza, quasi umana.”

Lucrezia lo fissò, i suoi occhi che lo trapassavano. “Il giardino riflette ciò che gli viene donato,” disse. “E ciò che gli viene donato, vive per sempre.”

L’uomo ridacchiò, imbarazzato, e alzò il calice. “Alla vostra eterna bellezza, marchesa!”

Ma Lucrezia non rispose. Il suo sguardo si era perso tra le ombre del giardino, dove, tra le fronde scosse da un vento che nessuno poteva sentire, sembrava muoversi qualcosa.

Quando la festa terminò e l’ultimo ospite lasciò il castello, Lucrezia tornò al giardino. La luna era alta e il suo bagliore argenteo rendeva il luogo ancora più irreale. Si fermò davanti all’albero, ed io sotto forma di bocciolo rosso pulsavo lentamente, come un cuore addormentato.

“Pier Maria,” mormorò.

Dal vento tra le foglie, giunse una risposta. Debole, spezzata, ma inconfondibile.

“Lucrezia…”

Lei sorrise, ma il sorriso tremava. Per un istante, il giardino non fu più un rifugio, ma una prigione. Eppure, era l’unico luogo dove il suo amore potesse vivere.

Per sempre.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2025 racconti-brevi.com

La malvagia giovane violinista

Mi chiamo Lorenzo Bellati, e questa è la cronaca di un’ossessione che ancora oggi mi perseguita, un’ossessione che mi ha condotto sull’orlo della follia e oltre, lasciandomi incapace di distinguere i confini tra il reale e l’incubo. Tutto ebbe inizio in un’estate che sembrava non voler finire, nei colli piacentini, tra vigneti inondati di luce e borghi dimenticati dal tempo. Eppure, anche sotto il sole più luminoso, le ombre del passato e le forze che vi si annidano non si lasciano scacciare facilmente.

Ero giunto ad un borgo abbarbicato su una delle vette più alte della regione, per cercare ispirazione per la mia musica. Dopo anni trascorsi a suonare per piccole orchestre e in spettacoli di poco conto, avevo perso ogni fiducia nella mia arte. Il mio violino, un tempo mio fedele compagno, sembrava muto tra le mie mani. Avevo bisogno di silenzio, di solitudine, di un luogo dove poter ritrovare il mio spirito e forse riconciliarmi con quella passione che tanto mi era costata.

Il posto era perfetto. Case di pietra annerite dal tempo, vicoli stretti che si arrampicavano come serpenti, e un’aria di immobilità che sembrava congelare ogni movimento umano. La locanda dove avevo preso dimora era modesta ma accogliente, e il locandiere, un uomo corpulento con mani segnate dal lavoro, sembrava apprezzare il mio desiderio di discrezione.

La mia routine quotidiana era semplice: passeggiate tra i vigneti, ore trascorse con il mio violino nella stanza fresca della locanda, e serate a scrutare il cielo stellato, cercando nel cosmo l’ispirazione che sulla terra non riuscivo più a trovare. Fu durante una di quelle sere che sentii per la prima volta quella musica.

Una melodia, fragile come il filo di un ragno al vento, si insinuò nella mia mente mentre stavo tornando dal belvedere che dominava il borgo. Mi arrestai incuriosito, e ascoltai. Non saprei descrivere esattamente ciò che sentii, perché quella musica sembrava sfidare ogni descrizione umana. Era un intreccio di note che evocavano un senso di struggimento e di terrore insieme, una melodia che non apparteneva né alla gioia né al dolore, ma a qualcosa di completamente diverso.

Seguendo quel suono, mi ritrovai di fronte a un casolare ai margini del borgo, un edificio antico e malandato, con le imposte sbilenche e i muri invasi dall’edera. La musica proveniva chiaramente da lì, e per un momento fui tentato di avvicinarmi e bussare. Ma qualcosa mi trattenne. C’era un’energia nell’aria, un peso invisibile che mi premeva sul petto e mi costrinse a restare dov’ero.

Quando tornai alla locanda, cercai di chiedere al locandiere di chi fosse quel casolare e chi vi abitasse. L’uomo si fece scuro in volto, e dopo un lungo silenzio mormorò soltanto: “È meglio non impicciarsi degli affari altrui, soprattutto lassù.”

Non potei accettare quell’ambiguità. Nei giorni seguenti, mi sforzai di ignorare quella musica, ma essa sembrava farsi strada nella mia mente anche quando non la udivo. Era come se quelle note vivessero dentro di me, mutando il ritmo del mio respiro, influenzando i miei sogni. E quando, al calare del sole, la melodia riprendeva, non potevo fare a meno di seguirla con la mente, come un insetto attratto da una fiamma.

Un giorno, mentre passeggiavo per il borgo, un’anziana donna mi fermò. Aveva occhi vivaci e una voce roca che sembrava scaturire da un profondo pozzo di esperienze. Mi chiese se fossi il violinista che aveva preso dimora alla locanda. Quando le confermai, annuì, un’ombra attraversandole il volto.

“Avete sentito anche voi, vero?” sussurrò. “La musica di quella ragazza.”

“Di chi parlate?” chiesi, cercando di non apparire troppo interessato.

“Evelyn,” rispose, con un tono che era insieme di ammirazione e timore. “Si è trasferita qui pochi mesi fa. Nessuno sa da dove venga. Non parla con nessuno, eppure tutti noi la conosciamo… per via della musica. Dicono che il suo violino sia maledetto.”

Rimasi in silenzio, e la donna proseguì: “La musica non è normale, capite? Le note che suona… non sono per le nostre orecchie. A volte sembra che parlino, che raccontino storie di cose che non dovrebbero essere ricordate.”

Le sue parole mi colpirono, ma allo stesso tempo accesero la mia curiosità. Dovevo conoscere Evelyn, dovevo scoprire il segreto di quella musica.

Fu qualche sera dopo che finalmente la vidi. Era al tramonto, e il cielo era dipinto di sfumature di rosso e arancio. Evelyn stava nel cortile del suo casolare, con il violino appoggiato alla spalla. Era una figura esile, avvolta in un abito chiaro che sembrava catturare la luce morente del sole. Non vidi il suo volto, ma le sue mani si muovevano con una grazia che mi tolse il respiro.

Quando iniziò a suonare, mi nascosi tra le ombre di un albero vicino, incapace di farmi avanti. La melodia che scaturì dal suo violino era ancora più intensa di quanto ricordassi, e per un istante mi sembrò che il tempo stesso si fermasse. Era come se il mondo intorno a me fosse stato sospeso, come se ogni cosa—gli alberi, le pietre, persino l’aria—stesse trattenendo il respiro per ascoltare.

Non so per quanto rimasi lì, ma quando finalmente smise di suonare, mi accorsi che ero in ginocchio, con le mani affondate nella terra. Evelyn si voltò leggermente, come se avesse percepito la mia presenza, ma non fece alcun movimento per avvicinarsi. Poi, con un gesto fluido, rientrò nel casolare, lasciandomi solo con il mio battito cardiaco accelerato e una sensazione di vuoto che non riuscivo a spiegare.

Nei giorni successivi, cercai di avvicinarmi a Evelyn in diverse occasioni, ma era come se il destino stesso cospirasse per tenerci separati. Ogni volta che mi avvicinavo al casolare, qualcosa accadeva per distogliermi: un temporale improvviso, un senso di nausea inspiegabile, o semplicemente un terrore irrazionale che mi bloccava i piedi. Eppure, non potevo smettere di pensarci.

Quella musica mi stava cambiando. Avevo iniziato a sognare visioni di luoghi che non avevo mai visto, di cieli attraversati da stelle fredde e lontane, di creature che sembravano osservare il mio passaggio con occhi che bruciavano di intelligenza aliena. Ogni mattina mi svegliavo con una sensazione di perdita, come se fossi stato strappato via da qualcosa di immenso e incomprensibile.

Non sapevo ancora cosa Evelyn e il suo violino rappresentassero, ma una cosa era certa: quella musica non apparteneva a questa terra, e io stavo per scoprire, nel bene o nel male, il perché.

Non passò molto tempo prima che riuscissi finalmente a ottenere un incontro con Evelyn. Fu un incontro casuale solo in apparenza, eppure sospettavo che lei sapesse più di quanto lasciasse intendere. La mia ossessione per quella musica era ormai manifesta nei miei sguardi, nei miei movimenti, persino nelle mie parole, che si spezzavano quando provavo a parlare con chiunque altro. Quando finalmente le rivolsi parola, non ricordo con esattezza cosa dissi: le parole mi sgorgarono come un torrente disordinato, piene di ammirazione per la sua musica e del desiderio, a malapena nascosto, di conoscerla meglio.

Evelyn, per tutta risposta, mi osservò con occhi che non avevo mai visto su un volto umano. Erano occhi chiari, ma profondi, come laghi su cui si riflettono stelle antiche. Per un lungo momento rimase in silenzio, il volto immobile come se stesse ponderando la mia anima. Poi sorrise, un sorriso sottile, e mi invitò a seguirla al suo casolare.

La casa, che avevo osservato da lontano con timore reverenziale, era ancora più inquietante da vicino. Le pareti erano di pietra scura, coperte da muschio e rampicanti, ma non era questo a colpire la mia immaginazione. C’era un’aura di antichità che superava la semplice vecchiezza fisica: sembrava che l’edificio fosse un sopravvissuto di un’epoca dimenticata, un relitto che avrebbe dovuto essere spazzato via dal tempo ma che, per qualche ragione innominabile, si era ostinatamente rifiutato di morire.

Evelyn aprì la porta senza esitazione, ed entrammo in un’atmosfera che sembrava gravata da un peso invisibile. L’interno era un miscuglio di ordine e caos: libri dalle rilegature consunte erano ammucchiati su ogni superficie, candelabri anneriti dal tempo illuminavano appena la stanza, e il legno scricchiolava sotto i nostri passi come se protestasse contro la mia intrusione.

E poi lo vidi: il violino.

Era poggiato su un tavolo al centro della stanza, come un re sul trono. L’aria intorno a esso sembrava più densa, quasi palpabile, e ogni fibra del mio essere mi diceva di non avvicinarmi. Eppure non potevo distogliere lo sguardo. Non era un violino normale; la sua forma era simile a quella di qualsiasi altro strumento, ma il legno da cui era ricavato sembrava… vivo. Le sue venature non erano linee statiche, bensì flussi in movimento, che pulsavano come arterie sotto pelle.

“È magnifico, vero?” disse Evelyn, con una voce che era un sussurro e un incantesimo insieme.

“Da dove proviene?” chiesi, il timbro della mia voce strozzato dalla tensione.

Lei si sedette accanto al tavolo, accarezzando lo strumento con dita delicate. “È stato trovato in cima ad uno di questi monti,” disse, guardandomi di sfuggita. “Un luogo che i vecchi chiamano maledetto.”

Mi sedetti, o forse caddi su una sedia vicina. Le sue parole avevano risvegliato qualcosa in me, un ricordo confuso di racconti sentiti alla locanda, mormorati come avvertimenti a mezza voce.

“Uno di questi monti…” ripetei. “Perché maledetto?”

Evelyn sorrise ancora, ma questa volta il suo sorriso era freddo, come una lama di ghiaccio. “Molto tempo fa, prima ancora che questa terra avesse un nome, quel monte era sacro. Si dice che un albero cresceva sulla sua sommità, un albero antico e unico, con radici che penetravano più a fondo di qualsiasi altra pianta, fino a toccare ciò che sta sotto.”

“Cosa sta sotto?” chiesi, anche se il mio istinto mi diceva che non volevo saperlo.

“Non lo sappiamo,” rispose Evelyn, le sue dita sempre impegnate a tracciare motivi invisibili sul legno del violino. “Ma si racconta che l’albero fosse venerato da antiche genti. Si raccoglievano lì durante certi allineamenti astrali, suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue perdute. Quando l’albero fu abbattuto, un fulmine squarciò il cielo, e il legno si trasformò in qualcosa di… diverso.”

Ero impressionato, turbato da quel racconto, ma la domanda mi uscì da sola dalle labbra: “E il violino?”

“Fu intagliato dai resti di quell’albero,” disse Evelyn, il suo sguardo ora fisso su di me. “Chi lo suona… non può fare a meno di sentire ciò che l’albero sentiva.”

“E cosa sentiva?” domandai, anche se già temeva la risposta.

“Le voci,” disse lei, il tono così basso che quasi non lo sentii. “Le voci di ciò che è sotto.”

Cercai di guardare il violino con occhi più razionali, come se potessi smontare l’incantesimo che sembrava avvolgerlo. Ma ogni volta che lo osservavo, il legno sembrava mutare, le venature si spostavano, creando figure che non riuscivo a comprendere. Per un momento, mi sembrò di vedere un volto, o qualcosa che poteva vagamente somigliargli, emergere dalle profondità del legno. Distolsi lo sguardo, ero terrorizzato.

“Evelyn,” balbettai, “perché lo suoni?”

Lei rise, una risata che non aveva nulla di umano. “Non ho scelta,” disse. “Il violino vuole essere suonato. E più suono, più mi avvicino a ciò che esso vuole che io veda.”

“E cosa vedi?” chiesi, le mie parole quasi soffocate dal terrore.

“Non posso descriverlo,” rispose. “Ci sono luoghi, Lorenzo, che non appartengono alla nostra comprensione. Eppure esistono. Il violino… il violino è una chiave.”

Non sapevo cosa rispondere. Le sue parole erano come un veleno nella mia mente, contaminando ogni pensiero razionale. Sentivo un irresistibile desiderio di fuggire da quella casa, di abbandonare quel borgo e tutto ciò che riguardava Evelyn e la sua musica. Eppure, allo stesso tempo, sapevo che non potevo andarmene.

C’era qualcosa di seducente nel suo sguardo, qualcosa che mi chiamava. E poi c’era la musica. Anche solo la possibilità di ascoltarla di nuovo mi teneva prigioniero.

“Vieni con me,” disse Evelyn, alzandosi in piedi e afferrando il violino con una delicatezza quasi amorosa.

“Dove?” chiesi, la mia voce tremante.

“Al Monte maledetto,” rispose. “Devo mostrarti dove tutto ha avuto inizio.”

Non seppi dirle di no. Forse era la sua presenza magnetica, forse era la curiosità morbosa che mi aveva avvelenato l’anima, ma accettai. Mentre uscivamo dal casolare e ci dirigevamo verso la collina maledetta, non potevo fare a meno di sentire che stavo attraversando una soglia invisibile, oltre la quale nulla sarebbe stato più lo stesso.

Il Monte maledetto ci attendeva, la sua cima avvolta in una foschia irreale che sembrava danzare al ritmo di una melodia lontana, udibile solo nei recessi più oscuri della mia mente. Evelyn avanzava sicura, il violino stretto al petto, e io la seguivo, consapevole che, qualunque cosa avremmo trovato lassù, avrebbe cambiato per sempre il mio destino.

Il sentiero che conduceva alla sommità del Monte Maledetto era poco più di una traccia tortuosa e dimenticata, nascosta tra i vigneti e il fitto sottobosco che pareva nutrirsi di ogni frammento di luce. Camminavo dietro Evelyn, osservando il violino che portava stretto al petto come un reliquiario, il mio respiro che si faceva più affannoso a ogni passo. La collina sembrava crescere sotto i nostri piedi, come se il terreno si espandesse in un abisso senza fondo, e un’oscurità innaturale avvolgeva il nostro cammino, pur essendo ancora pieno giorno.

“Ti senti il peso?” chiese Evelyn, voltandosi appena per fissarmi con quegli occhi che erano troppo profondi per essere del tutto umani.

Annuii, incapace di rispondere. Sentivo il peso, ma non era quello della salita. Era un’energia strisciante, una pressione che mi schiacciava dall’interno, come se un’invisibile mano avesse afferrato la mia anima e la stesse stringendo sempre più forte.

Quando raggiungemmo finalmente la sommità del monte, il panorama si aprì davanti a noi come un anfiteatro dimenticato dagli dei. Un vento gelido spirava nonostante la stagione estiva, portando con sé odori metallici e terrosi che non appartenevano a quella regione. Al centro della radura spiccava una vasta depressione circolare, coperta da muschio e pietre nere come la pece. Evelyn si fermò sul bordo di quella voragine, poggiando una mano sulla sua superficie come se accarezzasse un animale dormiente.

“Qui sorgeva l’albero,” disse, la sua voce appena un sussurro.

Feci un passo avanti, avvicinandomi con esitazione. Le pietre intorno alla depressione non erano disposte a caso: formavano un cerchio quasi perfetto, interrotto da simboli incisi che sembravano non appartenere ad alcuna lingua conosciuta. Mi inginocchiai per osservarli da vicino, e fui sopraffatto da una sensazione di vertigine. Le linee dei simboli sembravano muoversi, distorcersi sotto i miei occhi, e un’eco di parole lontane sembrava risuonare nella mia mente.

“Che cosa sono questi segni?” chiesi, alzando lo sguardo verso Evelyn.

“Non lo sappiamo,” rispose lei. “Sono antichi. Più antichi di qualsiasi lingua umana. Qualunque cosa sia stata scritta qui, non era destinata a noi.”

Quelle parole mi fecero rabbrividire, ma non avevo tempo per il timore. Evelyn, con movimenti aggraziati ma decisi, posizionò il violino sotto il mento e alzò l’archetto. Quando iniziò a suonare, il mondo cambiò.

La prima nota sembrò aprire una ferita nell’aria stessa. Era una vibrazione che andava oltre l’udito, che si insinuava nelle ossa e si mescolava con il battito del cuore. Il vento che spirava sulla collina si arrestò di colpo, come se la natura trattenesse il respiro. La luce del giorno si affievolì, non per il calare del sole, ma come se il cielo stesso stesse oscurandosi da dentro.

La melodia che Evelyn suonava era impossibile da descrivere. Era insieme magnifica e terrificante, e ogni nota sembrava evocare immagini che non appartenevano al mondo conosciuto. Inizialmente vidi solo ombre, vaghe forme che si agitavano ai margini della mia percezione. Ma con il progredire della musica, quelle ombre si fecero più nitide.

Mi ritrovai a scrutare un paesaggio alieno, un’immensa distesa che si estendeva sotto un cielo brulicante di stelle mai viste. Montagne nere come il carbone si ergevano verso un firmamento in cui danzavano luci sconosciute, e in lontananza si scorgevano città ciclopiche, costruite con angoli e proporzioni che sfidavano ogni logica umana. Quella visione era insieme maestosa e opprimente, un panorama che sembrava fatto per occhi più grandi, per menti più vaste delle nostre.

Poi li vidi.

All’inizio erano solo macchie di movimento sullo sfondo, sagome che ondeggiavano come fumo o liquido. Ma mentre la musica si intensificava, quelle forme si avvicinarono. Erano creature gigantesche, con corpi che cambiavano costantemente forma, come se fossero fatte di un materiale plasmabile, una sostanza che non esiste sulla Terra. Tentacoli, arti, e sporgenze innaturali si contorcevano come in una danza macabra, e dove avrebbero dovuto esserci occhi c’erano spirali di luce che sembravano osservare ogni cosa, penetrando nella mia mente.

Urlai, o almeno tentai di farlo, ma nessun suono uscì dalla mia gola. Evelyn continuava a suonare, i suoi occhi chiusi come in trance, e io ero intrappolato in quella visione che mi risucchiava come un vortice.

Le creature avanzavano, e nonostante la loro forma in continuo mutamento, c’era una terribile consapevolezza nei loro movimenti. Sapevano di noi. Ci vedevano. Una delle creature si fermò e inclinò quella che poteva essere una testa, come se stesse osservando Evelyn con interesse. Poi qualcosa accadde.

Il violino emise una nota acuta, un grido che sembrava spaccare l’aria stessa, e la creatura rispose. Non con un suono, ma con un’ondata di energia che mi colpì come un muro invisibile. Mi sentii cadere, e la visione svanì di colpo.

Quando riaprii gli occhi, ero sdraiato sul terreno freddo della collina. Evelyn stava in piedi sopra di me, il violino ancora stretto in mano, ma il suo volto era cambiato. Sembrava più pallida, e le sue iridi erano di un colore che non riuscivo a definire, qualcosa tra l’argento e l’oro.

“Cosa… cosa sono quelle cose?” balbettai, sentendo la mia voce tremare come quella di un bambino spaventato.

“Non lo so,” rispose Evelyn, la sua voce distante. “Ma so che ci stanno aspettando.”

“Perché le chiami?” chiesi, disperato. “Perché continui a suonare?”

Lei mi guardò, e nei suoi occhi vidi una profondità spaventosa, orribile. “Perché non abbiamo scelta,” disse. “La musica è già stata scritta. Io sono solo lo strumento.”

