Scritto nel 1818 da una giovane Mary Shelley, Frankenstein è molto più di un romanzo gotico; è una potente allegoria che riflette le tensioni culturali e scientifiche del suo tempo. Il contesto storico in cui l’opera prende vita è cruciale per comprendere appieno le sue molteplici sfumature. Mary Shelley si trovava al crocevia tra il Romanticismo, con la sua enfasi sulle emozioni, la natura e l’individuo, e l’inizio della Rivoluzione Industriale, un’epoca caratterizzata da un progresso scientifico senza precedenti. Queste influenze si intrecciano per dare forma a un’opera che esplora i pericoli della scienza, il desiderio di superare i limiti umani e le profonde conseguenze morali di tali ambizioni.
Uno dei temi cardine del romanzo è il concetto di creazione, che si riflette nell’impresa di Victor Frankenstein di creare la vita. In un’epoca in cui la scienza stava compiendo passi da gigante, Shelley cattura l’entusiasmo e il timore verso il potere umano di manipolare la natura. Frankenstein non è semplicemente un genio scientifico; è un moderno Prometeo che, con la sua creazione, tenta di usurpare il ruolo di Dio. Questa tematica richiama questioni etiche e filosofiche tutt’ora attuali: fino a che punto l’uomo può spingersi nella comprensione e manipolazione della vita? Il tentativo di Frankenstein di dare vita alla sua creatura si trasforma rapidamente in un esperimento fallimentare, che genera solo sofferenza e distruzione, mettendo in discussione il ruolo etico della scienza e la responsabilità dell’uomo nei confronti delle sue scoperte.
La figura del “mostro” nel romanzo è centrale per esplorare la dualità tra mostruosità e umanità. La creatura, benché deforme e ripugnante agli occhi di chiunque la incontri, non nasce malvagia. Al contrario, possiede una sensibilità e un’intelligenza profondi, tanto da aspirare alla comprensione e all’amore umano. Shelley crea un personaggio tragico, condannato all’isolamento non per le sue azioni, ma per la sua apparenza e l’abbandono subito da Victor, il suo creatore. La creatura diviene così specchio dell’umanità stessa: desidera essere parte della società, ma è costantemente respinta e alienata. In questo senso, Shelley ci costringe a riflettere su cosa significhi davvero essere “umani” e su come la società giudichi basandosi sull’apparenza esteriore, piuttosto che sulla sostanza interiore.
Il ruolo della scienza è centrale nella narrazione di Frankenstein, ma Shelley non offre una visione celebrativa del progresso scientifico. Al contrario, mette in guardia contro i pericoli dell’ambizione sfrenata. Victor Frankenstein rappresenta il classico scienziato arrogante, che sfida le leggi naturali senza preoccuparsi delle conseguenze. La sua ossessione per il sapere e per il potere di creare vita lo conduce all’isolamento, al rimorso e alla rovina. Questo tema della scienza oltre i suoi limiti è ancora oggi estremamente rilevante, soprattutto in un’epoca in cui le tecnologie biogenetiche e l’intelligenza artificiale pongono interrogativi etici non dissimili da quelli sollevati nel romanzo.
Infine, l’isolamento è un tema che attraversa tutta la narrazione. Victor Frankenstein si isola dalla sua famiglia e dalla società nel suo desiderio di creare vita, mentre la sua creatura è condannata a un’esistenza solitaria a causa della sua natura mostruosa. Entrambi soffrono le conseguenze dell’abbandono: Victor perde la sua umanità e soccombe alla disperazione, mentre la creatura, incapace di trovare un posto nel mondo, si trasforma in un essere vendicativo. L’isolamento diviene dunque la condanna ultima per entrambi, un destino che li unisce nella loro reciproca sofferenza e rovina.
In questo senso, Frankenstein si presenta non solo come una riflessione sui limiti della scienza e sull’ambizione umana, ma anche come un profondo studio sulla solitudine, sull’abbandono e sull’alienazione. Mary Shelley ci offre un romanzo che non smette mai di interrogare, ponendo questioni universali che attraversano i secoli e restano attuali anche nel mondo contemporaneo.
Nell’opera di Mary Shelley, il progresso tecnologico, tanto esaltato agli albori della Rivoluzione Industriale, viene messo sotto una lente critica che ne esplora le possibili derive. Shelley non si limita a raccontare la storia di un esperimento scientifico andato storto, ma espone una visione profonda e inquietante del potenziale pericolo insito nel progresso. Victor Frankenstein rappresenta l’archetipo dello scienziato che, accecato dall’ambizione e dall’arroganza, perde di vista le implicazioni etiche del proprio operato. Il suo desiderio di superare i limiti imposti dalla natura diventa un monito sull’incapacità dell’uomo di gestire il potere tecnologico in modo etico e responsabile. Questo timore, che Mary Shelley esplora con grande acume, si riflette nella tragedia che travolge non solo Victor, ma anche la sua creatura e le persone a lui più care. Frankenstein si presenta quindi come un avvertimento contro il progresso incontrollato, suggerendo che l’uomo, nel suo tentativo di dominare la natura, rischia di scatenare forze che non può controllare, con conseguenze devastanti.
Uno dei temi più suggestivi del romanzo è il concetto di identità e mostruosità. Shelley sfida il lettore a riflettere su cosa significhi davvero essere “mostruosi”. La creatura, pur deforme e respingente nell’aspetto, non è nata malvagia. Anzi, nei primi momenti della sua esistenza, mostra sensibilità, curiosità e un profondo desiderio di amore e accettazione. È la reazione degli altri – compreso lo stesso Frankenstein – a definire la sua identità come “mostruosa”, non solo per il suo aspetto fisico, ma anche per la paura che incute nella società. Il romanzo, in questo senso, mette in discussione il concetto stesso di mostruosità, ponendo l’accento sull’apparenza esteriore e sulla superficialità dei giudizi umani. La vera “mostruosità”, suggerisce Shelley, risiede nell’incapacità di accettare l’altro, nel rifiuto dell’umanità della creatura a causa del suo aspetto. Questo conflitto tra apparenza e interiorità sottolinea una delle principali tensioni del romanzo: chi è il vero mostro? Frankenstein, con la sua arroganza e irresponsabilità, o la creatura, condannata dalla società alla solitudine e alla disperazione?
L’influenza del romanzo gotico è palpabile in Frankenstein. Gli elementi tipici del gotico, come l’atmosfera tenebrosa, il senso di angoscia e l’inquietante presenza della morte, pervadono l’intera opera. I paesaggi selvaggi e incontrollabili, come le Alpi svizzere o le distese ghiacciate del Polo Nord, riflettono l’interiorità tormentata dei personaggi, fungendo da specchio alle loro emozioni. Shelley usa magistralmente l’ambiente per creare un senso di tensione e isolamento, un tratto distintivo del romanzo gotico. La presenza della morte, che aleggia costantemente sulla vita di Frankenstein, contribuisce a creare un’atmosfera cupa e angosciante. La morte, in Frankenstein, non è solo fisica, ma rappresenta anche la distruzione delle relazioni, della speranza e dell’innocenza.
Victor Frankenstein, il protagonista della storia, è un esempio perfetto di anti-eroe. Sebbene animato da nobili ambizioni all’inizio, il suo desiderio di sfidare i limiti della scienza lo porta a compiere un errore fatale: creare vita senza considerare le conseguenze morali di tale atto. Nonostante sia colto e brillante, Victor è incapace di affrontare le responsabilità derivanti dalla sua scoperta. La sua incapacità di accettare la sua creatura, il rifiuto di riconoscere il proprio ruolo nel disastro che ne consegue, lo trasforma in una figura tragica e tormentata. Frankenstein non è un eroe vittorioso, ma un uomo schiacciato dal peso delle sue stesse azioni, incapace di redimersi. La sua ossessione per il controllo e la sua incapacità di affrontare le conseguenze delle sue scelte fanno di lui un simbolo del pericolo dell’egocentrismo umano.
Un altro aspetto significativo del romanzo è la critica sociale, in particolare il ruolo passivo riservato alle donne. Le figure femminili in Frankenstein, come Elizabeth Lavenza, Justine Moritz e Caroline Beaufort, sono tutte rappresentate come esseri vulnerabili e sacrificali. Esse non hanno una reale voce attiva nella trama, ma vengono utilizzate come strumenti narrativi per la crescita o la rovina dei protagonisti maschili. Elizabeth, promessa sposa di Victor, è una figura idealizzata, più oggetto di affetto che personaggio autonomo. La sua morte, così come quella di Justine, non sono solo tragedie personali, ma simboli di un sistema patriarcale che relegava le donne a ruoli passivi e di supporto. Shelley, figlia di una delle prime filosofe femministe, Mary Wollstonecraft, sembra qui voler evidenziare l’ingiustizia e il sacrificio richiesti alle donne in una società dominata dagli uomini, una critica sottile ma penetrante alle dinamiche di genere del tempo.
In conclusione, Frankenstein è un romanzo che si muove tra una potente critica sociale, una riflessione filosofica sulla mostruosità e una narrazione gotica cupa e inquietante. Mary Shelley ci offre un’opera che sfida i limiti del sapere, esplora l’alienazione e interroga la natura umana, rimanendo attuale e profondamente rilevante anche nel mondo contemporaneo.
Quando Stephen King pubblicò Carrie nel 1974, nessuno avrebbe potuto prevedere l’impatto che avrebbe avuto non solo sul genere horror, ma sulla narrativa popolare in generale. A distanza di decenni, Carrie rimane una delle opere più iconiche dello scrittore, nonostante sia stata il suo primo romanzo e il frutto di un autore ancora in fase di maturazione. Il libro si distingue per la combinazione di realismo crudo, introspezione psicologica e soprannaturale, offrendo una riflessione acuta su temi universali come l’alienazione sociale, il fanatismo religioso, il bullismo e la vendetta.
La storia è incentrata su Carrie White, una ragazza emarginata e profondamente insicura, che vive un’esistenza tormentata sia a casa che a scuola. La madre, Margaret White, è una fanatica religiosa che vede il peccato ovunque e infligge alla figlia una disciplina rigida e crudele. A scuola, Carrie è il bersaglio costante di prese in giro e umiliazioni da parte dei compagni. L’episodio che segna l’inizio della tragedia avviene quando Carrie ha il suo primo ciclo mestruale negli spogliatoi della scuola, completamente ignara di cosa stia succedendo. Presa dal panico, viene derisa dalle compagne, che le lanciano addosso assorbenti, ridicolizzandola. In quel momento, Carrie scopre di avere abilità telecinetiche, poteri fino ad allora latenti che diventeranno il suo strumento per dare sfogo alla rabbia repressa, culminando in un devastante atto di vendetta durante il ballo di fine anno.
Il potere telecinetico di Carrie è più di un semplice elemento soprannaturale: è una metafora potente per le trasformazioni fisiche ed emotive che accompagnano l’adolescenza. La telecinesi emerge nel momento in cui Carrie entra nella pubertà, simboleggiando la scoperta della propria forza e delle proprie emozioni, ma è anche un’arma a doppio taglio. Se da un lato rappresenta la possibilità di Carrie di difendersi, dall’altro amplifica il suo isolamento. Pur dotata di un potere straordinario, Carrie rimane intrappolata in un ciclo di dolore e vendetta, incapace di trovare una via d’uscita, una figura tragica e commovente il cui desiderio di essere accettata e amata viene sistematicamente frustrato.
Il romanzo affronta in modo spietato la tematica del bullismo, esplorando le dinamiche sociali di un gruppo di adolescenti che sfoga le proprie insicurezze sulla vittima designata. Carrie diventa il capro espiatorio perfetto, perseguitata per la sua diversità e vulnerabilità. L’episodio del ballo di fine anno, che dovrebbe rappresentare un rito di passaggio positivo, si trasforma in una trappola mortale per Carrie, culminando nella scena iconica in cui viene ricoperta di sangue di maiale, un’umiliazione pubblica che segna il punto di non ritorno. Da quel momento, il suo potere diventa una forza inarrestabile di distruzione. King esplora magistralmente l’effetto devastante del bullismo, mostrando come le dinamiche di gruppo possano trasformare il diverso in un bersaglio, portando a conseguenze catastrofiche.
Il rapporto tra Carrie e sua madre Margaret è altrettanto centrale nella trama, evidenziando un tema caro a King: il fanatismo religioso come forma di oppressione. Margaret White è una figura ossessionata dal peccato, che vede nel corpo della figlia e nelle sue trasformazioni un segno di corruzione. Carrie è vittima di un controllo psicologico e fisico estremo, confinata in una casa che è una prigione emotiva, dove la religione diventa uno strumento di violenza. In questo contesto, i poteri telecinetici di Carrie possono essere visti anche come una ribellione contro l’oppressione materna. La sua lotta contro il fanatismo della madre è un altro degli elementi che rende il romanzo tanto più tragico: Carrie desidera amore e comprensione, ma ciò che riceve è paura e disprezzo.
Il tema della vendetta è centrale nel romanzo e rappresenta una riflessione sull’effetto devastante dell’accumulo di dolore e umiliazione. Carrie, dopo essere stata costantemente umiliata e respinta, esplode in una violenza incontrollabile che distrugge non solo la scuola e i suoi persecutori, ma anche se stessa. La distruzione che porta è tanto catartica quanto tragica, poiché la vendetta non le offre la liberazione che cerca. Il finale del romanzo, in cui Carrie muore sola e priva di quell’accettazione che ha sempre desiderato, sottolinea la profonda solitudine che pervade il suo personaggio e, più in generale, l’orrore intrinseco nell’alienazione.
Carrie non è solo un romanzo horror soprannaturale: è una potente esplorazione delle dinamiche di potere, dell’emarginazione sociale e delle conseguenze della repressione emotiva. Stephen King, attraverso l’elemento telecinetico, riesce a trasformare una storia di sofferenza adolescenziale in una tragedia moderna, in cui l’orrore più grande non risiede tanto nelle capacità sovrannaturali della protagonista, quanto nella crudeltà e nell’indifferenza della società. Con Carrie, King ha dimostrato fin dall’inizio della sua carriera la sua capacità di unire l’orrore con la riflessione psicologica e sociale, gettando le basi per la sua straordinaria carriera come maestro del genere.
Quando Carrie fu pubblicato nel 1974, l’accoglienza fu straordinaria, tanto che la critica e il pubblico non tardarono a riconoscerne il valore. Per essere un’opera d’esordio, il romanzo segnò immediatamente un punto di svolta nel panorama letterario, contribuendo alla riscoperta e alla ridefinizione dell’horror contemporaneo. Stephen King, fino a quel momento un giovane scrittore con pochi mezzi, si trovò catapultato sotto i riflettori e divenne presto una figura centrale nel genere. Carrie vendette un milione di copie solo nel primo anno, ma più del successo economico fu il modo in cui il libro ridefinì l’horror a catturare l’attenzione.
