Omicidio in Val Tidone

Paranoici che non hanno torto

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A capo delle indagini sull’omicidio in Val Tidone era stato messo il commissario Evodio Segugio, ed egli sembrava avesse fretta di proseguire la sua investigazione, si sentiva a disagio nel stare seduto a tavola inoperoso. Sostarono alla locanda il tempo necessario per il pranzo, senza concedersi nessuna ulteriore pausa.

Ai suoi ordini erano stati inviati anche due sgherri dell’OVRA: due persone di poche parole.

Infine, come consulente scientifico, avevano chiamato il professore Leonzio Landone. E al professore i due agenti dell’OVRA non piacevano. Aveva imparato a interpretare i loro silenzi, a considerare quelle facce inespressive come qualcosa di diverso dalla quinta essenza della stupidità. Tuttavia giudicava che quei due non si potessero annoverare tra le multiformi categorie dell’essere umano, e per questo oltre a suscitargli disgusto continuavano a incutergli un certo timore. Non era solo per la loro stazza fisica o perché potevano essere veramente pericolosi. Ciò che Landone giudicava più inquietante erano quei grugni inebetiti, come se oltre al cervello anche l’anima fosse stata succhiata fuori dal loro cranio scimmiesco. Camminavano, sudavano e scorreggiavano, considerò il professore versandosi il vino bianco della casa nel grosso bicchiere di vetro, ma a lui sembravano comunque morti. Solo il commissario aveva una luce di minima vitalità in fondo agli occhi, peccato che fosse uno stronzo, rifletté bevendo con gusto il profumato nettare di bacco.

Anche Segugio era assorto nei propri pensieri, e dalla fronte corrugata si poteva intuire una certa inquietudine. Dai colloqui della mattinata e dai sopralluoghi sulla scena del delitto e a casa della vittima non aveva potuto trarre nulla di utile, non vi erano testimoni, nessuna traccia. Le cose non si mettevano per il meglio. E poi c’era il professore in mezzo ai piedi, più interessato a bere che a dare un qualsiasi serio contributo alle indagini. Lo osservava mentre tracannava il vino bianco aromatico della locanda, pensando a chi sa cosa, con lo sguardo furbo di chi sta cercando di fregarti. Come era possibile che all’OVRA credessero di cavar fuori qualcosa di buono da quel pagliaccio? Certe volte le decisioni degli organi superiori erano imperscrutabili, pensò il commissario, sperando che alla fine di quella storia decidessero di spedire Landone al confino. Nel suo rapporto finale, lui non gli avrebbe fatto sconti.

Intanto il professore continuava a bere.

Stavano per servire il surrogato di caffè quando Landone decise di assentarsi per andare in bagno. Attraversò la sala da pranzo della locanda e si avviò verso i gabinetti. Era ancora perfettamente sobrio, il vino leggero e di bassa gradazione che aveva ingurgitato, per quanto abbondante, non aveva sortito altro effetto che stimolargli la vescica. Mentre pisciava pensò che la propria vita in fin dei conti era sfortunata: c’erano le corse dei cavalli, ma lui perdeva sempre, era diventato un professore, ma ora doveva lavorare per l’OVRA e improvvisarsi investigatore, avrebbe voluto amare molte donne, ma non riusciva a legarsi con nessuna. Si chiese cosa gli sarebbe servito per essere un vero vincente, come facesse tutta quella gente indaffarata, quasi frenetica, a sopravvivere ed essere felice, tutta presa dall’euforia adrenalinica di una vita senza senso.  Prima o dopo però, avrebbero prevalso altre riflessioni: la caducità della salute, l’inevitabilità della morte, l’inutilità dei beni terreni. In molti avrebbero allora pensato che stavano sprecando il proprio tempo in questo mondo, ed avrebbero avuto ragione. Il professore considerò che la propria giovinezza fosse già da tempo finita, ed era ormai più vicino alla fine di un’esistenza mediocre piuttosto che al principio di una vita di successo. Tirò lo sciacquone e tornò sui suoi passi.

Appena fuori dai cessi si trovò davanti la locandiera. Era una simpatica cicciona alta come un armadio, aveva le spalle grosse e un ghigno accattivante sopra al doppio mento flaccido. Le tette erano enormi e il professore non poté fare a meno di notarlo. La grassona stava in piedi in mezzo al corridoio, e non vi era modo di procedere oltre, se lei non lo avesse voluto. Landone abbozzò un sorriso e lei lo ricambiò avvicinandosi, non disse nulla, ma lui capì ogni cosa.

Lei aprì una porta sulla destra che dava accesso ad uno sgabuzzino.

Lui la strinse tra le braccia trascinandola dentro e gli infilò la lingua in bocca.