Non ebbi modo di rispondere. L’aria sulla collina si fece pesante, e un rombo profondo cominciò a risuonare dal sottosuolo, un suono che non poteva essere naturale. Evelyn mi prese per il braccio, stringendo con una forza sorprendente per la sua esile figura.

“Dobbiamo andare,” disse. “Prima che sia troppo tardi.”

Mi trascinò giù per la collina, mentre il rombo si faceva sempre più forte. Non osai voltarmi, ma sapevo, sapevo con assoluta certezza, che qualcosa ci stava osservando da quella radura. Qualcosa di antico, di immenso, e di terribilmente affamato.

Tornato al borgo, scoprii che il mondo non era più lo stesso. O forse ero io a non essere più lo stesso. La collina, con le sue visioni e i suoi segreti innominabili, si era insinuata nella mia anima come una malattia, e non c’era forza umana che potesse estirparla. Evelyn aveva ripreso la sua vita di silenzi e melodie notturne, ma io non trovavo più pace.

Le visioni continuavano a perseguitarmi. Ogni volta che chiudevo gli occhi, rivedevo quei paesaggi impossibili, quelle creature colossali che sembravano osservare il mio essere con un’intelligenza primordiale e fredda. Quando aprivo gli occhi, la realtà intorno a me sembrava sbiadita, come se il mondo intero fosse solo un pallido riflesso di qualcosa di più vasto e terrificante.

Provai a tornare alla mia musica, ma il mio violino, che un tempo mi era così caro, sembrava ora un oggetto estraneo, inutile. Le note che provavo a suonare erano vuote, prive di vita, e ogni melodia che tentavo di comporre si spezzava come una fragile ragnatela al vento. Mi resi conto che il mio cuore non era più nel mio strumento; era rimasto su quella collina, intrappolato nelle note del violino di Evelyn.

Furono i miei sogni a tormentarmi di più. Sognavo spesso di trovarmi di nuovo sulla collina, al cospetto di quelle creature amorfe. Ma nei sogni non ero un semplice osservatore: ero parte di quel mondo alieno, e le cose che vedevo erano troppo orribili per essere descritte. Sognavo cieli striati di colori sconosciuti, città ciclopiche costruite con logiche imperscrutabili, e suoni che non avrebbero mai potuto essere prodotti da alcun essere vivente sulla Terra.

Non osavo parlare di queste cose con nessuno. Sapevo che mi avrebbero preso per pazzo, e forse non avrebbero avuto torto. Persino il locandiere, che inizialmente si era mostrato gentile, iniziò a guardarmi con sospetto, soprattutto quando mi vedeva vagare di notte, come un fantasma, in cerca di una pace che non trovavo mai.

Una sera, esasperato dalla mia stessa impotenza, decisi di affrontare Evelyn. Andai al suo casolare, ignorando il peso che mi gravava sul petto ogni volta che mi avvicinavo a quella casa maledetta. Quando bussai alla porta, il suono sembrò risuonare come un’eco vuota, e per un lungo momento pensai che non mi avrebbe aperto. Ma infine la porta si socchiuse, e il volto di Evelyn apparve nell’ombra.

“Lorenzo,” disse, con quella sua voce che sembrava sempre sul punto di dissolversi. “Perché sei qui?”

“Devo sapere,” risposi, senza riuscire a nascondere il tremore nella mia voce. “Devo sapere cosa stai facendo, cosa sta succedendo. Non posso più vivere così.”

Lei mi fissò per un lungo momento, e nei suoi occhi vidi qualcosa che non riuscivo a decifrare: pietà, forse, o forse un’amara consapevolezza. Senza una parola, si fece da parte e mi fece cenno di entrare.

La casa era più oscura di quanto ricordassi, e l’aria era pesante, come se qualcosa di invisibile la riempisse. Evelyn si sedette accanto al violino, che era posato sul tavolo come un idolo, e mi fece cenno di fare lo stesso.

“Non è troppo tardi,” disse, il suo sguardo fisso sullo strumento. “Puoi ancora andartene. Puoi lasciare questo posto e dimenticare tutto.”

“Non posso,” risposi, e in quel momento capii che era vero. Il violino mi aveva già catturato, e non c’era via di fuga.

Evelyn annuì lentamente. “Allora devi sapere la verità,” disse. “Ma sappi che una volta conosciuta, non potrai più tornare indietro.”

Le sue parole mi fecero rabbrividire, ma non dissi nulla. Evelyn prese il violino e iniziò a suonare.

La musica era diversa da qualsiasi altra che avessi mai sentito. Era più intensa, più terribile, e ogni nota sembrava risuonare direttamente nella mia anima. Le visioni tornarono, più vivide che mai. Vidi il Monte Maledetto come doveva essere stato in passato, con l’albero sacro che si ergeva maestoso sulla sua sommità. Intorno all’albero si raccoglievano figure umane, ma i loro volti erano distorti, e i loro movimenti non avevano nulla di naturale. Suonavano strumenti primitivi e cantavano inni in lingue che non potevo comprendere, ma che facevano risuonare una parte oscura della mia mente.

Poi vidi ciò che l’albero nascondeva. Le sue radici si estendevano in profondità, attraversando strati di terra e roccia fino a raggiungere qualcosa di vivo. Era una presenza immensa e informe, una coscienza antica che pulsava sotto la superficie della terra, in attesa di essere risvegliata. Le note del violino erano come un richiamo, e quella cosa rispondeva.

Gridai, cercando di interrompere la musica, ma Evelyn continuò a suonare, il suo volto pallido e immobile come una maschera. La visione si fece più intensa, e vidi le creature che avevo già intravisto sulla collina. Stavano emergendo, attraversando una frattura tra i mondi, attirate dalla musica e dal potere dell’albero.

Quando finalmente la musica cessò, mi ritrovai sdraiato sul pavimento della casa, il corpo tremante e sudato. Evelyn si chinò su di me, il suo volto ormai privo di emozioni.

“Capisci ora?” chiese. “Cosa sei tu?” balbettai, sentendo che la mia mente era sull’orlo della follia.

“Io sono come te,” rispose. “Una vittima di questa maledizione. Ma tu puoi ancora scegliere di andartene. Io, invece, appartengo già a loro.”

Non so come trovai la forza di alzarmi e lasciare quella casa. Quando tornai alla locanda, la notte era calata, e il borgo sembrava avvolto in un silenzio innaturale. Non dormii quella notte, né molte altre che seguirono.

Evelyn continuava a suonare, ogni notte, e ogni notte sentivo le sue note attraversare l’oscurità e risuonare nella mia mente. Sapevo che non sarei mai più stato libero. Ma ciò che mi terrorizzava di più era la consapevolezza che un giorno, forse presto, avrei seguito il suo esempio e suonato anche io quella melodia maledetta, per risvegliare ciò che non doveva essere risvegliato.

Non so dire con certezza quanto tempo trascorse dopo la notte in cui Evelyn mi rivelò la verità. I giorni si fusero in un’unica, interminabile attesa, e le notti furono tormentate dal suono della sua musica. Non avevo bisogno di avvicinarmi al suo casolare per ascoltarla: le note sembravano attraversare l’aria, infiltrandosi in ogni angolo del borgo, e poi nella mia mente, risuonando come un’eco che non si sarebbe mai spenta.

Evelyn stava preparando qualcosa; ne ero certo. La sua musica, prima così erratica e imprevedibile, era diventata più strutturata, più decisa. Ogni melodia sembrava costruire su quella precedente, formando un’architettura sonora che non riuscivo a comprendere ma che sapevo condurre a qualcosa di definitivo. Anche gli abitanti del borgo sembravano accorgersi del cambiamento. Li vedevo nei vicoli e nei campi, muoversi come ombre preoccupate, parlottare a bassa voce e lanciare occhiate verso la collina.

Ma il punto di svolta arrivò in una notte che sembrava destinata a non finire mai.

Ero nel mio alloggio alla locanda, incapace di dormire, come al solito. La musica di Evelyn riempiva l’aria, ma quella sera c’era qualcosa di diverso. Era più intensa, più profonda, e ogni nota sembrava risuonare come un colpo di martello su una porta antica. Quando aprii la finestra per cercare di capire cosa stesse succedendo, vidi che il cielo sopra il Monte Maledetto era diverso.

Non era più il cielo che conoscevo. Al posto delle stelle familiari, c’erano luci che si muovevano lentamente, tracciando schemi intricati. Sembravano stelle, ma non lo erano: erano troppo grandi, troppo vicine, e la loro luce era fredda e innaturale. Una nebbia densa e luminosa avvolgeva la collina, e dal cuore di quella foschia emanava una presenza che mi fece gelare il sangue.

Sapevo che dovevo andare lì. Non avevo scelta.

Afferrando il mio violino — per ragioni che non comprendevo del tutto — lasciai la locanda e mi avviai verso la collina. Il villaggio era deserto, o almeno così mi sembrò. Non c’era segno di vita, nessun rumore, solo il mio respiro affannato e il suono della musica che mi guidava, sempre più forte, sempre più inesorabile.

Quando raggiunsi il casolare di Evelyn, trovai la porta spalancata. La casa era vuota, ma l’aria all’interno era carica di energia, come se un fulmine stesse per colpire da un momento all’altro. La musica proveniva dalla collina, e sapevo che lei mi aspettava lì.

Il sentiero verso la sommità del Monte Maledetto, che avevo percorso una volta con tanto timore, era ora un corridoio di luce e ombre che sembravano vive. Ogni passo che facevo era accompagnato da un senso crescente di terrore e anticipazione, come se stessi camminando verso la mia condanna.

Quando finalmente raggiunsi la cima, trovai Evelyn al centro della radura, illuminata dalla luce innaturale che emanava dalla foschia. Suonava il suo violino con una concentrazione feroce, e le note che produceva non erano più musica: erano parole, frasi di una lingua che non avrei mai potuto comprendere ma che sentivo risuonare nei recessi più oscuri della mia anima.

“Evelyn!” gridai, cercando di farmi sentire sopra il tumulto della sua musica.

Lei alzò lo sguardo verso di me, e ciò che vidi nei suoi occhi mi fece vacillare. Non erano più occhi umani. Brillavano di una luce aliena, e dietro di essi c’era qualcosa di vasto, qualcosa di antico, che osservava attraverso di lei.

“È troppo tardi, Lorenzo,” disse, e la sua voce sembrava venire da un altro mondo.

La terra tremò sotto i miei piedi, e dal cerchio di pietre che delimitava la radura cominciarono a emergere delle ombre. Erano contorte, amorfe, eppure terribilmente vive. Erano le stesse creature che avevo visto nelle mie visioni, ma ora erano qui, nel nostro mondo, e la loro presenza era un oltraggio a ogni legge della natura.

Evelyn continuava a suonare, e con ogni nota quelle ombre si facevano più solide, più reali. Mi resi conto che il violino era la chiave, il ponte che stava aprendo la strada tra i mondi. Ero paralizzato dal terrore, incapace di muovermi o di distogliere lo sguardo da ciò che stava accadendo.

Ma poi sentii qualcosa dentro di me, una forza che non sapevo di possedere. Con mani tremanti, sollevai il mio violino e iniziai a suonare. Non sapevo cosa stessi facendo, ma le note che emettevo sembravano entrare in conflitto con quelle di Evelyn, creando un’armonia distorta che fece vacillare le ombre.

Evelyn mi guardò con un’espressione di pura disperazione. “Non capisci!” gridò. “Se interrompi la musica, loro ci distruggeranno entrambi!”

Ma non le diedi ascolto. Continuai a suonare, con tutta la forza e la determinazione che mi restavano. Le ombre si contorcevano, emettendo suoni che non erano di questo mondo, e il terreno sotto di noi cominciò a cedere. Evelyn gridò qualcosa, ma le sue parole furono coperte da un’esplosione di luce e suono che mi travolse.

Quando riaprii gli occhi, mi trovai da solo sulla collina. Il cerchio di pietre era crollato, e la foschia si era dissolta. Non c’era traccia di Evelyn né delle ombre. Solo il mio violino, rotto, giaceva a terra accanto a me.

Non so cosa accadde quella notte, né se il mondo sia mai stato veramente salvo. Ma una cosa è certa: la musica di Evelyn non mi abbandonerà mai. La sento ancora, nei miei sogni, nei miei pensieri, e so che un giorno, forse presto, mi chiamerà di nuovo. E questa volta, non ci sarà nessuno a fermarmi.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2025 racconti-brevi.com

La seduzione di Artemisia

La bottiglia di Gutturnio sul tavolo era quasi vuota, e la luce tremolante della lampada sembrava emanare un fremito vivo, come se anch’essa partecipasse al torpore innaturale che gravava sull’antica villa. Un gelo anomalo impregnava le stanze, una morsa crudele che sembrava strisciare lungo le pareti scrostate, come dita invisibili che tastassero i confini della mia sanità. Non era un freddo semplice, bensì un respiro latente, il bisbiglio di qualcosa di inimmaginabile che sfiorava i limiti del mio campo visivo.

Mi ero ritirato nel mio angolo prediletto, quella poltrona decrepita accanto alla finestra, con la stoffa logora intrisa di muffa e vecchie esalazioni di tabacco. Da lì, osservavo le colline che circondavano la villa come un anello di guardiani antichi. Di giorno, la loro presenza era scomoda, ma di notte si trasformavano in schiene contorte di bestie dormienti, una barriera tra il conosciuto e l’ignoto.

Quella notte, però, c’era qualcosa di nuovo. Le colline sembravano respirare, chiamarmi con un muto canto di abissi insondabili. Non avevo toccato laudano da settimane, ma le ombre si sfaldavano comunque ai margini del mio sguardo, un riflesso della mia mente stanca o, forse, di qualcosa di molto più oscuro. Con un gesto febbrile, passai una mano tra i capelli umidi e fissai il fondo del bicchiere, come se il liquido ambrato potesse rivelarmi i segreti che mi sfuggivano.

La prima volta che vidi Artemisia fu in sogno, ma non un sogno comune, bensì una visione tanto vivida da incidere nella mia mente come un marchio rovente. Mi trovavo in un campo d’erba secca e tagliente, dove il cielo pulsava di un viola innaturale, un’ombra pestilenziale di livore. Al centro di quel deserto si ergeva lei, una figura avvolta in un’oscura veste che ondeggiava senza vento. I suoi capelli argentei cadevano come un manto di fili sottili e freddi, scintillanti come catene lunari. Quando parlò, non fu con la voce umana, ma con un suono che riverberò nel mio cranio come un’onda impossibile da fermare.

«Riccardo.»

Non c’era dolcezza in quel richiamo, né compassione; solo un comando ineluttabile, un’eco che risuonava nelle profondità più intime della mia anima.

«Devi venire.»

E poi, il terreno si squarciò sotto i miei piedi. Non caddi, ma fui inghiottito da una voragine che sembrava fatta di fame e vuoto. Mi svegliai con un urlo che rimbalzò nei corridoi deserti della villa, un grido che pareva appartenere più a una bestia che a un uomo.

La villa era ormai un guscio vuoto, una carcassa abbandonata alla lenta corruzione del tempo. Una volta grandiosa, con i suoi soffitti alti e la biblioteca ricca, ora era solo un reliquiario di umidità e ombre. Evitavo la biblioteca da sempre, ma quella notte, guidato da una forza che non era la mia, vi entrai. L’odore era soffocante, un miscuglio di carta marcia e un vago sentore di carne decomposta. Camminai tra gli scaffali come un automa, le dita sfiorando i dorsi ammuffiti dei libri, fino a fermarmi davanti a un piccolo tavolo su cui giaceva un diario.

La copertina in pelle, screpolata e rigida, mostrava un simbolo inciso: un cerchio deformato da linee spezzate, come raggi contorti di un sole morente. Le pagine interne sembravano impregnate di oscurità, un inchiostro così nero da sembrare sangue rappreso. Mentre leggevo, una nausea crescente mi assalì.

“Questo luogo è maledetto. Il sangue della nostra famiglia ha nutrito la terra, e ora la terra reclama ciò che è suo.”

Frammenti di rituali blasfemi, invocazioni a divinità innominabili, simboli incomprensibili: tutto conduceva a un altare nascosto tra le colline, “là dove il primo canto del corvo squarcia il silenzio.”

Dopo quella notte, Artemisia non mi lasciò più. Tornava nei miei sogni, cambiando forma ma mantenendo intatta la sua aura spettrale. La sua presenza si insinuava nelle mie giornate, nei sussurri del vento e nelle ombre che sembravano muoversi al limitare del mio sguardo. Sapevo di essere perduto, ma una parte di me si aggrappava a quella follia, come un uomo che abbraccia la tempesta sapendo di non poterla sfuggire.

Quando finalmente vidi Artemisia sulla cima di una collina, immobile come una statua d’avorio, la mia mente si spezzò. Tornai alla villa, incapace di pensare, incapace di dormire. Il diario era ancora lì, e lo riaprii con mani tremanti. L’inchiostro sembrava brillare di una luce oscura, pulsante. Era una mappa verso la rovina, eppure non potevo distogliere lo sguardo.

Le colline, con il loro silenzioso richiamo, erano ormai inevitabili. Artemisia mi attendeva, e io, come uno strumento docile, rispondevo al suo richiamo. Nella notte gelida, con il cuore stretto dalla paura e dalla devozione, mi preparai a seguire il sentiero verso l’altare. Verso l’ignoto. Verso lei.

Quando le prime luci del giorno tinsero il cielo di un grigiore spettrale, sentii dentro di me un’unica certezza: avrei trovato quell’altare, o il mio corpo avrebbe marcito sulle colline che mi chiamavano.

Ritornai alla biblioteca della villa, che sembrava essersi fatta più ostile. L’odore, un tempo sopportabile, era diventato un miasma soffocante, un sentore di putrefazione antica e disperazione. Forse era solo una proiezione della mia anima. Non mi importava. Mi gettai con febbrile determinazione tra i libri ammuffiti e i documenti sparsi come ossa spolpate dal tempo.

Trovarlo fu sorprendentemente semplice. Una mappa, sepolta tra le pagine ingiallite di un vecchio registro, si rivelò come un segreto troppo a lungo celato. Le colline erano delineate con mano insicura, ma i simboli tracciati sopra erano inequivocabili. Una stella rossa marcava un punto specifico, un fulcro attorno al quale sembrava ruotare l’intera mappa. Mi persi a fissare quel disegno, come se un incantesimo legasse il mio sguardo ai segreti che conteneva.

Le mani mi tremavano mentre ripiegavo la carta con una cura ossessiva, infilandomela nella tasca del cappotto.

Quella notte fu priva di sogni. Artemisia non venne. Non c’era alcuna visione, alcun bisbiglio. Solo un silenzio così profondo che sembrava gravare sul mio petto, rendendo ogni respiro una sfida. L’universo tratteneva il fiato, come se fosse in attesa del passo fatale.

All’alba, con il diario sotto il braccio e la mappa salda nella mente, mi incamminai verso le colline. Quando il primo canto rauco di un corvo lacerò il silenzio del mattino, sentii un brivido, come se l’aria stessa si fosse caricata di un’oscura aspettativa.

Le colline erano sempre state lì, indifferenti e immobili, come guardiani silenziosi di segreti che non appartenevano al mondo degli uomini. Ma quel giorno, mentre seguivo il sentiero delineato dalla mappa, sentivo il loro sguardo su di me. Il vento portava con sé un odore dolciastro e nauseabondo, come quello del sangue antico o della carne lasciata a decomporsi sotto un sole impietoso.

Il sentiero era quasi invisibile, una ferita dimenticata nella terra coperta d’erba alta. Ogni passo che facevo sembrava spingermi più lontano dal mondo conosciuto. I suoni familiari del bosco – il cinguettio degli uccelli, il fruscio delle foglie – si mescolavano con altri rumori più ambigui: uno scricchiolio distante, un battito d’ali che pareva appartenere a una creatura troppo grande per essere reale.

La prima radura che incontrai era un cerchio di erba schiacciata, apparentemente privo di significato. Eppure, il silenzio che lo avvolgeva era innaturale, un vuoto che sembrava assorbire ogni suono e ogni pensiero. Mi inginocchiai per esaminare il terreno e notai segni tracciati con una precisione inquietante, linee sottili che si intrecciavano a formare un simbolo che mi risultava familiare eppure incomprensibile.

«Non toccare.»

La voce giunse come una frustata, facendomi sobbalzare. Mi voltai di scatto e incontrai una figura che sembrava appartenere più a un incubo che alla realtà. Era una vecchia, curva e decrepita, la pelle ridotta a pergamena bruciata. Indossava una sciarpa scura che nascondeva parte del volto, ma i suoi occhi, neri come abissi, brillavano di una luce maligna.

«Non è per te,» disse con un tono che sembrava racchiudere l’autorità di secoli.