Negli anni ’70, l’horror letterario stava attraversando una fase di transizione. Gli autori si allontanavano dai mostri tradizionali e dalle ambientazioni gotiche per esplorare nuovi territori, spesso radicati nel quotidiano e nella psicologia. Carrie incarna perfettamente questa tendenza, portando il terrore dentro le mura della scuola e della casa, trasformando l’ordinario in straordinario. La violenza non proviene più da vampiri o licantropi, ma dalla crudeltà umana, dai traumi emotivi e dalle dinamiche sociali. Questo approccio contribuì a rendere l’horror un genere capace di affrontare temi complessi come l’alienazione e il fanatismo, aprendo la strada a una nuova generazione di autori.
Un altro aspetto rivoluzionario di Carrie fu l’idea che l’orrore potesse essere incarnato da una figura femminile adolescente. Fino a quel momento, molte storie horror avevano protagonisti maschili o figure femminili passive che fungevano da vittime o oggetti di salvataggio. Carrie White, invece, è un personaggio complesso, né completamente vittima né completamente carnefice, capace di suscitare empatia ma anche terrore. La sua figura anticipa l’emergere di una maggiore complessità nei personaggi femminili del genere horror, che da quel momento in poi assumeranno un ruolo più attivo, sebbene spesso in chiave negativa o ambigua.
Un momento cruciale nella vita di Carrie fu la sua trasposizione cinematografica nel 1976, diretta da Brian De Palma. Il film, interpretato da Sissy Spacek nel ruolo di Carrie e Piper Laurie in quello della madre Margaret, divenne un successo immediato e consacrò l’opera nell’immaginario collettivo. Spacek, con la sua performance intensa e disturbante, ottenne una nomination all’Oscar, portando ancora più attenzione alla figura di Carrie. La versione cinematografica di Carrie è considerata uno dei migliori adattamenti di un’opera di Stephen King, grazie alla capacità di De Palma di catturare l’essenza della storia, dalla crudeltà del bullismo fino al catastrofico finale al ballo di fine anno. Il film rafforzò il legame tra il cinema e la letteratura horror, alimentando la tendenza degli anni successivi a portare sul grande schermo molti dei romanzi di King.
Carrie ha avuto un’influenza duratura su King stesso e sulla sua produzione successiva. Sebbene fosse il suo primo romanzo pubblicato, molti dei temi esplorati in questo libro sarebbero tornati frequentemente nelle sue opere future. Il bullismo, il fanatismo religioso e la repressione emotiva diventano motivi ricorrenti in romanzi come It (1986) e Il miglio verde (1996), dove il senso di ingiustizia e vendetta è altrettanto forte. Inoltre, l’elemento del potere soprannaturale come metafora del trauma psicologico è un tema che King approfondirà ulteriormente in altre opere, come Shining (1977) e L’incendiaria (1980), dimostrando la sua capacità di utilizzare il soprannaturale per esplorare le ombre più oscure dell’animo umano.
Il romanzo è stato riproposto più volte nel corso degli anni. Oltre al film del 1976, ci sono state altre due trasposizioni cinematografiche significative: un remake nel 2013 con Chloë Grace Moretz nel ruolo di Carrie, e un film per la televisione del 2002. Nessuna delle due versioni ha ottenuto lo stesso successo del film di De Palma, ma entrambe hanno contribuito a mantenere vivo l’interesse per la storia. Esiste anche un adattamento musicale di Broadway, realizzato nel 1988, che però fu un fallimento di critica e pubblico, diventando uno dei più famosi flop teatrali della storia. Ciononostante, l’insuccesso del musical dimostra quanto Carrie sia un’opera difficile da adattare, poiché il suo potere risiede non solo nell’intensità delle scene di vendetta, ma anche nella sua profondità psicologica.
Un aneddoto curioso riguarda il processo di pubblicazione di Carrie. King inizialmente non credeva molto in questo romanzo. Dopo aver scritto le prime pagine, le gettò nel cestino. Fu sua moglie, Tabitha King, a recuperarle e incoraggiarlo a proseguire. Grazie a quel sostegno, King completò l’opera che lo avrebbe consacrato come il nuovo maestro dell’horror. Questo episodio è diventato leggendario nella storia della letteratura contemporanea e sottolinea l’importanza delle persone vicine nello sviluppo creativo di uno scrittore.
Oltre a esplorare i temi principali già trattati, come il bullismo, l’alienazione e il fanatismo, Carrie offre anche una riflessione sulla repressione sessuale. La pubertà di Carrie è presentata come un momento di rottura con la madre e con la sua stessa innocenza. Il sangue mestruale, che scatena la sua umiliazione iniziale e il potere telecinetico, è un simbolo potente della paura del corpo femminile, sia per Carrie che per sua madre. Margaret vede il corpo della figlia come una manifestazione del peccato, e il suo controllo ossessivo su di lei riflette un tentativo di reprimere qualsiasi segno di sessualità. Carrie, d’altra parte, sperimenta il suo potere in parallelo con la scoperta della sua femminilità, creando un contrasto profondo tra oppressione e liberazione.
In conclusione, Carrie è un’opera fondamentale non solo per la carriera di Stephen King, ma per l’intero genere horror. Il romanzo ha ridefinito il modo in cui l’orrore può essere utilizzato per esplorare le complessità psicologiche e sociali della vita quotidiana, stabilendo King come uno dei più importanti narratori della nostra epoca. Le sue trasposizioni cinematografiche hanno contribuito a radicare l’opera nella cultura popolare, e i temi trattati restano ancora oggi di grande attualità. Carrie non è solo un racconto di vendetta soprannaturale, ma una riflessione profonda sulle paure, le angosce e le dinamiche sociali che affliggono l’umanità.
Nel 1984, Wes Craven rivoluzionò il cinema horror con Nightmare – Dal profondo della notte, un film che andava oltre le convenzioni del genere slasher per esplorare l’incubo nel senso più letterale del termine. In un periodo dominato da film in cui i serial killer erano entità tangibili come Jason Voorhees di Venerdì 13 o Michael Myers di Halloween, Craven introdusse un antagonista sovrannaturale che colpiva le sue vittime in un luogo inaspettato: i loro sogni. Freddy Krueger, con il suo volto sfigurato e il guanto con le lame affilate, non era solo un assassino. Era una presenza che strisciava nelle paure più intime dei personaggi e del pubblico, spingendo il confine tra realtà e fantasia in un modo che nessun altro horror aveva osato fare fino a quel momento.
Il concetto di base del film è semplice, ma geniale: un gruppo di adolescenti inizia a essere perseguitato da incubi sempre più spaventosi, in cui appare un uomo con un guanto dotato di lame. La scoperta peggiore è che, se si muore nel sogno, si muore anche nella vita reale. Nancy Thompson, interpretata da Heather Langenkamp, è la protagonista che cerca disperatamente di scoprire come fermare Freddy prima che sia troppo tardi. La sceneggiatura di Craven attinge a un mito urbano che diventa quasi una leggenda metropolitana, dove l’incubo non è solo una manifestazione psichica, ma una realtà che miete vittime. Questo rende il film profondamente disturbante, poiché mina una delle certezze più universali: il sonno come rifugio sicuro.
Freddy Krueger, interpretato da Robert Englund, è il fulcro del film. Englund riesce a creare un villain che mescola sadismo e umorismo nero, una figura che si diverte nel tormentare le sue vittime, ma senza mai perdere quella connotazione di pura malvagità. Krueger è diverso dagli altri iconici antagonisti dell’horror: mentre Jason o Michael agiscono senza parola e con movimenti lenti e meccanici, Freddy è scaltro, verbale e gioca con le sue prede. La sua caratterizzazione è stata accolta con favore sia dalla critica che dal pubblico, che lo ha immediatamente consacrato come una delle figure più memorabili del cinema horror. Freddy Krueger è diventato un’icona della cultura pop, destinato a lasciare il segno per decenni.
La reazione del pubblico all’uscita del film fu un mix di stupore e terrore. In un’epoca in cui il cinema slasher si stava affermando come sottogenere principale dell’horror, Nightmare si distinse per la sua originalità. Le recensioni furono generalmente positive, lodando Craven per aver creato una narrazione che intrecciava in modo così innovativo la realtà e il mondo onirico. Il pubblico apprezzò la novità e l’effetto inquietante che il film riusciva a trasmettere: un terrore che non si limitava alla proiezione cinematografica, ma che penetrava nella psiche dello spettatore, seguendolo anche fuori dalla sala. La critica apprezzò la maestria di Craven nel giocare con i confini tra i sogni e la veglia, rendendo ogni scena incerta e generando una tensione che perdurava per tutto il film.
Oltre alla regia innovativa, il film si distingue per la sua fotografia e gli effetti speciali. Nonostante il budget limitato, Craven e il direttore della fotografia Jacques Haitkin crearono un’estetica visiva inquietante, dove la realtà e il sogno si fondevano in modo surreale. Le scene in cui Freddy emerge dalle ombre o si muove tra le pareti deformanti delle stanze sono immagini che restano impresse per la loro originalità. La fotografia utilizza toni cupi e giochi di luce per creare una costante atmosfera di inquietudine, in cui lo spettatore non sa mai se si trova nel mondo reale o in quello onirico. Il design degli effetti speciali, pur rudimentale rispetto agli standard odierni, fu altrettanto innovativo per l’epoca. La celebre scena in cui il personaggio interpretato da Johnny Depp viene risucchiato nel letto, seguito da un geyser di sangue, è un momento iconico nella storia del cinema horror e uno degli esempi migliori di come il film riesca a trasformare l’impossibile in qualcosa di visceralmente tangibile.
La colonna sonora di Charles Bernstein merita una menzione speciale. Bernstein riuscì a comporre un tema principale che, con le sue note semplici e ripetitive, instilla un senso di imminente pericolo fin dai primi secondi del film. La musica è essenziale per l’atmosfera del film: contribuisce a creare tensione e a immergere lo spettatore nella paura crescente. Il tema di Freddy è diventato tanto iconico quanto il personaggio stesso, riuscendo a evocare immediatamente il terrore con poche note.
Un altro aspetto interessante è il modo in cui Nightmare esplora la responsabilità generazionale. Il film introduce il tema della colpa dei genitori che ricade sui figli. Freddy Krueger, un ex assassino di bambini, fu ucciso dai genitori degli adolescenti protagonisti dopo essere stato rilasciato per un cavillo legale. Ora, Freddy torna dal mondo dei morti per vendicarsi, e lo fa uccidendo i figli di coloro che lo bruciarono vivo. Questa dinamica sottolinea come le azioni passate possano avere conseguenze tragiche, un tema che Craven esplora sottilmente ma con grande efficacia. I genitori, figure tradizionalmente protettive, sono qui rappresentati come complici di un terribile segreto, lasciando i loro figli soli ad affrontare l’ira di Krueger.
Nonostante la sua genialità, Nightmare non è esente da difetti. Alcune scene, specialmente nella parte finale, appaiono un po’ goffe e mal orchestrate, con una battaglia tra Nancy e Freddy che sembra poco raffinata nella coreografia. Il finale stesso, volutamente ambiguo, potrebbe lasciare alcuni spettatori insoddisfatti, poiché non fornisce una chiusura definitiva alla vicenda, ma mantiene aperta la possibilità di ulteriori sviluppi. Tuttavia, questa scelta ha contribuito a rendere Freddy una figura eternamente presente, mai veramente sconfitta, elemento che ha favorito il successo dei numerosi sequel.
In definitiva, Nightmare – Dal profondo della notte non è solo un film horror, ma un’esperienza cinematografica che gioca con la mente dello spettatore. È un film che ha ridefinito il genere horror, introducendo un antagonista carismatico e sovrannaturale, combinando realtà e sogno in un modo che non era mai stato fatto prima. Wes Craven dimostra con questo film una profonda comprensione delle paure umane più radicate, e le usa per creare un’opera che è destinata a rimanere tra i capisaldi del cinema horror. Il successo del film, sia tra il pubblico che tra la critica, conferma il suo status di classico, capace ancora oggi di incutere timore e affascinare nuove generazioni di spettatori.
Nel panorama del cinema italiano degli anni ’70, il giallo ha rappresentato un genere di punta, in grado di coniugare mistero, suspense e una certa dose di violenza visiva. Nessun altro regista ha saputo elevare il giallo a una forma d’arte visiva e narrativa come Dario Argento, e “Profondo Rosso”, uscito nel millenovecento settantacinque, ne rappresenta l’apice creativo. Con una sapiente miscela di suspense, estetica barocca e una colonna sonora che ha fatto scuola, il film è stato immediatamente riconosciuto come un capolavoro, confermando Argento come uno dei più grandi maestri del brivido.
La trama di “Profondo Rosso” si sviluppa attorno alla figura di Marcus Daly, un pianista inglese interpretato da David Hemmings, che diventa testimone di un efferato omicidio ai danni di una sensitiva, Helga Ulmann (Macha Méril). Spinto da un crescente interesse e dall’incapacità di dimenticare un dettaglio chiave, Marcus inizia un’indagine parallela a quella della polizia, affiancato dalla giornalista Gianna Brezzi, interpretata da Daria Nicolodi, musa e partner di Argento in quegli anni.
La sceneggiatura di Argento, co-scritta con Bernardino Zapponi, gioca abilmente con i temi del doppio, del trauma rimosso e della percezione distorta, tipici della psicanalisi freudiana. Il dettaglio che Marcus non riesce a cogliere si rivela essere la chiave di volta del mistero, in un climax che sfocia in una verità sconvolgente. Argento sfrutta al massimo i meccanismi del giallo classico, disseminando indizi che solo alla fine trovano una coerenza, ma lo fa aggiungendo la sua tipica propensione per l’horror visivo e per una violenza quasi coreografica, trasformando ogni omicidio in una sorta di raccapricciante performance.
Il tema del trauma è uno degli elementi centrali in “Profondo Rosso”, non solo come espediente narrativo, ma come vero e proprio motore psicologico del film. Marcus Daly si trova a dover ricostruire non solo l’enigma di un omicidio, ma anche la sua stessa percezione della realtà. La scena chiave, quella in cui Marcus assiste all’omicidio della sensitiva Helga, è un perfetto esempio di come Argento giochi con la rimozione del trauma: lo spettatore, proprio come il protagonista, vede qualcosa di cruciale, ma non riesce a elaborarlo fino a quando tutti i pezzi del puzzle non si ricompongono. Questo meccanismo rimanda direttamente alla psicanalisi freudiana, e suggerisce che il film non sia solo un viaggio fisico tra gli indizi, ma un’indagine psicologica che scava nel passato e nell’inconscio.
David Hemmings, già noto per il suo ruolo in “Blow-Up” di Michelangelo Antonioni, incarna un protagonista curioso ma vulnerabile, lontano dall’eroe infallibile tipico di molti thriller. La sua performance sobria e controllata crea un interessante contrasto con l’atmosfera surreale e violenta che lo circonda. Daria Nicolodi, al contrario, porta sullo schermo un personaggio vivace e ironico, la cui leggerezza bilancia i toni cupi del film, offrendo anche uno spunto di riflessione sul rapporto di genere, con Gianna che sfida apertamente il machismo di Marcus.