La locandiera lo abbracciò e lui la lasciò andare soltanto dopo un lungo bacio appassionato e dopo aver chiuso a chiave la porta del ripostiglio. Lei si girò alzandosi la lunga gonna e mostrando al professore le gigantesche terga. Non indossava le mutande e lui non era il tipo da tirarsi indietro.

Un ratto scappò fuori dal bugigattolo mentre il professore la prendeva da dietro. Fu un rapporto breve, fugace ma appagante. Quando finirono la panciona aprì la porta felice, e sempre senza dire nulla se ne andò così come era arrivata.

Il professore si ricompose velocemente e tornò nella sala da pranzo. Nessuno si accorse di nulla, lui si rilassò e cominciò a fumare la sua pipa. Dopo settimane in bianco, la prima scopata senza pagare una puttana, pensò sogghignando prima di bere il surrogato di caffè.

Nel primo pomeriggio si trasferirono tutti presso la dimora di Alcide Pramiro, il fratello malato dell’uomo assassinato. Il sole era alto nel cielo, faceva caldo e dalle strade sterrate della campagna piacentina saliva una polvere sottile che diventava appiccicosa a contatto dei corpi sudati per l’afa. Le case del piccolo borgo erano poche, vecchie e grigie, consumate dal tempo e dalla miseria. Gli abitanti erano quasi tutti bifolchi impegnati a lavorare nei campi, ad eccezione di poche vecchiette che, nascoste dietro le persiane socchiuse delle finestre, osservavano incuriosite gli insoliti forestieri aggirarsi per il villaggio.

La casa dei Pramiro era più grande delle altre, ma era ugualmente antica e parimenti disposta su due piani. Costruita qualche secolo prima emanava un’aurea di tristezza e malinconia, come se anche i muri scrostati di quella vecchia dimora fossero partecipi del dolore e dell’angoscia provocati dall’assassinio e dalla oramai prossima ed inevitabile dipartita del capo famiglia.

Gli scagnozzi dell’OVRA rimasero fuori davanti alla porta, con le loro facce assurde e vestiti di nero come la morte. Segugio e Landone entrarono nel vetusto edificio e salirono al piano superiore, dove erano collocati gli appartamenti dei Pramiro. Le scale in legno scricchiolarono fragorosamente al loro passaggio, sinistro presagio di nuove sfortune. Appena arrivati, il commissario intuì subito che qualcosa di nuovo e negativo era accaduto. Suonarono alla porta e una donna sui quarant’anni con la faccia da funerale venne ad aprire.

Era la figlia più giovane di Alcide, che alla vista dei due inattesi visitatori spalancò gli occhi infastidita, riconobbe l’uniforme della milizia fascista indossata dal commissario e ne fu turbata. Si fece forza e domandò tremando: “Cosa volete?”

“Sono il commissario Evodio Segugio, questo è il mio collega Landone, e stiamo indagando sul delitto della Val Tidone: l’omicidio di Mario Pramiro. Vorremmo fare qualche domanda a….”

Segugio non fece in tempo a terminare la frase che la donna scoppiò a piangere.

“Mio zio è stato ucciso, mio padre sta morendo, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate nella notte” riuscì a dire a fatica singhiozzando. Alla imprevedibile perdita dello zio, si sommava dunque l’imminente fine del genitore. Il primo era stato barbaramente assassinato, il secondo era stato lentamente divorato dalla malattia. La donna era comprensibilmente sconvolta.

“Abbiamo già risposto alle domande dei carabinieri, Vi prego di andarvene e di lasciarci al nostro dolore” aggiunse tra le lacrime.

“Posso comprendere il Vostro dispiacere, ma ogni minuto che passa è tempo prezioso che rischiamo di perdere mentre gli assassini di Vostro zio sono ancora in libertà.”

La donna non smetteva di piangere e in suo soccorso apparve sulla porta la sorella.

“Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto già detto” disse con voce tagliente, fissando decisa il volto di Segugio.

Il professore rimase colpito e affascinato dall’energia sprigionata da quella femmina, la sua avvenenza solare lo ammagliò al primo sguardo. Benché non fosse più molto giovane, la sua bellezza era intatta e Landone ne fu attratto fatalmente. Aveva lunghi capelli neri, la pelle bianchissima e la vita sottile. Il seno era prosperoso e le lunghe gambe conferivano slancio alla sua figura snella e seducente. Le labbra carnose e un naso delizioso abbellivano un volto radioso, illuminato da due grandi occhi verdi come smeraldi preziosi.

“Lasciate a noi il compito di giudicare, ho letto il rapporto dei carabinieri sull’omicidio in Val Tidone e vi sono alcuni dettagli che riteniamo importante approfondire” insistette il commissario.