«Chi sei?» chiesi, la voce incrinata da un tremito che non riuscivo a mascherare.

«Una vecchia,» rispose con semplicità, «come mi vedi.»

C’era qualcosa di profondamente sbagliato in lei, un’aura di certezza che sfidava ogni logica umana. Lasciò cadere ai miei piedi un piccolo oggetto: un amuleto fatto di legno intrecciato e ciocche di capelli che non avrei voluto esaminare più da vicino.

«Portalo con te,» mormorò. «Non ti proteggerà, ma ti farà comprendere.»

Prima che potessi replicare, si voltò e scomparve tra gli alberi, lasciandomi solo con il suono del mio respiro affannoso e l’amuleto che pulsava debolmente sotto la luce fioca. Lo raccolsi con esitazione e lo infilai in tasca, riprendendo il cammino con una sensazione di oppressione crescente.

Il sentiero si fece più ripido e il terreno mutò, diventando duro e sterile, come se anche la natura stessa avesse abbandonato quel luogo. Quando incontrai la seconda figura, il cuore mi balzò in gola. Era un uomo, o almeno una parodia di un uomo: alto e magro, con una barba selvaggia e capelli intrecciati di radici.

«Ti aspettavo,» disse, la voce un sussurro che sembrava emergere dal terreno stesso.

«Non credo.»

Rise, ma il suono era alieno, un sussurro corrotto. «Stai cercando l’altare,» proseguì.

«Come lo sai?» chiesi, cercando di mascherare la mia inquietudine.

«Non è difficile.» I suoi occhi affondati sembravano trapassarmi, leggendo ogni mio pensiero. «Tutti cercano qualcosa, ma nessuno torna con ciò che sperava.»

«Non posso tornare indietro.»

Lui annuì, come se avesse previsto quella risposta. «Lo so. Buona fortuna. Non servirà.»

Proseguì e si dissolse nel nulla, lasciandomi solo con l’oscurità che calava.

Quando raggiunsi l’ultima radura, il sole stava tramontando, e l’aria si era fatta gelida. Gli alberi si piegavano verso il centro del cerchio, come se tentassero di celarlo. Al centro si ergevano pietre antiche, disposte in un disegno che sembrava sfidare ogni geometria razionale. L’altare era lì, e con esso l’inizio della fine.

Mi avvicinai con cautela, il diario stretto tra le mani tremanti, cercando disperatamente di intrecciare i segni che ora scorgevo sulle pietre con i criptici simboli che avevo decifrato tra le pagine ingiallite. Quei glifi, scolpiti con una precisione che sfidava il tempo, sembravano pulsare di una vitalità oscura, come se fossero stati tracciati non da mani umane, ma da entità il cui pensiero sfugge alla comprensione mortale. Mi chinai, ogni muscolo teso, e nel momento in cui sfiorai quelle incisioni, il mondo sembrò trattenere il respiro.

Fu allora che udii il suono.

Non era un suono naturale, ma qualcosa di più primordiale e terrificante: un rimbombo basso e profondo, più simile a una vibrazione che a un rumore. Penetrò nelle ossa, scuotendo ogni fibra del mio essere. Mi resi conto, con un terrore strisciante, che proveniva dal terreno sotto di me. Mi ritrassi, alzandomi di scatto, il respiro spezzato e gli occhi febbrili che scrutavano il buio circostante.

«Sei vicino.»

La voce era quella di Artemisia, chiara come un campanello d’argento, eppure nessuna figura si scorgeva intorno a me. Mi voltai, il cuore martellante, ma trovai solo le ombre degli alberi, più lunghe, più distorte, come se seguissero geometrie aliene. Mi immersi nel sentiero con passo incerto, il diario stretto come un talismano contro il buio che sembrava avvolgermi, stringermi. Non sapevo dove stessi andando, ma sentivo che le colline mi chiamavano, che ogni passo risuonava di un destino già scritto.

Infine, giunsi a un punto in cui il sentiero si interruppe bruscamente. Davanti a me si spalancava una scalinata scavata nella roccia, scendendo nell’abisso. Un gelo senza nome mi avvolse, ma sapevo di non poter tornare indietro. Presi un respiro profondo e iniziai a discendere.

Fu allora che la pioggia cominciò.

Sottile, quasi impercettibile, sembrava cadere senza peso né suono, come un sudario trasparente calato sul mondo. Era iniziata mentre scendevo i gradini, ma non cessò nemmeno quando cercai rifugio sotto le radici contorte di un albero il cui tronco sembrava piegarsi in un’agonia silente. Non era una pioggia ordinaria. Era come se il cielo stesso trasudasse la sostanza dei sogni più nefasti, un’acqua che non bagnava ma penetrava, insinuandosi fino all’anima.

Il terreno sotto i miei piedi sembrava cedere, o forse ero io a scivolare su qualcosa d’invisibile. Mi pareva di muovermi in cerchio, anche se ogni curva del sentiero rivelava un nuovo orrore. Sopra di me, il cielo era una distesa grigia e uniforme, come un’immensa tela logora che nascondeva qualcosa di vivo, qualcosa che si muoveva appena oltre il velo.

Fu in quel momento che scorsi la figura.

All’inizio, la confusi con una roccia o un albero contorto. Era piegata in un’angolazione innaturale, un’essenza che sfuggiva alla definizione. Quando mi avvicinai, i suoi contorni sembrarono mutare, come se la realtà stessa si piegasse intorno a lei. «Chi sei?» balbettai, ma la mia voce si spezzò nel nulla. La figura non rispose, ma la testa – o ciò che presi per tale – si voltò leggermente. Mi fissò con occhi che non erano occhi, ma pozzi neri e insondabili. Poi, con un orrore strisciante, semplicemente svanì, come se non fosse mai stata lì.

Avanzando, mi accorsi che il mondo attorno a me si deformava. Le ombre si allungavano in modo impossibile, e gli alberi, vivi in un modo che sfidava la natura, sembravano protendersi verso di me con rami scheletrici, come arti ossuti di qualche essere affamato.

E Artemisia era ovunque.

La sua voce mi giungeva in sussurri persistenti, ora dolci come il miele, ora taglienti come lame. «Non fermarti, Riccardo.» Era un comando che mi trascinava avanti, anche quando il mio stesso istinto mi supplicava di fermarmi. La vidi più volte, o credetti di vederla, sempre ai margini della mia visione. Era una figura oscura, con capelli argentati che ondeggiavano come se danzassero in un vento invisibile.

Quando giunsi alla capanna, pensai, per un attimo, di essere arrivato alla fine. Era una costruzione angusta, eretta con legno annerito e avvolta da un’aura di rovina. All’interno, non c’era nulla se non un tavolo e una sedia, e il silenzio pesava come piombo.

«Aspetti qualcuno?» La voce mi fece sobbalzare. Mi voltai, trovandomi davanti a un uomo che sembrava scolpito nella stessa sostanza dei miei incubi. Era magro, con occhi troppo grandi e un sorriso che rivelava denti neri e scheggiati.

«Chi sei?» domandai, la mia voce ridotta a un filo.

Lui sorrise, un’espressione che sembrava contorcersi in un modo disumano. «Non importa chi sono. Importa cosa stai cercando.»

E allora capii, con un orrore che sfidava la ragione, che ciò che cercavo non era altro che il principio di una fine che non avrei potuto comprendere, né tantomeno fermare.

Quella notte, trovai un’altra radura, diversa da tutte le altre che avevo attraversato nel mio cammino tormentato. Era come se il bosco stesso l’avesse celata agli occhi degli estranei, un luogo che non avrebbe dovuto esistere. Al centro della radura, eretta come un’antica sentinella dimenticata, sorgeva una pietra alta e sottile, coperta di simboli incisi. Quei segni non appartenevano a nessun alfabeto terrestre; avevano una qualità al contempo aliena e primordiale, come se contenessero il linguaggio delle stelle o il mormorio degli abissi insondabili.

Mi inginocchiai, spinto da una forza che non riuscivo a controllare, e avvicinai il viso alla superficie scabra della pietra. Più li osservavo, più quei simboli sembravano sfuggirmi, muovendosi in un modo che sfidava la logica. Linee che mutavano forma, curve che si torcevano su sé stesse come per beffarsi della mia percezione.

Poi, la pietra parlò.

Non usò parole come le intendiamo noi, ma un coro di suoni che si insinuarono nella mia mente come dita gelide. Era una melodia dissonante, un rumore che non proveniva dalle mie orecchie ma dalla mia stessa coscienza. Le mani mi corsero istintivamente alle orecchie per bloccare quell’orrore, ma fu inutile. Il suono continuava, penetrante, insidioso, fino a far vibrare ogni pensiero nella mia testa.

«Non puoi scappare.»

La voce di Artemisia. O almeno così mi sembrava. Non sapevo più distinguere la realtà dalla follia. Mi alzai vacillando, il cuore martellante e il respiro spezzato, e in quell’istante mi accorsi che la pietra era sparita. Al suo posto, il terreno era coperto da una pozzanghera scura, una macchia liquida che rifletteva la luce in un modo innaturale. Mi chinai per guardare, e ciò che vidi mi fece gelare il sangue.

Era il mio volto, ma non era il mio volto. L’immagine riflessa era più vecchia, scavata, con occhi spenti che tradivano un’esistenza divorata dalla disperazione. «Chi sei?» sussurrai, ma il riflesso non rispose. Rimase lì, immobile, osservandomi con una fissità che mi fece dubitare di ogni cosa.

Ripresi a camminare, spinto da una forza che non potevo combattere. Sentivo che mi stavo avvicinando a qualcosa, anche se non sapevo cosa. Ogni passo mi avvolgeva in un buio più profondo, un’oscurità che sembrava strisciare dentro di me, corrodendo ciò che restava della mia sanità. Non volevo ammetterlo, ma sapevo che le colline mi stavano cambiando. O forse stavano solo rivelando la mia vera natura.

Il tempo perse significato. Potevano essere passati giorni o ore; la mia mente era un vortice di frammenti sconnessi, intrappolata in un ciclo di paura e confusione. Mi trovai infine davanti a un’apertura nel bosco, una radura che sembrava essere comparsa dal nulla. Non c’era stato alcun avvertimento, nessun segnale del cambiamento. Il silenzio che vi regnava era così assoluto da risultare opprimente, come se l’intero mondo avesse smesso di respirare.

Al centro della radura, giaceva l’altare.

Era una lastra di pietra scura, screpolata dal tempo ma non indebolita, come una reliquia di una civiltà dimenticata. Simboli erano incisi attorno ad essa, tracciati nel terreno con una precisione così perfetta da sembrare il lavoro di mani divine o infernali. La luce non proveniva dal cielo – un cielo grigio e immutabile, privo di sole o stelle – ma dall’altare stesso. Un bagliore tenue, inquietante, come un riflesso di qualcosa che bruciava in un’altra dimensione.

Mi avvicinai, i piedi affondando nella terra molle. Ogni passo sembrava un atto di volontà impossibile, come se l’aria stessa mi trattenesse. Quando fui di fronte all’altare, riconobbi i simboli incisi sulla sua superficie. Erano gli stessi del diario, gli stessi che avevo visto nelle mie visioni. Linee e curve che sfidavano ogni principio della geometria terrena.

E poi sentii la sua voce.

«Finalmente.»

Mi voltai di scatto, e la vidi. Artemisia era lì, reale come non lo era mai stata. La sua figura era avvolta in una veste nera che si muoveva come fumo nell’aria immobile. I suoi capelli, lunghi e argentati, scintillavano come fili di luna, e i suoi occhi – due abissi insondabili – mi catturavano, obbligandomi a fissarli.

«Sei arrivato,» disse, con un sorriso che trasudava una sinistra combinazione di sollievo e predazione.

«Sei reale?» chiesi, la mia voce incrinata.

Lei inclinò la testa, un movimento che sembrava al contempo affascinante e spaventoso. «Più reale di quanto tu sia mai stato.»

Mi voltai verso l’altare, il suo bagliore che sembrava attirarmi e respingermi allo stesso tempo. Artemisia avanzò fino a posare le mani sulla pietra. «Questo è il cuore di tutto,» disse, la sua voce come un sussurro che scivolava dentro di me. «Qui inizia e finisce il tormento della tua famiglia.»

Non potevo distogliere lo sguardo. Le sue parole pesavano sulla mia mente come catene, e sapevo che non c’era via di fuga. L’altare pulsava sotto le sue mani, vivo, affamato. Non ero più certo di cosa fossi disposto a sacrificare, ma sentivo che la scelta mi avrebbe consumato per sempre.

Mi sollevai con la lentezza di un’anima gravata da innumerevoli eoni di tormento. Ogni fibra del mio essere pareva intrisa di un’inerzia innaturale, e il silenzio attorno a me non era semplice assenza di suono, ma un’entità tangibile, pulsante, che mi soffocava con il suo peso opprimente. L’aria nella radura era densa, quasi viscida; respirarla era come ingerire un veleno invisibile, un’essenza corrotta che s’insinuava nei polmoni e nel sangue.

Attorno all’altare si addensava un’atmosfera arcana, un’energia indescrivibile che permeava la terra sotto i miei piedi. Il suolo vibrava impercettibilmente, un ritmo lento e sinistro che sembrava risuonare con il battito del mio cuore. Sapevo, senza più alcun dubbio, che l’altare non era una costruzione morta: respirava, pulsava, viveva. O, peggio ancora, ospitava una presenza che non avrebbe dovuto esistere.

Il diario tremava nelle mie mani, le sue pagine ingiallite e lise animate da un movimento che non apparteneva a questo mondo. Le parole incise in quell’inchiostro scuro, che sembrava quasi sanguinare dalla carta, si stagliavano con una nitidezza inquietante, come se implorassero di essere lette. Non era la prima volta che scorrevo quelle righe, ma ora esse sembravano gravide di un significato che andava oltre la comprensione umana. Erano più che istruzioni: erano un comando, una legge ineluttabile.

Il rituale, nella sua crudele semplicità, chiedeva solo ciò che ogni anima teme: sangue, terra, volontà. Non c’erano formule ornate né reliquie sacre; solo carne e spirito, offerti senza riserve. Tirai fuori il coltello che avevo portato con me, un oggetto ordinario che, nella sua banale freddezza, ora sembrava emanare un’aura minacciosa. Il metallo ghiacciato contro la mia pelle era una realtà insopportabilmente tangibile, un contrasto crudele con il mondo che stava lentamente dissolvendosi attorno a me.

Esitai per un istante, il tempo di un respiro che parve un’eternità. Poi premetti la lama contro il palmo della mia mano. La carne cedette con un dolore acuto e bruciante, e il sangue sgorgò con una vividezza che sembrava sfidare la notte stessa. Ogni goccia che colpiva la pietra dell’altare si raccoglieva in minuscole pozze che parevano muoversi da sole, spingendosi verso le incisioni che ora brillavano con un’intensità crescente.

Un ronzio basso e profondo iniziò a risuonare, un suono che non proveniva da alcuna fonte visibile, ma che sembrava emergere dall’interno della terra e delle stelle stesse. Poi, con un lampo che non era né luce né tenebra, venne la visione.

Mi ritrovai in una distesa di terra sterile, oscura come la pece. Intorno a me, alberi scheletrici si ergevano come monumenti funebri deformi, le loro radici contorte protese verso un cielo innaturale. Era un cielo vivo, un vortice pulsante di rosso e nero, che respirava e gemeva come una creatura ferita. Nell’oscurità lontana, sagome si muovevano con andature innaturali, i loro corpi spezzati in forme che sfidavano ogni legge della fisica. Sebbene non avessero occhi, sentivo il peso del loro sguardo su di me, un’attenzione divorante che trascendeva la carne.

E allora apparve Artemisia.

Non era più la donna che conoscevo, ma qualcosa di infinitamente più grande e terribile. La sua figura, avvolta in un manto di ombre vorticanti, torreggiava su di me, e i suoi occhi erano pozzi di luce bruciante, due soli neri che trapassavano la mia anima. Ogni passo che compiva risuonava come il rintocco di un giudizio cosmico.

«Riccardo,» pronunciò il mio nome con una voce che era un sussurro e un grido al contempo, echeggiando nelle profondità della mia mente.

«Cosa sta accadendo?» balbettai, ma le parole mi uscirono come un lamento spezzato.

«Questo è ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà,» rispose lei. «Tu sei parte di tutto questo.»

La visione mutò con la violenza di un fulmine. Ora mi trovavo nella villa, ma non in quello stato di decadimento che conoscevo. Le stanze brillavano di una luce impossibile, le pareti ornate di quadri che parevano fissarmi con occhi vivi. Uomini e donne in abiti eleganti danzavano al ritmo di una musica che si insinuava nel mio spirito, dolce e perversa.

Poi la luce svanì, lasciando il posto a un abisso. Le risate si mutarono in urla lancinanti, e le figure eleganti si contorsero in forme grottesche, mentre il sangue colava dai muri come una piaga biblica. Cercai di fuggire, ma ogni porta conduceva a un’altra stanza identica, in un incubo di specchi e illusioni.

Alla fine mi ritrovai di nuovo davanti all’altare, ma quello che vidi mi fece gelare il sangue. Davanti a me stava una versione più vecchia e spezzata di me stesso, le sue mani sporche di sangue. Artemisia lo osservava, con un sorriso enigmatico che racchiudeva promesse di orrore eterno.

«Ora sai,» disse lei.

E poi, tornai. Il freddo della pietra sotto le mie mani mi svegliò dalla visione, ma sapevo che nulla era finito. Sentivo una presenza attorno a me, un’ombra vasta e infinita che mi scrutava con un’intelligenza inumana.

«Devi decidere,» sussurrò Artemisia, il suo volto emergendo dall’oscurità come un riflesso distorto.

E nel coro di mille voci che si levava dall’altare, compresi che la mia scelta avrebbe sigillato il mio destino e quello del mondo stesso.

Mi osservai le mani, tremanti e macchiate di un’essenza scura che non era sangue. Era qualcosa di più vischioso, una sostanza oleosa e fredda che sembrava pulsare di vita propria. Tentai di strofinarla via, ma era inutile: si aggrappava alla mia pelle come un parassita. Fu allora che lo compresi, in un lampo di orrore che mi lacerò l’anima. L’altare aveva preso ciò che voleva. Ma cosa, in cambio, mi aveva lasciato?

Non c’era trionfo, né catarsi. Quando il rituale si concluse, l’altare era soltanto un blocco di pietra inerte, il terreno sotto i miei piedi un semplice pantano. L’aria, un tempo così pesante e viva, si era ritirata come un’onda che lascia dietro di sé una spiaggia desolata. Rimasi lì, immobile, il suono del mio respiro affannato e il battito irregolare del mio cuore come un metronomo di un incubo ancora in corso.

Guardai di nuovo le mie mani. La sostanza scura si era seccata, formando una crosta fragile che si sgretolava a ogni movimento. Rimasi fermo, aspettando che qualcosa accadesse: un lampo, un segno, qualsiasi cosa che giustificasse l’orrore che avevo affrontato. Ma il nulla mi accolse con il suo silenzio implacabile.

«È tutto qui?» chiesi, la mia voce ridotta a un sussurro roco, rivolgendomi all’altare come a un idolo muto e sordo. Nessuna risposta giunse. Nessuna presenza, nessun sussurro. Artemisia era sparita. Non c’era traccia di lei, né ombra né voce che potesse guidarmi in quel momento di smarrimento.

Mi voltai verso il sentiero, ogni passo un’impresa titanica. La terra pareva trattenere i miei piedi con una forza invisibile, ma sapevo di non poter restare lì. Camminare era l’unico modo per sottrarmi alla follia. Eppure, con ogni passo, la foresta intorno a me si trasformava. Gli alberi, simili a sentinelle contorte, sembravano piegarsi verso di me, le loro ombre deformi allungandosi come artigli sul terreno. Era solo il tramonto, mi dissi, ma non potevo ignorare la sensazione di essere osservato.

Quando raggiunsi una radura, crollai. Il mio corpo, sfinito e scosso fino alle ossa, non poteva sopportare altro. Mi accasciai contro un tronco nodoso, chiudendo gli occhi nella vana speranza di sfuggire a quella realtà. Ma il buio dietro le palpebre non mi portò sollievo. Anche lì, Artemisia mi attendeva. Vedevo il suo volto, il suo sorriso enigmatico, e vedevo me stesso inginocchiato davanti all’altare, mentre il sangue si mescolava alla terra come un tributo profano.

«Non è reale,» mormorai, ma le parole suonarono vuote. E se non lo fosse stato? Se tutto fosse stato solo un inganno, un’illusione creata dalla mia mente? L’altare, Artemisia, le visioni: erano così vivide, così tangibili, eppure ora sembravano sogni in frantumi. Ma i sogni svaniscono. Questo, invece, restava.