Un tema ricorrente nel cinema di Argento è la rappresentazione del femminile, spesso ambigua e controversa. In “Profondo Rosso”, i personaggi femminili sono centrali, ma si muovono in una costante ambivalenza tra forza ed estrema vulnerabilità. Da un lato, abbiamo Gianna Brezzi, interpretata da Daria Nicolodi, una donna emancipata e indipendente, che sfida continuamente le convenzioni di genere, dall’altro, le vittime femminili sono figure fragili, spesso ridotte a oggetti del desiderio o della violenza. Questa dicotomia tra forza e debolezza, emancipazione e pericolo, riflette le tensioni culturali dell’epoca, ma apre anche a una lettura critica del ruolo delle donne nei film di genere, in cui la loro rappresentazione oscilla tra progressismo e stereotipo.
Il resto del cast, pur ricoprendo ruoli secondari, contribuisce a creare quell’aura di mistero e inquietudine che caratterizza il film. Ogni personaggio sembra nascondere un segreto, e le interpretazioni volutamente sopra le righe di alcuni attori contribuiscono a rendere l’atmosfera ancora più disturbante e onirica.
La regia di Dario Argento in “Profondo Rosso” è il vero protagonista. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina è studiato per amplificare la tensione e disorientare lo spettatore. Argento utilizza long take mozzafiato, zoom improvvisi e carrellate che seguono i personaggi da angolazioni insolite, creando un senso di minaccia costante. Gli omicidi, coreografati con precisione maniacale, diventano veri e propri spettacoli di sangue e violenza estetizzata, ma mai gratuita. L’utilizzo di riflessi, specchi e superfici traslucide crea un gioco visivo in cui lo spettatore, come Marcus, è chiamato a decifrare ciò che vede, ma rischia sempre di essere tratto in inganno.
La fotografia di Luigi Kuveiller è un elemento fondamentale per il successo visivo del film. Kuveiller adopera una tavolozza di colori saturi e accesi, che richiamano l’estetica del cinema barocco italiano e si ispirano alle opere di registi come Mario Bava. Il rosso, come suggerisce il titolo, domina la scena, ma non è mai fine a sé stesso. Viene utilizzato per segnalare momenti chiave, sottolineare la violenza o anticipare l’orrore. La scelta di ambientazioni reali, come l’architettura decadente di Torino, conferisce al film una dimensione quasi gotica, dove il passato sembra intrappolare i personaggi in una spirale di morte e follia.
Se l’aspetto psicanalitico domina il racconto, è l’estetica del colore a rendere “Profondo Rosso” un’opera visivamente rivoluzionaria. Il rosso, come suggerisce il titolo, è il colore cardine che non solo simboleggia il sangue e la violenza, ma diventa un segnale visivo che preannuncia momenti di scoperta o di pericolo. Argento, influenzato dal cinema di Mario Bava, utilizza il colore in modo espressionista, caricandolo di significati psicologici. Il contrasto tra i colori saturi e gli spazi oscuri riflette anche l’ambiguità morale dei personaggi e delle situazioni. Approfondire questo uso simbolico del colore ci permette di comprendere come Argento non si limiti a dirigere un thriller, ma costruisca un universo visivo denso di significati.
Il legame di Dario Argento con le arti visive è evidente in ogni scena di “Profondo Rosso”. Gli ambienti, spesso spazi vuoti o claustrofobici, sembrano riflettere lo stato mentale dei personaggi. L’uso di architetture reali, come la decadente villa torinese in cui si svolge uno degli omicidi, diventa parte integrante della narrazione, creando una dimensione gotica e surreale. Le inquadrature di Argento, che spesso enfatizzano angoli impossibili o riflessi distorti, creano un senso di disorientamento e isolamento. Interessante notare come alcuni interni richiamino opere pittoriche, in particolare il realismo freddo di Edward Hopper o il surrealismo di De Chirico. Gli spazi, dunque, non sono meri fondali, ma luoghi che amplificano la tensione emotiva e psichica del film.
Se “Profondo Rosso” è ricordato anche per un altro elemento, questo è sicuramente la colonna sonora dei Goblin. La collaborazione tra Argento e il gruppo guidato da Claudio Simonetti ha dato vita a uno dei temi musicali più iconici del cinema horror. Il mix di rock progressivo, sintetizzatori e melodie inquietanti accompagna perfettamente l’atmosfera del film, enfatizzando i momenti di tensione e diventando parte integrante dell’esperienza sensoriale dello spettatore. Il tema principale, con il suo ritmo ipnotico e incalzante, è diventato leggendario e ha influenzato numerosi compositori successivi.
Uno degli aspetti più affascinanti del cinema di Argento è il suo rapporto con lo spettatore, che in “Profondo Rosso” diventa a tutti gli effetti un co-detective. Attraverso l’uso di indizi visivi e inganni percettivi, Argento costringe il pubblico a partecipare attivamente alla risoluzione del mistero. Lo spettatore, come Marcus, si trova spesso ad essere disorientato e ingannato, con l’illusione di avere in mano la chiave per svelare il mistero, solo per scoprire alla fine di essere stato fuorviato. Questo meccanismo coinvolge lo spettatore su un piano emotivo e cognitivo, rendendo l’esperienza di visione unica nel suo genere.
Alla sua uscita nel millenovecento settantacinque, “Profondo Rosso” divise la critica. Da un lato, molti lo elogiarono per l’audacia visiva e la capacità di Argento di trasformare un giallo in un’opera d’arte, dall’altro, alcuni critici più conservatori lo trovarono troppo violento e stilizzato. Il pubblico, però, rispose con entusiasmo: il film divenne subito un successo commerciale, consolidando Argento come un maestro del genere.
Nel corso degli anni, il film ha guadagnato sempre più consensi, diventando un calt e influenzando una generazione di registi, tra cui John Carpenter, David Lynch e Quentin Tarantino. La sua estetica è stata ripresa in numerosi film horror successivi, e la colonna sonora dei Goblin ha continuato a ispirare musicisti di tutto il mondo.
Durante le riprese, uno degli episodi più curiosi riguarda proprio la casa in cui si svolge uno degli omicidi principali. Argento decise di girare in una villa abbandonata a Torino, che molti ritenevano infestata. La troupe riportò episodi strani e inspiegabili, contribuendo a creare un alone di mistero attorno al film. Inoltre, si racconta che Argento abbia voluto dirigere personalmente alcune delle scene di omicidio più cruente, come quella della decapitazione finale, per garantire la precisione visiva che aveva in mente.
“Profondo Rosso” è diventato un punto di riferimento non solo per il cinema di genere, ma per la cultura pop in generale. Ha aperto la strada a film come “Halloween” di Carpenter, che ha ripreso molti degli stilemi visivi e narrativi di Argento, e ha contribuito a ridefinire il ruolo della colonna sonora nell’horror, trattandola come un elemento diegetico tanto quanto le immagini.
Profondo Rosso” rappresenta un esempio perfetto di come il giallo italiano abbia saputo evolversi, ibridando il thriller psicologico con l’horror viscerale. Se da un lato il film segue le regole del giallo classico – un mistero da risolvere, un detective dilettante, una serie di indizi disseminati lungo la trama – dall’altro introduce elementi tipicamente horror, come la rappresentazione grafica della violenza e un’atmosfera costante di terrore latente. Questo connubio di generi ha influenzato pesantemente il successivo cinema horror, in particolare lo slasher americano, di cui “Profondo Rosso” può essere considerato un precursore.
In conclusione, “Profondo Rosso” è molto più di un giallo. È un’opera che, attraverso la sua estetica radicale, la sua colonna sonora avanguardista e la sua trama avvincente, ha saputo ridefinire i confini del cinema di genere, imponendosi come un classico senza tempo. Per chi ama il cinema dell’orrore, resta un’esperienza visiva e sensoriale imperdibile.
“Questo è il miglior breve racconto dell’orrore che mai sia stato scritto” disse Eustachio accendendosi una sigaretta con mani tremanti. Il fumo si alzò lento, come i suoi pensieri. “Il miglior racconto dell’orrore,” ripeté, quasi per convincere se stesso. Il vento freddo della sera gli sferzava il viso, ma lui non se ne curava. Era abituato al freddo, alla solitudine, alla disperazione.
Seduto su una panchina arrugginita, Eustachio osservava le ombre dei palazzi di periferia allungarsi sopra la strada. Ogni ombra aveva una storia, e lui le conosceva tutte. Aveva visto cose che avrebbero fatto impazzire un uomo ordinario, ma lui non era normale. Era un sopravvissuto, un relitto umano che si aggrappava alla vita e alla bottiglia. Soprattutto alla bottiglia, purché fosse di buona qualità. Beveva solo vino piacentino di marca. E la sua marca preferita la conoscevano in pochi. Una piccola cantina di un produttore indipendente, disperato come lo era Eustachio.
“Stelle cadenti,” mormorò, guardando il cielo. “Un racconto di orrore e follia.” Rise amaramente, un suono che si perse nel vento. “Come la mia vita.”
Un rumore di passi lo fece voltare. Una figura si avvicinava, barcollando. Una donna, con i capelli arruffati e gli occhi gonfi. Aveva un’aria familiare, forse un’avventura del passato. “Chi sei?” chiese Eustachio, ma la donna non rispose. Si sedette vicino, e lui sentì l’odore pungente dell’alcol.
Eustachio le offrì da bere un sorso dalla sua bottiglia di vino. La donna accettò, gli rispose con un sorriso, ma non disse una sola parola.
Il sole stava calando, tingendo il cielo di un arancione sporco. Sotto un ponte, poco più avanti, un gruppo di barboni si radunava attorno a un fuoco improvvisato. Le loro facce erano scavate, segnate da anni di lotta e costernazione. Uno di loro, con una barba incolta e lo sguardo vuoto, stringeva una bottiglia di gutturnio come fosse l’ultima cosa preziosa al mondo.
Le risate erano amare, spezzate da colpi di tosse e lamenti. Ogni uomo aveva una storia, ma nessuno voleva ascoltarla. Erano fantasmi vivi, invisibili alla città che li circondava. Il fumo del fuoco si mescolava con l’odore pungente della miseria, creando un’aria pesante, quasi tangibile.
Un vecchio con un cappotto logoro provò a darsi coraggio. “Domani sarà meglio,” mormorò, ma nessuno gli credette. Le parole si persero nel vento, come promesse non mantenute. La notte calava, e con essa, un’altra battaglia per la sopravvivenza.
Eustachio e la donna dai capelli arruffati si baciarono. Poi salirono in casa da lui. Un vecchio appartamento di due stanze, sporche e rovinate.
Eustachio stappò la seconda bottiglia di vino bianco: un ortrugo frizzante dei colli piacentini.
Poi guardò fuori dalla finestra. L’appartamento stava al terzo piano di un caseggiato decrepito. Vedeva le persone camminare lungo la via, vestiti con cappotti grigi e giacche blu e vestiti neri. Indossavano pantaloni eleganti o gonne raffinate e avevano gli occhi senza occhi e la bocca senza bocca. Camminavano velocemente, come se la frenesia del quotidiano avesse potuto risvegliare la morte e tramutarla in vita. Erano un carnevale di decadenza e atrocità.
La donna continuò a bere senza parlare e alla fine si addormentò sul letto di Eustachio. Era vecchia, doveva avere almeno quarant’anni.
Lui si sedette alla macchina da scrivere. Era tremendo. Per tutta la vita aveva desiderato scrivere storie horror ma non gli veniva fuori niente. Non aveva nemmeno pensieri profondi, idee originali o storie interessanti. Era rovinato, non riusciva a mettere giù una sola parola e si sentiva incastrato in un angolo. Aveva sognato di scrivere il miglior racconto breve dell’orrore. Ma era solo un sogno. Ogni duecento anni nasceva un grande scrittore, ma quello non era lui. Si sentiva fottuto e stappò la terza bottiglia di ortrugo.
Bevve ancora qualche bicchiere. Ormai si era fatta notte fonda. Decise di andare a dormire. La donna era scomparsa. Fuori iniziò a piovere. Si sentivano i tuoni e lampi improvvisi squarciavano l’oscurità della notte.
Eustachio si avvicinò al letto, il rumore della pioggia che batteva contro i vetri della finestra era quasi ipnotico. I tuoni rimbombavano in lontananza, mentre i lampi illuminavano a intermittenza la stanza, creando ombre inquietanti sui muri. Si tolse le scarpe e si preparò a coricarsi, cercando di scacciare dalla mente l’immagine della donna dai capelli arruffati.
Proprio mentre si stava infilando sotto le coperte, un lampo particolarmente forte illuminò la stanza, rivelando una figura nell’angolo. Eustachio si bloccò, aveva bevuto ma era ancora lucido. La donna era tornata, e questa volta aveva un cacciavite in mano. I suoi occhi erano grandi, spalancati e pazzi, e un ghigno malvagio le imbruttiva il volto.
Con un grido soffocato, Eustachio cercò di alzarsi, ma la donna fu più veloce. Si lanciò su di lui, brandendo il cacciavite con una forza sorprendente. Eustachio riuscì a parare il primo colpo con il braccio, sentendo il metallo freddo che gli graffiava la pelle. Il dolore lo fece urlare, ma non poteva permettersi di cedere alla paura.
La donna continuava a colpire, ogni movimento accompagnato da un sibilo di rabbia. Eustachio lottava disperatamente, cercando di afferrare il cacciavite per disarmarla. La stanza era un caos di ombre e suoni, il rumore della pioggia e dei tuoni mescolato ai loro respiri affannosi e ai colpi sordi del cacciavite contro il legno del letto.
Finalmente, Eustachio riuscì a spingere via la donna, facendola cadere a terra. Il cacciavite scivolò dalle sue mani, rotolando sotto il letto. La donna si rialzò, gli occhi pieni di odio, ma Eustachio non le diede il tempo di riprendersi. Con un balzo, si lanciò verso la porta, sperando di trovare una via di fuga prima che lei potesse attaccare di nuovo.
La tensione era palpabile, ogni secondo sembrava un’eternità mentre Eustachio correva verso la salvezza, con la consapevolezza che la donna non avrebbe rinunciato facilmente alla sua preda.
La pioggia continuava a battere contro i vetri, e i tuoni sembravano avvicinarsi sempre di più. Raggiunse la maniglia e la girò con forza, ma la porta non si aprì. Era bloccata.
Dietro di lui, la donna si rialzò lentamente, una smorfia crudele le alterava la faccia. Eustachio sentì il panico crescere dentro di sé, ma cercò di mantenere la calma. Doveva trovare un modo per uscire da quella stanza.
Con un rapido sguardo, notò una finestra aperta dall’altra parte della camera. Era una possibilità rischiosa, ma l’unica che aveva. Si lanciò verso la finestra, sentendo i passi della donna che si avvicinavano sempre di più. Riuscì a raggiungerla e a sporgersi fuori, ma la pioggia e il vento rendevano difficile la fuga.