“Sono certa potremo aiutarvi a chiarire i vostri dubbi in un altro momento, ed ora se volete scusarci, dovremmo accudire nostro padre” ribadì la donna tentando di chiudere la porta.

“Potremmo interrogarvi anche in altra sede, e credo che Vi risulterebbe complicato badare a Vostro padre da dietro le sbarre di una prigione” disse Segugio con tono minaccioso, dopo aver bloccato la porta con la mano, un attimo prima che si chiudesse.

Un lampo di disappunto fuoriuscì dagli occhi smeraldo della donna, ma Segugio sembrava insensibile all’energia e al fascino della figlia primogenita di Alcide Pramiro. Al contrario il professore osservava quel volto indignato con trasporto, percependone la passione e la potenziale carica sessuale fuori dall’ordinario.

“Non mi illudo che possiate avere degli scrupoli, perciò per ora avete vinto commissario, ma sarà meglio per Voi fare in fretta, la mia disposizione d’animo nei Vostri confronti potrebbe peggiorare velocemente” disse lei riaprendo la porta.

Segugio e Landone furono fatti entrare e la sorella più giovane li condusse nell’ampio soggiorno, dove tutta la famiglia si era raccolta per essere vicina ad Alcide Pramiro nel momento della morte che si avvicinava. I mobili erano tutti antichi come la casa, ma di buon gusto, e davano nell’insieme un aspetto gradevole ed accogliente a tutto l’ambiente. C’erano comode poltrone in pelle, una grande libreria che copriva tutta la parete più lunga tra le due alte finestre aperte sulla via. Su di un tavolo ovale era collocato un moderno grammofono.

Le presentazioni avvennero in un clima di aperta ostilità. Tutti i parenti nutrivano espliciti sentimenti di diffidenza e astio nei confronti di tutto ciò che la divisa del commissario rappresentava. Cleofe e Melitina erano i nomi delle due figlie di Alcide, Aristide Zenobio era il marito di Cleofe, la signora Benedetta la seconda moglie di Alcide.

Segugio, totalmente indifferente ai sentimenti di antipatia che tutti i presenti mostravano di provare, senza troppo tergiversare iniziò a porre le proprie domande. Il professore si sedette invece su di una comoda poltrona e cominciò a spiare le belle gambe di Cleofe. La donna indossava un’elegante gonna nera lunga poco oltre le ginocchia e una fresca camicia bianca di seta che metteva in risalto il lungo collo cinto da una sottile collana di perle. Si era seduta su di un largo divano proprio di fronte al professore, mostrando le lunghe gambe per il piacere voyeuristico del Landone.

“La sera dell’omicidio, Mario è stato in visita da suo fratello, come la signora Benedetta ha già confermato, sapreste dirmi che cosa si sono detti?”

La moglie dell’infermo abbassò lo sguardo verso il pavimento. Era una donna esile, tutta vestita di nero, come se fosse già in lutto ancor prima che il marito fosse spirato.

Melitina le sedeva accanto, il volto ancora intristito dalle lacrime non poteva competere in bellezza con quello della sorella maggiore. Tutto di lei appariva mesto: dall’abbigliamento semplice e umile alle forme del suo corpo un po’ tisico e trascurato. Anche il carattere fragile e introverso suggeriva come l’esistenza di quella donna fosse stata segnata sin dall’infanzia da un destino di tristezza e melanconia. Non aveva trovato marito, aveva perduto presto la madre, ed ora che anche il padre era vicinissimo alla fine, sarebbe rimasta sola con la matrigna, in attesa che la propria vita priva di significato e felicità si trascinasse lentamente sino all’età della vecchiaia. Melitina era consapevole della propria sorte e ne soffriva, si piegò sulle ginocchia e riprese a piangere.

“Mio zio veniva tutti i giorni a trovare papà, pregavano insieme, talvolta anche in compagnia di Benedetta e di mia sorella. Cosa volete che si siano detti? Non sapete che mio padre è gravemente malato? Sta morendo se non lo avete ancora capito! Perché non andate a cercare l’assassino anziché perdere tempo con noi?”

Cleofe aveva parlato con tono aggressivo, le parole erano uscite dalla sua bocca carnosa come saette sibilanti, gli occhi avevano scintillato carichi di tensione, la voce si era fatta acida e il corpo rigido. Il commissario non fu nemmeno per un istante scalfito da quella stizzita reazione, al contrario il professore ne rimase ferito, come se all’improvviso la bellezza di un’opera d’arte venisse compromessa da una nuova luce, troppo forte, troppo intensa per poterla avvolgere in modo armonico.

“Sapreste allora dirmi se Vostro zio avesse dei nemici?” domandò Segugio con voce calma e rilassata, nettamente in contrasto con l’aria tesa che si respirava in quella stanza e che si poteva affettare con un coltello.

