Brevi racconti horror

Gimbo Spazzacorrotti era un vecchio di quarant’anni, terrapiattista e teorico del complotto. Disoccupato da almeno vent’anni, tirava avanti con il reddito di cittadinanza e la pensione della madre. Era anche tendenzialmente ludopatico con manie di persecuzione, ipocondriaco, sovrappeso e strabico dall’occhio sinistro.

I suoi passatempi preferiti consistevano nello scrivere brevi racconti horror, oppure nell’intrattenere i pensionati che frequentavano l’unico bar del paesino dove viveva, aggiornandoli con le più recenti e inquietanti teorie del complotto.

Come scrittore di racconti dell’orrore era veramente scarso, e in fondo lo sapeva anche lui. Per questo motivo era più facile che si dedicasse alla divulgazione delle trame più segrete e delle verità più sconvolgenti.

Era un piovoso pomeriggio di inizio primavera in Val Tidone, quando Gimbo, svegliatosi da poco, si recò al bar per fare colazione.

Quella settimana faceva il turno del pomeriggio Matilda, la sua barista preferita. Lui la corteggiava da sempre, ma lei preferiva uscire con i muscolosi figli dei più facoltosi proprietari terrieri della provincia, che il sabato sera la portavano a ballare in discoteca, mentre Gimbo l’aveva più volte invitata, sempre senza successo, a qualche conferenza della Flat Earth Society o ai meeting organizzati dal movimento raeliano o da qualche altra congrega specializzata in rapimenti alieni o teorie degli antichi astronauti.

“Ciao bellezza, come ti butta oggi? Mi prepari il solito?”

Matilda accennò un sorriso affettato.

“Portamelo al tavolo, dolcezza” aggiunse Gimbo, facendole l’occhiolino.

Che coglione, pensò Matilda, sfoggiando la sua miglior smorfia di circostanza seguita da un educato cenno di assenso. In verità desiderava prenderlo a calci nel culo, ma era una professionista ed aveva imparato a disprezzare i clienti più odiosi in silenzio e senza farsi scoprire.

“Amici” disse Gimbo rivolgendosi carico di orgoglio al suo uditorio abituale, “ho le nuove ultime e definitive prove che il Molise e la Finlandia non esistono”

Piero, Ugo, Sandro e Luigi erano le sue vittime preferite. A quell’ora del pomeriggio, dopo aver iniziato a bere Gutturnio e Malvasia sin dalla mattina, erano già abbastanza intontiti dal vino da poter ascoltare e forse persino credere alle teorie complottiste raccontate da Gimbo. Dopo anni passati ad assistere ai suoi monologhi, sapevano tutto sulla teoria della terra piatta, sul finto allunaggio, sul crollo indotto delle torri gemelle, sulle manovre cospirazioniste delle multinazionali del farmaco per vendere i vaccini.

“Ma mio nipote ha sposato una donna di Campobasso” osò obiettare Piero, pensionato di settant’anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero per non vedersi ridurre la pensione.

Gimbo lo guardò in tralice, ma assorbì bene il colpo.

“Sciocchezze, vi dico che il Molise non esiste, è solo il parto della fantasia di un famoso scrittore. Per sfuggire alle accuse di aver incendiato la chiesa del suo villaggio, diede la colpa agli abitanti di quel luogo fantastico: i famigerati molisani.”

“Ma mio figlio è stato in viaggio di nozze a Termoli nel 1986, mi ha mandato anche una cartolina” disse Ugo, pensionato di settantadue anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero, per non vedersi ritirare la seconda pensione di invalidità.

Gimbo cominciò a sudare impercettibilmente, non si aspettava questa resistenza. Era forse accaduto qualcosa? Aveva perso il consueto ascendente su quei dannati vecchi?

“Dovete fidarvi di me, il Molise non esiste, ne è una prova il famoso detto popolare secondo cui le battute sui molisani sono scontate, ma sono belle perché nessuno si offende”

“Io ci sono stato durante la guerra” disse gonfiando il petto Sandro, 94 anni, che mangiava carne una sola volta a settimana, ma solo se aveva lavorato nelle vigne anche il sabato, rigorosamente in nero, per non vedersi decurtare il cumulo delle sue tre pensioni: quella di guerra, quella di contadino, e quella di vecchiaia.

Gimbo cominciava ad irritarsi ed un caldo rossore gli si arrampicò su dal collo fino alle guance.

Matilda si avvicinò sculettando al loro tavolo. Indossava pantaloncini aderenti che le mettevano in risalto glutei marmorei e le belle e lunghe gambe. Il seno era offerto alla vista della compiaciuta clientela attraverso una camicetta di cotone a quadrettoni in stile country lasciata oscenamente aperta sul davanti. Sul vassoio portava un paio di bottiglie di Gutturnio frizzante, un cappuccio ed un cornetto al pistacchio.

“Allora non lo volete proprio capire. Vi dico che il Molise è un’invenzione dell’ordine costituito, fa parte di una cospirazione planetaria per dominare il mondo e nasconderci che la terra è piatta” insistette Gimbo, immergendo il cornetto nel cappuccio ancora caldo, e cominciando a mangiarlo nervosamente.

I quattro pensionati lo ascoltavano scettici, riempiendosi i bicchieri di vino e continuando a bere.