Mi passai una mano sul viso, cercando di scacciare il turbine di pensieri che mi tormentava. Le immagini nella mia mente si sovrapponevano, si spezzavano, si ricomponevano in modi che sfidavano ogni logica. La villa, l’altare, la foresta: tutto era intrecciato in un flusso confuso e disturbante che minacciava di trascinarmi via.

«Cosa sta succedendo a me?» La mia voce si spezzò, ridotta a un gemito disperato. Non so quanto tempo rimasi lì, seduto nella radura. Quando finalmente mi alzai, il mondo intorno a me sembrava identico e al tempo stesso irrevocabilmente mutato. Nulla era cambiato – gli alberi erano gli stessi, il cielo ancora grigio – ma percepivo tutto come estraneo, ostile. Come se fossi un intruso in un luogo proibito.

Ripresi a camminare, ma non ero solo. Lo capii dai sussurri che si alzavano nel vento, dal ridacchiare spettrale che si perdeva tra gli alberi. Mi voltavo, ma non c’era nessuno. Poi apparvero le figure.

La prima la intravidi con la coda dell’occhio: un’ombra fugace che svanì prima che potessi metterla a fuoco. Poi un volto emerse tra i rami, un volto senza occhi che mi osservava con una fissità intollerabile. Le sagome si fecero più frequenti, più tangibili. Una forma curva che mi seguiva a distanza, un’altra che si muoveva tra i tronchi come un serpente di fumo.

«Chi siete?» gridai, ma il mio grido si perse nell’abisso silente della foresta. Nessuna risposta, solo il vento che trasportava il suo carico di voci indistinte.

Raggiunsi un torrente e mi inginocchiai per bere, ma l’acqua limpida aveva un retrogusto metallico che mi fece sputare. Mi guardai intorno, cercando un riferimento, ma ogni cosa sembrava uguale: una prigione di ombre e silenzi. Poi mi chinai di nuovo sull’acqua e il gelo mi percorse la schiena.

Il riflesso che mi fissava non era mio. Era un volto familiare, ma consumato dal tempo e dalla follia, scavato da linee profonde e occhi che brillavano di una luce malata. Le labbra del riflesso si mossero, e una voce estranea ruppe il silenzio.

«Non appartieni a questo luogo.»

Balzai indietro, terrorizzato, cadendo nel fango. Quando guardai di nuovo nell’acqua, il riflesso era svanito. Ma le parole, come una maledizione, continuavano a risuonare nella mia mente.

Non appartieni a questo luogo.

Il sussurro, appena percepibile, sembrava provenire dalle profondità stesse della terra, un’eco di qualcosa di antico e dimenticato. Mi ridestai con un sobbalzo, il cuore che batteva come se rispondesse a un richiamo oscuro. Attorno a me, gli alberi s’erano serrati, i rami intrecciandosi sopra il mio capo in una gabbia opprimente. Un gelo innaturale pervadeva l’aria.

«Lasciatemi in pace!» gridai, ma le mie parole sembravano dissolversi prima ancora di infrangere quel silenzio opprimente. E le voci—oh, quelle voci!—continuavano, sussurrando frammenti di un idioma sconosciuto, come se creature invisibili tramassero appena al di là del velo della realtà.

Alla vista della villa, un sollievo effimero mi travolse, un’onda che si spezzò subito contro le rocce della percezione. Era lì, la villa, con le sue mura scrostate e le finestre che sembravano orbite vuote; immutata, eppure… diversa. Più mi avvicinavo, più un’inquietudine primordiale si insinuava nel mio animo. La porta, aperta, mi attendeva come un’ombra spalancata.

L’interno era freddo, glaciale, come se ogni briciola di calore fosse stata divorata da qualcosa di invisibile. Ogni passo rimbombava nei corridoi vuoti, un suono che sembrava risuonare in un’eco senza fine.

«C’è qualcuno?» chiesi, la mia voce debole, quasi soffocata dall’aria densa. Nessuna risposta.

Mi diressi alla biblioteca, quella stanza che aveva custodito il diario. Doveva tornare lì, al suo posto, come se quel gesto potesse riparare una crepa invisibile nel tessuto della realtà.

Quando lo sollevai, un brivido mi attraversò. Il peso… non era giusto. Troppo leggero. Aprii il libro con mani tremanti e trovai… il nulla.

Pagine vuote, bianche come ossa sbiancate dal tempo. Sfogliai con crescente frenesia, un panico muto che mi serrava il petto. Nessun simbolo, nessuna parola, nessun segno che attestasse la sua esistenza. Solo quel vuoto sardonico che pareva sogghignare da ogni foglio immacolato.

«No… non è possibile,» mormorai, la voce un sibilo estraneo anche a me stesso. Gettai il libro sul tavolo, e per un istante lo vidi: nello specchio incrinato accanto alla finestra, un volto. Il mio volto. Eppure… non mio.

La biblioteca sembrava respirare, le ombre animandosi come viscere oscure. Gli scaffali traboccavano di tomi che non ricordavo di aver mai visto, eppure mi erano disturbantemente familiari. In un angolo, lo specchio incrinato continuava a osservarmi con il suo riflesso deformato, come un occhio che non poteva chiudersi.

Chiusi gli occhi, tentando di scacciare i ricordi che cominciavano a sgorgare, viscosi e inarrestabili. Artemisia. Il suo nome era un veleno che scorreva nella mia mente, un’ossessione che mi aveva consumato e spinto oltre il limite.

Ma quando riaprii gli occhi, la biblioteca era vuota, un guscio cavo che echeggiava della mia follia. Oltre le finestre, le colline si stagliavano sotto un cielo plumbeo, guardandomi con indifferenza cosmica.

Un pensiero mi colpì, freddo come una lama. Artemisia non era mai stata reale. Era un’eco, un’illusione che avevo creato per riempire il vuoto che avevo scavato nel mio cuore. Oppure… era reale, e la sua realtà mi era stata strappata, consumata da qualcosa di molto più grande di me.

Mi alzai, i passi lenti, guidati da una volontà che non sentivo più mia. Attraversai i corridoi, le fotografie appese ai muri distorte come in un incubo. Nelle immagini sbiadite, volti che conoscevo e che non conoscevo mi fissavano, i loro occhi pieni di accuse e segreti.

Quando tornai nella biblioteca, la stanza sembrava pulsare. La bottiglia sul tavolo era un richiamo tentatore, ma non bevvi. Non osai. L’aria vibrava, e un rumore sottile mi fece voltare.

Nell’angolo più oscuro, qualcosa si mosse.

Il volto che mi guardava non era il mio, non del tutto. Gli occhi brillavano di un’oscurità insondabile, e il sorriso… oh, quel sorriso! Era l’abisso stesso che mi fissava.

«Non appartieni a questo luogo,» disse la voce, e questa volta, non c’era dubbio. Non era solo una frase. Era una sentenza.

E sapevo che non sarei mai uscito da quel luogo. Da quella villa. Da me stesso.

Mi destai in un letto estraneo, circondato da un ambiente che emanava una sensazione di distacco e freddezza che sembrava permeare fino al mio stesso midollo. L’odore pungente del disinfettante graffiava le narici, sconcertante e innaturale, come se ogni molecola d’aria fosse stata sterilizzata fino a perdere ogni traccia di vita. Le lenzuola erano rigide, quasi abrasive, e il cuscino sotto la mia testa pareva riempito di pietre levigate da mani senza pietà.

Ogni movimento era una sfida. Un dolore sordo e persistente percorreva le ossa, non semplice affaticamento ma un peso che sembrava radicato nel profondo della mia carne, come se qualcosa di innaturale vi si fosse annidato.

La stanza era spoglia, le pareti bianche come un obitorio, illuminate da una luce fredda e impietosa che pareva trarre forza dal nulla. Un ronzio basso, ipnotico, percorreva l’aria, un rumore monotono che poteva appartenere a un condizionatore o a un dispositivo medico nascosto nelle ombre. Dall’eco distante di voci mi giunsero parole indistinte, poi un dialogo:

«È sveglio?»
«Dategli un momento. Ha avuto un episodio intenso.»

Il mio corpo obbedì a fatica quando cercai di sollevarmi. Mi sedetti lentamente, il respiro affannoso mentre cercavo di scacciare la nebbia mentale che sembrava avvolgermi come una seconda pelle. Quando i miei occhi si sollevarono, incontrarono due figure.

Davanti a me stavano una donna, il cui camice bianco contrastava con la sua compostezza professionale, e un uomo alto, dal portamento rigido e severo, avvolto in un completo scuro che sembrava grottescamente fuori luogo in quell’ambiente asettico. Gli occhi della donna erano scrutatori, carichi di qualcosa che oscillava tra la compassione e il distacco.

«Come si sente, Riccardo?» domandò lei, la voce carezzevole ma segnata da un’inflessione di artificiosa pazienza.

Non risposi subito, lasciando che il mio sguardo vagasse nella stanza spoglia, sterile come un sogno al margine del reale. Le pareti erano interrotte solo da un orologio che scandiva ogni secondo con un ticchettio implacabile, una condanna costante al passaggio del tempo.

«Dove sono?» mormorai, la voce roca e spezzata, come se fossi stato in silenzio per anni.

La donna scambiò uno sguardo rapido con l’uomo, che annuì lentamente, un movimento che sembrava pesato come un giudizio.

«Sei in un ospedale psichiatrico, Riccardo,» disse, con una morbidezza che pareva mascherare una verità molto più tagliente.

Quelle parole penetrarono come un pugnale gelido, svuotando la mia mente e lasciando un silenzio che echeggiava con forza disumana.

«Cosa?» balbettai, il fiato che mi si strozzava in gola.

L’uomo parlò allora, la sua voce profonda e autoritaria come un martello che colpiva una campana vuota: «Ti abbiamo trovato vagare sulle colline, ferito e disidratato. Parlavi di un altare e di una donna… Artemisia, se non erro.»

Il suono di quel nome squarciò il velo della mia memoria, liberando visioni torbide e sconnesse. L’altare. Artemisia. Il sangue che impregnava la terra sotto di me. Ma erano reali? La confusione e il gelo si insinuarono nel mio petto come artigli.

«Non capisco,» mormorai, la mente che si arrampicava invano per trovare un punto d’appiglio.

La donna si avvicinò, sedendosi accanto al letto. La sua presenza era calma, ma nella sua compostezza c’era un’inquietudine appena percettibile. «Riccardo, hai vissuto isolato troppo a lungo. La villa, la solitudine… tutto questo ha avuto un impatto su di te. La tua mente… ha cercato di riempire i vuoti.»

Scossi la testa, una negazione disperata. «No, non capite. Io ho visto Artemisia. Lei era reale. Mi ha parlato.»

La donna non si mosse, ma il suo sguardo si fece più grave, come se ogni parola che pronunciava fosse una sentenza. «Riccardo, non c’era nessuna Artemisia. Nessun altare. Quando ti hanno trovato, il sangue sulle tue mani era il tuo. Ti sei ferito da solo.»

Quelle parole scavarono nel mio petto una voragine. L’aria sembrò svanire dalla stanza, e le pareti, quelle pareti bianche, si avvicinarono inesorabilmente, come se volessero inghiottirmi.

«Non è possibile,» sussurrai, un mantra vuoto di significato.

La donna scambiò un’altra occhiata con l’uomo, che rimase immobile, una figura incombente che sembrava più un simulacro che un essere umano. Lei parlò ancora, la voce un filo di acciaio mascherato da velluto: «La tua mente ha creato Artemisia. Ha preso i frammenti di ciò che hai vissuto—di chi hai perduto—e li ha trasformati in un simbolo. Ma è tutto qui, Riccardo: un simbolo, un’illusione.»

Il nome che pronunciò allora, Maria, squarciò i ricordi come un fulmine. Le immagini si riversarono nella mia mente: il suo viso, la sua voce, i litigi e il bicchiere infranto. E quella notte… quella notte eterna.

«No,» dissi, la voce rotta. «Non voglio ricordare.»

Ma il ricordo non si lasciò ignorare. Era lì, un mostro che mi divorava dall’interno. E con esso, una consapevolezza terribile: non c’era mai stata Artemisia. Solo Maria. E me stesso, con la mia incapacità di affrontare ciò che avevo fatto.

Il ronzio nella stanza crebbe, assorbendo ogni altro suono, finché non sembrò provenire direttamente dalle viscere della terra. O forse… dalla mia mente. E allora la vidi.

Nell’angolo più buio della stanza, avvolta in ombre pulsanti, c’era Artemisia. O forse Maria. Non aveva più importanza. Mi fissava, e nei suoi occhi c’era l’abisso.

Il suo sorriso era l’ultima cosa che vidi prima che il mio mondo si spezzasse definitivamente.

La mente è un abisso insondabile, un recesso di intricati meandri e pulsioni che solo pochi osano esplorare. La dottoressa parlava con una calma irreale, un tono che pareva studiato per infondere una tranquillità artificiosa, mentre ogni sua parola scivolava come un veleno mellifluo.

«Quando subisce traumi,» disse, i suoi occhi che sembravano scrutarmi ma senza vedermi, «la mente può rifugiarsi in immagini familiari, costruendo un labirinto di realtà alternative per proteggersi dal dolore.»

La sua spiegazione era come un coltello smussato che scava senza pietà. Mi trovavo seduto sulla sedia di fronte alla sua scrivania, avvolto dalla luce grigia e spenta che filtrava dalla finestra. Anche il sole, pensai, sembrava stanco di tutto questo.

«E se quelle immagini non fossero semplici illusioni?» domandai, la voce ridotta a un sussurro, come se la domanda stessa potesse attirare qualcosa di oscuro e invisibile.

La dottoressa sorrise allora, un sorriso vuoto e professionale, tanto misurato quanto fragile. «Lavoreremo insieme per distinguere la realtà dalla fantasia.»

Sorrisi a mia volta, ma il mio era un sorriso carico di disperazione, un gesto beffardo che mascherava il vuoto che mi divorava. «E se non volessi distinguere?»

Per un istante, il suo volto si incrinò, il sorriso sparì come una maschera troppo a lungo indossata. «La tua guarigione dipende da questo,» disse infine, ma le sue parole suonavano come un’eco vuota, priva di reale convinzione.

Guarigione? No, non era quello che cercavo. L’idea di accettare una realtà in cui Artemisia non fosse mai esistita, in cui l’altare e le incisioni non fossero altro che frutti avvelenati della mia immaginazione, mi pareva una condanna più crudele di qualsiasi visione infernale.

Così iniziai a cercarla.

I corridoi dell’ospedale, un tempo semplici e monotoni, si trasformarono in un dedalo di ombre e silenzi. Ogni svolta sembrava condurmi più lontano dalla sanità mentale, ogni angolo nascondeva una minaccia indefinita. Le porte socchiuse rivelavano scorci di altri mondi, e talvolta udivo il suo nome—Artemisia—nei bisbigli delle infermiere o nei rintocchi cadenzati dei miei stessi passi.

Fu una notte, in una stanza comune, che la vidi di nuovo. Era seduta su una delle sedie accanto alla finestra, la sua figura avvolta in una luce lunare spettrale che la rendeva più reale di qualsiasi altra cosa in quel luogo.

«Artemisia,» chiamai, la mia voce tremante e rotta, come se pronunciare quel nome fosse già un rituale proibito.

Lei si voltò lentamente. I suoi occhi, scuri e insondabili, mi trafissero con la forza di mille incubi. Non c’era rabbia in quel volto, né amore, ma solo un vuoto cosmico, un abisso che sembrava tirarmi verso di lei con una gravità irresistibile.

«Riccardo,» mormorò, la sua voce lieve come un soffio, eppure piena di un’autorità primordiale. «Sai cosa devi fare.»

«Non so più cosa è reale,» risposi, e le lacrime che scivolavano sul mio viso erano tanto fredde quanto il tocco della morte.

Lei non rispose. Mi osservò con un sorriso enigmatico, un gesto che conteneva tutto: pietà, saggezza e una conoscenza che sfidava la comprensione umana.

Quella notte, la realtà si spezzò come un cristallo infranto. Artemisia tornò mentre giacevo nel letto della mia stanza. Prima udii il suo respiro, un sussurro che sembrava emergere direttamente dalle ombre. Poi, lentamente, la sua figura si delineò ai piedi del mio letto, avvolta in un mantello di tenebre che sembrava scivolare e pulsare come un’entità vivente.

«Devi venire con me,» disse, la sua voce come un canto funebre.

«Dove?» chiesi, le parole un tremito privo di volontà.

«All’altare,» rispose, e quelle due parole risuonarono nella stanza come un eco di antichi rituali.

Mi alzai, incapace di oppormi, e la seguii. Ma i corridoi non erano più quelli dell’ospedale. Le pareti bianche e asettiche erano svanite, sostituite da pietre grezze e sudice che sembravano vibrare di una vita propria. Il pavimento era umido sotto i miei piedi nudi, e l’aria aveva un odore di terra antica, mescolata a qualcosa di indefinibilmente dolciastro e putrido.

Quando raggiungemmo la radura, l’altare era lì, come un monolite dimenticato da un’epoca primordiale. La luce della luna illuminava le incisioni sulla sua superficie, rune che pulsavano di un bagliore spettrale, come vene attraverso cui scorreva una linfa ultraterrena.

Artemisia si voltò verso di me, i suoi occhi ardenti di un’intensità che mi immobilizzò. «Questa è la tua verità, Riccardo. L’unica verità che ti resta.»

Mi inginocchiai di fronte all’altare, le mani che sfioravano la pietra fredda e ruvida, sentendo il peso di millenni gravare sulle mie spalle. Il mondo intorno a me si dissolveva; le voci dell’ospedale, gli echi della razionalità, tutto svaniva come un sogno al risveglio.

«Sono pronto,» sussurrai, benché non sapessi a cosa stessi offrendo me stesso.

Artemisia si avvicinò allora, le sue mani eteree che si posarono sulle mie, un tocco che mi riempì di gelo e riverenza. «Allora ricominciamo,» disse, e il suo sorriso fu l’ultima cosa che vidi prima che tutto si spegnesse.

Mi svegliai nel letto dell’ospedale, il corpo sudato e sfinito, ma la mente in un silenzio opprimente. La stanza era vuota, eppure un piccolo oggetto sul tavolino attirò il mio sguardo.

Era un amuleto, intrecciato con legno antico e corde consunte. Lo stesso amuleto che la vecchia nel bosco mi aveva donato, o forse un altro. Era reale?

Lo afferrai con mani tremanti, e capii con una chiarezza terribile, che il cerchio non si sarebbe mai chiuso.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2025 racconti-brevi.com

L’orribile Guardiano della notte bianca

La neve cadeva leggera quella notte, posandosi silenziosa su ogni cosa, coprendo con il suo manto bianco le strade, le case, le colline ed i vigneti, e perfino i rami spogli degli alberi che circondavano il piccolo villaggio.

Le luci di Natale brillavano in ogni finestra, sfumate dalla bruma invernale e dalla neve che si accumulava sui vetri. In ogni casa si percepiva l’attesa, quella gioia febbrile e quasi palpabile che solo il Natale sa portare con sé.

Eppure, c’era qualcos’altro, un’ombra sottile che serpeggiava tra le strade deserte e le case addormentate, come un’inquietudine che, per un istante, faceva dimenticare a tutti la magia della festa.

Mia nonna mi aveva raccontato della leggenda del Guardiano della Notte Bianca, un essere che appariva sulle colline piacentine ogni anno proprio a Natale. Non era Babbo Natale, e nessun bambino sarebbe mai stato felice di incontrarlo.

La leggenda diceva che il Guardiano si aggirava tra le case quando tutto era silenzio, osservando le finestre illuminate, spiando i volti addormentati dietro i vetri appannati. Era una figura alta e magra, dai tratti gelidi, con occhi che riflettevano solo il bianco della neve e un sorriso che si allargava freddo e tagliente sul viso come una ferita.

I bambini più piccoli venivano ammoniti a non fare rumore la notte di Natale, a non scendere dal letto e, soprattutto, a non guardare fuori dalla finestra se udivano il suono di passi sulla neve.

All’inizio pensavo fosse solo una storia, una di quelle favole spaventose per tenere buoni i bambini. Ma poi, qualcosa iniziò a cambiare nel villaggio. Si cominciò a parlare di figure di neve che apparivano nei cortili, sagome indistinte che, al mattino, sembravano aver assunto sembianze quasi umane, con occhi vuoti e bocche contorte in smorfie inquietanti.

Oggetti piccoli e insignificanti sparivano dalle case: giocattoli, pupazzi, a volte persino piccoli oggetti che erano stati lasciati davanti alla finestra. Le persone trovavano impronte che non sapevano spiegarsi, tracce che partivano da un punto e si dissolvevano senza lasciare alcun indizio su dove fossero finite.