“Gli unici nemici di mio zio erano i fascisti!” disse aspra Cleofe “perché non andate ad interrogarli? Perché non volete lasciarci in pace? Pensate veramente di poterci infastidire in questo modo senza conseguenze? Sappiate che anche per Voi verrà un tempo in cui dovrete rendere conto!”

La seconda replica risentita della donna investì Segugio con lo stesso impeto della prima, questa volta lasciando qualche segno. Il professore notò sul volto del commissario una leggera smorfia di disappunto, forse di irritazione. Egli stesso iniziava a provare nuove sensazioni che non era ancora in grado di decifrare compiutamente, ma che intuiva potessero assomigliare a vera e propria avversione nei confronti di quella creatura così bella eppure d’improvviso così indesiderabile.

“Dopo le abituali visite a Vostro marito, Mario Pramiro dove si recava?” chiese il commissario direttamente alla signora Benedetta, ignorando le provocazioni di Cleofe.

“Credo tornasse a casa per la cena… si, ne sono certa, dopo averci fatto visita tornava sempre dalla signora Tina per cenare” rispose timidamente la moglie di Alcide Pramiro.

Cleofe non intervenne, ma osservando il suo volto indurito dalla tensione, il professore pensò di poter indovinare i suoi pensieri, e valutò che non dovessero essere riflessioni accomodanti.

“Parlava spesso delle cene preparate dalla Tina, la considerava un’ottima cuoca” aggiunse Melitina che preso coraggio aveva smesso di piangere.

Segugio si ricordò che nella cucina a casa del morto, erano stati ritrovati i resti di una cena mai consumata. Iniziò a porsi delle domande. Cosa era accaduto dopo che Mario aveva lasciato la casa del fratello? Per quale motivo aveva rinunciato alla propria cena? Era andato direttamente al granaio dove sarebbe stato ucciso o era prima passato da casa? Decise che avrebbe dato in seguito una risposta a questi quesiti e continuò l’interrogatorio.

“Che voi sappiate aveva altre frequentazioni oltre alla cerchia dei parrocchiani? Condivideva qualche amicizia particolare con la Vostra famiglia?”

A questa nuova domanda scese un imbarazzato silenzio, tutti i presenti abbassarono il capo, tutti tranne Segugio, Cleofe e il professore i cui sguardi si incrociarono per un attimo. A Landone sembrò di scorgere una fiammata d’ira negli occhi smeraldo della donna, tanta era l’energia che potevano sprigionare. La vide alzarsi e avvicinarsi al commissario, una nuova sfuriata stava per abbattersi sul solerte funzionario dell’OVRA. Era come un fiume in piena, Cleofe parlava e gesticolava spiegando a Segugio le proprie ragioni, parlava e agitava le braccia, dicendo al commissario che non poteva rovistare nella loro vita privata. La sua voce salì di tono sin quasi ad urlare, senza mai smettere di parlare. Arrivò a minacciare il commissario di percosse fisiche e alla fine si sedette nuovamente, dopo aver rilasciato tutto il suo carico di livore, lamentele e scintille, senza nemmeno essere sfiorata dal sospetto che tutto quel parlare potesse risultare sgradevole.

Il professore iniziò ad innervosirsi, non era preparato a fronteggiare questo genere di situazioni. Era abituato a gestire le sue amanti, ma non aveva mai conosciuto una donna come quella, la giudicò totalmente insopportabile, e pensò che sarebbe uscito di senno stando lì ad ascoltare quelle tempeste umorali. Doveva trovare il modo di farla tacere, se avesse ripreso a mitragliargli il cervello con quella intollerabile voce, non avrebbe resistito a lungo, ma cosa poteva fare? Doveva farsi venire un’idea brillante, intanto Segugio attaccò con un’altra insidiosa domanda.

“In paese si mormora che il signor Mario avesse una relazione extraconiugale con la moglie del segretario comunale, potete confermare questa circostanza?”

Un’espressione di indignazione si materializzò plasticamente sui volti dei parenti dell’uomo assassinato, e l’affronto fu tale che persino il marito della signora Cleofe, sino a quel momento silenzioso come una sfinge, osò intervenire.

“Come potete credere a questi pettegolezzi, a queste menzogne messe in circolazione al solo scopo di screditare il povero Mario?”

Aristide Zenobio era una persona semplice, dai modi garbati, il tono della voce era quello di chi quasi si scusa per aver osato parlare. Non vi erano intenzioni polemiche nelle sue parole, piuttosto sincero rammarico per l’ennesima cattiveria consumata ai danni di un morto, che in quanto tale non poteva nemmeno difendersi dai suoi calunniatori.