Fu allora che si mise di mezzo Artemio, un rappresentante di prodotti fitosanitari che stava leggendo la Gazzetta dello sport seduto al tavolo accanto.

“Certe cazzate non si possono proprio sentire, a voi terrapiattisti e teorici del complotto vi si dovrebbe prendere a legnate, così vi passerebbe la voglia di propagandare idiozie.”

Gimbo si sentì avvolgere da una scura nube di disagio, non poteva subire un simile affronto e percepì crescere dentro di sé una collera sorda e nera.

“Non ascoltate questo servo del potere, al soldo delle multinazionali della chimica. Vuole solo confondervi le idee per indurvi a comperare cibo sintetico e frutta transgenica”

Artemio scoppiò in una grassa risata: “deve proprio mancarti qualche rotella, i tuoi genitori hanno partorito anche figli normali o in famiglia sono tutti disconnessi come te?”

La faccia di Gimbo si accartocciò allora in una cupa smorfia rabbiosa, era come un cielo plumbeo prima di una tempesta. Artemio lo stava sfidando apertamente con insulti infamanti e non poteva sopportarlo. Aprì di scatto le mani, le richiuse in pugni stretti e serrati, le riaprì allungando le dita sui fianchi. Si era alzato in piedi rovesciando la tazzina del cappuccio sul tavolo.

“Stai molto attento a quel che dici, i confini tra lecito e illecito sono come l’arcobaleno, apparentemente esistono ma osservando da vicino si dissolvono.”

“Mi stai forse minacciando pidocchio?” chiese Artemio confuso, incerto sul significato di quelle parole.

“Che cazzo fai!? Vedi di stare più attento, che poi mi tocca pulire” ringhiò Matilda, appena si accorse della tazzina rovesciata. La sua stridula voce tradiva tutto il disprezzo che provava per lui.

Gimbo si sentì accerchiato. Tutti erano contro di lui: i vecchi ubriaconi, la bella Matilda che lo aveva sempre respinto, il maledetto venditore di prodotti chimici per l’agricoltura. Le sue narici cominciarono a dilatarsi ritmicamente come quelle di un animale in fuga che ha fiutato il predatore, le mani continuarono a serrarsi e a riaprirsi ritmicamente, una grossa vena gli pulsava nel collo.

“Non riuscirete a fregarmi!” strillò loro in faccia, “conosco i vostri trucchetti del cazzo, volete incastrarmi ma non ci riuscirete, io sono migliore di voi, sono più intelligente di voi e ho capito il vostro gioco…”

“Che stupidaggini” lo interruppe Stefanone, un grosso contadino che lavorava la vigna a giornata, rigorosamente in nero, per non perdere il sussidio di disoccupazione ed il reddito di cittadinanza.

Gimbo si sentì braccato, senza scampo, stretto d’assedio da un anello di fuoco, barricato nel bunker della sua pazza testa. Con un rapido scatto si lanciò dietro al bancone del bar ed afferrò un grosso coltello che usavano per affettare il salame.

“Siete un branco di vigliacchi, prostitute dei poteri forti. Scommetto che vi si siete già fatti tutti impiantare il chip sottocutaneo. E’ con quello che vi controllano lo so, ora vi ordineranno di farmi fuori, ma io l’ho già capito bastardi!” urlò in preda all’ira, furibondo, fuori di sé.

Salì in piedi sul bancone del bar brandendo il coltello come una spada, guardandosi attorno con l’occhio sano iniettato di sangue, la faccia trasfigurata in un grugno di follia.

“Nooo!! Scendi subito dal bancone con quei luridi piedi” gli gridò Matilda disperata.

Gimbo le balzò sopra come una furia, la buttò a terra, e prima che chiunque potesse intervenire le piantò il coltello nella pancia, mordendole la faccia con bestiale ferocia mentre le sprofondava la lama dentro le budella.

La ragazza urlava devastata dal dolore, sentiva il fetore del suo alito sulla faccia, mentre lui le strappava a morsi brandelli di carne dal volto come un lupo affamato.

Artemio fu il primo a reagire. Afferrò la sedia sulla quale stava seduto ed usandola come un’arma colpì Gimbo sul collo, di taglio, quasi ammazzandolo sul colpo.

Stefanone fu su di lui subito dopo, lo sollevò di peso e lo lanciò contro alla parete come fosse stato un sacco nero dell’immondizia pieno di stracci bagnati.

Matilda continuava ad urlare e a piangere, con la faccia sfigurata, il coltello nella pancia ed il sangue che usciva copioso e scuro e viscido e puzzolente.

Gimbo cercò di rimettersi in piedi ma Artemio e Stefanone lo picchiarono duro, e furono pugni pesanti come martellate e calci violenti come fucilate.

Gimbo sentì il dolore avvolgerlo in un sudario di morte e sofferenza.

I carabinieri e due ambulanze arrivarono dopo circa quindici minuti. Matilda morì durante il trasporto in ospedale.

Gimbo Spazzacorrotti fu condannato a cinque anni di reclusione per omicidio preterintenzionale con l’attenuante della seminfermità mentale.

Durante la carcerazione scrisse molti brevi racconti horror.

Scontata la pena tornò a frequentare il bar del suo paese e continuò a raccontare storie di cospirazioni e teorie del complotto.

La nuova barista si chiamava Luisa, e Gimbo la corteggiava da sempre.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Gimbo

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