Proprio mentre stava per saltare, sentì una mano afferrargli la caviglia. La donna lo tirò indietro, facendolo cadere a terra. Eustachio si girò, cercando di liberarsi, ma la donna era sopra di lui, il cacciavite di nuovo in mano.
Eustachio afferrò una lampada dal comodino e la colpì con tutta la forza che aveva. La donna urlò di dolore e cadde di lato, lasciando cadere il cacciavite. Lui non perse tempo: si rialzò e si lanciò dalla finestra, saltando fuori nella notte tempestosa.
Si sfracellò sull’asfalto bagnato, fracassandosi tutto. Il giorno dopo fu trovato morto dai netturbini, che per poco non lo scambiarono per un sacco della spazzatura.
Della donna non si seppe più nulla, ed il caso fu archiviato come suicidio. Il sipario calò in questo modo sulla triste vita fallita di un aspirante scrittore di racconti dell’orrore.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
La notte era calda e soffocante, il tipo di notte che ti fa desiderare di essere altrove, lontano da tutto e da tutti. Le colline piacentine erano un mosaico di luci lontane e ombre inquietanti, un palcoscenico perfetto per alcolizzati, senza tetto e altri disperati in fuga dalle proprie miserie. Tra questi c’era Giovanni, un uomo che aveva visto troppo e vissuto troppo poco. Con una sigaretta tra le labbra, Giovanni si trascinava da un’osteria all’altra, cercando di ingannare i suoi fantasmi bevendo vino gutturnio.
Ma quella notte, qualcosa di diverso aleggiava nell’aria. Le stelle sembravano più vicine, quasi palpabili, e una strana sensazione di inquietudine si insinuò nel cuore di Giovanni. Mentre si fermava per accendere un’altra sigaretta, vide una stella cadente attraversare il cielo. Non era una stella normale, però. Era più grande, più luminosa, e sembrava lasciare una scia di oscurità dietro di sé.
Giovanni non era un tipo che si lasciasse impressionare facilmente, ma quella stella aveva qualcosa di sinistro. Decise di seguirla, spinto da una curiosità morbosa che non riusciva a spiegare. Le strade lo portarono verso i sobborghi di Piacenza, dove le luci si facevano più rare e le ombre più profonde.
Arrivò infine a un vecchio casolare abbandonato, un relitto di un’epoca passata. La porta era socchiusa, e una luce rossastra e intermittente usciva dall’interno. Giovanni esitò per un momento, poi spinse la porta ed entrò. Dentro era buio e silenzioso, ma c’era qualcosa nell’aria, un odore ripugnante di cadaveri in putrefazione.
Giovanni avanzò verso il centro del casolare, quando sentì un sussurro, un mormorio che sembrava provenire dall’oscurità che lo circondava.
Poi la luce rossa si accese nuovamente. Proveniva da una vecchia lampada sgangherata che penzolava da una trave. Le pareti in legno del capanno si illuminarono. Erano coperte di strani simboli, incisi con una precisione inquietante. Giovanni si fermò davanti a uno specchio rotto, e per un attimo, vide il riflesso di qualcosa che non era lui. Qualcosa di mostruoso, dal volto squamoso e con occhi bestiali.
Giovanni si scosse, cercando di liberarsi da quella visione inquietante. Il mormorio si fece più forte, come se le pareti stesse stessero sussurrando segreti dimenticati. Avanzò con cautela, i suoi passi risuonavano nel silenzio opprimente del casolare. La sua ombra sembrava staccarsi dal corpo e danzare alla luce rossa della lampada sgangherata.
Giunse infine a una stanza più grande, al centro della quale si trovava un manufatto di metallo. Sopra di esso, una specie di schermo pulsava mostrando simboli arcani. Giovanni si avvicinò, attratto da una forza invisibile. Sentiva il vino che aveva bevuto gorgogliare nello stomaco in un misto di paura e curiosità.
Mentre esaminava i simboli misteriosi sullo schermo, le parole sembrarono prendere vita, danzando davanti ai suoi occhi. Erano scritte in una lingua che non aveva mai visto, ma che in qualche modo riusciva a comprendere. Parlava di antiche civiltà aliene, di rituali dimenticati e di poteri oscuri nascosti tra le stelle.
Improvvisamente, un forte vento sferzò la stanza, facendo dondolare la lampada rossa. Il mormorio si trasformò in un coro di voci dissonanti. Giovanni sentì una presenza dietro di sé, qualcosa di antico e malevolo. Si voltò lentamente, il respiro mozzato dalla paura.
Davanti a lui, una figura emerse dall’oscurità. Era alta e magra, con occhi che brillavano di una luce innaturale. La pelle era pallida e tesa, e il volto sembrava un teschio avvizzito. La creatura lo fissò, e Giovanni sentì un’ondata di terrore puro attraversarlo. Le voci si fecero più forti, un crescendo di follia che minacciava di sopraffarlo.
La creatura avanzò, e Giovanni si rese conto che non aveva via di fuga. Era intrappolato in quel casolare, intrappolato in un incubo da cui non poteva svegliarsi. Cercò di darsi coraggio, sperando di trovare un modo per scacciare l’orrore che lo circondava.
Ma la creatura non era ostile. Al contrario, una voce femminile, roca e intrisa di malinconia, risuonò nella mente di Giovanni. “Non temere, umano. Non sono qui per farti del male.”
La creatura avanzò, rivelando tratti più definiti alla luce fioca. Gli occhi brillavano di follia, ma c’era anche qualcosa di profondamente triste in fondo ad essi.
“Chi sei?” chiese Giovanni.
“Sono Alara,” rispose la creatura, “un’aliena esiliata dal mio pianeta. Ho trovato rifugio qui, ma la solitudine e il dolore mi hanno portato a cercare conforto nel vino.”
Giovanni notò una bottiglia di ortrugo, della sua marca preferita, tra le mani scheletriche di Alara. Senza sapere esattamente perché, si sentì spinto a condividere quel momento con lei. Prese un bicchiere e si sedette accanto al manufatto, accettando il vino che Alara gli porgeva.
Mentre bevevano, Alara iniziò a raccontare la sua storia. Parlava di un mondo lontano, di guerre e tradimenti, di un amore perduto e di un esilio forzato. Le sue parole erano intrise di dolore e rimpianto, e Giovanni sentiva ogni emozione come se fosse la propria.
La notte avanzava, e ad ogni sorso, le loro ombre nella stanza sembravano farsi vive, danzando in un macabro balletto. Le voci dissonanti si trasformarono in un coro di lamenti, e Giovanni sentiva la tensione crescere, come se qualcosa di terribile stesse per accadere.
Alara, ormai visibilmente ubriaca, si avvicinò a Giovanni, i suoi occhi pazzi erano febbrili. “C’è un modo per porre fine a tutto questo,” sussurrò, “ma richiede un sacrificio.”
Giovanni si irrigidì. “Che tipo di sacrificio?” chiese, con la voce che era appena un sussurro.
“Un’anima,” rispose Alara, “una vita per placare gli dei che mi hanno abbandonata.”
“Ma di cosa stai parlando?” protestò meccanicamente Giovanni, temendo che la situazione potesse volgere al peggio.
Poi Alara allungò la testa rinsecchita verso di lui e cercò di baciarlo.
Giovanni lasciò fare, per quanto l’aliena puzzasse e fosse di aspetto disgustoso, lui ne era incomprensibilmente attratto.
La notte era calata su Piacenza da un pezzo, avvolgendo la città in un manto di oscurità e silenzio. Le strade deserte erano illuminate solo dalla pallida luce delle stelle, che gettavano ombre inquietanti sui muri malandati del casolare abbandonato.
Alara si mosse con rapidità, con passi svelti e movimenti impercettibili. Il vento sibilava tra le porte aperte del casolare, portando con sé un’eco di antichi sussurri e promesse dimenticate.
Giovanni si ritrovò legato al manufatto alieno senza nemmeno accorgersene. Il suo respiro era ora affannoso e gli occhi si spalancarono per il terrore.
Alara si avvicinò lentamente, il suo volto scheletrico era spaventoso. Nelle sue mani ossute, illuminato dalla debole luce, brillava un pugnale rituale, affilato come un rasoio.
“Il sacrificio deve essere compiuto,” sussurrò Alara.
Giovanni cercò di liberarsi, ma le corde che lo tenevano erano troppo strette. Il suo cuore pareva impazzito, ogni battito un rintocco funebre che risuonava nelle sue orecchie.
Alara sollevò il pugnale, e per un istante, il tempo sembrò fermarsi. L’aria era carica di tensione, come se l’intero universo trattenesse il respiro. Poi, con un movimento fluido e deciso, la lama affondò nel petto di Giovanni. Un urlo straziante squarciò il silenzio della notte, un grido disperato che sembrava provenire dalle profondità dell’inferno.
Il sangue sgorgò copioso, tingendo di rosso il manufatto alieno. Alara osservava impassibile, i suoi occhi erano intrisi di follia. Mentre la vita abbandonava il corpo di Giovanni, un’ombra oscura sembrò sollevarsi dal suo corpo, un’entità eterea che si librava nell’aria prima di dissolversi nel nulla.
Il casolare abbandonato era intriso di un orrore palpabile, un terrore primordiale che sembrava permeare ogni cosa. Alara si voltò e si allontanò, lasciando dietro di sé solo il silenzio e l’eco di un sacrificio compiuto.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale.
Era una di quelle notti in cui il bar sembrava un rifugio per anime perdute. Il fumo delle sigarette si mescolava con l’odore stantio della birra versata, e il jukebox suonava una vecchia canzone blues che nessuno ascoltava davvero. Il barista, un uomo con più cicatrici che sorrisi, asciugava bicchieri con un panno sporco, osservando i clienti con occhi stanchi.
Tra i soliti avventori, quella notte c’era una figura nuova. Un uomo alto, con un cappotto nero e un cappello che gli copriva metà del viso. Si sedette al bancone e ordinò una pinta di vino Malvasia frizzante dei Colli Piacentini, senza ghiaccio. Il barista lo servì senza fare domande, ma non poté fare a meno di notare le mani dell’uomo: erano coperte di lividi e tatuaggi, come se avesse combattuto una guerra personale.
“Brutta giornata?” chiese il barista, cercando di rompere il silenzio.
L’uomo alzò lo sguardo, rivelando occhi che sembravano vuoti, come pozzi senza fondo. “Le giornate sono tutte uguali,” rispose con una voce che sembrava provenire da un altro mondo.
Il barista annuì, riconoscendo quel tipo di disperazione. Aveva visto molti uomini come lui, uomini che cercavano di annegare i loro demoni in un bicchiere. Ma c’era qualcosa di diverso in quell’uomo, qualcosa che lo metteva a disagio.
La notte avanzava e il bar si svuotava. Alla fine, rimasero solo il barista e l’uomo con il cappotto nero. Il barista si avvicinò per chiudere, ma l’uomo lo fermò con uno sguardo.
“Non chiudere ancora,” disse. “Ho una storia da raccontarti.”
Il barista sospirò, ma si sedette. “Va bene, racconta.”
Era una notte senza luna, e il vento ululava tra gli albericome un lupo affamato. Camminavo lungo una strada deserta, cercando di sfuggire ai miei pensieri. La mia vita era un disastro: avevo perso il lavoro, la casa, e la donna che amavo. Ero solo, disperato, e pronto a fare qualsiasi cosa per cambiare la mia sorte.
Fu allora che lo vidi. Un uomo alto, avvolto in un mantello nero, stava in piedi al centro della strada. I suoi occhi brillavano come carboni ardenti, e un sorriso sinistro gli deformava il volto. Mi avvicinai, attratto da una forza che non riuscivo a comprendere.
“Sembri un uomo in cerca di risposte,” disse con una voce che sembrava provenire dalle profondità della terra.
Annuii, incapace di parlare. Sentivo che quell’uomo sapeva tutto di me, dei miei fallimenti e delle mie paure.
“Posso aiutarti,” continuò. “Posso darti tutto ciò che desideri. Ma c’è un prezzo da pagare.”
“Qualsiasi cosa,” risposi senza esitazione. Ero disposto a vendere l’anima pur di uscire da quell’inferno.
L’uomo sorrise ancora più ampiamente. “Molto bene. Allora, firma qui.” Estrasse un pezzo di pergamena e una penna d’oca. Senza pensarci due volte, firmai il mio nome con il sangue che sgorgava da una piccola ferita sul dito.
“Il patto è fatto,” disse l’uomo, e in un istante scomparve, lasciandomi solo nella notte.
Da quel momento, la mia vita cambiò. Trovai un lavoro ben pagato, una casa lussuosa, e una nuova compagna che mi amava. Tutto sembrava perfetto, ma c’era qualcosa che non andava. Ogni notte, avevo incubi terribili. Vedevo ombre che mi inseguivano, sentivo voci che sussurravano il mio nome, e mi svegliavo sudato e terrorizzato.
Una notte, l’incubo divenne realtà. Mi svegliai e trovai l’uomo con il mantello nero ai piedi del mio letto. “È ora di pagare il prezzo,” disse con un ghigno malvagio.
Cercai di scappare, ma le ombre mi avvolsero, immobilizzandomi. Sentii un dolore lancinante al petto, come se un artiglio mi stesse strappando il cuore. Urlai, ma nessuno poteva sentirmi. E mentre l’oscurità mi inghiottiva, capii che avevo commesso un errore fatale.
Ora, sono condannato a vagare per l’eternità, un’anima perduta in cerca di redenzione. E ogni notte, rivivo quel momento, sentendo il dolore e la disperazione che mi hanno portato a fare quel patto maledetto.
Mentre l’uomo parlava, il barista sentì un freddo crescente, come se la temperatura fosse scesa improvvisamente.
Quando l’uomo finì, il barista si rese conto che non aveva mai sentito una storia così terribile. “E ora?” chiese, con la voce tremante.
L’uomo si alzò, lasciando una banconota sul bancone. “Ora, aspetti,” disse, e uscì nel buio della notte.
Il barista rimase lì, paralizzato dalla paura. Sentiva che qualcosa di terribile stava per accadere, ma non sapeva cosa. E mentre il silenzio della notte lo avvolgeva, capì che non avrebbe mai dimenticato quella storia, né l’uomo che l’aveva raccontata.
Poi chiuse il locale, ancora scosso dalla storia che aveva appena ascoltato. Le parole dell’uomo con il cappotto nero gli rimbombavano nella testa mentre camminava verso casa. La strada era deserta, e l’aria era fredda e umida. Ogni passo sembrava risuonare nel silenzio della notte.
Mentre girava l’angolo, vide qualcosa che lo fece fermare di colpo. Sul marciapiede, c’era una donna nuda, svenuta. Il suo corpo pallido e ben fatto brillava sotto la luce fioca del lampione, e il barista sentì un brivido corrergli lungo la schiena.
Si avvicinò lentamente, il cuore che batteva all’impazzata. “Signora, sta bene?” chiese con voce tremante, ma non ottenne risposta. Si chinò per controllare se respirava, e notò delle strane cicatrici sul suo corpo, come se fosse stata graffiata da qualcosa di feroce.