“Tu stai zitto” brontolò Cleofe nel dialetto locale, prima che il marito potesse aggiungere altro. Zenobio abbassò allora lo sguardo, pentito di aver dispiaciuto la moglie.

Lei era scattata in piedi, pronta a scatenare nuovamente il proprio impeto. Iniziò una serrata e veemente requisitoria contro il regime e le sue aberrazioni, a suo dire all’origine di tutte le manovre persecutorie contro la sua famiglia. Nell’enfasi e nella concitazione delle proprie locuzioni aveva addirittura cambiato il colore della pelle, che da bianchissima era diventata rossa, sia per la calura che per la rabbia.

Landone oramai non ne poteva più. Accarezzò persino l’idea di rubare la pistola del commissario e sparare in testa a quella strega isterica, ma riuscì a dominare quel repentino istinto omicida. Le gambe della donna, che poco prima avevano stuzzicato le sue fantasie, ora gli davano la nausea, mentre si muovevano nevrotiche insieme a quel corpo ben fatto, ma che ormai era divenuto soltanto il piacente involucro di uno spirito logorroico. Persino Segugio iniziava a dare segni di impazienza. Il volto imperturbabile col quale aveva fatto fronte alle prime scenate di Cleofe, aveva lasciato il posto ad una maschera di pietra, scolpita d’irritazione e fastidio.

Quando lei terminò il suo discorso accalorato, per un attimo ci fu silenzio, e Landone con destrezza cercò di imporre una tregua. Sapeva bene che non poteva durare a lungo, ma anche solo cinque minuti di rilassante normalità lo avrebbero aiutato a non dar fuori di testa.

“Che ne dite di fare una bella pausa? Potrebbe essere un ottimo momento per un caffè, possibilmente corretto” chiosò il professore.

Segugio annuì, ed anche la signora Benedetta e Melitina diedero a intendere di essere d’accordo. Soltanto Cleofe si oppose all’idea, subito spalleggiata dal servizievole marito.

“Perché non andate via piuttosto?” domandò sempre più inacidita. Zenobio la guardava annuendo con aria stranita.

“Il nostro lavoro non è finito, e lo porteremo a termine in ogni caso, con o senza surrogato di caffè” rispose freddamente, ma con decisione, il commissario.

Melitina si alzò e andò in cucina a preparare un tè, Benedetta cominciò ad apparecchiare la tavola. Cleofe si sedette accavallando le gambe, e dondolando nervosamente il piede destro osservava a turno sia il commissario sia il professore, riservando ad entrambi sguardi di rimprovero carichi di malevolenza.

Landone si accorse in quel momento che quegli occhi avevano qualcosa di famigliare, qualcosa che aveva già visto in passato. Aveva sete, desiderava bere del vino o una qualsiasi bevanda purché fosse alcolica. Guardò ancora gli occhi di Cleofe, con attenzione e a lungo. Quegl’occhi, aveva già visto occhi così, erano gli occhi di una pazza, pensò il professore ricordandosi di una sua amante di qualche anno prima, una ragazza di ventidue anni sposata con un generale e che era stata qualche tempo in manicomio.

Si chiamava Livia e si erano conosciuti ad una festa, o almeno Landone  così credeva di ricordare, dato che quando la incontrò era già sbronzo e i dettagli di quella notte erano scomparsi dalla sua memoria. Era certo solo del fatto di essersi svegliato il giorno dopo nel letto coniugale della ragazza. Si frequentarono a lungo durante tutto il 1936 e mentre il marito era in Etiopia a conquistare l’Impero, Livia si faceva consolare dal professore. Landone ricordava bene quanto Livia fosse disturbata, non sopportava un sacco di cose e ciò che era peggio, almeno dal suo punto di vista, non tollerava che lui si ubriacasse. Era fissata con il sesso, pretendeva di farlo tutti i giorni e quando Landone era sbronzo e non riusciva a combinare un gran che, Livia si infuriava. La sera sei troppo ubriaco e la mattina troppo sconvolto, gli diceva sempre quando si arrabbiava, ma il professore continuò a ubriacarsi regolarmente e finirono con il litigare pesantemente. In ultimo lei lo lasciò. Mia madre me lo aveva detto di non mettermi con un vecchio coglione come te, gli aveva sbraitato contro il giorno che aveva deciso di rompere quella relazione extraconiugale. L’ultima volta che si videro Livia era ancora giovane, bella, con capelli voluminosi e un fisico formoso. Landone continuava ad osservare Cleofe e alla fine ne fu certo. I suoi occhi inquieti assomigliavano incredibilmente agli occhi folli della Livia furibonda.