Poi, proprio la notte di Natale, accadde qualcosa che scosse l’intero villaggio. Il piccolo Marco, il figlio di una giovane coppia della nostra strada, scomparve senza lasciare traccia. I suoi genitori erano disperati, l’intero villaggio si mobilitò per cercarlo.

Entrai nella sua cameretta, chiamato dai genitori in cerca di risposte, e vidi una scena che ancora mi gela il sangue. Sul letto c’era un pacchetto regalo, strappato e vuoto, come se qualcosa lo avesse aperto dall’interno. Sul vetro della finestra, che dava sul cortile innevato, c’era un’impronta – una mano sottile e allungata, impressa nella condensa, lasciando solo l’ombra di un gelo innaturale.

Quella sera, incontrai il vecchio Jacopo, un anziano che viveva alla periferia del villaggio. Ricordo il suo sguardo, severo e pieno di un’angoscia antica. “Non lasciate porte o finestre aperte, neanche per un istante,” ci avvertì. “Ho visto il Guardiano della Notte Bianca, tanto tempo fa, e non è nulla che un uomo dovrebbe vedere. La sua mano è fredda come il ghiaccio e il suo sguardo… il suo sguardo ti congela l’anima. Non fate rumore, non chiamatelo. Restate chiusi in casa e sperate che non noti la vostra presenza.”

In quel momento capii che non si trattava più solo di una leggenda.

Ogni notte, al calare delle tenebre, il villaggio si faceva sempre più silenzioso, come se tutti gli abitanti trattenessero il respiro. Non era il silenzio placido della neve che cadeva, ma un silenzio carico di attesa e timore. Poi, allo scoccare della mezzanotte, un suono inaspettato squarciava quell’atmosfera sospesa: le campane della chiesa, che non dovevano suonare. Quel rintocco profondo si propagava nell’aria fredda come un richiamo arcano, un presagio che faceva rabbrividire chiunque fosse ancora sveglio.

Il vecchio Jacopo mi aveva detto che quel suono annunciava l’arrivo del Guardiano, e da allora ogni notte, quando sentivo quel cupo rintocco, non potevo fare a meno di tremare. Più di una volta mi sono svegliato nel cuore della notte, scosso da un senso di angoscia. Guardavo fuori dalla finestra, cercando di scorgere un movimento, un’ombra, qualsiasi cosa… e in lontananza, tra le case, mi sembrava di intravedere una figura, un’ombra sottile che avanzava nella neve.

Poi l’ultimo giorno dell’anno qualcosa di raccapricciante fu trovato nel bosco, appena fuori dal villaggio. Alcuni abitanti avevano visto delle figure strane, sagome congelate nella neve che sembravano formare una sorta di macabra composizione. Mi avvicinai e vidi ciò che loro avevano descritto: corpi di piccoli animali, congelati, disposti a formare disegni stilizzati che ricordavano figure umane. Le loro sagome tracciavano nella neve una danza inquietante, con volti che sembravano fissarci con espressioni di terrore. Uno dei disegni, il più grande, aveva un volto che mi parve stranamente familiare… il volto del piccolo Marco, il bambino scomparso.

Fu in quei giorni che qualcuno trovò il diario di un bambino scomparso molti anni prima. Le pagine erano ingiallite e fragili, ma le parole raccontavano una storia terribile. Il bambino scriveva di aver incontrato una figura durante la notte di Natale, una presenza che gli parlava dolcemente, come un amico immaginario. Lo chiamava “Il Guardiano”, e nelle prime pagine il bambino raccontava con entusiasmo di come quella figura lo osservasse dalla finestra e gli facesse cenni amichevoli. Ma, man mano che le pagine scorrevano, il tono cambiava. Il Guardiano appariva sempre più spesso, e il bambino iniziava a sentire freddo, anche nel sonno, un gelo che sembrava invadergli il cuore. Le ultime pagine del diario erano piene di scarabocchi e parole spezzate, interrotte da frasi come “È qui… non riesco a respirare” e “Non è un amico… vuole me”.

Alla vigilia dell’epifania, io e alcuni amici decidemmo che era giunto il momento di affrontare quella creatura, qualsiasi cosa fosse. Non potevamo lasciare che un’altra famiglia perdesse qualcuno. Ci armammo di coraggio, portando con noi solo delle torce e i nostri amuleti, quelli che ci avevano detto che avrebbero tenuto lontano il Guardiano. Ci posizionammo fuori dalle case, sul limite del bosco, e aspettammo in silenzio, con il fiato sospeso. Le campane iniziarono a suonare ancora, e in quel momento apparve lui.

Non era come lo immaginavo, eppure era anche peggio. La figura sembrava fatta di neve e ombre, alta, con occhi vuoti e gelidi che brillavano di una luce inquietante. Il suo volto sembrava muoversi, assumendo forme diverse come se stesse cercando qualcosa che riconoscessimo, qualcosa che ci facesse abbassare la guardia. Sentivo un freddo intenso, il gelo che sembrava provenire direttamente da lui. Ci guardava, come se sapesse esattamente chi fossimo, come se riconoscesse ogni nostra paura.

Quella notte riuscii a malapena a scappare. Lo vidi avanzare, lento, con una mano tesa verso di me, e solo l’urlo di uno dei miei amici mi distolse da quello sguardo gelido. Riuscimmo a rifugiarci nelle nostre case, chiudendo porte e finestre, ascoltando in preda al terrore i suoi passi fuori, che si allontanavano.

Il mattino seguente, il villaggio sembrava tornato alla normalità. La neve copriva ogni cosa, e le case erano di nuovo tranquille. Ma quando uscii, trovai un piccolo giocattolo nel cortile, semi-sepolto nella neve, il giocattolo preferito di Marco. Solo allora capii che il Guardiano non sarebbe mai andato via.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com

Il Fantasma di Rivergaro

Le colline piacentine sembravano sempre avvolte da un segreto, un respiro antico che sussurrava tra i filari di vite e i ruderi dimenticati. In autunno, soprattutto, una nebbia pesante calava su quei luoghi, come se il paesaggio stesso volesse nascondere qualcosa. Tra i contadini del luogo, quella stagione era anche la più temuta, perché portava con sé le storie su Elisabetta Terza di Rivergaro, una donna dal passato oscuro e avvolto in leggende di sangue e magia.

Elisabetta era stata una nobildonna fiera e impietosa, discendente di una famiglia ricca e influente. Era cresciuta circondata dal lusso, ma ciò che desiderava più di ogni altra cosa era il potere – un potere che, si diceva, avesse trovato nel vino delle sue vigne e nel sangue versato dai servi più fedeli. A ogni vendemmia, Elisabetta pretendeva tributi dai contadini: animali, oggetti preziosi e, quando le voci correvano più spaventose, anche sacrifici umani. Gli anziani narravano che la sua bellezza nascondesse un cuore corrotto, e che le sue terre prosperassero solo grazie a un patto oscuro che aveva stretto con forze che andavano oltre il mondo dei vivi.

Un giorno, quando i contadini provarono a ribellarsi alla sua crudeltà, Elisabetta rispose con una maledizione. Minacciò che chiunque attraversasse i suoi confini senza il dovuto tributo avrebbe subito una sorte terribile. Fu così che, una notte, le autorità del tempo la catturarono e la condannarono per stregoneria, trascinandola fuori dal suo castello e gettandola in un pozzo. Ma Elisabetta non si ribellò: aveva già oltrepassato il confine tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti, e il suo ultimo respiro risuonò come un’eco nelle colline, promettendo vendetta e tenendo legata la sua anima a quei luoghi.

Da allora, nelle notti d’autunno, quando la nebbia si addensa, gli abitanti delle colline non escono di casa. Le famiglie locali lasciano piccoli tributi ai margini dei vigneti: monete d’argento, bicchieri di vino, perfino pezzi di pane avvolti in panni rossi. Alcuni dicono che questi doni siano l’unico modo per tenere lontana l’ombra di Elisabetta, che vaga tra i filari alla ricerca di chi ha osato sfidare il suo riposo.

Quella notte, due ragazzi di città, Lara e Filippo, si avventurarono tra quei vigneti, ridendo delle storie che avevano sentito. Lara era stata titubante, ma Filippo, il più scettico dei due, la aveva convinta a seguirlo. Erano cresciuti insieme, un’amicizia che col tempo aveva acquisito sfumature più profonde. Filippo scherzava sempre, cercando di far ridere Lara, ma quella notte, mentre camminavano tra i filari, si rese conto che la sua amica sembrava più inquieta del solito.

“E dai, sono solo storie! Sono state inventate per tenere lontani i curiosi come noi,” disse lui, con una risata forzata. Ma, in fondo, anche lui non riusciva a scrollarsi di dosso una strana sensazione. Lara, invece, sembrava ascoltare ogni suono attorno a loro, come se temesse di disturbare qualcosa di sacro. Teneva stretto un piccolo amuleto di giada verde, un dono della nonna, che le aveva detto di portarlo sempre con sé come protezione.

Il sentiero si fece più stretto mentre si avvicinavano al castello. L’aria era umida, e l’odore di foglie bagnate e di terra impregnata di rugiada li avvolgeva. Il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal vento lontano che fischiava tra le colline. La luna piena illuminava appena i ruderi del castello, che sembravano occhi vuoti, osservatori silenziosi e immutabili.

Quando giunsero al cancello, i due ragazzi si fermarono. Il castello era in rovina, le mura annerite dal tempo e coperte di rampicanti spogli. Filippo si avvicinò con passo deciso, aprendo il cancello con un cigolio che ruppe il silenzio. Fece cenno a Lara di seguirlo, e lei lo seguì, ma con un misto di apprensione e curiosità.

Si avvicinarono al cortile, dove una pergola antica si ergeva ancora, coperta da viti contorte e secche. In quell’oscurità, le radici sembravano affondare direttamente nella terra, nutrendosi di qualcosa di ben diverso dalla semplice acqua. Lara si fermò, posando il suo amuleto a terra come offerta, ricordando le storie che la nonna le aveva raccontato. Filippo, sorridendo per farsi coraggio, estrasse una vecchia moneta che portava in tasca, trovata in una vecchia cassa nella soffitta del nonno, e la lasciò accanto all’amuleto di Lara.

Per un istante tutto rimase immobile. Poi, il vento soffiò tra le rovine, e Lara si sentì stringere le budella. Una risata, sottile e crudele, sembrò risuonare nell’aria. I due ragazzi si guardarono, pallidi, sentendo di aver appena oltrepassato un confine che non avrebbero mai dovuto attraversare.

Lara e Filippo rimasero immobili nel cortile del castello, respirando a fatica nell’aria gelida che sembrava farsi più densa a ogni passo. Attorno a loro, il castello emergeva come un gigante scheletrico contro la luna, con mura annerite e finestre vuote come orbite prive di vita. Ogni angolo sembrava reclamare silenzio, un silenzio che soffocava anche i pensieri. Lara si voltò verso Filippo, il cuore accelerato, e sussurrò: “Forse dovremmo andare…”

Ma Filippo, affascinato dal mistero che si nascondeva tra quelle mura, si avvicinò all’entrata principale, richiamando Lara con uno sguardo. Avanzarono tra pietre sparse e tralci di vite contorti che sembravano mani scheletriche. Alcuni di quei rami sembravano animati, piegandosi come se cercassero di afferrarli. Il cortile era un deserto di rovine e foglie marce, ma l’odore della terra, umida e densa, era permeato da una strana dolcezza, come di uva fermentata da tempo.

Superata l’entrata, i ragazzi si ritrovarono in un lungo corridoio in penombra, con muri che si sgretolavano e antichi arazzi ridotti a brandelli. Ogni passo faceva scricchiolare il pavimento di pietra, e Lara percepiva un’inquietante sensazione di occhi puntati su di loro. Proseguirono fino a raggiungere una stanza più ampia, quella che doveva essere stata una sala di ricevimento. Al centro, un antico lampadario pendeva dal soffitto, i cristalli rotti riflettevano la luce lunare in bagliori che parevano occhi vacui.

Poi, accadde qualcosa. Un movimento rapido, quasi impercettibile, al limite del loro campo visivo. Filippo si voltò di scatto, ma non c’era nulla. Solo un lieve sussurro tra le pareti. “Hai visto anche tu?” mormorò, cercando gli occhi di Lara. Lei annuì lentamente, incapace di trovare le parole. In quell’istante, un sussurro serpeggiò nell’aria: una lagnanza distante, come se qualcuno stesse parlando tra sé e sé, lamentele dolenti che si spegnevano nel silenzio.

Scossi, si spostarono verso una porta aperta alla fine della sala. Era socchiusa, come se li invitasse a entrare. Dietro quella porta si trovava una scalinata in pietra che scendeva ripida nel buio. Lara esitò, ma Filippo, con un’ultima occhiata rassicurante, si fece avanti, la mano stretta attorno a una piccola torcia che illuminava appena i gradini davanti a loro.

La cantina del castello era un intrico di corridoi e archi bassi, una volta usata probabilmente per conservare botti di vino. Adesso, era un labirinto silenzioso, con vecchie botti spaccate e residui di antiche travi annerite. Lara avvertiva una presenza pesante nell’aria; le sembrava quasi che il suo respiro rallentasse. Mentre si addentravano nella penombra, la torcia cominciò a vacillare, e nell’ombra intravidero delle figure: uomini e donne, volti trasfigurati dal terrore. Apparivano e svanivano in un battito di ciglia, ma ogni volto, ogni figura, portava i segni di una sofferenza antica.

“Li vedi anche tu?” sussurrò Lara, senza distogliere lo sguardo da quelle apparizioni spettrali. Filippo annuì, senza fiato. Una figura in particolare li fece gelare: una donna in abiti antichi, dagli occhi spenti e il volto consumato dall’odio. Era Elisabetta. Sembrava che stesse ripetendo un antico rituale, le mani alzate verso l’alto e un sorriso contorto sul volto. I suoi occhi si spostarono lentamente su di loro, e il suo sguardo li perforò come lame di ghiaccio.

All’improvviso, Lara si sentì trascinata altrove, come risucchiata in un ricordo non suo. Era come se stesse vivendo la vita di qualcun altro: si trovava davanti a Elisabetta, nel suo castello, circondata da servitori timorosi. In un lampo vide la nobildonna gettare polveri scure sul pavimento, mentre sussurrava parole in una lingua arcana. Intuì che Elisabetta stava invocando forze oscure, patti di sangue per mantenere il suo potere. Lara riuscì a sentire l’orrore dei servi che la osservavano, troppo terrorizzati per ribellarsi, troppo intimoriti per fuggire.

Un secondo dopo, era di nuovo nel presente, con Filippo che la scuoteva leggermente. “Lara, che ti succede?” chiese, la voce carica di paura. Ma Lara non riusciva a rispondere: la visione le aveva lasciato un senso di nausea e angoscia. Sentiva di essere stata toccata dall’oscurità stessa.

Le ombre nella cantina cominciarono a muoversi di nuovo. Una figura, un uomo pallido, avanzò verso di loro, con gli occhi vuoti e un sussurro che sembrava un lamento. “Non ci lascia andare… Nessuno… sfugge al suo potere…” Le sue parole sembravano uscire dal nulla, un sussurro privo di vita, eppure così dolorosamente reale.

Improvvisamente, un urlo straziante squarciò il silenzio. Lara e Filippo si voltarono di scatto, vedendo l’ombra di Elisabetta ingigantirsi contro il muro. Ora non era più una figura vaga: la sua forma era solida, i suoi occhi bruciavano di un odio intenso. Avanzava verso di loro, e ogni passo sembrava portare con sé il suono di vetri infranti e ossa spezzate.

“Tributi…” sibilò. “Non bastano mai…”

I ragazzi si voltarono e corsero, inciampando tra le botti e cercando disperatamente una via d’uscita. Ma il castello sembrava vivo, il percorso si perdeva in corridoi senza uscita, mentre il suono dei passi di Elisabetta si faceva sempre più vicino, quasi li soffocasse. Lara inciampò, e in quel momento la vide: Elisabetta, inginocchiata accanto a lei, con il volto distorto da un sorriso crudele. Lara strinse l’amuleto che ancora portava al collo, sussurrando una preghiera. Era l’ultima speranza.

Senza sapere come, riuscirono a trovare la scala e salirono, ma mentre raggiungevano la superficie, Lara si sentiva come se l’oscurità la seguisse. Uscirono dal castello e si lanciarono verso il sentiero, ma Elisabetta non li lasciava. Si voltò un’ultima volta, vedendo la sagoma di Elisabetta sfumare nella nebbia, con quel sorriso agghiacciante che le rimase impresso.

Tornarono al villaggio in silenzio, senza mai parlare di ciò che avevano visto. Ma la maledizione non finì con la fuga. Da quella notte, Lara iniziò a vedere ombre anche nella sua stanza, figure che si muovevano alle sue spalle. Filippo, invece, sentiva sussurri nell’oscurità, e ogni notte si svegliava col cuore in gola, come se una presenza gli stesse rubando l’anima a poco a poco.

Capirono troppo tardi che nessuno sfugge a Elisabetta.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com

La diciottenne seduce il Professore

Cosimo Santini, il professore, non era poi così santo. Certo, la città pensava di sì. Lo chiamavano “il chierico senza tonaca” per come andava in giro, sempre curvo sotto il peso della sua cartella di pelle marrone, che aveva visto più pioggia e polvere che giorni di gloria. Era un uomo di mezza età con la schiena piegata da libri troppo pesanti e il collo rigido per i troppi anni passati a guardare il cielo come se stesse cercando Dio o una scusa per mollare tutto. Ma non era un santo. No, non del tutto. Aveva un passato. E i santi non hanno passati, o almeno, non si fanno mai beccare a pensarci.

Il professor Santini viveva da solo in un appartamento che puzzava di muffa, in cima a un edificio che era già vecchio quando Garibaldi era ancora vivo. La porta cigolava come un cane ferito, e dentro c’era solo l’essenziale: una sedia, un tavolo, una branda più dura delle sue idee sul peccato e un Crocifisso appeso sopra una parete spelacchiata. Aveva una routine che seguiva con precisione quasi militare. Si svegliava alle sei, beveva un caffè nero come l’inchiostro e amaro come la sua visione della vita, e poi usciva per andare a scuola. Lì, spiegava i versi di Orazio e Virgilio a ragazzi che non gliene fregava un accidente. Tornava a casa la sera, recitava le preghiere come un automa, e si addormentava con il libro dei salmi aperto sul petto.

Ma c’era qualcosa di storto in lui, qualcosa che lo teneva sveglio nel cuore della notte. Quando il mondo dormiva e la sua città di pietra taceva, lui si trovava a fissare il soffitto, sudato e in ansia, come se un demone invisibile lo stesse tormentando. Magari era il ricordo di sua moglie morta troppo presto, o il fatto che gli anni migliori li aveva sprecati a insegnare grammatica latina a ragazzi che preferivano tirarsi palle di carta in testa. O magari era semplicemente che si sentiva vivo solo quando soffriva.

Poi arrivò Violetta.

Violetta era come un’esplosione in un vicolo buio. Una di quelle ragazze che nascono sapendo di essere belle e passano la vita a usarlo come un’arma. I suoi capelli scendevano come onde scure e i suoi occhi sembravano due lame affilate pronte a squarciare chiunque si mettesse sulla sua strada. Si muoveva con una sicurezza che non era affatto naturale per i suoi diciotto anni, come se ogni passo fosse una dichiarazione di guerra al mondo intero.

Era la figlia di un mercante di stoffe che aveva più soldi che buon senso. Uno di quei tipi che pregano la domenica mattina e tradiscono la moglie il lunedì sera. Quando Violetta non passava il tempo a litigare con suo padre o a provocare i ragazzi del quartiere, si annoiava. E per una ragazza come lei, l’ozio era pericoloso. La noia la spingeva a cercare guai, e li trovava sempre.

Il padre, stanco dei suoi capricci, aveva deciso che era tempo di darle qualcosa da fare. E quale miglior modo di distrarla se non con delle lezioni private? Così aveva chiesto al parroco chi fosse il miglior insegnante in città. La risposta era stata immediata: Cosimo Santini

Quando Violetta arrivò alla porta del professore per la prima volta, lui era già preparato a riceverla. Indossava il suo abito migliore – che comunque sembrava uscito da un cassonetto – e aveva lucidato le lenti dei suoi occhiali rotondi finché non sembravano due specchi. Ma quando aprì la porta e la vide, qualcosa in lui si spezzò. Lei era tutto quello che aveva cercato di evitare per tutta la vita: il peccato incarnato.