Improvvisamente, la donna aprì gli occhi. Erano occhi vuoti, senza vita, e il barista si sentì investito da un’ondata di terrore. La donna si sollevò lentamente, come se fosse mossa da fili invisibili. “Aiutami,” sussurrò con voce baritonale.
Il barista indietreggiò, con il panico che lo attanagliava. “Chi sei? Cosa ti è successo?” chiese, ma la donna non rispose. Invece, iniziò a camminare verso di lui, le braccia tese come se volesse afferrarlo.
Il barista si girò e iniziò a correre, il respiro affannoso e il cuore che gli martellava nel petto. Sentiva i passi della donna dietro di lui, sempre più vicini. Girò un altro angolo e si trovò di fronte a un vicolo cieco. Era intrappolato.
Si voltò, pronto a difendersi, ma la donna era scomparsa. Il silenzio della notte era tornato, ma il barista sapeva che qualcosa di terribile era appena iniziato. Sentiva che le ombre lo osservavano, pronte a colpire. E mentre si affrettava verso casa, capì che la storia dell’uomo con il cappotto nero non era solo una semplice leggenda, ma una terribile realtà che stava per inghiottirlo.
Continuò a camminare a passo svelto sino a raggiungere casa. Una volta entrato chiuse la porta dietro di sé e si appoggiò contro di essa, cercando di calmarsi. Ma la paura non lo abbandonava. Le immagini della donna nuda e degli occhi vuoti lo assillavano.
Decise di non accendere le luci, sperando che l’oscurità potesse nasconderlo da qualsiasi cosa lo stesse seguendo. Si diresse verso la cucina, cercando una bottiglia di vino Gutturnio per calmare i nervi. Mentre riempiva un bicchiere, sentì un rumore provenire dal soggiorno. Un fruscio, come di passi leggeri sul pavimento.
Il barista si fermò, il bicchiere a mezz’aria. “C’è qualcuno?” chiese, con la voce tremante. Non ottenne risposta, ma il rumore continuava, avvicinandosi sempre di più. Prese un coltello dal cassetto e si avvicinò lentamente al soggiorno.
Quando entrò, vide una figura nell’ombra. Era la donna, ancora nuda, con gli occhi vuoti che lo fissavano. “Aiutami,” sussurrò di nuovo, ma questa volta la sua voce era più forte, più disperata.
Il barista indietreggiò, il coltello tremante nella sua mano. “Cosa vuoi da me?” gridò, ma la donna non rispose. Lui era terrorizzato. Lei avanzò allungando le mani rugose verso il suo collo.
Il barista cercò allora di scappare, ma inciampò e cadde a terra. La donna si avvicinò sempre di più, e lui sentì un freddo glaciale avvolgerlo. “Per favore, lasciami in pace,” implorò, ma la donna era sempre più vicina.
Improvvisamente, la porta della cucina si spalancò e una figura entrò nella stanza. Era l’uomo con il cappotto nero. “Basta,” disse con voce autoritaria. La donna si fermò, come se fosse stata colpita da una paresi, e poi scomparve nell’ombra.
Il barista rimase a terra, tremante e confuso. “Chi sei tu? Cosa sta succedendo?” chiese all’uomo.
L’uomo si avvicinò e lo aiutò a rialzarsi. “Sono colui che ha fatto il patto,” disse. “E ora, devi aiutarmi a rompere la maledizione.”
Il barista lo guardò, incredulo. “Come posso aiutarti?”
L’uomo sorrise tristemente. “Devi trovare il libro. Il libro che contiene il segreto per rompere il patto. È nascosto in un luogo oscuro, dove le ombre regnano sovrane.”
Il barista annuì, sentendo che non aveva altra scelta. “Dove devo cercare?”
L’uomo indicò una porta nascosta dietro una tenda. “Lì dentro. Ma fai attenzione. Le ombre non ti lasceranno andare facilmente.”
Il barista prese un respiro profondo e si avvicinò alla porta. La aprì lentamente, rivelando una scala che scendeva nell’oscurità.
Iniziò a scendere lentamente le scale, ogni passo un’eco nell’oscurità. La cantina era fredda e umida, e l’aria era densa di un odore di muffa e decomposizione. Le pareti erano coperte di muschio, e il pavimento era scivoloso sotto i suoi piedi. Sentiva il cuore battere come un tamburo, e ogni fibra del suo essere gli diceva di tornare indietro, ma sapeva che non poteva.
Arrivato in fondo alle scale, si trovò davanti a una porta di legno marcio. La aprì con cautela, e un’ondata di aria gelida e puzzolente lo investì. La stanza era immersa nell’oscurità, ma poteva vedere delle ombre muoversi ai margini della sua visione. Sentiva sussurri indistinti, come voci di anime tormentate.
Avanzò lentamente, cercando di non fare rumore. Al centro della stanza, vide un altare di pietra, e sopra di esso, un libro antico e polveroso. Sapeva che quello era il libro che doveva trovare. Si avvicinò, ma appena allungò la mano per prenderlo, le ombre si mossero.
Le ombre lo avvolsero, fredde come il ghiaccio, e sentì un dolore lancinante mentre artigli invisibili gli laceravano la pelle. Urlò, ma il suono fu soffocato dall’oscurità. Le ombre lo trascinarono a terra, e sentì il sangue scorrere dalle ferite aperte. Ogni respiro era una lotta, e il dolore era insopportabile.
Le ombre si fecero più dense, e il barista sentì come se stessero strappando la sua anima dal corpo. Le voci sussurravano parole incomprensibili, e sentiva la sua mente vacillare. Cercò di resistere, ma era inutile. Le ombre erano troppo forti.
Con un ultimo sforzo, cercò di afferrare il libro, ma le sue mani passarono attraverso di esso come se fosse fatto di fumo. Le ombre lo avvolsero completamente, e sentì il freddo penetrare fino alle ossa. Il dolore era insopportabile, e la sua visione si offuscò.
L’ultima cosa che vide fu il volto dell’uomo con il cappotto nero, che lo osservava con un sorriso sinistro. “Il patto è completo,” disse l’uomo, e poi tutto divenne buio.
Il barista fu divorato dalle ombre, il suo corpo e la sua anima persi per sempre nell’oscurità. La cantina rimase silenziosa, e il libro antico tornò al suo posto sull’altare, in attesa della prossima vittima.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Il vecchio con il bicchiere in mano era seduto ai tavolini sotto al noce, nel giardino di un ameno agriturismo in Val Tidone. Stava leggendo un vecchio libro malridotto dal titolo inquietante: Storie horror nel bosco.
Assorto nella lettura sorseggiava malvasia frizzante e la sua faccia era folle, orribile.
Aveva il volto e lo sguardo di chi ne ha viste tante e le ha superate tutte ma a caro prezzo: il prezzo della pazzia.
Vicino a lui sedeva un giovane, col suo bicchiere di ortrugo in mano. Scrutava l’orizzonte e tra un sorso e l’altro gli cadeva l’occhio qualche metro più in basso, in zona piscina.
Tre ragazze sui vent’anni e ben fatte prendevano il sole in bikini ostentando le generose forme e ogni tanto si tuffavano in acqua per rinfrescarsi.
Il giovane osservava le ragazze ed il panorama. L’austero e vetusto agriturismo in cima alla collina si ergeva alle sue spalle, circondato da boschi e vigneti.
“Vengo dal futuro” disse il vecchio all’improvviso, mentre si versava altro vino.
“Cosa ci accadrà nel futuro?” chiese il giovane, senza impressionarsi.
“Nulla di buono. Questo borgo ad esempio: sarà distrutto da un terremoto.”
“Da che anno venite esattamente?”
“Dal duemila novantanove.”
“Chi ha vinto lo scudetto nel duemila novantanove?”
“Il Maranello”
“Il Maranello? Ma oggi non gioca nemmeno tra i professionisti.”
“Da quando possono giocare gli androidi è diventata la squadra da battere.”
“E la Juventus?”
“È retrocessa in serie B da almeno trent’anni. Non vince un campionato dal duemila trentadue.”
“Cosa le è successo?”
“Hanno sostituito gli arbitri con l’intelligenza artificiale.”
Il giovane ci bevve sopra una copiosa gollata di ortrugo.
“E come va l’economia?”
“Quella bene” assicurò il vecchio, “da quando le macchine hanno preso il posto dell’uomo e non lavora più nessuno l’Italia ci ha guadagnato. Eravamo preparati, da noi la gente era già allenata a non fare nulla e vivere alle spalle degli altri da decenni, forse da secoli”.
“Senza dover più lavorare le persone cosa fanno?”
“Sono tutti sempre in vacanza. Io ad esempio, sono più di cinquant’anni che passo le giornate a viaggiare ed a ubriacarmi.”
“Capisco” disse il giovane pensieroso, “viaggi nel tempo?”
“Ovviamente” chiosò il vecchio, bevendo altra Malvasia.
“Non sembra male il futuro, raccontato così.”
“Ti sbagli, ci sono molti problemi con il clima, le pandemie e le macchine che non funzionano. Parecchia gente muore a causa di androidi o droni difettosi. Impazziscono facilmente, più facilmente di quanto vadano fuori di senno le persone del tuo tempo. Magari ti alzi una mattina ed un fattorino robotizzato che doveva portarti la spesa, invece del pane ti recapita una bomba all’idrogeno.”
“Sei un sacripante!” urlò una donna uscendo da una delle camere dell’agriturismo sbattendo la porta.
“Fai attenzione a quello che dici marrana!” le rispose il marito, uscendo dalla camera in mutande e armato di brutte intenzioni.
“Voglio tornare a casa, sei un poco di buono, e ti puzzano i piedi!”
“Ringrazia il cielo se hai una casa, se non era per me a quest’ora dormivi in stazione o sotto a un ponte!”
“Preferisco tornare a raccogliere fragole a cinque euro l’ora piuttosto che restare un solo minuto ancora insieme a te, vecchio porco schifoso!”
La donna era inferocita come una pantera, era sulla quarantina, con folti capelli ricci e lunghe gambe da atleta. Si diresse verso i tavolini sotto al noce ed afferrò un grosso posacenere di marmo facendo cadere il libro di racconti horror nel bosco.
“Cosa pensi di fare craniolesa!?” ringhiò il marito, un pensionato italiano di settant’anni suonati.
“Ti ammazzo” gridò la donna, lanciando il pesante posacenere verso il marito.
Il pezzo di marmo attraversò il giardino con una parabola arcuata, sfiorò la testa del pensionato senza colpirlo e terminò la sua corsa contro un Ferrari 458 color blu mezzanotte, parcheggiato poco distante. Centrò in pieno il parabrezza sfondandolo.
Scese il silenzio per un attimo che sembrò eterno.
Poi si aprì una finestra al secondo piano e si affacciò Gino Carogna, con una pistola in mano.
Era un carabiniere corrotto, in vacanza di piacere all’agriturismo insieme a Guido, un suo amico ecuadoregno spacciatore di droga. Il Ferrari col parabrezza sfondato era il frutto delle loro attività illecite.
“Che diavolo sta succedendo, chi è il brutto figlio del demonio che mi ha sfasciato la macchina?”
“E’ stata quella pazza di mia moglie, ha cercato di uccidermi con un posacenere” denunciò il pensionato.
In quello stesso momento, una delle ragazze in piscina tirò fuori dallo zaino una grossa bottiglia di vetro piena di birra.
Era un’azione arditissima, di quelle che si vedono nei film di paura ambientati nei boschi e severamente proibita dal ferreo regolamento dell’agriturismo, che vietava espressamente di portare cibo e soprattutto vetri in zona piscina.
Per loro sfortuna, la titolare dell’agriturismo, una vecchia sadica e pazza, era appena scesa in piscina per la sua consueta nuotata pomeridiana.
“Signorina, il regolamento vieta di introdurre vetri in zona piscina, sia gentile e si sposti in giardino nella zona dei tavolini sotto al noce”.
La ragazza temeraria o folle o stordita, o forse tutte e tre le cose assieme iniziò a protestare.
“Non stiamo mica facendo niente, è solo una bottiglia di birra, insomma ma che palle…”
L’orribile vecchia emerse allora dalle acque della piscina spaventosa come il mostro di Loch Ness.
“Qui abbiamo delle regole bambolina, e se non ti vanno bene puoi anche andartene all’istante! Hai capito bene?”
“Ma che modi, ma che scortesia, ma che brutto posto è questo.”
Un cacciatore di nutrie in vacanza osservava divertito la scena seduto a bordo piscina a qualche metro di distanza. Stava fumando un puzzolente sigaro cubano mentre oliava la sua balestra per la caccia alle nutrie. Aveva da poco terminato di leggere un racconto di paura ambientato in un bosco.
La vecchia allora afferrò un ombrellone chiuso, lo estrasse dalla base in cemento dove era infilato e usandolo come una clava cominciò a randellare la ragazza sulla testa.
“Adesso ti faccio vedere io un po’ di buona educazione, capra!”
La ragazza cercò alla meglio di parare le ombrellonate come le fu possibile, ma la furia cieca della vecchia era incontrastabile.
“Così mi fai male, basta! Aiuto! Basta! Ho capito me ne vado, ma adesso basta, basta, mi fai male, ti prego, smettila!”
Le urla della ragazza furono coperte da quelle della donna riccioluta, il marito l’aveva afferrata per i capelli dopo averla stesa con un pugno, e Gino Carogna le stava fustigando la schiena con una cintura di coccodrillo.
Ancora più alto si alzò al cielo il ruggito inferocito di una ripugnante cicciona. Era rimasta incastrata tra gli stipiti della porta della sua stanza, troppo stretta per lasciar passare la sua enorme e grassa pancia.
“Ma è inaudito, la porta di questa camera è troppo stretta!! Ma che truffa è mai questa!?! Dalle foto sembrava una porta enorme!! Aiuto!! Aiutatemi!!”
La vecchia lasciò allora cadere l’ombrellone insanguinato sopra al corpo della ventenne, che ormai giaceva svenuta a bordo piscina con la testa tumefatta. Le amiche stavano scappando urlando e in preda al panico.
La vecchia invece si era calmata, e con compostezza olimpica raggiunse il capanno degli attrezzi da giardino, vi si infilò ancora grondante acqua e ne uscì poco dopo con una motosega in mano.
“Sono al servizio della clientela: non posso allargare la porta? Vorrà dire che restringerò la fastidiosa obesa” disse mentre accendeva la motosega. Poi la sua bocca si deformò in un ghigno sadico e crudele.
Il giovane ai tavolini con il suo bicchiere di ortrugo in mano buttò giù ancora una sorsata e guardò il vecchio con sospetto: “Davvero nel futuro le macchine impazziscono più facilmente di quanto accada alle persone nel mio tempo?”
Il vecchio sorrise, ed annuì: “Gli uomini del futuro sono già tutti impazziti, non ve ne è più uno sano sin dal duemila quarantadue.”
Gino Carogna sparò in faccia alla donna riccioluta facendole esplodere la testa.