Servirono del tè e del cognac, Landone ignorò il primo e si lanciò sul secondo, ne sentiva il bisogno e sorseggiandolo lentamente si sentì meglio per alcuni secondi. La tensione non accennava a diminuire e Segugio aveva fretta di concludere l’interrogatorio. Era deluso, sino a quel momento non aveva ottenuto nessuna informazione utile. Cleofe in modo esplicito, ma anche gli altri nei fatti, non lo stavano aiutando. Il commissario stava studiando quelle quattro persone davanti a sé come un pugile sulla difensiva studia l’avversario, pronto a ripartire con un colpo a sorpresa, finalizzato a eludere una guardia sino a quel momento insuperabile. Era sicuro che quei quattro sapessero, che stessero coprendo qualcosa che non volevano condividere, ma non riusciva a comprenderne il motivo. Certo erano diffidenti e apertamente ostili al fascismo, eppure doveva esserci dell’altro, stava pensando Segugio, un risvolto della vicenda di cui forse avevano persino timore. Le reazioni esagerate di Cleofe e la preoccupazione che si poteva leggere sui volti delle altre due donne erano tutti indizi che suggerivano uno stato d’animo di apprensione e nervosismo. Che cosa nascondevano i parenti di Mario Pramiro, di cosa avevano paura?

Landone invece era attraversato da pensieri di natura totalmente diversa. Non gli piaceva indagare sull’omicidio in Val Tidone, non gli piaceva quella vecchia costruzione di campagna, non gli piacevano le vecchie e pesanti tende alle finestre, non gli piaceva la tappezzeria triste e scura come non gli piacevano gli inquilini di quella casa. Melitina e Benedetta lo deprimevano con quelle facce in lutto, per lo sfortunato Zenobio provava compassione, immaginando quale esistenza infernale avesse scelto di vivere insieme alla terribile moglie. Cleofe gli provocava sentimenti di schietta e violenta repulsione. Avrebbe voluto andarsene, ma sapeva che non c’era nessun posto dove andare. Era costretto a restare in quel vecchio e brutto appartamento a cercare di scoprire chi fosse l’assassino di un uomo che non aveva nemmeno conosciuto e del quale non gli fregava nulla. Non gli fregava niente di niente, avrebbe solo voluto chiudersi in una camera buia, scopare la locandiera obesa ed ubriacarsi. Riempì il bicchiere e continuò a bere.

Cleofe si accese una sigaretta, osservò con disprezzo il professore tracannare il secondo bicchiere di cognac, pensò che fosse ripugnante e lo odiò. Segugio, oltre che gli stessi sentimenti di inimicizia e insofferenza, suscitava nella donna anche una profonda irritazione, una rabbia che lei non riusciva a reprimere e ancor meno a controllare. Non tollerava il suo portamento calmo e rilassato, ne detestava la faccia da sbirro, e più di ogni altra cosa non poteva accettare il modo orgoglioso con il quale sfoggiava la maledetta divisa della milizia fascista. Cleofe era un’autentica antifascista democratica, avrebbe voluto vivere in America e considerava tutte le dittature una iattura per l’umanità. Disapprovava Mussolini e tutti i fascisti, soprattutto da quando avevano messo fuori legge la massoneria e cominciato a perseguitare la sua famiglia.

Se avesse fatto un’altra domanda fuori luogo lo avrebbe preso a schiaffi, si disse Cleofe lanciando a Segugio uno sguardo di sfida. Si sentiva superiore e riteneva di poter tener testa al funzionario dell’OVRA.

In effetti sino a quel momento aveva gestito la situazione con destrezza, Segugio non era stato capace di tirare fuori un ragno dal buco, e lei si era convinta di poterlo dominare sino alla fine, come era abituata a fare con gli altri uomini, come faceva ogni giorno con il marito. Landone non la preoccupava minimamente, lo giudicò una nullità e decise semplicemente di ignorarlo. Si era accorta degli sguardi indiscreti che il professore aveva rivolto alle sue gambe, ma non ne era rimasta impressionata. Da un idiota quale pensava che lui fosse, non si aspettava nulla di diverso. Per un istante, mentre fumava avidamente la sigaretta, immaginò il professore inginocchiato ad adorarle i piedi in uno stato di totale asservimento. I suoi occhi brillarono di una luce enigmatica proprio mentre incrociò ancora il suo sguardo.

Povero stronzo, pensò lei.

E’ completamente pazza, si disse lui.

Segugio posò la tazzina del tè sul tavolino che aveva davanti, ringraziò per l’ospitalità e decise che era giunto il momento di tornare all’attacco.

“Vi risulta che Mario possedesse dei valori? Possedeva molto denaro o qualche altro oggetto prezioso?”

A questa nuova domanda Benedetta e Melitina abbassarono nuovamente il capo senza parlare, imbarazzate non sapevano cosa rispondere. A toglierle d’impaccio ci pensò ancora una volta Cleofe.