Indossava un vestito leggero che sembrava fatto apposta per metterlo a disagio. Quando si sedette alla sua scrivania, accavallando le gambe con una grazia che sapeva di veleno, Santini capì che queste lezioni non sarebbero state come tutte le altre.

“Allora, professore,” disse lei con un sorriso che sembrava un coltello. “Da dove cominciamo?”

Lui si schiarì la gola, cercando di ignorare il fatto che il cuore gli batteva troppo forte. “Inizieremo con il latino. È la base di ogni cultura.”

“Ah, il latino,” disse lei, lasciandosi andare sulla sedia. “Una lingua morta per una mente viva. Interessante.”

Cosimo si strinse nelle spalle e cominciò a spiegare, ma ogni parola usciva più faticosamente della precedente. Violetta lo fissava come se volesse divorarlo, e non in senso figurato. Ogni tanto si sporgeva troppo vicino, fingendo di voler vedere meglio il libro. Oppure lasciava cadere la penna sul pavimento e si chinava a raccoglierla, troppo lentamente, lasciando che il silenzio riempisse la stanza come una tensione elettrica.

Quando la lezione finì, Santini si sentiva svuotato, come se avesse combattuto una battaglia e perso.

“Allora, professore,” disse lei mentre si infilava il cappotto, “ci vediamo domani?”

Lui annuì, troppo stanco per rispondere. Quando Violetta uscì, Cosimo chiuse la porta e si lasciò cadere sulla sedia. Prese il Crocifisso che teneva sulla scrivania e lo strinse forte, come se fosse un’ancora. “Dio mio,” mormorò. “Perché mi hai mandato questa prova?”

Ma Dio non rispose. O forse lo fece, e Cosimo Santini non era abbastanza santo per sentirlo.

Le notti successive furono peggiori delle prime. Ogni lezione era una danza, un duello tra lui e Violetta. Lei sorrideva e scherzava, trovando sempre nuovi modi per metterlo a disagio. Lui cercava di mantenere la sua compostezza, ma ogni giorno sentiva la sua resistenza indebolirsi. Non era solo la bellezza di Violetta a tormentarlo, ma la sua mente. Era brillante, sarcastica, crudele. Era come una versione più giovane di tutte le cose che aveva cercato di evitare per tutta la vita.

E così, giorno dopo giorno, Cosimo Santini si ritrovò a combattere contro qualcosa che non poteva vincere. Violetta era il caos, e lui era solo un uomo. Un uomo che, nel profondo, desiderava ancora sentire il sangue correre caldo nelle vene, anche se non voleva ammetterlo.

Ma non sapeva che Violetta non era lì solo per imparare. Lei aveva un piano, e lui ne faceva parte.

Le lezioni divennero un appuntamento fisso, un rituale quasi sacro. Ma non c’era nulla di sacro in quello che succedeva nella testa di Cosimo ogni volta che Violetta varcava la porta del suo studio. Lei si presentava sempre in ritardo, con quel sorriso che sembrava dire “Non ho bisogno di scusarmi.” E ogni volta aveva addosso qualcosa di peggio: un vestito troppo corto, una camicetta che lasciava intravedere più pelle di quanto fosse necessario, o una gonna che sembrava aver litigato con le sue gambe e perso.

Lui non diceva mai niente. Non era il tipo che affrontava le cose a voce alta. No, Cosimo Santini era uno di quelli che ingoiavano tutto, come un vecchio ubriacone con il suo bicchiere di whisky. Ma ogni volta che lei si sedeva davanti a lui e cominciava a giocherellare con una penna o a sistemarsi i capelli, sentiva la gola chiudersi e il sangue andargli alla testa.

“Allora, professore,” disse lei un pomeriggio, “oggi mi insegnerà qualcosa di interessante o dobbiamo continuare con le solite noiose declinazioni?”

Cosimo si sistemò gli occhiali e fece finta di non aver sentito il tono provocatorio. “Il latino non è mai noioso,” rispose. “È la lingua delle radici, delle origini.”

“Ah, le origini,” disse Violetta, piegando la testa di lato come una bambina curiosa. “Le mie origini non le vedo certo nel latino. Piuttosto nel caos.”

Cosimo Santini si fermò, le dita rigide sulla pagina del libro. Non c’era una risposta a quel genere di commento. Violetta non cercava risposte. Cercava reazioni. E lui gliele stava dando, anche senza volerlo.

“Legga questa frase,” disse infine, spingendo il libro verso di lei.

Violetta prese il libro e si sporse in avanti, tanto che Cosimo non poté fare a meno di notare il modo in cui la camicetta si tendeva sul suo petto. Era come un colpo basso, e lei lo sapeva. Gli occhi gli caddero sulla pagina per salvarsi, ma le parole latine non offrivano rifugio.

“‘Amor vincit omnia,’” lesse lei lentamente, calcando sulle parole. “L’amore vince tutto. Davvero, professore? Anche lei ci crede?”

“È una citazione,” rispose lui, cercando di mantenere un tono neutro. “Virgilio.”

“Ma è vero?” insistette lei, appoggiando il mento sulla mano e fissandolo con quegli occhi che sembravano sapere troppo. “L’amore vince davvero tutto?”

“Non siamo qui per discutere di filosofia,” disse lui, spegnendo la conversazione con la stessa facilità con cui avrebbe spento una candela.

Ma Violetta non si arrendeva mai. Era come una gatta che gioca con il topo. Quando si accorgeva che Cosimo Santini stava riuscendo a sfuggirle, trovava sempre un nuovo modo per prenderlo alla sprovvista.

Un giorno, si presentò con un abito così stretto che sembrava disegnato direttamente sulla sua pelle. Si mise a leggere un testo, ma continuava a sbagliare le parole.

“Professore, non riesco a concentrarmi,” disse, portando una mano alla fronte in un gesto teatrale.

“Perché non riesce?” chiese lui, sospirando.

“Fa troppo caldo qui dentro,” rispose lei, sventolandosi con il quaderno. “Non trova anche lei?”

“No,” rispose lui rapidamente, troppo rapidamente.

Lei rise, una risata morbida, quasi musicale. Poi, senza preavviso, si alzò e si tolse il cardigan, rimanendo in una camicetta che sembrava fatta di carta velina. “Ecco, molto meglio,” disse, tornando a sedersi.

Cosimo si voltò verso la finestra, cercando di distrarsi con il panorama, ma fuori c’era solo la piazza deserta e un gatto randagio che dormiva sotto una panchina. Quando tornò a guardarla, Violetta stava giocherellando con la sua penna, facendola ruotare tra le dita.

“Professore,” disse con tono innocente, “posso farle una domanda personale?”

“Preferirei di no,” rispose lui, ma lei continuò comunque.

“Lei è mai stato innamorato?”

Cosimo Santini sentì il cuore fermarsi per un istante. Non sapeva cosa rispondere. “Non è rilevante,” disse infine.

“Ma è vero,” insistette lei, appoggiandosi alla scrivania con le mani. “È mai successo che… l’amore vincesse tutto?”

“Questa è una lezione di latino,” rispose lui, cercando di chiudere la discussione.

“Ah, certo,” disse Violetta, alzandosi e camminando verso lo scaffale dei libri. “Ma il latino è pieno d’amore, no? Catullo, Ovidio… non sono forse loro a parlare di passione?”

“Torni a sedersi,” disse Cosimo, ma la sua voce tremava.

Violetta prese un libro dallo scaffale e lo aprì a caso. “Catullo,” lesse. “‘Vivamus, mea Lesbia, atque amemus.’ Viviamo, mia Lesbia, e amiamo.” Si voltò verso di lui con un sorriso. “Era un bel tipo, Catullo, vero? Deciso. Sapeva quello che voleva.”

“Le consiglio di tornare alla sua sedia,” disse Cosimo, ma non c’era più autorità nella sua voce.

Lei tornò a sedersi, ma solo per provocarlo ancora. Durante tutta la lezione continuò a lanciargli occhiate, a sporgersi troppo, a giocherellare con i capelli. E quando finalmente se ne andò, Santini si ritrovò a fissare la porta chiusa come un uomo che ha appena visto passare un uragano e si chiede come sia ancora in piedi.

Quella notte, non riuscì a dormire. I suoi pensieri erano un groviglio di rimpianti, desideri e sensi di colpa. Perché si lasciava coinvolgere? Perché non riusciva a respingerla come avrebbe dovuto? Si alzò dal letto e andò a inginocchiarsi davanti al Crocifisso, ma le preghiere non avevano più il potere di calmarlo.

Violetta continuava a spingerlo sempre più in là, e lui sapeva che, prima o poi, qualcosa si sarebbe rotto. Eppure, non riusciva a fermarla. E forse, nel profondo, non voleva farlo. Forse voleva vedere fino a dove sarebbe arrivata. E fino a dove sarebbe caduto lui.

C’era qualcosa di strano nell’aria quella sera. Non era né freddo né caldo, solo un limbo di umidità che ti si appiccicava addosso come un peccato. Santini aveva passato l’intera giornata cercando di concentrarsi sul lavoro, sulle sue lezioni, sul Crocifisso appeso sopra la scrivania. Ma niente aveva funzionato. Violetta continuava a occupare ogni angolo della sua mente, come un’ombra che non se ne va.

Quando bussò alla porta, lui era già in piedi, con i pugni stretti e la mascella serrata. Non sapeva perché fosse così agitato, ma sapeva che qualcosa sarebbe successo. E quando aprì la porta e vide Violetta, capì che non c’era via di fuga.

Lei indossava un abito nero aderente, semplice ma devastante. Non c’era trucco sul suo viso, solo la sicurezza di chi sa di non averne bisogno. Entrò senza aspettare un invito, portandosi dietro il profumo dolciastro di qualche fiore che Cosimo non riuscì a identificare.

“Buonasera, professore,” disse con quel tono basso e morbido che ormai conosceva troppo bene.

Cosimo si schiarì la gola e chiuse la porta dietro di lei. “È… puntuale.”

“Stasera sono stata brava,” rispose, lanciandogli uno sguardo che sembrava una sfida.

Lei si sedette alla scrivania come sempre, ma qualcosa nei suoi movimenti era diverso. Non c’era la solita teatralità, quella leggerezza che usava per stuzzicarlo. No, questa volta era calma, metodica.

“Che studiamo oggi?” chiese, appoggiando il mento sulla mano.

Santini aprì un libro senza nemmeno guardare la copertina. “Abbiamo ancora molto da fare sulle traduzioni.”

“Traduzioni,” ripeté lei, come se la parola fosse un concetto alieno. “Sempre così serio, professore. Non le capita mai di… improvvisare?”

Lui si fermò. Le mani gli tremavano appena, ma abbastanza perché lei se ne accorgesse. Violetta si alzò, lentamente, e si avvicinò alla finestra. Si mise a guardare fuori, ma Cosimo sapeva che non le importava nulla del panorama.

“Lei vive sempre così, professore? Rigoroso, metodico. Mai una deviazione, mai un passo falso?”

“Non vedo il motivo di fare passi falsi,” rispose lui, con un tono che voleva essere fermo ma suonava solo stanco.

Lei si voltò, e il suo sorriso era un’arma affilata. “Forse non ha mai trovato il motivo giusto.”

Il silenzio che seguì era pesante, come se la stanza stessa trattenesse il respiro. Violetta tornò a sedersi, ma questa volta lo fece accanto a lui, non di fronte. Santini si irrigidì, sentendo la sua vicinanza.

“Professore,” disse, piegandosi leggermente verso di lui. “Lei mi piace.”

Quelle parole colpirono Cosimo come un pugno allo stomaco. ” Violetta,” iniziò, ma lei lo interruppe.

“Non mi fraintenda,” disse, e c’era una strana sincerità nella sua voce. “Lei mi piace davvero. È diverso. Gli altri… beh, sono prevedibili. Ma lei… lei è un enigma.”

“Non so di cosa stia parlando,” disse lui, ma la sua voce tremava.

Lei rise, una risata bassa e calda che sembrava fatta per metterlo a disagio. Poi allungò una mano e la posò sul suo braccio. “Non deve essere così rigido, professore. Non con me.”

Santini si alzò di scatto, come se il contatto bruciasse. “Credo che questa lezione sia finita.”

Violetta non si mosse. Lo guardava dal basso, con quegli occhi che sembravano scavargli dentro. Poi, lentamente, si alzò anche lei e si avvicinò.

“Perché ha così tanta paura di me?” chiese.

“Non ho paura,” rispose lui, ma la voce era un sussurro.

“Allora dimostriamolo,” disse lei.

E prima che potesse dire qualcosa, lei lo baciò.

Fu un bacio breve, ma travolgente. Cosimo rimase immobile, incapace di reagire, mentre ogni fibra del suo essere gridava di fermarsi e andare via. Ma non lo fece. Quando Violetta si allontanò, lui rimase lì, con il respiro corto e gli occhi chiusi.

“Non è così terribile, vero?” disse lei, sorridendo.

“Non deve farlo mai più,” disse lui, ma c’era poca convinzione nella sua voce.

“Perché no?” chiese, avvicinandosi di nuovo.

“Perché… non è giusto.”

“Giusto,” ripeté lei, come se fosse una parola senza significato. “Chi decide cos’è giusto, professore?”

Questa volta, fu lui a baciarla.

Era una resa, totale e inevitabile. Tutte le barriere, le regole, le preghiere, si sgretolarono in un istante. Per la prima volta in anni, Cosimo sentì il fuoco che aveva cercato di soffocare per tutta la vita.

E quando tutto finì, quando il mondo tornò a essere silenzioso e immobile, lui si sedette sul bordo della sedia, con il viso tra le mani. Violetta lo guardava, sorridendo ancora, come se avesse appena vinto una partita.

“Non deve sentirsi in colpa,” disse, allungando una mano per accarezzargli la schiena.

“Se ne vada,” disse lui, senza guardarla.

Lei rise di nuovo, quella risata che ormai gli faceva male più di un colpo di frusta. “Come vuole, professore.”

E se ne andò, lasciandolo solo con il suo silenzio e il peso di ciò che aveva fatto. Ma anche con qualcosa di peggiore: il desiderio di rifarlo.

Santini si alzò la mattina dopo con una testa pesante e un nodo nello stomaco. La luce del giorno filtrava dalla finestra, impietosa, svelando il disordine del suo piccolo studio: la sedia rovesciata, i libri sparsi a terra, il Crocifisso storto sulla parete. Tutto sembrava fuori posto, come lui. Non c’era preghiera che potesse sistemare quel casino. Non c’era redenzione in vista.

Passò la mattinata a girare nervosamente per la stanza, accendendo e spegnendo la lampada sulla scrivania, sfogliando un libro che non leggeva davvero, sorseggiando un caffè ormai freddo. Ogni tanto, guardava verso la porta, aspettandosi che Violetta entrasse come sempre, con quel sorriso che gli scavava dentro e quei modi che lo facevano sentire un uomo e una bestia allo stesso tempo.

Ma lei non arrivò.

A mezzogiorno, incapace di sopportare il silenzio, uscì di casa. Il sole picchiava forte sulla città, rendendo l’aria densa e appiccicosa. Cosimo camminava con il passo incerto di un uomo che non sapeva dove stesse andando, le mani infilate nelle tasche e lo sguardo perso.

Finì davanti a un caffè all’aperto, uno di quei posti dove la gente si sedeva per guardare il mondo passare, parlando di niente con voci troppo alte. Si sedette a un tavolo d’angolo, cercando di tenersi lontano dagli sguardi curiosi. Ordinò un bicchiere d’acqua e si mise a fissare il vuoto.

Ed è lì che la vide.

Violetta era seduta dall’altra parte del caffè, con una ragazza che non riconosceva. Ridevano, con i capelli che brillavano al sole e le mani che gesticolavano animate. Violetta aveva l’aria di chi aveva appena vinto la lotteria, con quel sorriso luminoso e lo sguardo pieno di soddisfazione.

Cosimo avrebbe dovuto andarsene. Avrebbe dovuto alzarsi, pagare l’acqua che non aveva nemmeno toccato, e tornare a casa a pregare per un perdono che sapeva di non meritare. Ma non lo fece.

Si alzò, invece, e si avvicinò al loro tavolo, senza sapere esattamente perché. Le gambe lo portarono come se avessero una volontà propria. Si fermò a pochi passi da loro, abbastanza vicino da sentire cosa stavano dicendo, ma abbastanza lontano da non essere notato.

“Non posso credere che tu l’abbia fatto davvero,” disse l’altra ragazza, ridendo.

“Ti avevo detto che avrei vinto,” rispose Violetta, con quel tono malizioso che Santini conosceva fin troppo bene.

“Ma… il professore? Seriamente? Voglio dire, è così… noioso.”

Violetta rise, una risata breve e tagliente. “Proprio per questo. Era una sfida. Non potevo lasciarmela sfuggire.”

L’altra ragazza si inclinò verso di lei, abbassando la voce. “E allora? Com’è stato? Com’è andata?”

Cosimo sentì il mondo crollargli in testa. Restò immobile, come un uomo che guarda un treno venirgli addosso e non riesce a muoversi.

“Facile,” disse Violetta, con un gesto disinvolto della mano. “Gli uomini come lui sono i più prevedibili. Una piccola dose di attenzione, qualche parola dolce, e sono tuoi.”

L’altra ragazza scoppiò a ridere. “Quindi, hai vinto la scommessa. Che cosa avevamo detto? Una cena al ristorante più costoso della città?”

“Esatto,” rispose Violetta, alzando il bicchiere come per brindare. “E tu paghi.”

Santini avvampò di vergogna. Era come se ogni parola fosse una lama che lo colpiva al cuore, tagliando via strati di dignità e lasciandolo a nudo, ferito e vulnerabile. Non era solo la rabbia o l’umiliazione a consumarlo. Era la realizzazione che era stato usato, manipolato, ridotto a un giocattolo per il divertimento di una ragazza troppo giovane e troppo crudele.

Fece un passo indietro, quasi inciampando, e si voltò. Non poteva affrontarla. Non lì, non in quel momento. Uscì dal caffè, camminando veloce per le strade, con il sole che lo bruciava e i pensieri che lo divoravano.

Quando arrivò a casa, si lasciò cadere sulla sedia e fissò il Crocifisso sulla parete. “Dio mio,” mormorò, la voce rotta, “come ho potuto essere così cieco?”

Ma non c’era risposta.

Non quella sera, almeno.

Cosimo passò la notte a pensare. E più pensava, più la rabbia cresceva. Non solo verso Violetta, ma verso se stesso, per aver permesso che accadesse. Per aver abbassato la guardia, per essersi lasciato ingannare da un sorriso e da un paio di occhi che promettevano mondi che non avrebbero mai consegnato.

E allora prese una decisione. Non poteva lasciarla vincere. Non così facilmente.

La vendetta, pensò, è una lezione che anche i più giovani possono imparare. E lui era ancora un insegnante, dopotutto.

Cosimo Santini si svegliò il giorno dopo con una chiarezza che non sentiva da anni. Non c’erano più tremori nelle mani, né ombre nella mente. Era strano sentirsi così lucido dopo giorni di tormento, ma quella mattina il dolore si era trasformato in una cosa diversa, una lama affilata che non vedeva l’ora di usare.

La scommessa, il tradimento, quella risata sprezzante: tutto si era sedimentato dentro di lui come veleno. E come ogni veleno, aveva bisogno di trovare una via d’uscita. Violetta aveva vinto la sua piccola partita, ma non sapeva ancora che il gioco era appena cominciato.

Cosimo passò l’intera mattina a prepararsi. Ogni gesto era calcolato, ogni pensiero preciso come un colpo di scalpello su un blocco di marmo. Il suo appartamento era pieno di vecchi libri e manoscritti, una collezione accumulata negli anni con la pazienza di un monaco. E fu proprio lì, in quella pila di testi dimenticati, che trovò ciò che cercava: un antico manoscritto dalla copertina consunta, il cui contenuto era vago e facilmente interpretabile.

Lo prese, lo sfogliò distrattamente per assicurarsi che fosse abbastanza convincente, poi si sedette alla scrivania con carta e penna. Quella che scrisse non era una lezione di latino, ma una storia. Una storia crudele, beffarda, e con un messaggio che avrebbe colpito Violetta dove faceva più male.

Quando ebbe finito, rise tra sé e sé. Era una risata bassa, ruvida, come il rumore di un motore che si accende dopo anni di ruggine.

La sera, Santini si presentò alla casa di Violetta con il manoscritto avvolto in un panno di velluto nero. La servitù lo fece entrare senza battere ciglio, abituata alla sua presenza. La famiglia era riunita nel grande salone per una cena formale, con ospiti importanti e un’aria di finta eleganza che lo disgustava.

Quando entrò, Violetta era lì, radiosa come sempre, ma questa volta con un sorriso che sembrava più amaro. Forse pensava che lui fosse venuto per affrontarla, per supplicarla, per implorare un qualche tipo di perdono. Ma Cosimo non era quel tipo di uomo. Non più.

“Professore!” esclamò Violetta, alzandosi dalla sedia. “Che sorpresa! Non mi aspettavo di vederla qui stasera.”

“Un dono,” disse lui, stringendo il pacco di velluto tra le mani. “Per lei e la sua famiglia. Un manoscritto antico. Una piccola curiosità letteraria che penso troverete… interessante.”

Gli occhi di Violetta si strinsero, sospettosi, ma il fascino della sua voce e il mistero del pacco bastarono a dissipare ogni dubbio. “Un manoscritto? Ma che gentilezza, professore. La prego, si unisca a noi.”

Santini scosse la testa. “No, devo andare. Ho altre… faccende.”

E con un sorriso freddo, se ne andò, lasciando il pacco sul tavolo come un regalo avvelenato.

Più tardi quella sera, quando la cena era finita e gli ospiti erano nel pieno della conversazione, Violetta prese il manoscritto e lo mostrò con orgoglio. “Il mio professore di latino mi ha portato questo,” disse con tono altezzoso. “Un testo antico. Forse una vecchia storia. Leggiamolo insieme, potrebbe essere divertente.”

Gli altri risero e applaudirono, già eccitati all’idea di un po’ di intrattenimento. Violetta aprì il manoscritto e cominciò a leggere.

La storia parlava di un giovane principe ingenuo e di una donna astuta e manipolatrice. Lei lo aveva sedotto per gioco, promettendogli amore e dedizione, solo per rivelare poi che tutto era stato uno scherzo crudele. Ma la storia non finiva lì. Il principe, umiliato e ridicolizzato, si vendicava in modo tanto spietato quanto efficace, svelando i segreti più oscuri e imbarazzanti della donna davanti a tutta la corte.

Man mano che Violetta leggeva, le parole cominciarono a rallentare. La risata della stanza si spense, sostituita da un silenzio teso. Era chiaro a tutti che quella non era solo una storia. Era un attacco diretto, un’allegoria trasparente. Ogni frase, ogni descrizione, alludevano a lei, alla giovane Violetta.

“Chi ha scritto questa porcheria?” esclamò il padre della ragazza, rompendo il silenzio.

Violetta lasciò cadere il manoscritto sul tavolo, il viso rosso di rabbia e vergogna. Sapeva benissimo chi l’aveva scritto. E sapeva anche che non poteva fare nulla.

Cosimo, intanto, era tornato al suo appartamento. Si sedette alla sua scrivania, con un bicchiere di vino rosso, un Gutturnio Superiore dei Colli Piacentini, davanti a sé, e guardò il Crocifisso appeso alla parete.

“Non era proprio cristiano, lo so,” mormorò, alzando il bicchiere in un brindisi silenzioso. “Ma certe lezioni non si imparano in chiesa.”

E per la prima volta in mesi, il professor Santini si sentì in pace. Non un santo, certo. Ma nemmeno un uomo da prendere in giro.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com

Calippo Tour sulle colline piacentine

Moira e Lara non erano come le altre ragazze della loro età. Dove la maggior parte avrebbe scelto spiagge assolate o locali notturni per i loro video provocatori, loro avevano deciso di spingersi in un territorio più oscuro e, a loro avviso, decisamente più divertente: i cimiteri delle colline piacentine.

Avevano poco più di vent’anni e mezzo milione di followers sui loro canali socials.

“Non è geniale?” chiese Moira, un sorriso storto mentre guidava lungo una strada deserta. “Un Calippo tra i morti! Nessuno ci ha mai pensato” disse Lara, seduta accanto, facendo scorrere le dita tra i lunghi capelli castani. “Certo, se qualcuno ci scopre potremmo finire nei guai… Ma chi se ne frega? Diventerà virale.”

Il cimitero di Vigolzone fu il primo della lista. Secondo la leggenda, era infestato dai fantasmi di una pestilenza del diciassettesimo secolo. Il borgo era stato colpito duramente dalla peste nera, e molti degli abitanti erano stati sepolti in fosse comuni senza il conforto di una degna sepoltura. Tra loro c’era il conte Baldassarre Maldi, un uomo crudele che, si diceva, avesse approfittato della peste per arricchirsi sfruttando la sofferenza degli altri. La sua tomba si trovava al centro del cimitero, una cripta imponente, coperta di muschio e quasi dimenticata dal tempo.

Mentre le ragazze camminavano tra le tombe, il crepuscolo stava calando, gettando ombre lunghe e sinistre. Moira si fermò davanti alla cripta del conte, ridendo: “Chissà cosa ne penserebbe questo tizio di due ragazze che assaggiano un Calippo sopra la sua tomba.” Lara sogghignò, ma c’era qualcosa di strano nel suo sguardo, un misto di invidia e risentimento.

Pierugo Disperati era il fortunato abbonato al canale Onlyfans delle due ragazze, selezionato per questo primo Calippo tour tra le tombe del piacentino. Era un vecchio di quaranta quattro anni, con la faccia da ebete, disoccupato ed amante dei giochi di ruolo.

“Sono pronto, sono già molto pronto” disse con voce tremante.

Le due giovani ignorarono il fedele seguace, che a colpi di abbonamenti dai prezzi esponenziali, aveva dovuto vendere un rene per assicurarsi la partecipazione a questa escursione memorabile.

“Non è sempre stato così, vero? Tu, che ti prendi sempre tutto il merito,” disse Lara, il tono acido nascosto dietro una maschera di umorismo. Moira la ignorò, troppo concentrata sul filmare l’introduzione al loro nuovo video.

Ma mentre si avvicinavano alla cripta, un oggetto attirò l’attenzione di Lara. Era un antico amuleto d’argento, incastrato tra le pietre rovinate della tomba del conte. Era strano, sembrava luccicare alla luce fioca del crepuscolo. Senza pensarci troppo, Lara lo afferrò, tenendolo stretto nella mano. “Guarda cosa ho trovato!” disse a Moira, che però non diede molta importanza.

Poco dopo, qualcosa di inquietante iniziò a prendere forma. Un silenzio improvviso avvolse il cimitero, come se un soffio di morte si fosse risvegliato. I grilli smisero di cantare. Le tombe sembravano agitarsi sotto i loro piedi, e un mormorio basso, quasi un sussurro, riempì l’aria. Lara si voltò di scatto. “Hai sentito anche tu?” chiese, il tono nervoso. Moira ridacchiò, scrollando le spalle. “Saranno solo i morti che si lamentano per il nostro Calippo tour!” Pierugo, intanto, iniziò a farsela nei pantaloni.

Tuttavia, quel che accadde subito dopo spezzò ogni traccia di ironia. Dalle tombe cominciarono a emergere figure scheletriche e decrepite, ciascuna con un’aria singolare. Uno di loro, un vecchio becchino, si lamentava ad alta voce delle condizioni in cui erano lasciate le tombe, mentre un altro, vestito con stracci che un tempo erano abiti nobili, scrutava le ragazze con disgusto. “Un Calippo? Davvero? Ai miei tempi ci si dissetava con vino d’annata, non con queste… assurdità moderne.”

Lara era paralizzata dalla paura, mentre Moira, ancora incredula, cercava di mantenere il controllo. “Ok, ok… questo è fuori di testa. Ma… è solo un’allucinazione, giusto?” Lara scosse la testa. L’amuleto che aveva raccolto si stava scaldando tra le sue dita, come se fosse vivo.

E proprio quando pensavano di fuggire, furono interrotte da una figura strana. Un uomo anziano, curvo, che uscì dall’ombra di una tomba. Aveva un sorriso beffardo e un accento pesante. “Non è saggio scherzare con i morti, sapete? E voi due… avete qualcosa che non vi appartiene.” Indicava l’amuleto stretto nella mano di Lara.

Le ragazze rimasero immobili, mentre l’uomo le fissava con occhi vuoti.

Pierugo era svenuto per la paura con i pantaloni abbassati ed il Calippo sciolto nelle mutande sporche.

Ma poi il vecchio, senza una parola di più, si voltò e scomparve tra le lapidi.

Moira e Lara, paralizzate dall’incontro con il misterioso uomo nel cimitero di Vigolzone, decisero di abbandonare il luogo al più presto. Ma mentre si allontanavano, qualcosa di strano cominciò a farsi strada nelle loro menti. Le lapidi intorno a loro sembravano muoversi, quasi respirare. Lara si fermò di colpo, fissando una tomba che era stata in un punto ma adesso pareva essersi spostata più vicino. “Moira, lo hai visto anche tu?”, chiese con voce tremante. Moira, cercando di mantenere la calma, scosse la testa. “No, sono solo allucinazioni. Non farci caso, stiamo perdendo il controllo.”

Ma non era così semplice. I volti sulle lapidi cominciavano a distorcersi, assumendo espressioni di dolore e sofferenza. Le mani dei defunti sembravano allungarsi verso di loro, e sussurri indistinti si alzavano nel vento. Moira provò a scuotersi di dosso la sensazione di terrore, ma la presenza dell’amuleto, ora pesante nella tasca di Lara, sembrava rendere ogni passo più difficile.

Camminarono senza parlare, finché non si trovarono davanti a una vecchia chiesa abbandonata, nascosta tra le colline. Era decrepita, le finestre erano infrante e il tetto stava crollando, ma qualcosa in quel luogo le attirava. “Entriamo”, sussurrò Moira, quasi come se fosse guidata da una forza invisibile. Lara esitò, ma alla fine la seguì.

All’interno della chiesa, il buio era totale. Solo la luce della luna che filtrava attraverso le crepe illuminava vagamente l’altare e le panche ricoperte di polvere. “Questo posto mi fa paura”, disse Lara, cercando di nascondere il panico. E proprio in quel momento, le voci cominciarono a farsi più forti. Dal nulla, apparve una giuria di anime. Erano figure sbiadite, con abiti logori di epoche passate, ma i loro occhi brillavano di una luce sinistra.

“Avete profanato il nostro riposo”, disse una figura in toni solenni. Era un vecchio giudice medievale, il cui volto portava le cicatrici di una vita dura. Al suo fianco c’era un becchino, una donna con un abito vittoriano macchiato di sangue e altri individui dalle epoche più disparate. Lara e Moira erano terrorizzate. “Non era nostra intenzione…”, cercò di dire Lara, ma la giuria non era incline al perdono.

“Ora pagherete per la vostra arroganza”, continuò il giudice. “Avete disturbato le nostre tombe, deriso la morte e giocato con ciò che non potete capire.” Moira cercò di reagire, ma una forza invisibile la costrinse in ginocchio. Lara stringeva ancora l’amuleto, convinta che potesse proteggerle in qualche modo.

Mentre la giuria le circondava, la chiesa sembrò cambiare. Le pareti si allungarono, le ombre diventarono più scure, e le voci intorno a loro si trasformarono in lamenti. Lara iniziò a ricordare il giorno in cui aveva perso la sua bisnonna, seppellita in uno di quei cimiteri che ora deridevano. Il dolore del ricordo la travolse. Da bambina, aveva sempre avuto paura della morte, e ora quella paura tornava prepotente.

Moira, invece, aveva un segreto diverso. La sua non era una semplice sfida al macabro per divertimento: il cimitero era per lei un luogo di potere, un posto dove sentirsi invincibile. Da piccola, aveva scoperto che sua madre era stata seppellita in circostanze misteriose, e visitare i cimiteri le dava una sensazione di rivalsa contro quel destino ingiusto. Ma ora, quel potere sembrava dissolversi.

Le visioni si fecero sempre più intense. Lapidi che si spezzavano, mani scheletriche che emergevano dal suolo e volti distorti che apparivano a ogni angolo. La giuria di anime parlava con un linguaggio antico, e i loro occhi inquisitori penetravano le ragazze, giudicandole senza pietà.

Pensarono di fuggire, di poter correre lontano, ma non c’era via di scampo. Ogni porta si era chiusa, ogni via di uscita era scomparse nel nulla. E proprio quando pensarono di essere intrappolate per sempre, un’apparente salvezza arrivò.

Un vecchio prete, forse l’ultimo custode della chiesa, comparve davanti a loro. “Lasciatele andare”, disse con voce gentile. “Non hanno capito quello che stavano facendo.” La giuria si fermò per un istante, valutando le parole del prete. Moira e Lara sentirono un po’ di sollievo, illudendosi di potersi salvare.

Ma il prete si voltò verso di loro con un sorriso sinistro. “O forse sì.” Con quelle parole, la chiesa cominciò ad accartocciarsi su se stessa. Le pareti si deformarono, crollando al suolo, e in pochi attimi le ragazze si trovarono di nuovo all’esterno, ma non più in vita. Ora erano parte del cimitero che avevano profanato, legate per sempre a quelle colline maledette. Erano condannate a ripetere in eterno il Calippo Tour. Come ombre dannate, costrette ad assaporare i ghiaccioli putrefatti, dei morti nelle tombe intorno a loro.

 Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com

Miglior racconto horror breve: una storia vera di pura follia

“Questo è il miglior breve racconto dell’orrore che mai sia stato scritto” disse Eustachio accendendosi una sigaretta con mani tremanti. Il fumo si alzò lento, come i suoi pensieri. “Il miglior racconto dell’orrore,” ripeté, quasi per convincere se stesso. Il vento freddo della sera gli sferzava il viso, ma lui non se ne curava. Era abituato al freddo, alla solitudine, alla disperazione.

Seduto su una panchina arrugginita, Eustachio osservava le ombre dei palazzi di periferia allungarsi sopra la strada. Ogni ombra aveva una storia, e lui le conosceva tutte. Aveva visto cose che avrebbero fatto impazzire un uomo ordinario, ma lui non era normale. Era un sopravvissuto, un relitto umano che si aggrappava alla vita e alla bottiglia. Soprattutto alla bottiglia, purché fosse di buona qualità. Beveva solo vino piacentino di marca. E la sua marca preferita la conoscevano in pochi. Una piccola cantina di un produttore indipendente, disperato come lo era Eustachio.

“Stelle cadenti,” mormorò, guardando il cielo. “Un racconto di orrore e follia.” Rise amaramente, un suono che si perse nel vento. “Come la mia vita.”

Un rumore di passi lo fece voltare. Una figura si avvicinava, barcollando. Una donna, con i capelli arruffati e gli occhi gonfi. Aveva un’aria familiare, forse un’avventura del passato. “Chi sei?” chiese Eustachio, ma la donna non rispose. Si sedette vicino, e lui sentì l’odore pungente dell’alcol.

Eustachio le offrì da bere un sorso dalla sua bottiglia di vino. La donna accettò, gli rispose con un sorriso, ma non disse una sola parola.

Il sole stava calando, tingendo il cielo di un arancione sporco. Sotto un ponte, poco più avanti, un gruppo di barboni si radunava attorno a un fuoco improvvisato. Le loro facce erano scavate, segnate da anni di lotta e costernazione. Uno di loro, con una barba incolta e lo sguardo vuoto, stringeva una bottiglia di gutturnio come fosse l’ultima cosa preziosa al mondo.

Le risate erano amare, spezzate da colpi di tosse e lamenti. Ogni uomo aveva una storia, ma nessuno voleva ascoltarla. Erano fantasmi vivi, invisibili alla città che li circondava. Il fumo del fuoco si mescolava con l’odore pungente della miseria, creando un’aria pesante, quasi tangibile.

Un vecchio con un cappotto logoro provò a darsi coraggio. “Domani sarà meglio,” mormorò, ma nessuno gli credette. Le parole si persero nel vento, come promesse non mantenute. La notte calava, e con essa, un’altra battaglia per la sopravvivenza.

Eustachio e la donna dai capelli arruffati si baciarono. Poi salirono in casa da lui. Un vecchio appartamento di due stanze, sporche e rovinate.

Eustachio stappò la seconda bottiglia di vino bianco: un ortrugo frizzante dei colli piacentini.

Poi guardò fuori dalla finestra. L’appartamento stava al terzo piano di un caseggiato decrepito. Vedeva le persone camminare lungo la via, vestiti con cappotti grigi e giacche blu e vestiti neri. Indossavano pantaloni eleganti o gonne raffinate e avevano gli occhi senza occhi e la bocca senza bocca. Camminavano velocemente, come se la frenesia del quotidiano avesse potuto risvegliare la morte e tramutarla in vita. Erano un carnevale di decadenza e atrocità.

La donna continuò a bere senza parlare e alla fine si addormentò sul letto di Eustachio. Era vecchia, doveva avere almeno quarant’anni.

Lui si sedette alla macchina da scrivere. Era tremendo. Per tutta la vita aveva desiderato scrivere storie horror ma non gli veniva fuori niente. Non aveva nemmeno pensieri profondi, idee originali o storie interessanti. Era rovinato, non riusciva a mettere giù una sola parola e si sentiva incastrato in un angolo. Aveva sognato di scrivere il miglior racconto breve dell’orrore. Ma era solo un sogno. Ogni duecento anni nasceva un grande scrittore, ma quello non era lui. Si sentiva fottuto e stappò la terza bottiglia di ortrugo.

Bevve ancora qualche bicchiere. Ormai si era fatta notte fonda. Decise di andare a dormire. La donna era scomparsa. Fuori iniziò a piovere. Si sentivano i tuoni e lampi improvvisi squarciavano l’oscurità della notte.

Eustachio si avvicinò al letto, il rumore della pioggia che batteva contro i vetri della finestra era quasi ipnotico. I tuoni rimbombavano in lontananza, mentre i lampi illuminavano a intermittenza la stanza, creando ombre inquietanti sui muri. Si tolse le scarpe e si preparò a coricarsi, cercando di scacciare dalla mente l’immagine della donna dai capelli arruffati.

Proprio mentre si stava infilando sotto le coperte, un lampo particolarmente forte illuminò la stanza, rivelando una figura nell’angolo. Eustachio si bloccò, aveva bevuto ma era ancora lucido. La donna era tornata, e questa volta aveva un cacciavite in mano. I suoi occhi erano grandi, spalancati e pazzi, e un ghigno malvagio le imbruttiva il volto.

Con un grido soffocato, Eustachio cercò di alzarsi, ma la donna fu più veloce. Si lanciò su di lui, brandendo il cacciavite con una forza sorprendente. Eustachio riuscì a parare il primo colpo con il braccio, sentendo il metallo freddo che gli graffiava la pelle. Il dolore lo fece urlare, ma non poteva permettersi di cedere alla paura.

La donna continuava a colpire, ogni movimento accompagnato da un sibilo di rabbia. Eustachio lottava disperatamente, cercando di afferrare il cacciavite per disarmarla. La stanza era un caos di ombre e suoni, il rumore della pioggia e dei tuoni mescolato ai loro respiri affannosi e ai colpi sordi del cacciavite contro il legno del letto.

Finalmente, Eustachio riuscì a spingere via la donna, facendola cadere a terra. Il cacciavite scivolò dalle sue mani, rotolando sotto il letto. La donna si rialzò, gli occhi pieni di odio, ma Eustachio non le diede il tempo di riprendersi. Con un balzo, si lanciò verso la porta, sperando di trovare una via di fuga prima che lei potesse attaccare di nuovo.

La tensione era palpabile, ogni secondo sembrava un’eternità mentre Eustachio correva verso la salvezza, con la consapevolezza che la donna non avrebbe rinunciato facilmente alla sua preda.

La pioggia continuava a battere contro i vetri, e i tuoni sembravano avvicinarsi sempre di più. Raggiunse la maniglia e la girò con forza, ma la porta non si aprì. Era bloccata.

Dietro di lui, la donna si rialzò lentamente, una smorfia crudele le alterava la faccia. Eustachio sentì il panico crescere dentro di sé, ma cercò di mantenere la calma. Doveva trovare un modo per uscire da quella stanza.

Con un rapido sguardo, notò una finestra aperta dall’altra parte della camera. Era una possibilità rischiosa, ma l’unica che aveva. Si lanciò verso la finestra, sentendo i passi della donna che si avvicinavano sempre di più. Riuscì a raggiungerla e a sporgersi fuori, ma la pioggia e il vento rendevano difficile la fuga.

Proprio mentre stava per saltare, sentì una mano afferrargli la caviglia. La donna lo tirò indietro, facendolo cadere a terra. Eustachio si girò, cercando di liberarsi, ma la donna era sopra di lui, il cacciavite di nuovo in mano.

Eustachio afferrò una lampada dal comodino e la colpì con tutta la forza che aveva. La donna urlò di dolore e cadde di lato, lasciando cadere il cacciavite. Lui non perse tempo: si rialzò e si lanciò dalla finestra, saltando fuori nella notte tempestosa.