La vecchia sadica tagliò in due la cicciona con la motosega, allagando la camera col sangue.
Il cacciatore di nutrie approfittò della ventenne svenuta, dopo averla trascinata tra i filari del vigneto che circondava la piscina.
Il vecchio viaggiatore del tempo bevve ancora un bicchiere di malvasia frizzante dei colli piacentini.
Quando il vino fu finito si alzò a raccogliere il libro dal titolo pauroso storie horror nel bosco.
Poi il sole calò dietro al bosco in cima alla collina e si fece buio. Un’altra domenica all’agriturismo era terminata, un’altra breve storia horror era stata scritta.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Quel pomeriggio di inizio estate faceva molto caldo, Edda e Rino si erano incontrati per passare qualche ora insieme, mangiare un gelato, tenersi per mano.
Ma tutto ciò era per Edda di una noia micidiale, lei preferiva vivere emozioni forti, leggere libri di avventure o guardare film pulp.
Così decise di coinvolgere Rino in un’ardimentosa e proibitissima azione.
Voleva organizzare un pigiama party a tema horror nella cantina del nonno, quella proibita dove nessuno poteva entrare, quella con il pozzo della morte.
Quando lo disse a Rino, egli ebbe paura. A tutti i bambini in tutta la valle avevano raccontato macabre storie di crudeli esecuzioni, di gente spinta dentro al pozzo pieno di lame nella cantina dell’antico palazzo medioevale.
Il vecchio Maldracini lo aveva comperato un quarto di secolo prima, ma il pozzo con le lame stava dentro a quella cantina da almeno cinquecento anni.
“Ho rubato la chiave per entrare nella cantina del nonno, se mi ami, questa notte verrai con me. Ci saranno anche Matilda, Gilda e Franchino”
Rino era terrorizzato, ma ad Edda non sapeva dire di no. Lei lo dominava totalmente.
“D’accordo, dimmi a che ora dobbiamo incontrarci”
“A mezzanotte” disse lei, poi gli sorrise raggiante, lo baciò sulle labbra e se ne andò.
Rino rimase imbambolato per alcuni minuti, confuso e felice. Era la prima volta che Edda lo baciava. Tornò a casa euforico, non vedeva l’ora che arrivasse la mezzanotte, e per qualche ora si dimenticò della cantina proibita.
Vittorio Maldracini si affacciò al balcone del suo ufficio, da dove poteva dominare tutte le sue terre. Aveva occhi di ghiaccio e folti baffi argentati e aveva fatto fortuna vendendo vino Gutturnio in tutto il mondo.
Si accese la pipa meditando sul futuro. Aveva messo in piedi un impero partendo dal nulla, ma la vita non gli aveva fatto sconti: era rimasto vedovo a cinquant’anni e, soprattutto, il suo unico figlio era un coglione.
Si chiamava Umberto, ed era così stupido che non avrebbe potuto condurre nemmeno un’edicola, figurarsi una megaditta come la Vinicola Maldracini. L’avrebbe portata al fallimento in pochi anni se mai un giorno fosse stato chiamato a guidarla.
Era un vero deficiente, lo sapevano tutti, ma era anche il suo unico erede e quindi senza dubbio un buon partito. E così Vittorio Maldracini era riuscito a trovare al figlio una brava moglie, istruita, capace ed intelligente. In futuro avrebbe affidato a lei le redini della sua azienda, o ancora meglio, se fosse vissuto abbastanza, direttamente alla nipote Edda.
Edda aveva già compiuto diciassette anni, aveva lo stesso carattere di nonno Vittorio e per fortuna non era scema come papà Umberto. Portava lunghi capelli biondi raccolti in due grosse trecce, andava bene a scuola, era un tipo sportivo, amava correre e le piaceva comandare.
Esercitava la sua influenza tanto sulle amiche quanto sul suo fidanzatino Rino. Poteva far di lui ciò che voleva, e le piaceva anche approfittarne, lasciando trapelare una latente devianza verso il sadismo.
A mezzanotte il cielo era terso ed una luna giallognola e pustolosa galleggiava nel buio, quando i cinque giovani in infradito e vestiti con colorati pigiami giunsero davanti all’ingresso della cantina proibita. Ci erano arrivati attraversando il giardino silenziosi, protetti dalle tenebre.
La porta per accedere alla cantina si presentava davanti a loro misteriosa ed inquietante, come una raccapricciante bocca di teschio spalancata, con grosse ante in ferro arrugginito chiuse tra le fauci scheletriche.
“Avanti, seguitemi” ordinò Edda, dopo aver aperto il lucchetto che serrava il catenaccio.
Le pesanti ante in ferro si aprirono cigolando, quel tanto che bastava ai corpi esili e pieni di vita dei cinque adolescenti per sgattaiolare all’interno dell’edificio, poi Edda le richiuse dietro di sé provocando un sinistro frastuono.
“Accendi la torcia elettrica” ordinò.
Franchino eseguì il comando ed un debole fascio di luce cominciò a scandagliare l’oscurità dalla quale erano rimasti avvolti.
L’ambiente nel quale si erano introdotti apparve ai loro occhi come lugubre e greve. Era una specie di lungo e largo corridoio sormontato da un basso soffitto a volta in mattoni. Dal centro del soffitto, nella parte centrale della cantina, pendevano come arti mozzati delle grosse pancette arrotolate, coppe piacentine e salami. Non vi erano finestre ma soltanto delle strette feritoie che davano sul cortile del palazzo ed erano schermate dall’interno con dei vecchi paraluce di legno consumati dall’umidità. Lungo le pareti laterali erano accatastate a stagionare migliaia di pregiate bottiglie di vino Gutturnio.
Verso la fine della cantina, qualche metro prima del muro di fondo, si apriva lo spaventoso e famigerato pozzo delle lame.
“Dobbiamo trovare l’interruttore della luce” suggerì Gilda, avendo notato alcune vecchie lampadine penzolare lungo le pareti tra i cumuli di bottiglie.
“Buona idea” condivise Franchino, illuminando i muri vicino all’ingresso alla spasmodica ricerca di un quadro elettrico.
“Eccolo!” disse esultante Edda, appena il fascio di luce passò sopra ad un vecchio interruttore.
“Accendi la luce” ordinò a Rino.
Il ragazzo si avvicinò esitante all’interruttore e dopo qualche attimo di incertezza premette il pulsante.
Una flebile luce rischiarò il tetro ambiente attorno ai ragazzi. Anche se era stata illuminata, una sorta di sinistra sensazione di malessere si poteva percepire per tutta la lunghezza di quella dannata cantina.
“Quello cos’è!?” indicò Matilda, puntando il dito verso un punto della stanza in mezzo a due cataste di bottiglie. Era sconvolta, ed un afflato di autentico ribrezzo le sfigurò la faccia in un’espressione di genuino terrore.
“Che schifo!” urlò Gilda.
“Veramente disgustoso” aggiunse Franchino puntando la torcia in quel punto nel tentativo di illuminarlo meglio.
Vi era una gabbia arrugginita per l’allevamento dei conigli. La maggior parte degli scompartimenti erano vuoti, ma in due di essi vi erano intrappolati tre nauseanti ratti neri grossi come gatti. Uno stava chiuso da solo, gli altri due assieme. Quello solo sembrava mansueto. Nell’altro scompartimento un ratto si muoveva nervosamente dando segni di evidente aggressività, mentre il secondo giaceva morto con la pancia sventrata.
Appena Franchino si avvicinò per ispezionare meglio le gabbie, il ratto aggressivo cercò di saltargli addosso, ma fu fermato dalla rete metallica alla quale si aggrappò emettendo degli orribili squittii.
Franchino si ritrasse istintivamente.
“Mi viene da vomitare, fanno ribrezzo” disse Gilda tenendosi una mano sullo stomaco
“Mio Dio, ma chi cazzo ce li ha messi dentro la gabbia?” chiese Matilda.
“Soltanto mio Nonno ha le chiavi di questa cantina. Ma quello fissato con i ratti è senza dubbio mio padre, ne parla in continuazione” disse Edda, mentre osservava affascinata le ripugnanti creature.
Franchino proseguì oltre e si avvicinò con prudenza al pozzo delle lame.
L’apertura del pozzo era sigillata da una grata in ferro ribaltabile. Si presentava di forma circolare e di diametro piuttosto modesto. Una persona ci sarebbe passata a fatica.
Franchino provò ad illuminare l’interno del pozzo, ma il buco scuro e profondo sembrava non avere il fondo. Nel punto più basso raggiunto dal fascio di luce della torcia, si vedevano luccicare le prime lame che come artigli spuntavano dalle pareti.
Un indefinibile e disgustoso puzzo di morte esalava dalle viscere della terra in cui il canale sembrava immergersi senza fine.
“E adesso cosa facciamo? Questo posto mette i brividi” osservò Matilda.
“Hai ragione, dovremmo andarcene, ho paura anch’io” disse Gilda.
Franchino lasciò cadere 50 centesimi nel centro del pozzo.
Non si udì nessun rumore, la moneta fu inghiottita dall’oscurità.
“Non andremo da nessuna parte sino all’alba” sentenziò Edda.
Poi appoggiò il suo zaino sul pavimento in pietra e cominciò a tirare fuori gli oggetti che aveva preparato per l’occasione: una stuoia arrotolata, 5 candele rosse di grosso diametro, un accendino, un cavatappi, bicchieri di carta, cartine per sigarette, tabacco, e due grammi di marijuana.
Distese la stuoia poco distante dal pozzo e vi sedette sopra invitando gli altri a raggiungerla. L’enorme ratto aggressivo continuava ad agitarsi dentro la gabbia muovendo la lunga coda schifosa.
Rino fu il primo a sedersi, poi arrivarono anche Franchino, Gilda e Matilda, la più carina delle tre ragazze.
Erano tutti in pigiama, giovani e belli, e con le candele spente vicino ai piedi scalzi.
“Lo sapevate che la provincia di Piacenza è la più infestata d’Italia?” disse Edda, mentre stappava una bottiglia di Gutturnio presa dalla catasta più vicina.
“Infestata da cosa? Dai topi?” chiese Matilda indicando i ratti nella gabbia.
“No cretina, sto parlando di spiriti e fantasmi”
“Edda ha ragione” convenne Franchino, “ogni castello ha il suo fantasma su queste colline, e nel piacentino di castelli ce ne sono tanti”
“Ma tu cosa ne sai?” disse Gilda ridacchiando.
“Il più famoso è il Conte Pier Maria Scotti” spiegò Edda, mentre versava da bere a tutti.
“Fu pugnalato a morte nel 1514 vicino al castello di Agazzano. Il suo cadavere fu gettato nel fossato senza essere sepolto e non fu più ritrovato. Nelle notti di luna piena, molti testimoni nel corso dei secoli, raccontano di aver visto il suo fantasma vestito di nero aggirarsi intorno al maniero brandendo una spada e terrorizzando i presenti”
Tra i giovani scese il silenzio, Edda aveva catturato la loro attenzione.
“Un altro fantasma famoso è quello di Rosania. Si racconta che la sventurata sia stata murata viva dentro una stanza segreta del castello di Gropparello dal marito geloso. Aveva scoperto che lei se la faceva con un cortigiano di nome Lancillotto e la sua vendetta è stata spietata. Le testimonianze ci dicono che da più di ottocento anni, nelle notti tempestose, è possibile udire strazianti urla femminili provenire dai sotterranei del castello.”
“Queste storie mettono paura” disse Matilda buttando giù una sorsata di vino e stringendosi al petto le ginocchia.
Tutti sghignazzarono.
Poi uno strano e terribile rumore, come di qualcosa che gratta sul legno e che sembrava provenire dalle profondità del pozzo, ridusse i ragazzi al silenzio.
“Avete sentito tutti?” domandò Gilda sbiancando.
Gli altri annuirono.
“Veniva dal pozzo o mi sbaglio?” chiese Matilda.
“Mi è sembrato proprio che venisse da lì” confermò Franchino.
I ragazzi restarono nuovamente in silenzio, ma si poteva soltanto avvertire lo zampettare ributtante del ratto nero che si agitava nella gabbia.
“Coraggio, sarà stata solo una suggestione, non può esserci nulla di vivo in fondo a quel pozzo” cercò di rassicurali Edda, mentre accendeva le candele intorno a loro.
“Sono proprio necessarie le candele accese?” domando Gilda, sempre più pallida, “mi mettono angoscia.”
“Servono a creare la giusta atmosfera per il nostro pigiama party gotico” spiegò Edda.
“Allora dove eravamo rimasti?”
“Ci stavi raccontando dello spirito inquieto di Rosania” disse Franchino.
Edda sogghignò osservando i volti cinerei delle ragazze: “Cosa succede? Avete paura?”
La guardarono incredule.
“Tu non ne hai?” chiese Gilda, buttando giù la sua dose di Gutturnio.
“Io non ho paura di niente.”
“Sta bene” disse Matilda con tono di sfida, allora vai a dare un occhio a quel pozzo, visto che sei tanto coraggiosa, mettici dentro un braccio.”
Gli altri ammutolirono, mentre Edda, per nulla preoccupata, si avvicinò al pozzo con lentezza teatrale, vi si inginocchiò davanti e ancora più lentamente infilò la mano e tutto il braccio destro tra le maglie della grata sino quasi a toccarla con la testa.
“Così può andare bene?” chiese sorniona, sapendo di aver vinto la prova.
I ragazzi applaudirono, Gilda e Rino la incoraggiarono: “Brava… sì… che dura… così… brava…”
All’improvviso però, il volto di Edda si fece serio, poi scuro, poi una smorfia di sofferenza le imbruttì la faccia e lei cacciò un pauroso urlo di dolore.
Cercò di tirare fuori il braccio dal pozzo, ma sembrava che qualcosa lo stesse trattenendo.
“Aiuto… mi fa male… aiutatemi… vi prego!” urlava Edda.
Gilda, ormai bianca come un cencio urlò a sua volta e cominciò a piangere, Matilda, terrorizzata, strillava tirandosi i capelli, Rino era paralizzato dal panico. Soltanto Franchino, poco prima intento a preparare un paio di spinelli con cartine, tabacco e marijuana, accennò una minima reazione cercando di scappare verso l’uscita della cantina.
“Siete dei cacasotto” gridò Edda, tirando fuori il braccio dal pozzo e rimettendosi in piedi. “Era solo uno scherzo, ci siete cascati tutti” disse sghignazzando.
“Sei una stronza, sono quasi morta di paura” protestò Matilda
“Non era divertente” piagnucolò Gilda, ancora scossa.
Franchino fece finta di nulla, e tornò a sedere riprendendo a rollare le canne.
“Raccontaci un’altra storia di spiriti e fantasmi piacentini” propose Rino, per darsi un tono, e per dissimulare la paura e nascondere la figuraccia che aveva appena fatto.
“Con piacere, ne conosco ancora, in onore del nostro pigiama party horror” disse Edda tornando a sedere.
Rino la guardò camminare a piedi nudi sulle pietre del pavimento estasiato con occhio rapito e cuore innamorato.