“Mio zio aveva fatto voto di povertà, era un uomo semplice e pio, dei denari e di ogni altra cosa terrena posseduta dalla nostra famiglia si è sempre occupato mio padre. Io credo siate del tutto fuori strada commissario, di questo passo non arriverete da nessuna parte, e intanto l’assassino è là fuori, impunito!”

Cleofe parlava con la consueta agitazione e gesticolando animatamente. Il tono della voce si era di nuovo alterato, come a sottolineare l’indole indomita di quella donna, determinata a non dare sconti, decisa a non cedere e nemmeno ad arretrare, come un’amazzone in battaglia.

“Descrivete Vostro zio come un Santo, ma le ragioni della sua morte sono avvolte dal mistero. Dite che non aveva nemici e che non si occupava di questioni terrene, eppure è stato barbaramente ucciso. Non Vi siete posta la domanda di chi o perché abbia compiuto un simile riprovevole gesto?”

Segugio continuò il duello retorico con la nipote del morto, capiva di aver di fronte un osso duro, ma contava ancora di poterla avere vinta, di indurla in errore. Era sicuro che prima o dopo avrebbe finito col tradirsi, prima o poi, senza volerlo, avrebbe dato qualche informazione utile, un indizio, una traccia da seguire.

“Fare domande non è il mio mestiere” replicò Cleofe, “piuttosto sembra essere il Vostro, anche se i quesiti che ponete non credo Vi saranno di grosso aiuto” chiosò acidamente, mentre si accendeva un’alta sigaretta.

Landone si riempì il bicchiere una terza volta e si alzò dalla poltrona dove era seduto, si spostò vicino alla finestra e guardò fuori. Gli edifici lungo la via erano tutti tristi e la strada deserta. La voce affilata e penetrante di Cleofe gli dava i brividi, la pelle d’oca. Non era tanto il contenuto delle sue risposte a irritarlo, anzi di quello non si curava minimamente. Era la voce a dargli sui nervi, quella maledetta voce tagliente come un rasoio lo infastidiva in maniera insopportabile. Immaginò di infilarle la teiera in bocca e di spaccarle tutti i denti. Così avrebbe smesso di affettargli il cervello, si disse guardando un piccione alzarsi in volo e scomparire dietro la casa di fronte.

“Non avete risposto alla mia domanda” disse calmo il commissario, “chi pensate che abbia ucciso Vostro zio?”

Cleofe si fece buia in volto, restando in silenzio per qualche secondo, come a voler meglio meditare la giusta risposta. Fissò Segugio negli occhi e lo sfidò ancora guardandolo con rancore.

“La mia opinione non ha alcuna rilevanza ai fini delle Vostre indagini sul delitto della Val Tidone, commissario. Come Vi ho già detto siete sulla pista sbagliata, da Voi mi sarei francamente aspettata qualcosa di meglio.”

Segugio ignorò ancora una volta la provocazione, era un professionista e sapeva come condurre un interrogatorio. Cleofe eludeva le domande, ma lui non si sarebbe lasciato trascinare in nessuna sterile polemica, non ne aveva voglia e nemmeno tempo. Scrutò gli occhi della donna e capì che lei non avrebbe parlato, non a lui, non quel pomeriggio e forse mai, nemmeno sotto tortura. Decise che l’avrebbe fatta pedinare, che la corrispondenza sarebbe stata controllata, le telefonate ascoltate. Avrebbe pagato a prezzo della libertà tutta l’insolenza di cui stava dando prova.

“Da alcuni mesi Fulgenzio Pramiro, il Vostro fratellastro, ha lasciato il paese. Dove è andato?”

Cleofe era perplessa, esitò per alcuni istanti, non si aspettava una domanda del genere, e soprattutto non aveva previsto di dover rispondere dicendo la verità. Non aveva scelta, nessuna menzogna su questa questione poteva essere creduta, perché qualsiasi cosa avesse detto avrebbero scoperto che era una bugia. Semplicemente non sapeva e non aveva idea di dove fosse finito Fulgenzio. Lo ignorava e così fu costretta ad ammettere.

“Non lo so, non abbiamo più avuto sue notizie” disse mentre un velo di tristezza le calava sul volto.

Segugio pensò ancora che stesse mentendo e valutò come discreta la capacità di recitare esibita da Cleofe.

Landone intanto si era messo a curiosare tra gli scaffali della libreria di Alcide Pramiro. Una libreria ricca di testi interessanti, alcuni dei quali su argomenti di matrice esoterica, alchemica, e magica. Il professore si chiese come mai Alcide possedesse così tanti libri bizzarri, e decise che sarebbe stato interessante domandarlo direttamente al padrone di casa.

“E’ possibile parlare con il signor Alcide?”