Si sfracellò sull’asfalto bagnato, fracassandosi tutto. Il giorno dopo fu trovato morto dai netturbini, che per poco non lo scambiarono per un sacco della spazzatura.

Della donna non si seppe più nulla, ed il caso fu archiviato come suicidio. Il sipario calò in questo modo sulla triste vita fallita di un aspirante scrittore di racconti dell’orrore.

Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com

Stelle cadenti: un racconto di orrore e follia

La notte era calda e soffocante, il tipo di notte che ti fa desiderare di essere altrove, lontano da tutto e da tutti. Le colline piacentine erano un mosaico di luci lontane e ombre inquietanti, un palcoscenico perfetto per alcolizzati, senza tetto e altri disperati in fuga dalle proprie miserie. Tra questi c’era Giovanni, un uomo che aveva visto troppo e vissuto troppo poco. Con una sigaretta tra le labbra, Giovanni si trascinava da un’osteria all’altra, cercando di ingannare i suoi fantasmi bevendo vino gutturnio.

Ma quella notte, qualcosa di diverso aleggiava nell’aria. Le stelle sembravano più vicine, quasi palpabili, e una strana sensazione di inquietudine si insinuò nel cuore di Giovanni. Mentre si fermava per accendere un’altra sigaretta, vide una stella cadente attraversare il cielo. Non era una stella normale, però. Era più grande, più luminosa, e sembrava lasciare una scia di oscurità dietro di sé.

Giovanni non era un tipo che si lasciasse impressionare facilmente, ma quella stella aveva qualcosa di sinistro. Decise di seguirla, spinto da una curiosità morbosa che non riusciva a spiegare. Le strade lo portarono verso i sobborghi di Piacenza, dove le luci si facevano più rare e le ombre più profonde.

Arrivò infine a un vecchio casolare abbandonato, un relitto di un’epoca passata. La porta era socchiusa, e una luce rossastra e intermittente usciva dall’interno. Giovanni esitò per un momento, poi spinse la porta ed entrò. Dentro era buio e silenzioso, ma c’era qualcosa nell’aria, un odore ripugnante di cadaveri in putrefazione.  

Giovanni avanzò verso il centro del casolare, quando sentì un sussurro, un mormorio che sembrava provenire dall’oscurità che lo circondava.

Poi la luce rossa si accese nuovamente. Proveniva da una vecchia lampada sgangherata che penzolava da una trave. Le pareti in legno del capanno si illuminarono. Erano coperte di strani simboli, incisi con una precisione inquietante. Giovanni si fermò davanti a uno specchio rotto, e per un attimo, vide il riflesso di qualcosa che non era lui. Qualcosa di mostruoso, dal volto squamoso e con occhi bestiali.

Giovanni si scosse, cercando di liberarsi da quella visione inquietante. Il mormorio si fece più forte, come se le pareti stesse stessero sussurrando segreti dimenticati. Avanzò con cautela, i suoi passi risuonavano nel silenzio opprimente del casolare. La sua ombra sembrava staccarsi dal corpo e danzare alla luce rossa della lampada sgangherata.

Giunse infine a una stanza più grande, al centro della quale si trovava un manufatto di metallo. Sopra di esso, una specie di schermo pulsava mostrando simboli arcani. Giovanni si avvicinò, attratto da una forza invisibile. Sentiva il vino che aveva bevuto gorgogliare nello stomaco in un misto di paura e curiosità.

Mentre esaminava i simboli misteriosi sullo schermo, le parole sembrarono prendere vita, danzando davanti ai suoi occhi. Erano scritte in una lingua che non aveva mai visto, ma che in qualche modo riusciva a comprendere. Parlava di antiche civiltà aliene, di rituali dimenticati e di poteri oscuri nascosti tra le stelle.

Improvvisamente, un forte vento sferzò la stanza, facendo dondolare la lampada rossa. Il mormorio si trasformò in un coro di voci dissonanti. Giovanni sentì una presenza dietro di sé, qualcosa di antico e malevolo. Si voltò lentamente, il respiro mozzato dalla paura.

Davanti a lui, una figura emerse dall’oscurità. Era alta e magra, con occhi che brillavano di una luce innaturale. La pelle era pallida e tesa, e il volto sembrava un teschio avvizzito. La creatura lo fissò, e Giovanni sentì un’ondata di terrore puro attraversarlo. Le voci si fecero più forti, un crescendo di follia che minacciava di sopraffarlo.

La creatura avanzò, e Giovanni si rese conto che non aveva via di fuga. Era intrappolato in quel casolare, intrappolato in un incubo da cui non poteva svegliarsi. Cercò di darsi coraggio, sperando di trovare un modo per scacciare l’orrore che lo circondava.

Ma la creatura non era ostile. Al contrario, una voce femminile, roca e intrisa di malinconia, risuonò nella mente di Giovanni. “Non temere, umano. Non sono qui per farti del male.”

La creatura avanzò, rivelando tratti più definiti alla luce fioca. Gli occhi brillavano di follia, ma c’era anche qualcosa di profondamente triste in fondo ad essi.

“Chi sei?” chiese Giovanni.

“Sono Alara,” rispose la creatura, “un’aliena esiliata dal mio pianeta. Ho trovato rifugio qui, ma la solitudine e il dolore mi hanno portato a cercare conforto nel vino.”

Giovanni notò una bottiglia di ortrugo, della sua marca preferita, tra le mani scheletriche di Alara. Senza sapere esattamente perché, si sentì spinto a condividere quel momento con lei. Prese un bicchiere e si sedette accanto al manufatto, accettando il vino che Alara gli porgeva.

Mentre bevevano, Alara iniziò a raccontare la sua storia. Parlava di un mondo lontano, di guerre e tradimenti, di un amore perduto e di un esilio forzato. Le sue parole erano intrise di dolore e rimpianto, e Giovanni sentiva ogni emozione come se fosse la propria.

La notte avanzava, e ad ogni sorso, le loro ombre nella stanza sembravano farsi vive, danzando in un macabro balletto. Le voci dissonanti si trasformarono in un coro di lamenti, e Giovanni sentiva la tensione crescere, come se qualcosa di terribile stesse per accadere.

Alara, ormai visibilmente ubriaca, si avvicinò a Giovanni, i suoi occhi pazzi erano febbrili. “C’è un modo per porre fine a tutto questo,” sussurrò, “ma richiede un sacrificio.”

Giovanni si irrigidì. “Che tipo di sacrificio?” chiese, con la voce che era appena un sussurro.

“Un’anima,” rispose Alara, “una vita per placare gli dei che mi hanno abbandonata.”

“Ma di cosa stai parlando?” protestò meccanicamente Giovanni, temendo che la situazione potesse volgere al peggio.

Poi Alara allungò la testa rinsecchita verso di lui e cercò di baciarlo.

Giovanni lasciò fare, per quanto l’aliena puzzasse e fosse di aspetto disgustoso, lui ne era incomprensibilmente attratto.

La notte era calata su Piacenza da un pezzo, avvolgendo la città in un manto di oscurità e silenzio. Le strade deserte erano illuminate solo dalla pallida luce delle stelle, che gettavano ombre inquietanti sui muri malandati del casolare abbandonato.

Alara si mosse con rapidità, con passi svelti e movimenti impercettibili. Il vento sibilava tra le porte aperte del casolare, portando con sé un’eco di antichi sussurri e promesse dimenticate.

Giovanni si ritrovò legato al manufatto alieno senza nemmeno accorgersene. Il suo respiro era ora affannoso e gli occhi si spalancarono per il terrore.

Alara si avvicinò lentamente, il suo volto scheletrico era spaventoso. Nelle sue mani ossute, illuminato dalla debole luce, brillava un pugnale rituale, affilato come un rasoio.

“Il sacrificio deve essere compiuto,” sussurrò Alara.

Giovanni cercò di liberarsi, ma le corde che lo tenevano erano troppo strette. Il suo cuore pareva impazzito, ogni battito un rintocco funebre che risuonava nelle sue orecchie.

Alara sollevò il pugnale, e per un istante, il tempo sembrò fermarsi. L’aria era carica di tensione, come se l’intero universo trattenesse il respiro. Poi, con un movimento fluido e deciso, la lama affondò nel petto di Giovanni. Un urlo straziante squarciò il silenzio della notte, un grido disperato che sembrava provenire dalle profondità dell’inferno.

Il sangue sgorgò copioso, tingendo di rosso il manufatto alieno. Alara osservava impassibile, i suoi occhi erano intrisi di follia. Mentre la vita abbandonava il corpo di Giovanni, un’ombra oscura sembrò sollevarsi dal suo corpo, un’entità eterea che si librava nell’aria prima di dissolversi nel nulla.

Il casolare abbandonato era intriso di un orrore palpabile, un terrore primordiale che sembrava permeare ogni cosa. Alara si voltò e si allontanò, lasciando dietro di sé solo il silenzio e l’eco di un sacrificio compiuto.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com

Il Patto Oscuro: racconto horror di paura e perdizione

Era una di quelle notti in cui il bar sembrava un rifugio per anime perdute. Il fumo delle sigarette si mescolava con l’odore stantio della birra versata, e il jukebox suonava una vecchia canzone blues che nessuno ascoltava davvero. Il barista, un uomo con più cicatrici che sorrisi, asciugava bicchieri con un panno sporco, osservando i clienti con occhi stanchi.

Tra i soliti avventori, quella notte c’era una figura nuova. Un uomo alto, con un cappotto nero e un cappello che gli copriva metà del viso. Si sedette al bancone e ordinò una pinta di vino Malvasia frizzante dei Colli Piacentini, senza ghiaccio. Il barista lo servì senza fare domande, ma non poté fare a meno di notare le mani dell’uomo: erano coperte di lividi e tatuaggi, come se avesse combattuto una guerra personale.

“Brutta giornata?” chiese il barista, cercando di rompere il silenzio.

L’uomo alzò lo sguardo, rivelando occhi che sembravano vuoti, come pozzi senza fondo. “Le giornate sono tutte uguali,” rispose con una voce che sembrava provenire da un altro mondo.

Il barista annuì, riconoscendo quel tipo di disperazione. Aveva visto molti uomini come lui, uomini che cercavano di annegare i loro demoni in un bicchiere. Ma c’era qualcosa di diverso in quell’uomo, qualcosa che lo metteva a disagio.

La notte avanzava e il bar si svuotava. Alla fine, rimasero solo il barista e l’uomo con il cappotto nero. Il barista si avvicinò per chiudere, ma l’uomo lo fermò con uno sguardo.

“Non chiudere ancora,” disse. “Ho una storia da raccontarti.”

Il barista sospirò, ma si sedette. “Va bene, racconta.”

Era una notte senza luna, e il vento ululava tra gli alberi come un lupo affamato. Camminavo lungo una strada deserta, cercando di sfuggire ai miei pensieri. La mia vita era un disastro: avevo perso il lavoro, la casa, e la donna che amavo. Ero solo, disperato, e pronto a fare qualsiasi cosa per cambiare la mia sorte.

Fu allora che lo vidi. Un uomo alto, avvolto in un mantello nero, stava in piedi al centro della strada. I suoi occhi brillavano come carboni ardenti, e un sorriso sinistro gli deformava il volto. Mi avvicinai, attratto da una forza che non riuscivo a comprendere.

“Sembri un uomo in cerca di risposte,” disse con una voce che sembrava provenire dalle profondità della terra.

Annuii, incapace di parlare. Sentivo che quell’uomo sapeva tutto di me, dei miei fallimenti e delle mie paure.

Posso aiutarti,” continuò. “Posso darti tutto ciò che desideri. Ma c’è un prezzo da pagare.”

“Qualsiasi cosa,” risposi senza esitazione. Ero disposto a vendere l’anima pur di uscire da quell’inferno.

L’uomo sorrise ancora più ampiamente. “Molto bene. Allora, firma qui.” Estrasse un pezzo di pergamena e una penna d’oca. Senza pensarci due volte, firmai il mio nome con il sangue che sgorgava da una piccola ferita sul dito.

“Il patto è fatto,” disse l’uomo, e in un istante scomparve, lasciandomi solo nella notte.

Da quel momento, la mia vita cambiò. Trovai un lavoro ben pagato, una casa lussuosa, e una nuova compagna che mi amava. Tutto sembrava perfetto, ma c’era qualcosa che non andava. Ogni notte, avevo incubi terribili. Vedevo ombre che mi inseguivano, sentivo voci che sussurravano il mio nome, e mi svegliavo sudato e terrorizzato.

Una notte, l’incubo divenne realtà. Mi svegliai e trovai l’uomo con il mantello nero ai piedi del mio letto. “È ora di pagare il prezzo,” disse con un ghigno malvagio.

Cercai di scappare, ma le ombre mi avvolsero, immobilizzandomi. Sentii un dolore lancinante al petto, come se un artiglio mi stesse strappando il cuore. Urlai, ma nessuno poteva sentirmi. E mentre l’oscurità mi inghiottiva, capii che avevo commesso un errore fatale.

Ora, sono condannato a vagare per l’eternità, un’anima perduta in cerca di redenzione. E ogni notte, rivivo quel momento, sentendo il dolore e la disperazione che mi hanno portato a fare quel patto maledetto.

Mentre l’uomo parlava, il barista sentì un freddo crescente, come se la temperatura fosse scesa improvvisamente.

Quando l’uomo finì, il barista si rese conto che non aveva mai sentito una storia così terribile. “E ora?” chiese, con la voce tremante.

L’uomo si alzò, lasciando una banconota sul bancone. “Ora, aspetti,” disse, e uscì nel buio della notte.

Il barista rimase lì, paralizzato dalla paura. Sentiva che qualcosa di terribile stava per accadere, ma non sapeva cosa. E mentre il silenzio della notte lo avvolgeva, capì che non avrebbe mai dimenticato quella storia, né l’uomo che l’aveva raccontata.

Poi chiuse il locale, ancora scosso dalla storia che aveva appena ascoltato. Le parole dell’uomo con il cappotto nero gli rimbombavano nella testa mentre camminava verso casa. La strada era deserta, e l’aria era fredda e umida. Ogni passo sembrava risuonare nel silenzio della notte.

Mentre girava l’angolo, vide qualcosa che lo fece fermare di colpo. Sul marciapiede, c’era una donna nuda, svenuta. Il suo corpo pallido e ben fatto brillava sotto la luce fioca del lampione, e il barista sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

Si avvicinò lentamente, il cuore che batteva all’impazzata. “Signora, sta bene?” chiese con voce tremante, ma non ottenne risposta. Si chinò per controllare se respirava, e notò delle strane cicatrici sul suo corpo, come se fosse stata graffiata da qualcosa di feroce.

Improvvisamente, la donna aprì gli occhi. Erano occhi vuoti, senza vita, e il barista si sentì investito da un’ondata di terrore. La donna si sollevò lentamente, come se fosse mossa da fili invisibili. “Aiutami,” sussurrò con voce baritonale.

Il barista indietreggiò, con il panico che lo attanagliava. “Chi sei? Cosa ti è successo?” chiese, ma la donna non rispose. Invece, iniziò a camminare verso di lui, le braccia tese come se volesse afferrarlo.

Il barista si girò e iniziò a correre, il respiro affannoso e il cuore che gli martellava nel petto. Sentiva i passi della donna dietro di lui, sempre più vicini. Girò un altro angolo e si trovò di fronte a un vicolo cieco. Era intrappolato.

Si voltò, pronto a difendersi, ma la donna era scomparsa. Il silenzio della notte era tornato, ma il barista sapeva che qualcosa di terribile era appena iniziato. Sentiva che le ombre lo osservavano, pronte a colpire. E mentre si affrettava verso casa, capì che la storia dell’uomo con il cappotto nero non era solo una semplice leggenda, ma una terribile realtà che stava per inghiottirlo.

Continuò a camminare a passo svelto sino a raggiungere casa. Una volta entrato chiuse la porta dietro di sé e si appoggiò contro di essa, cercando di calmarsi. Ma la paura non lo abbandonava. Le immagini della donna nuda e degli occhi vuoti lo assillavano.

Decise di non accendere le luci, sperando che l’oscurità potesse nasconderlo da qualsiasi cosa lo stesse seguendo. Si diresse verso la cucina, cercando una bottiglia di vino Gutturnio per calmare i nervi. Mentre riempiva un bicchiere, sentì un rumore provenire dal soggiorno. Un fruscio, come di passi leggeri sul pavimento.

Il barista si fermò, il bicchiere a mezz’aria. “C’è qualcuno?” chiese, con la voce tremante. Non ottenne risposta, ma il rumore continuava, avvicinandosi sempre di più. Prese un coltello dal cassetto e si avvicinò lentamente al soggiorno.

Quando entrò, vide una figura nell’ombra. Era la donna, ancora nuda, con gli occhi vuoti che lo fissavano. “Aiutami,” sussurrò di nuovo, ma questa volta la sua voce era più forte, più disperata.

Il barista indietreggiò, il coltello tremante nella sua mano. “Cosa vuoi da me?” gridò, ma la donna non rispose. Lui era terrorizzato. Lei avanzò allungando le mani rugose verso il suo collo.

Il barista cercò allora di scappare, ma inciampò e cadde a terra. La donna si avvicinò sempre di più, e lui sentì un freddo glaciale avvolgerlo. “Per favore, lasciami in pace,” implorò, ma la donna era sempre più vicina.

Improvvisamente, la porta della cucina si spalancò e una figura entrò nella stanza. Era l’uomo con il cappotto nero. “Basta,” disse con voce autoritaria. La donna si fermò, come se fosse stata colpita da una paresi, e poi scomparve nell’ombra.

Il barista rimase a terra, tremante e confuso. “Chi sei tu? Cosa sta succedendo?” chiese all’uomo.

L’uomo si avvicinò e lo aiutò a rialzarsi. “Sono colui che ha fatto il patto,” disse. “E ora, devi aiutarmi a rompere la maledizione.”

Il barista lo guardò, incredulo. “Come posso aiutarti?”

L’uomo sorrise tristemente. “Devi trovare il libro. Il libro che contiene il segreto per rompere il patto. È nascosto in un luogo oscuro, dove le ombre regnano sovrane.”

Il barista annuì, sentendo che non aveva altra scelta. “Dove devo cercare?”

L’uomo indicò una porta nascosta dietro una tenda. “Lì dentro. Ma fai attenzione. Le ombre non ti lasceranno andare facilmente.”

Il barista prese un respiro profondo e si avvicinò alla porta. La aprì lentamente, rivelando una scala che scendeva nell’oscurità.

Iniziò a scendere lentamente le scale, ogni passo un’eco nell’oscurità. La cantina era fredda e umida, e l’aria era densa di un odore di muffa e decomposizione. Le pareti erano coperte di muschio, e il pavimento era scivoloso sotto i suoi piedi. Sentiva il cuore battere come un tamburo, e ogni fibra del suo essere gli diceva di tornare indietro, ma sapeva che non poteva.

Arrivato in fondo alle scale, si trovò davanti a una porta di legno marcio. La aprì con cautela, e un’ondata di aria gelida e puzzolente lo investì. La stanza era immersa nell’oscurità, ma poteva vedere delle ombre muoversi ai margini della sua visione. Sentiva sussurri indistinti, come voci di anime tormentate.

Avanzò lentamente, cercando di non fare rumore. Al centro della stanza, vide un altare di pietra, e sopra di esso, un libro antico e polveroso. Sapeva che quello era il libro che doveva trovare. Si avvicinò, ma appena allungò la mano per prenderlo, le ombre si mossero.

Le ombre lo avvolsero, fredde come il ghiaccio, e sentì un dolore lancinante mentre artigli invisibili gli laceravano la pelle. Urlò, ma il suono fu soffocato dall’oscurità. Le ombre lo trascinarono a terra, e sentì il sangue scorrere dalle ferite aperte. Ogni respiro era una lotta, e il dolore era insopportabile.

Le ombre si fecero più dense, e il barista sentì come se stessero strappando la sua anima dal corpo. Le voci sussurravano parole incomprensibili, e sentiva la sua mente vacillare. Cercò di resistere, ma era inutile. Le ombre erano troppo forti.

Con un ultimo sforzo, cercò di afferrare il libro, ma le sue mani passarono attraverso di esso come se fosse fatto di fumo. Le ombre lo avvolsero completamente, e sentì il freddo penetrare fino alle ossa. Il dolore era insopportabile, e la sua visione si offuscò.

L’ultima cosa che vide fu il volto dell’uomo con il cappotto nero, che lo osservava con un sorriso sinistro. “Il patto è completo,” disse l’uomo, e poi tutto divenne buio.

Il barista fu divorato dalle ombre, il suo corpo e la sua anima persi per sempre nell’oscurità. La cantina rimase silenziosa, e il libro antico tornò al suo posto sull’altare, in attesa della prossima vittima.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2024 racconti-brevi.com