“Allora la sapete la storia del cuoco Giuseppe?”
“E chi cazzo è il cuoco Giuseppe?” domandò Franchino.
“Era il cuoco del Castello di Rivalta, circa trecento anni fa. Secondo la leggenda fu ucciso per vendetta dal maggiordomo a cui aveva scopato la moglie. E così da allora, sino ai giorni nostri, certe notti dentro al castello si sentono terrificanti rumori provenire dalle cucine: suoni di coltelli, pentole e carne pestata.”
Edda non terminò di pronunciare le parole “carne pestata” che un nuovo inquietante strepitio come di catene trascinate uscì fuori dal pozzo terrorizzando tutti quanti.
Il frastuono anche questa volta fu breve, poi di nuovo calma.
I giovani si guardarono impauriti, persino sulla fronte di Edda si era formata una scintillante pellicola di freddo sudore.
“Non è che per caso c’è qualche fantasma anche in questo palazzo?” chiese Matilda, ridacchiando in modo isterico.
Il volto di Edda si adombrò, mentre tutti gli sguardi erano su di lei.
“Qualcosa si racconta…” ammise infine, dopo un prolungato silenzio.
“È successo durante la guerra… C’era una banda di partigiani comunisti qui in Val Tidone. Pare che il capo fosse una carogna e che abbia fatto passare brutti momenti ai nazi e ai loro alleati fascisti. Nell’inverno del 1944 il suo gruppo è stato sgominato e lui è stato catturato vivo.”
“E lo hanno portato qui?” chiese Gilda pallida, stringendo la mano a Matilda.
“Esatto, lo hanno interrogato per alcuni giorni proprio in questa cantina e non stiamo parlando di interrogatori con una lampada sulla faccia e le mani legate dietro la schiena. No signori, si sono scomodati dall’alto comando nazi per mandare dei professionisti della tortura e farlo cantare”
“Ed il partigiano ha confessato?” domandò Franchino mentre finiva di preparare il primo spinello.
“Se ha parlato, oppure si è portato all’inferno i suoi segreti non te lo so proprio dire” disse Edda versandosi altro vino nel bicchiere.
“Quello che so, è che il partigiano non è uscito vivo da questa cantina e che alla fine lo hanno spinto giù nel pozzo della morte.”
Gilda e Matilda erano ancora più spaventate
“Forse, adesso vuole uscire dal pozzo per vendicarsi” ipotizzò Franchino, abbassando gli occhi sulle forme del seno di Matilda, ben evidenziate dal pigiama aderente.
“Adesso vi faccio vedere io qualcosa di veramente spaventoso” disse Edda alzandosi in piedi.
Rino, seduto sulla stuoia, la guardava con occhi devoti, desideroso di compiacerla, come se lei fosse la sua dea.
Lei si guardò attorno con fare annoiato, poi piantò lo sguardo in faccia a Rino. Era in piedi davanti a lui e lo sovrastava fisicamente e psicologicamente.
“Ascoltami bene” cominciò a spiegare appoggiandogli un piede sul ginocchio, “adesso voglio che tu faccia fuori quello schifoso ratto nero che continua ad agitarsi nella gabbia.”
“Cosa? E come posso riuscirci?” domandò Rino incredulo, senza togliere gli occhi dal piede di Edda.
“È facile, la vedi quella tanica da dieci litri, mezza piena di gasolio agricolo nell’angolo vicino all’ingresso?”
Rino annuì, iniziando ad eccitarsi mentre lei spostava il piede dal ginocchio sopra la coscia.
“Farai una bella doccia di gasolio al ratto, e poi gli darai fuoco con l’accendino.”
“Che schifo!” protestò Matilda.
“Almeno smetterà di agitarsi e squittire” convenne invece Franchino, accendendo uno degli spinelli che aveva appena terminato di preparare.
Rino si alzò, incapace di disobbedire ad un ordine di Edda.
Dopo aver recuperato la tanica di gasolio ne aprì il tappo, e con due colpi secchi lanciò un paio di getti addosso al ratto. La bestia reagì con furore, tentando di attaccarlo, ma le strette maglie della gabbia erano una prigione invalicabile. Vi si aggrappò mordendo le sbarre e squittendo in modo atroce.
Poi Rino, dopo aver riposto la tanica di gasolio a distanza di sicurezza, si accostò nuovamente alla gabbia con l’accendino acceso nella mano destra. Quando fu abbastanza vicino passò la fiamma sopra una delle zampe del ratto aggrappate alle maglie di metallo.
La creatura si trasformò in una palla di fuoco, iniziò a lanciarsi con veemenza da un lato all’altro della gabbia nel disperato tentativo di fuggire, emettendo raccapriccianti squittii di rabbia e dolore. La forza del ratto era tale che, complice anche il calore del fuoco, le maglie di ferro si piegarono in più punti e Rino dovette indietreggiare spaventato, temendo che riuscisse a sfondarle.
Una disgustosa puzza di carne bruciata si diffuse per tutta la cantina.
Gilda si era coperta gli occhi per non assistere alla scena, mentre Franchino continuò a fumare, le sue attenzioni erano tutte rivolte al fondoschièna di Matilda, involontariamente offerto ai suoi occhi mentre lei, piegata sulle ginocchia, vomitava in un angolo.
Alla fine il grosso ratto nero si adagiò agonizzante al centro della gabbia. Il muso era contratto e la bocca, dalla quale fuoriuscivano gli affilati incisivi, era semiaperta e contorta in una smorfia feroce. Gli occhi pieni di odio e cattiveria fissavano Rino in modo spaventoso.
Edda guardò l’intera esecuzione affascinata dalle fiamme e dall’efferata mattanza.
Poi, senza provare il minimo rimorso, prese una seconda bottiglia di Gutturnio, la stappò e nuovamente riempì i bicchieri per tutti.
Rino tornò a sedere vicino a lei profondamente turbato.
Gilda e Matilda, particolarmente sconvolte, cercarono di riprendersi bevendo vino, mentre Franchino era già mezzo partito per gli effetti della marijuana.
Fu allora che si sentirono nuovamente agghiaccianti rumori, come di unghie che grattano sul legno, provenire da dentro il pozzo. Tra i ragazzi calò nuovamente un glaciale silenzio.
Questa volta il rumore si protrasse per alcuni interminabili secondi, e lo sentirono tutti: difficile sostenere che si trattasse di una semplice suggestione.
“Voglio tornare a casa” urlò Gilda tra le lacrime.
“Oh, Gesù… Che cazzo era quel rumore, lo avete sentito tutti vero? Veniva dal pozzo!” gridò Matilda.
Franchino ora rideva senza senso con lo sguardo perso nel vuoto e le pupille dilatate, come se il suo cervello fosse partito per un viaggio lontano da lì.
Edda prese in mano la situazione.
“Rino, prendi la torcia e seguimi, andiamo a vedere cosa succede in quel dannato pozzo”
Rino eseguì, ma tremava e se la stava facendo sotto.
Prima che potessero raggiungere l’apertura della cavità i rumori erano cessati. Edda esaminò con la torcia elettrica le profondità del canale senza vedere altro che qualche lama scintillante spuntare dalle pareti.
“Non si vede un cazzo di niente qui dentro” informò il gruppo.
“E i rumori? Si sentono ancora i rumori?” indagò Matilda.
“No, non si sente più nulla, a parte una gran puzza di merda in decomposizione, sembra il cesso del diavolo.”
“Guarda, qui c’era una porta” osservò Rino indicando il muro in fondo alla cantina.
“Hai ragione e sembra che sia stata murata di recente” intuì Edda ispezionando la malta ancora fresca tra i mattoni”
Rino si avvicinò incuriosito per osservare meglio la porta murata. Franchino continuava a ridacchiare completamente estraniato, mentre Gilda e Matilda tremavano terrorizzate in disparte.
“Lo senti anche tu?” domandò Edda avvicinando l’orecchio ai mattoni.
Rino si appoggiò letteralmente alla parete per poi ritrarsi subito dopo spaventato.
“Santo Cielo… i rumori del pozzo… vengono da lì dietro.”
“Proprio così. Coraggio datti da fare e cerca di aprire un buco in questo muro”
Rino impallidì impaurito.
“Allora? Cosa stai aspettando?”
“Potrebbe essere pericoloso, e poi… se ci scoprono?”
“Non fare il fifone, e non farmi incazzare. Voglio che apri un passaggio in quella porta murata e tu lo farai.”
Lo sguardo infervorato ed il tono perentorio non ammettevano repliche.
Rino raccolse un grosso chiodo arrugginito abbandonato sul pavimento e cominciò a scavare la malta nei punti dove gli sembrava che fosse più malleabile.
Dopo alcuni minuti di certosino lavoro era già riuscito ad estrarre dal muro un paio di mattoni aprendo una piccola feritoia.
Rino continuò, tolti i primi mattoni il lavoro procedeva più speditamente, e dopo circa un quarto d’ora il buco nel muro era già sufficientemente grande per poterci entrare.
“Passami la pila” disse Edda infilandosi nel varco.
Rino le passò la torcia elettrica restando poi imbambolato a guardare il suo flessuoso corpo scomparire dentro l’apertura.
“C’è una scala di pietra” disse la voce di Edda da dietro la porta murata.
“Venite” fu il perentorio invito.
I suoi amici avevano paura, e poi il puzzo mortifero che proveniva da dietro quella porta era nauseante.
Ma nessuno di loro poteva resistere al fascino e alle richieste di Edda, e così, facendosi coraggio e aiutati da una irresistibile curiosità, Rino e Matilda la raggiunsero per scendere assieme a lei le angoscianti profondità dove quella scalinata di pietra li avrebbe condotti.
Gilda invece, paralizzata dal terrore, rimase tremebonda a fianco di Franchino che, rovinato dalla droga, si era addormentato appoggiato ad una catasta di bottiglie di Gutturnio in stagionatura.
La scalinata di pietra era ripida e stretta e si attorcigliava su sé stessa come una lunga chiocciola senza fine.
Dopo diversi minuti e moltissimi gradini, avvolti dalle tenebre e dal fetore sempre più intenso, i tre adolescenti arrivarono al livello inferiore, dentro una stanza circolare scavata nel tufo.
Nel centro del soffitto a cupola si apriva un canale attraverso il quale filtrava una flebilissima luce. Dal pavimento in terra battuta al centro della stanza spuntavano lance e lame acuminate.
Edda con la torcia elettrica ispezionò quell’antro diabolico. In un orribile carnevale della follia, la luce artificiale illuminò un susseguirsi di spaventose, macabre, disgustose edicole collocate lungo tutta la circonferenza della stanza. In corrispondenza di ogni edicola, si vedevano sul pavimento e sulla parete decine di croci di legno e piccole lapidi di pietra.
“Mio Dio!” esclamò Matilda sconvolta, “i cadaveri dei condannati al supplizio del pozzo sono stati sepolti direttamente qui sotto.”
“Ed ecco spiegati i misteriosi rumori” aggiunse Edda, mentre il fascio di luce della torcia elettrica inquadrava un gigantesco ratto intento a rosicchiare una croce di legno sgangherata.
Poi la luce della torcia cominciò ad indebolirsi.
“Faremmo meglio ad andarcene da qui sotto prima che la pila si spenga” osservò Rino con la voce tremante.
Si udì un nuovo angosciante stridio, un clangore cigolante di metallo arrugginito.
Matilda e Rino si strinsero impauriti al corpo di Edda.
Lei diresse la torcia verso l’apertura al centro del soffitto da dove provenivano i suoni di ferraglia e tutti trattennero il respiro. Dai bordi del canale, piccole lacrime di sangue gocciolavano pigramente precipitando silenziose sul pavimento.
“No!! Haaa… noo… pietà… nooo… Aiutooo!!”
Erano le urla disperate di Gilda.
Subito dopo, un ultimo straziante grido disumano si accompagnò ad orribili suoni di carne sbattuta, tessuti strappati e muscoli lacerati.
Poi un corpo tragicamente martoriato fu sputato fuori come carne masticata dal buco al centro del soffitto, e si andò a sfracellare sopra le lame che spuntavano dal pavimento sottostante. La faccia orribilmente sfigurata di Gilda fissava ora nel vuoto con un solo occhio vitreo, mentre una lancia insanguinata spuntava dall’altra cavità oculare dopo avergli trapassato il cranio.
I ragazzi urlando per lo spavento si ritrassero istintivamente verso la parete circolare della stanza.
Rino inciampò sul femore di uno scheletro legato ad una catena di ferro e cadde urlando. Edda illuminò quel punto che non avevano ancora perlustrato portando alla luce le numerose ossa torturate di altri sventurati condannati a morire là sotto.
Matilda divenne pallida come un cadavere e svenne cadendo in avanti. Il corpo privo di sensi rimbombò sul pavimento.
“Franchino ci sei ancora?” urlò Edda in direzione del buco nel soffitto. Rino intanto si era rialzato stringendosi a lei come una cozza agli scogli.
Nessuno rispose.
“E adesso cosa facciamo?”
“Torniamo di sopra, tu caricati Matilda sulla schiena.”
Rino eseguì volentieri, non vedeva l’ora di andarsene da quell’inferno.
“Come cazzo avrà fatto Gilda a cadere nel pozzo…” disse Edda, mentre risalivano la ripida scalinata.
“Temo che qualcuno l’abbia spinta dentro, forse Franchino è impazzito, o forse lo ha fatto per via della droga” suggerì Rino ansimando. Matilda era bella, anche da svenuta, ma pesava più di quaranta chili e lui era già scoppiato a metà della salita.
La torcia elettrica ormai quasi del tutto esaurita emetteva solo una fioca luce, praticamente inutile. Edda decise di spegnerla per conservare quel poco che restava in caso di emergenza.
Lei e Rino, che per di più aveva Matilda in groppa, dovettero procedere al buio, lentamente.
“Ti prego fermiamoci un poco, non ce la faccio più, sono stanco”
“Sei senza fisico” commentò Edda con disprezzo.
All’improvviso un vento gelido e puzzolente salì lungo la scalinata e investì i loro corpi.
“Cosa cazzo sta succedendo?” gridò Rino mentre gli si scompigliavano i capelli.
“Non lo so” gli urlò Edda di rimando, cercando di aggrapparsi alle pareti per non cadere.
Matilda riprese i sensi, confusa impiegò qualche secondo per capire che si trovava sulla schiena di Rino, poi si sentì sollevare dal vento putrescente ed una forza invisibile iniziò a trascinarla verso il basso.
Matilda gridò il suo sgomento con tutto il fiato che aveva in gola.
Rino allungò un braccio e riuscì ad afferrarla per la maglietta del pigiama, ma il risucchio era troppo potente, il pigiama si strappò e la ragazza fu ingoiata dalle tenebre sotto di loro.
Lei si sentì avvolgere il petto nudo da qualcosa di freddo, pulsante e viscido mentre il suo corpo precipitava sempre più in basso. Vide la cosa fluorescente che l’aveva presa. Sbarrò gli occhi. “Via! Vattene Via! Aiutatemi, salvatemi, Aiutooo!”