“No, da due giorni non è più in grado di parlare” disse Benedetta.

“Ormai è come un vegetale” aggiunse Melitina piangendo.

Cleofe invece non disse nulla, si limitò a guardare Landone con una faccia nauseata.

Zenobio fissava nel vuoto come fosse in attesa di ricevere un segnale, un gesto, un ordine della moglie.

Il professore rivolse nuovamente la sua attenzione alla grande libreria e notò un grosso volume rilegato in pelle in mezzo ad alcuni atlanti illustrati collocati proprio al centro della scaffalatura. Lo afferrò per ispezionarlo meglio. La copertina era liscia e di color del cuoio, non vi era alcuna scritta né altro titolo. Aprì il grosso volume e scoprì che era un album di fotografie della famiglia Pramiro. Alcuni scatti erano molto vecchi e Landone riuscì a datarli senza difficoltà alla fine del secolo precedente. Di fianco ad alcune fotografie una didascalia scritta a mano in un corsivo preciso e ben leggibile riportava la data il luogo ed anche i nomi delle persone ritratte. Iniziò a sfogliare l’album distrattamente, con gesti quasi meccanici senza una ragione precisa.

Cleofe si accorse di cosa stava facendo il professore e sembrò inquietarsi, come se fosse disturbata dal suo comportamento. Segugio pensò che la donna fosse preoccupata, come se quel grosso volume nascondesse qualche indizio di ciò che stava cercando di nascondere. Decise di avvicinarsi al professore per dare un’occhiata. Proprio in quel momento lo sguardo di Landone cadde su di una foto particolare, di quelle senza didascalia. Vi erano immortalate cinque persone in abiti estivi, in posa sorridenti con la grande piramide egizia di Cheope sullo sfondo. Riconobbe due dei cinque uomini ritratti. Per quanto dovessero essere molto più giovani all’epoca della foto con la piramide, Landone era sicuro della somiglianza con le fotografie che il commissario gli aveva mostrato di Mario e Alcide Pramiro. Le fotografie scattate dagli agenti dell’OVRA e inserite negli schedari della polizia politica erano più recenti, ma la rassomiglianza comunque inconfondibile.

“Chi sono questi giovani?” domandò il professore mostrando ciò che aveva trovato.

Nessuno rispose. Segugio afferrò il pesante tomo, armeggiò alcuni secondi con la pagina trovata da Landone e staccò la fotografia per ispezionarne il retro. Il suo volto rimase di sale, immobilizzato in un’espressione di stupore autentico. Con inchiostro nero erano state scritte dietro la fotografia un luogo, una data e cinque nomi.

Cairo, 13 ottobre 1907, Alcide e Mario Pramiro, Lisandro Pantaleo, Metrofane Prassede, Tesauro Viliberto.

Anche Landone lesse i nomi e spalancò la bocca incredulo.

“Ma sono i nomi dei tre massoni assassinati a Piacenza nelle scorse settimane” disse.

“Un’incredibile coincidenza” rispose Segugio senza troppa convinzione.

“Oppure un indizio che i tre omicidi sono collegati con il delitto della Val Tidone” replicò Landone.

“Non siate paranoico, è solo una vecchia fotografia e non significa nulla” si intromise Cleofe.

“Solo perché si è paranoici non significa che si abbia torto” disse il professore riempiendo la pipa.

Segugio requisì l’album delle fotografie e annunciò che l’interrogatorio era per il momento terminato.

“Non potete portare via quelle fotografie, sono un ricordo personale ed appartengono alla nostra famiglia” protestò Cleofe.

“Se non Volete essere arrestata chiudete quella bocca” l’aggredì Segugio.

Salutarono con freddezza e si diressero alla porta. Le donne sembravano angosciate, Cleofe più di delle altre. Aristide Zenobio attendeva sull’uscio. Segugio si accomiatò ed uscì per primo, Landone lo seguì dopo aver stretto la mano a Zenobio e averlo guardato con commiserazione, provando autentica pena per il destino di sottomissione che quell’uomo si era scelto. Osservandolo negli occhi capì che sposare quella donna era stata l’ultima libera decisione della sua vita.

Scesero le scale, e tornati sulla via il professore si accese la pipa sorridendo soddisfatto. La insopportabile megera era stata sconfitta, e anche il commissario avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Pensò che tutto quanto fosse collegato: i quattro omicidi, la scomparsa del giovane Pramiro, la massoneria. Un debole e incerto collegamento che avrebbe forse permesso di risalire all’identità dell’assassino o almeno al suo movente. Adesso avevano una traccia, un’impercettibile pista ancora avvolta dalla nebbia, ma pur sempre un sentiero per quanto buio ed incerto. Non restava che iniziare a percorrerlo per scoprire dove avrebbe condotto.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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