Si udirono altre orribili urla di terrore provenire dal fondo della scalinata poi finalmente il vento si placò e tornò il silenzio.
“Usciamo da qui, e alla svelta” balbettò Edda, ma le gambe erano pesanti e riusciva a muoverle con fatica.
Rino allungò le mani tremanti nel tentativo di aggrapparsi a lei.
Continuarono a salire tenendosi per mano, con il cuore in gola ed il fiato corto, allungando il passo man mano che la luce proveniente dalla cantina sopra di loro si faceva più forte.
Quando finalmente arrivarono in cima e riuscirono a superare la porta murata erano esausti. Rino era fradicio di sudore e verde dalla paura, Edda sconvolta.
Davanti ai loro piedi nudi e sporchi la grata di ferro ribaltabile era stata aperta, e oltre il pozzo un giovane avanzava verso di loro barcollando come uno zombie. Sulla faccia grottesca era stampato una specie di sorriso stupido, mentre gli occhi cerchiati di nero roteavano follemente nelle orbite. Dalla testa gli spuntava il grosso chiodo di ferro arrugginito che Rino aveva usato per scavare il passaggio nella porta murata.
Il corpo crollò sulle ginocchia poco prima di raggiungere l’apertura del pozzo e poi cadde di lato emettendo un ultimo gemito gutturale.
“Cazzo! Hanno ammazzato anche Franchino!” gridò Edda isterica.
Rino spalancò la bocca. Un rivolo di sangue e cervella uscì dalla testa perforata di Franchino rovesciata sul pavimento di pietra.
Si sentirono nuovi rumori provenire contemporaneamente da dentro il pozzo e da dietro la porta. Sembrava il suono di un vecchio giradischi, ed il motivetto orecchiabile era inconfondibile, persino Edda, Rino e tutta la loro generazione lo avevano già sentito almeno una volta in vecchi film di guerra o in qualche documentario storico di quelli che davano in televisione.
Fischia il vento e infuria la bufera
scarpe rotte e pur bisogna andar
Poi qualcosa di spaventoso e maleodorante cominciò a fuoriuscire dal pozzo fluttuando lentamente.
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir
Era una gelatinosa presenza fluorescente vagamente simile ad una figura umanoide e puzzava di cadavere in avanzato stato di decomposizione.
Ogni contrada è patria del ribelle,
ogni donna a lui dona un sospir,
Il corpo indefinito era coperto da una lacera divisa militare sporca di fango, sangue, e terrore.
nella notte lo guidano le stelle,
forte il cuor e il braccio nel colpir
Le scheletriche mani ossute con le dita nere e livide si protendevano già verso i ragazzi.
“Gesù, Giuseppe e Maria”, mormorò Rino divenuto bianco come la panna.
Se ci coglie la crudele morte,
dura vendetta verrà dal partigian;
La faccia orribile era coperta dalle mosche, deturpata dall’odio e dalla sanguinaria sete di vendetta, e attraverso la bocca distorta in un ghigno mostruoso e disumano, si intravedevano putridi denti marci ed un moncherino di lingua bluastra.
ormai sicura è già la dura sorte
del fascista vile e traditor.
“Non ucciderci”, implorò Edda singhiozzando, “Non farlo… per favore, ti prego…”
Gli occhi dello spettro erano torbidi e diabolici e iniettati di sangue e brillavano di una sinistra luce assassina. Sul capo portava un bucherellato berretto da ufficiale con l’emblema comunista della falce e martello.
La mano sinistra del fantasma, viscosa e palpitante, si strinse attorno alla gola di Rino in una morsa fatale, poi il braccio destro penetrò nel petto per strappargli il cuore. Un copioso rigagnolo di sangue uscì dalla bocca del ragazzo tingendogli il mento di rosso.
Edda gridò, chiese aiuto, implorò pietà, ma la sua anima fu avvolta dal nero sudario dell’oscurità. Poi non sentì più niente di niente e si dimenticò anche del pigiama party horror nella cantina proibita.
Umberto, il figlio coglione di Vittorio Maldracini, fu processato per il triplice omicidio di Gilda, Franchino e Rino. Il corpo di Matilda non fu mai ritrovato.
Il giorno in cui fu pronunciata la sentenza di primo grado, Edda, l’unica sopravvissuta, era presente nell’aula del tribunale.
Condanna all’ergastolo, fu il verdetto.
Suo padre fu trascinato via in manette con la faccia inebetita.
Lei osservò la scena a pugni stretti.
Poi aprì lentamente la mano sinistra che nascondeva uno stemma insanguinato con la falce e martello.
Alzò lo sguardo verso i giudici ed una perversa luce omicida brillò nei suoi folli occhi color del ghiaccio.
Gimbo Spazzacorrotti era un vecchio di quarant’anni, terrapiattista e teorico del complotto. Disoccupato da almeno vent’anni, tirava avanti con il reddito di cittadinanza e la pensione della madre. Era anche tendenzialmente ludopatico con manie di persecuzione, ipocondriaco, sovrappeso e strabico dall’occhio sinistro.
I suoi passatempi preferiti consistevano nello scrivere brevi racconti horror, oppure nell’intrattenere i pensionati che frequentavano l’unico bar del paesino dove viveva, aggiornandoli con le più recenti e inquietanti teorie del complotto.
Come scrittore di racconti dell’orrore era veramente scarso, e in fondo lo sapeva anche lui. Per questo motivo era più facile che si dedicasse alla divulgazione delle trame più segrete e delle verità più sconvolgenti.
Era un piovoso pomeriggio di inizio primavera in Val Tidone, quando Gimbo, svegliatosi da poco, si recò al bar per fare colazione.
Quella settimana faceva il turno del pomeriggio Matilda, la sua barista preferita. Lui la corteggiava da sempre, ma lei preferiva uscire con i muscolosi figli dei più facoltosi proprietari terrieri della provincia, che il sabato sera la portavano a ballare in discoteca, mentre Gimbo l’aveva più volte invitata, sempre senza successo, a qualche conferenza della Flat Earth Society o ai meeting organizzati dal movimento raeliano o da qualche altra congrega specializzata in rapimenti alieni o teorie degli antichi astronauti.
“Ciao bellezza, come ti butta oggi? Mi prepari il solito?”
Matilda accennò un sorriso affettato.
“Portamelo al tavolo, dolcezza” aggiunse Gimbo, facendole l’occhiolino.
Che coglione, pensò Matilda, sfoggiando la sua miglior smorfia di circostanza seguita da un educato cenno di assenso. In verità desiderava prenderlo a calci nel culo, ma era una professionista ed aveva imparato a disprezzare i clienti più odiosi in silenzio e senza farsi scoprire.
“Amici” disse Gimbo rivolgendosi carico di orgoglio al suo uditorio abituale, “ho le nuove ultime e definitive prove che il Molise e la Finlandia non esistono”
Piero, Ugo, Sandro e Luigi erano le sue vittime preferite. A quell’ora del pomeriggio, dopo aver iniziato a bere Gutturnio e Malvasia sin dalla mattina, erano già abbastanza intontiti dal vino da poter ascoltare e forse persino credere alle teorie complottiste raccontate da Gimbo. Dopo anni passati ad assistere ai suoi monologhi, sapevano tutto sulla teoria della terra piatta, sul finto allunaggio, sul crollo indotto delle torri gemelle, sulle manovre cospirazioniste delle multinazionali del farmaco per vendere i vaccini.
“Ma mio nipote ha sposato una donna di Campobasso” osò obiettare Piero, pensionato di settant’anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero per non vedersi ridurre la pensione.
Gimbo lo guardò in tralice, ma assorbì bene il colpo.
“Sciocchezze, vi dico che il Molise non esiste, è solo il parto della fantasia di un famoso scrittore. Per sfuggire alle accuse di aver incendiato la chiesa del suo villaggio, diede la colpa agli abitanti di quel luogo fantastico: i famigerati molisani.”
“Ma mio figlio è stato in viaggio di nozze a Termoli nel 1986, mi ha mandato anche una cartolina” disse Ugo, pensionato di settantadue anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero, per non vedersi ritirare la seconda pensione di invalidità.
Gimbo cominciò a sudare impercettibilmente, non si aspettava questa resistenza. Era forse accaduto qualcosa? Aveva perso il consueto ascendente su quei dannati vecchi?
“Dovete fidarvi di me, il Molise non esiste, ne è una prova il famoso detto popolare secondo cui le battute sui molisani sono scontate, ma sono belle perché nessuno si offende”
“Io ci sono stato durante la guerra” disse gonfiando il petto Sandro, 94 anni, che mangiava carne una sola volta a settimana, ma solo se aveva lavorato nelle vigne anche il sabato, rigorosamente in nero, per non vedersi decurtare il cumulo delle sue tre pensioni: quella di guerra, quella di contadino, e quella di vecchiaia.
Gimbo cominciava ad irritarsi ed un caldo rossore gli si arrampicò su dal collo fino alle guance.
Matilda si avvicinò sculettando al loro tavolo. Indossava pantaloncini aderenti che le mettevano in risalto glutei marmorei e le belle e lunghe gambe. Il seno era offerto alla vista della compiaciuta clientela attraverso una camicetta di cotone a quadrettoni in stile country lasciata oscenamente aperta sul davanti. Sul vassoio portava un paio di bottiglie di Gutturnio frizzante, un cappuccio ed un cornetto al pistacchio.
“Allora non lo volete proprio capire. Vi dico che il Molise è un’invenzione dell’ordine costituito, fa parte di una cospirazione planetaria per dominare il mondo e nasconderci che la terra è piatta” insistette Gimbo, immergendo il cornetto nel cappuccio ancora caldo, e cominciando a mangiarlo nervosamente.
I quattro pensionati lo ascoltavano scettici, riempiendosi i bicchieri di vino e continuando a bere.
Fu allora che si mise di mezzo Artemio, un rappresentante di prodotti fitosanitari che stava leggendo la Gazzetta dello sport seduto al tavolo accanto.
“Certe cazzate non si possono proprio sentire, a voi terrapiattisti e teorici del complotto vi si dovrebbe prendere a legnate, così vi passerebbe la voglia di propagandare idiozie.”
Gimbo si sentì avvolgere da una scura nube di disagio, non poteva subire un simile affronto e percepì crescere dentro di sé una collera sorda e nera.
“Non ascoltate questo servo del potere, al soldo delle multinazionali della chimica. Vuole solo confondervi le idee per indurvi a comperare cibo sintetico e frutta transgenica”
Artemio scoppiò in una grassa risata: “deve proprio mancarti qualche rotella, i tuoi genitori hanno partorito anche figli normali o in famiglia sono tutti disconnessi come te?”
La faccia di Gimbo si accartocciò allora in una cupa smorfia rabbiosa, era come un cielo plumbeo prima di una tempesta. Artemio lo stava sfidando apertamente con insulti infamanti e non poteva sopportarlo. Aprì di scatto le mani, le richiuse in pugni stretti e serrati, le riaprì allungando le dita sui fianchi. Si era alzato in piedi rovesciando la tazzina del cappuccio sul tavolo.
“Stai molto attento a quel che dici, i confini tra lecito e illecito sono come l’arcobaleno, apparentemente esistono ma osservando da vicino si dissolvono.”
“Mi stai forse minacciando pidocchio?” chiese Artemio confuso, incerto sul significato di quelle parole.
“Che cazzo fai!? Vedi di stare più attento, che poi mi tocca pulire” ringhiò Matilda, appena si accorse della tazzina rovesciata. La sua stridula voce tradiva tutto il disprezzo che provava per lui.
Gimbo si sentì accerchiato. Tutti erano contro di lui: i vecchi ubriaconi, la bella Matilda che lo aveva sempre respinto, il maledetto venditore di prodotti chimici per l’agricoltura. Le sue narici cominciarono a dilatarsi ritmicamente come quelle di un animale in fuga che ha fiutato il predatore, le mani continuarono a serrarsi e a riaprirsi ritmicamente, una grossa vena gli pulsava nel collo.
“Non riuscirete a fregarmi!” strillò loro in faccia, “conosco i vostri trucchetti del cazzo, volete incastrarmi ma non ci riuscirete, io sono migliore di voi, sono più intelligente di voi e ho capito il vostro gioco…”
“Che stupidaggini” lo interruppe Stefanone, un grosso contadino che lavorava la vigna a giornata, rigorosamente in nero, per non perdere il sussidio di disoccupazione ed il reddito di cittadinanza.
Gimbo si sentì braccato, senza scampo, stretto d’assedio da un anello di fuoco, barricato nel bunker della sua pazza testa. Con un rapido scatto si lanciò dietro al bancone del bar ed afferrò un grosso coltello che usavano per affettare il salame.
“Siete un branco di vigliacchi, prostitute dei poteri forti. Scommetto che vi si siete già fatti tutti impiantare il chip sottocutaneo. E’ con quello che vi controllano lo so, ora vi ordineranno di farmi fuori, ma io l’ho già capito bastardi!” urlò in preda all’ira, furibondo, fuori di sé.
Salì in piedi sul bancone del bar brandendo il coltello come una spada, guardandosi attorno con l’occhio sano iniettato di sangue, la faccia trasfigurata in un grugno di follia.
“Nooo!! Scendi subito dal bancone con quei luridi piedi” gli gridò Matilda disperata.
Gimbo le balzò sopra come una furia, la buttò a terra, e prima che chiunque potesse intervenire le piantò il coltello nella pancia, mordendole la faccia con bestiale ferocia mentre le sprofondava la lama dentro le budella.
La ragazza urlava devastata dal dolore, sentiva il fetore del suo alito sulla faccia, mentre lui le strappava a morsi brandelli di carne dal volto come un lupo affamato.
Artemio fu il primo a reagire. Afferrò la sedia sulla quale stava seduto ed usandola come un’arma colpì Gimbo sul collo, di taglio, quasi ammazzandolo sul colpo.
Stefanone fu su di lui subito dopo, lo sollevò di peso e lo lanciò contro alla parete come fosse stato un sacco nero dell’immondizia pieno di stracci bagnati.
Matilda continuava ad urlare e a piangere, con la faccia sfigurata, il coltello nella pancia ed il sangue che usciva copioso e scuro e viscido e puzzolente.
Gimbo cercò di rimettersi in piedi ma Artemio e Stefanone lo picchiarono duro, e furono pugni pesanti come martellate e calci violenti come fucilate.
Gimbo sentì il dolore avvolgerlo in un sudario di morte e sofferenza.
I carabinieri e due ambulanze arrivarono dopo circa quindici minuti. Matilda morì durante il trasporto in ospedale.
Gimbo Spazzacorrotti fu condannato a cinque anni di reclusione per omicidio preterintenzionale con l’attenuante della seminfermità mentale.
Durante la carcerazione scrisse molti brevi racconti horror.
Scontata la pena tornò a frequentare il bar del suo paese e continuò a raccontare storie di cospirazioni e teorie del complotto.
La nuova barista si chiamava Luisa, e Gimbo la corteggiava da sempre.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale