Ballando col demonio

Ballando col demonio

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Susanna era giovane e bella e lavorava come barista in un noioso paesino sperduto sulle colline ricoperte dai vigneti della Val Tidone.

Era un caldo pomeriggio di mezza estate e lei, da dietro il bancone, mesceva vino bianco frizzante a quattro clienti vecchi e miserabili. Bevevano tutti i giorni vino bianco Ortrugo o Malvasia sino a sbronzarsi: non c’era altro da fare in quel paese, a parte ubriacarsi o aspettare la morte.

I giovani erano già andati via quasi tutti da tempo, ed anche Susanna sognava di fuggire un giorno insieme ad un principe affascinante e tenebroso, qualcuno che la portasse lontano da quelle colline, in groppa ad un maestoso destriero dal manto nero come la notte.

Intanto giocava la sua partita a scacchi con la noia scrivendo storie di amori travagliati e leggendo romanzi d’avventura.

“Ue Mario, hai letto? Il Vescovo ha nominato altri tre esorcisti questo mese” disse uno dei clienti del bar mostrando la prima pagina di un quotidiano locale.

“Urca Piero, hai ragione, domenica lo ha detto anche don Michele durante l’omelia: il Diavolo è in mezzo a noi!”

“E sì, guarda, leggi qui, nell’articolo dicono pure che hanno iniziato a stampare e distribuire un vero manuale per riconoscere la presenza del demonio”

“Per la Marianna, e come si chiama questo manuale?” domandò Mario, tracannando il suo bicchiere di Malvasia frizzante.

“Si chiama De Cura Obsessis, roba forte, un manuale per riconoscere la presenza del diavolo. Credo che per farsi un’idea più precisa bisognerebbe leggerlo però” spiegò Piero, con aria turbata, mentre a sua volta svuotava d’un fiato un bicchiere colmo di Ortrugo.

“Lo ha detto anche la Madonna ai veggenti di Mejugorie: Satana vuole toglierci la gioia” aggiunse un terzo vecchietto dallo sguardo cupo e le mani artritiche.

Susanna non credeva più in Dio, aveva perso la fede quando ancora era una ragazzina. E disprezzava quei vecchi senza un futuro, bigotti ed ubriaconi tutto chiesa, vino gutturnio e superstizioni.

Talvolta, per non sentire le loro assurde storie, si rifugiava nelle sue fantasie, oppure attraverso il suo smartphone di ultima generazione si perdeva tra le pagine di un sito di abiti alla moda o di scarpe all’ultimo grido.

In questo modo capitò quel giorno sul negozio virtuale scarpedaurlo.com e vide un paio di meravigliose scarpe da ballo a tacco alto.

Erano magnifiche, di luccicante vernice rossa, a punta e con il tacco stretto e slanciato.

Già si stava immaginando con il suo vestito nero preferito volteggiare sulle piste da ballo con quelle nuove splendide e sfavillanti scarpe rosse come il fuoco.

Non poteva resistere, ed in pochi secondi inserì i dati della sua carta di credito e le comperò. Il sito prometteva consegna in 24 ore soddisfatti o rimborsati.

Era una giornata strana e tetra e faceva un caldo infernale in quel piccolo paese, il più crudele e noioso borgo della valle.

Luca e Marcellino entrarono nel bar. Erano gli ultimi due giovani rimasti.

Luca era uscito da poco di prigione. Era un tipo tozzo e grasso, con braccia bovine e occhi rabbiosi. Sarebbe presto tornato in carcere c’era da scommetterci.

Marcellino aveva la faccia paffuta e l’aria stupida, viveva ancora con sua madre e faceva finta di fare lo scrittore. Da sei anni era innamorato di Susanna ma lei non lo calcolava.

“Facci due calici di Gutturnio frizzante bellezza” disse Luca con voce arrogante ed un subdolo luccichio dentro gli occhi.

“Perché sei tornato in paese?” chiese Susanna sospettosa, versando da bere e guardandolo come se lui fosse un insetto insignificante.

“Sono tornato per te zuccherino” precisò lui, mangiandola con gli occhi.

“Cosa vorresti dire?”

“Sabato andiamo al Vicobarock fest, per festeggiare il ritorno di Luca. Siamo passati per invitarti” spiegò Marcellino, fissando il bicchiere pieno di vino Gutturnio.

Non riusciva a sostenere lo sguardo della ragazza, per timidezza e per paura che lei lo disprezzasse apertamente come aveva appena fatto con il suo amico.

“Puoi portare tua cugina se vuoi” aggiunse Luca, con fare viscido.

Susanna non rispose subito, restò lì a pensarci su per qualche secondo.

I due ragazzi non la interessavano minimamente, e di certo non aveva bisogno di portarsi dietro sua cugina per andare ad una festa. Però al Vicobarock fest ci sarebbe stata la musica e lei avrebbe avuto l’occasione di ballare con le sue nuove scarpe rosse. Certo, Luca probabilmente l’avrebbe infastidita, o peggio ci avrebbe provato apertamente, ma lei sapeva come tenere a bada un ragazzo, anche uno problematico come lui.

“Va bene, verrò. Passate a prendermi a casa, sabato, alle nove”

*

Sabato sera l’area feste di Vicobarone era gremita di giovani, venuti da tutta la provincia per assistere al concerto di 7 grintose rock band impazienti di esibirsi.

La musica veniva sparata dalle casse al massimo volume, mentre dalle cucine uscivano pisarei, tortelli, braciole, salamelle e fiumi di vino gutturnio.

Girava anche parecchia droga e la pista da ballo era affollata di ragazzi e ragazze che saltellavano come impazziti, sospinti e trascinati da una musica infernale.

Susanna passò tutta la sera ballando senza mai stancarsi, nel suo bel vestito nero e con ai piedi le sfolgoranti scarpe di vernice rosso fuoco. Luca e Marcellino si davano da fare con il Gutturnio.

A mezzanotte iniziò l’esibizione del gruppo più famoso: i Bambini di Aleister così chiamati in onore dell’occultista inglese Aleister Crowley, padre del satanismo moderno.

La loro esibizione durò circa trenta minuti: eseguirono le cover dei Led Zeppelin, dei Mercyful Fate, dei Deicide e di altre rock band dell’heavy metal più estremo e cattivo.

Conclusero con un pezzo inedito scritto di loro pugno, una specie di incomprensibile e disgustoso inno al demonio. Una sorta di rituale durante il quale si diffuse tutt’attorno un intenso, penetrante, ripugnante odore di zolfo.

L’osceno spettacolo si concluse infine con il lancio sul pubblico, per mezzo di un aspersorio di forma caprina, di una rivoltante e sinistra poltiglia corvina.

A notte fonda i tre ragazzi stavano tornando a casa. Erano a bordo della vecchia Fiat Panda di Luca, ma stava guidando Marcellino. Luca era senza patente, gli era stata ritirata per guida in stato di ebrezza.

“I Bambini di Aleister sono mitici” commentò Marcellino ancora un po’ stordito dalla musica assordante del concerto.

“Si dice che abbiano venduto l’anima al diavolo, come Katy Perry” disse Luca biascicando: era completamente sbronzo.

“Io penso sia solo una trovata pubblicitaria nel casso della Perry” obiettò Marcellino.

Susanna non parlava, era seduta davanti ed occupata a schivare le attenzioni di Luca, che dai sedili posteriori allungava le mani appiccicose cercando di toccarle i capelli, il collo o le spalle.

“Si dice che anche Lady Gaga, Maddonna e Britney Spears siano scese a patti con il maligno” aggiunse Luca.

“Per me sono tutte fregnacce”

“Se sapessi come fare, venderei anche io la mia anima fottuta, ammesso che ne abbia una, in cambio di soldi e successo”

“Comunque questa cosa di vendere l’anima io non la capisco. Ammesso che esista veramente, il diavolo cosa se ne farebbe mai di un’anima come la nostra?” concluse Marcellino ridendo in modo stupido.

“Metti giù le mani” gridò Susanna con voce irritata. I tentativi di Luca si erano fatti arditi.

“Non fare la preziosa zuccherino, ho visto come dimenavi il culo mentre ballavi, adesso devi far divertire un po’ anche noi”

“Vai a farti fottere, stronzo!”

Marcellino fermò l’auto. Erano arrivati a casa di Susanna. Lei non perse tempo e scese subito dall’auto per sottrarsi alle fastidiose mani di Luca.

Lui la seguì sin sotto casa, anche se con passo incerto a causa dell’ubriachezza, poi la prese per un braccio e cercò di baciarla: la sua bocca era piena di denti marci rovinati dal fumo e dalle carie.

“Lasciami in pace bastardo” gridò Susanna con voce isterica, poi lo spinse via con tutta la forza che aveva in corpo.

Luca cadde a terra. Era furioso adesso, ma troppo ubriaco per riuscire ad alzarsi.

Susanna si avvicinò e gli sparò un tremendo calcio tra le costole.

“Ahhhh puttana maledetta” ringhiò Luca, portandosi le mani sul fianco dilaniato dal dolore.

“Così impari, coglione!”

Marcellino si avvicinò allora timoroso all’amico ancora in terra cercando di soccorrerlo.

Susanna lo guardò con disprezzo, poi cercò le chiavi di casa nella borsetta e si diresse alla porta.

“Ferma quella troia prima che si chiuda dentro” ordinò Luca.

Marcellino esitò, non poteva obbedire, amava Susanna e non avrebbe mai potuto farle del male.

Quando Luca vide chiudersi la porta senza che Marcellino avesse fatto nulla per impedire alla ragazza di andarsene, riversò la propria frustrazione sull’amico.

“Ora ti insegno io come ci si comporta, frocetto” disse riuscendo finalmente ad alzarsi. Poi cominciò a tirargli pugni spaventosi.

Una, due, tre castagne ben assestate sulla faccia, nello stomaco, sulla nuca.

Marcellino rovinò a terra con la faccia insanguinata ed il naso rotto.

Luca salì in macchina e andò via sgommando stravolto dalla rabbia e dai fumi dell’alcool, lasciando Marcellino sanguinante nella polvere, sopra lo zerbino, davanti alla casa di Susanna.

Lei aveva assistito al barbaro pestaggio guardando dalla finestra. Si sentiva un po’ in colpa e Marcellino le faceva compassione. Decise di aiutarlo.

“Dai, alzati, vieni in casa da me, devi medicare queste ferite”

“No, non posso. E’ notte fonda, io credo che dovrei andare a casa mia adesso, non voglio darti disturbo”

“Non dire cazzate. Sei ferito. Andrai a casa domani. Adesso entriamo, voglio medicarti”

La casa di Susanna era modesta ma decorosa e pulita. Marcellino si sistemò in soggiorno, sul divano.

Dopo avergli disinfettato le ferite sul volto lei gli diede anche una bottiglia di Gutturnio Superiore.

“Sei molto gentile” disse Marcellino con gli occhi dilatati dalla gratitudine.

“Merda!” disse lei.

“Mha, non, non capisco. Perché mi insulti adesso?”

“Non dico a te, scemo. Sto imprecando perché mi si sono sporcate le scarpe nuove” spiegò Susanna, mentre con uno straccio cercava di togliere delle strane macchie nere dalle magnifiche scarpe rosse col tacco.

“Che schifo, questa roba puzza, e non riesco a toglierla, ora però sono stanca. Ci riproverò domani. Vado a dormire. Ciao”

“Non mi dai il bacio della buonanotte?” osò chiedere Marcellino, dopo aver dato una copiosa ingollata dalla bottiglia di Gutturnio, così per darsi coraggio.

“Nemmeno nei tuoi sogni” disse lei, acida, chiudendosi in camera da letto.

Era una notte cupa e tenebrosa ed una enorme luna piena color sangue galleggiava nel fosco cielo sopra la valle.

Susanna fu svegliata di soprassalto da orrendi rumori che provenivano dal soggiorno. Sembravano il fragore della carne lacerata dai morsi di una belva feroce.

“Marcellino, ma che cazzo stai facendo? vorrei dormire qualche ora se non ti dispiace!” urlò Susanna.

Marcellino non rispose. Dal soggiorno arrivarono altri sinistri suoni inquietanti, come di ossa spezzate.

Susanna si alzò allora dal letto e si diresse verso il soggiorno: indossava solo una vestaglia semitrasparente e delle mutandine di cotone bianco.

Quando aprì la porta fu investita da un insopportabile tanfo di morte, come di qualcosa di marcio, putrido e in decomposizione.

Una pallida e macabra luce proiettata dalla luna illuminava il soggiorno, dove il corpo di Marcellino giaceva riverso al centro della stanza.

La faccia era orribilmente mutilata, in parte già ridotta alle sole ossa del teschio, senza più un occhio, con buona parte della carne strappata dal cranio.

Susanna lanciò un urlo folle e disperato quando vide che le rosse scarpe da ballo la stavano osservando.

Su entrambe si erano aperti mostruosi occhi gialli da serpente, e sogghignanti bocche malvagie grondanti sangue, con raccapriccianti denti seghettati dai quali penzolavano brandelli di carne umana masticata.

Susanna era paralizzata dalla paura. Capiva che avrebbe dovuto fuggire, ma le gambe le si erano fatte pesanti come sacchi di cemento e non riusciva a muoverle.

Le scarpe indemoniate iniziarono a strisciare verso di lei, ringhiando e digrignando le abominevoli fauci.

La temperatura nella stanza si era improvvisamente abbassata ed un gelido vento soffiava tra gli stipiti della porta e gli infissi delle finestre.

“Via, via, andate via maledette!” gridò Susanna ormai in preda al panico.

Un agghiacciante suono terrificante, come una specie di diabolica risata, uscì dalle scarpe che erano quasi arrivate ai piedi della ragazza.

Lei iniziò a piangere ed ad urlare ancora più forte.

Poi, quando ormai avrebbero potuto facilmente azzannare le belle caviglie bianche della giovane, le mostruose calzature del demonio si ritrassero come sospinte da una forza superiore ed insuperabile.

Susanna le vide allora spiccare un balzo, sfondare la finestra, e volare via nella notte lunare in direzione della foresta.

Marcellino riposava cadavere nel soggiorno con la testa mezza divorata.

Susanna si lasciò cadere sgomenta sulle ginocchia. Alle sue spalle, appesa alla parete, una Madonna con bambino sorrideva materna da dentro un vecchio dipinto ad olio, regalo di una zia suora.

E fu così che Susanna ritrovò la fede.

Dopo aver passato ingiustamente 23 anni in carcere, condannata per l’omicidio di Marcellino, prese i voti e si ritirò in un convento di clausura.

Era serena, e felice: aveva finalmente trovato la sua dimensione spirituale.

Qualche volta però le capitava ancora, quando in cielo c’era la luna piena, di svegliarsi nel cuore della notte.

Un cattivo odore, come di tomba profanata, si diffondeva allora nell’aria e Susanna, guardando fuori dalla finestra della sua cella, poteva scorgere luminosi occhi gialli di serpente volteggiare nell’oscurità, e ombre di scarpe di vernice rossa allungarsi tetre sopra di lei.

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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Giochi Perversi

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Avvertenze

Nel presente racconto sono descritte scene di violenza estrema. Il linguaggio utilizzato è brutale, volgare ed osceno. La lettura è sconsigliata ai soggetti più sensibili e severamente vietata ai minori di anni 18

 

Capitolo primo: Il Professore

 

Lo chiamavano il Professore e tutto in lui era perverso: lo sguardo, la condotta dissoluta ed i pensieri malvagi.

“Ho voglia di rilassarmi, vieni qui e massaggiami i piedi” ordinò rivolgendosi a Mandingo, il suo schiavo svedese, dopo essersi tolto le scarpe.

Mandingo non piaceva massaggiare i piedi al suo padrone, anzi più spesso lo disgustava, soprattutto a fine giornata, quando i piedi del Professore erano stanchi, sudati e facilmente puzzavano. Ma era uno schiavo sottomesso ed ubbidiente ed eseguì gli ordini senza protestare.

“Il mondo là fuori è una vera merda, sono tutti pazzi” osservò il Professore accendendosi un sigaro, comodamente sprofondato nella sua poltrona in pelle nera.

Mandingo annuì con la testa, inginocchiato tra le gambe del suo padrone, mentre con le mani si dava da fare massaggiandogli i piedi.

“Non si può nemmeno andare al centro commerciale senza correre il rischio di essere rapinati per strada, oppure investiti da un camion guidato da qualche fottuto terrorista, o ancora trovarsi invischiati in qualche discussione con un vicino di casa nevrotico o qualche donna inacidita, aggressiva e insopportabile. Tu che ne pensi Linda?”

Linda arrossì, senza sapere cosa rispondere: era una schiava bianca e raramente poteva esprimere le sue opinioni. In quel momento era nuda, inginocchiata alla destra del padrone e reggeva tra le mani un grosso posacenere di cristallo. Aveva da poco compiuto 17 anni ed era stata acquistata dieci anni prima in un accampamento di zingari.

“Ti ho fatto una domanda” disse il professore pizzicandole una gamba.

Linda abbassò lo sguardo e si morse le labbra, lasciandosi sfuggire un gemito.

“Se non mi rispondi ti dovrò punire, stupida stronzetta ignorante”

“Sono tutti pazzi, il mondo là fuori è orribile, soprattutto le donne aggressive e insopportabili” disse lei timidamente, tutto di un fiato, tremando per la paura e avvampando per la vergogna.

Il Professore sorrise compiaciuto, Linda era una schiava perfettamente addestrata, la migliore che avesse mai posseduto.

Poi allontanò Mandingo, spingendolo via con fare stizzito. Oramai era piuttosto avanti con gli anni, e si annoiava velocemente. Il suo schiavo scandinavo, per quanto si potesse impegnare, per quanto fosse giovane, atletico e muscoloso, non sarebbe mai riuscito a massaggiargli i piedi nel modo giusto, nemmeno andando avanti per una intera settimana di fila.

“Mi sembri in forma oggi, voglio che ti prepari, questa sera parteciperai ai giochi”.

La faccia di Mandingo si contrasse allora in una smorfia piuttosto preoccupata.

“Ti ho iscritto ai giochi di Lady Circe” concluse il Professore, mentre un sadico ghigno crudele gli si abbozzava sulla faccia rugosa.

La preoccupazione sul volto di Mandingo repentinamente scomparve, per lasciare posto ad autentico panico.

 

Capitolo secondo: il Castello di Lady Circe

 

Arrivarono al castello di Lady Circe quando il sole era calato da un pezzo e nel cielo senza luna le stelle brillavano astute, sopra la coltre di nebbia che copriva la valle.

Lady Circe era una padrona misteriosa ed esigente. Si era da poco trasferita sulle colline del piacentino, dopo aver fatto ristrutturare un fatiscente castello abbandonato. La sua dimora era ora nuovamente sontuosa e sinistramente lugubre, grazie al sapiente recupero in stile tardogotico.

Il Castello era avvolto dalla nebbia e dalle alte e nere finestre non traspariva raggio di luce alcuno.

Il Professore ed i suoi schiavi furono accolti all’ingresso da Franchino, il maggiordomo.

Era un uomo di alta statura, con una lunga barba scura ed un gran cappello nero in testa, che in parte gli copriva il volto. Salutando gli ospiti mostrò per un attimo due piccoli occhi brillanti, che alla fioca luce delle fiaccole poste ad illuminare il tetro ingresso, sembrarono di colore rosso. Sorridendo aveva anche esibito una bocca dal taglio duro con piccoli denti gialli anneriti dal tempo. L’alito emanava un fetore di morte e gli sudavano visibilmente le ascelle.

La grande porta, con strepitio assordante e gran clangore di pesanti catene, si chiuse alle loro spalle, e Franchino accompagnò gli ospiti attraverso un ampio ed alto corridoio avvolto dall’oscurità, con pareti sorrette da slanciati archi a sesto acuto.

Il gruppo poteva avanzare grazie solo ad una piccola fioca luce proveniente da una vetusta lucerna d’argento, che Franchino teneva ben salda nella mano ossuta.

Scesero lungo un grande scalone al piano inferiore e poi percorsero un altro corridoio sul cui pavimento di pietra i loro passi riecheggiarono cupi. Attraversato anche questo, Franchino aprì un pesante uscio di rovere nero, ed accompagnò il Professore ed il suo seguito nel salone dei giochi.

Anche questa stanza era semiavvolta dall’oscurità, ad eccezione della flebile luce proveniente dai bracieri lungo le pareti, e dal gigantesco camino nel quale fiammeggiava un gran fuoco, che scaldava un poco il tenebroso ambiente circostante.

La sala dei giochi era riccamente addobbata con tendaggi e arazzi realizzati con le stoffe più raffinate e preziose, probabilmente vecchie di secoli, ma ancora in ottimo stato.

Gli altri invitati erano già tutti arrivati e stavano animosamente conversando seduti sulle panche disposte a guisa di spalti intorno ad un ring appositamente allestito al centro della stanza.

Il Professore si diresse subito verso il palchetto reale per salutare Lady Circe, la padrona del castello che aveva organizzato i giochi e lo aveva invitato.

“Lady Circe i miei rispetti” le disse accennando un inchino e porgendo la mano.

Lei l’afferrò con un tale vigore da farlo sobbalzare, e con una mano fredda come il ghiaccio, più la mano di un morto che di un vivo.

“Benvenuto Professore, è un grande piacere per me incontrarla nuovamente e poterla ospitare in questa mia antica dimora, riportata a nuovo splendore”

Il Professore rispose con un leonardesco ed enigmatico ghigno, senza dire nulla, ansioso di sottrarsi alla presa della donna.

Lady Circe era una bella signora di mezza età, bionda come più non si può essere, con grandi masse di capelli ondulati color dell’oro. Era nerovestita da capo a piedi, senza altra macchia di colore in tutta la persona. Il volto era grifagno con un naso sottile e sporgente, la bocca carnosa e morbida, dal taglio segnatamente crudele, con candidi denti bianchissimi ed aguzzi, che scintillavano come perle sulle labbra voluttuose e rosse come il sangue. Le gote erano magre e gli occhi coperti da spessi occhiali da sole, la cui montatura nera contrastava in modo impressionante con lo straordinario pallore del viso.

“Non mi presentate i vostri amici Professore?” chiese Circe, guardando i sottomessi che stavano due passi dietro al loro padrone con la testa china e lo sguardo umilmente rivolto al pavimento.

“Essi sono i miei schiavi” disse il professore senza nascondere il proprio orgoglio, “lui si chiama Mandingo, mentre lei è Linda”

Lady Circe osservò con finto interesse i due giovani: Mandingo indossava solamente una sottofascia costituita da una striscia di lino, una sorta di semplice perizoma avvolto intorno alle cosce e allacciato alla vita. Il suo corpo muscoloso era in questo modo offerto alla vista dei presenti, lasciando poco spazio all’immaginazione. Linda era invece vestita come una scolaretta giapponese, con una oscena minigonna inguinale, una magliettina di cotone semitrasparente ed i capelli nero corvino tagliati a caschetto.

Gli altri ospiti di Lady Circe erano piuttosto inquietanti, facce da galera inespressive, truffatori, specialisti in espedienti e sotterfugi, dominatori con i loro schiavi al seguito, alcolizzati, ludopatici e rifiuti umani di varia natura. Il Professore si guardò attorno provando disagio e fastidio, poi si grattò il sedere e si diresse verso il bar.

Una bella morettina vestita da cameriera versò vino bianco, Ortrugo frizzante, in un paio di calici, poi ne offrì al Professore e ad un tizio raccapricciante, storpio e con la faccia devastata dall’acne che gli stava vicino.

“Piacere, mi chiamo Locusta e sono un poeta” si presentò lo storpio.

“Poeti e scrittori, sono tutta gente fallita, oppure pazza o più spesso entrambe le cose” disse il professore tracannando una gran sorsata di Ortrugo.

“Sono il più grande poeta vivente” precisò lo storpio “nessuno mi sta alla pari” aggiunse con un orgoglio bizzarro negli occhi.

“Vi conosco a voi poeti, vi piace discorrere di filosofia e dei massimi sistemi, ma siete tutti inconcludenti, feroci e narcisi”

“Si, ma io sono il migliore di tutti, meglio anche di Bukowski e Steno Cremona”

“E chi cazzo è Steno Cremona?”

“L’autore di 23, il romanzo definitivo del nuovo millennio”

“Dammi altro Ortrugo” disse il Professore alla morettina, sperando che lo storpio mollasse la presa.

“Nelle mie poesie parlo spesso del vino di questa cantina” disse Locusta indicando l’etichetta sulla bottiglia.

Il Professore non commentò, continuando a bere.

“Adesso però ho cambiato marca, ne ho trovata una migliore”

“E come si chiama?”

“Non me lo ricordo, ma sono ugualmente il più grande poeta vivente”

Il Professore tracannò un altro calice di vino, si fece riempire nuovamente il bicchiere e cercò di allontanarsi dallo storpio che iniziava a dargli sui nervi. Intanto sul tabellone elettronico appeso sulla parete più grande, andavano formandosi le accoppiate per la prima fase dei giochi.

 

Capitolo terzo: i combattimenti

 

“Come funzionano questi giochi?” domandò Linda

“Si tratta di combattimenti ad eliminazione diretta tra schiavi dello stesso sesso e il primo turno prevede uno scontro a mani nude” iniziò a spiegare il Professore.

“Mandingo è robusto e ha in passato già vinto parecchi incontri di questo tipo, tuttavia non è tra le teste di serie, quindi dobbiamo sperare che il sorteggio non lo costringa ad affrontare subito i favoriti: lo schiavo di Lady Circe, il temibile Pony-boy, o lo schiavo di Mistress Demonista, l’orribile Uomo Trota”

“Cosa succede se pesca subito uno dei favoriti” domandò ancora la ragazza sfoggiando un’ingenua espressione di sincera ignoranza.

“Succede che lo riempiono di botte e torniamo a casa presto” disse il professore terminando in una sadica e divertita risata.

Mandingo intanto fingeva indifferenza ma il suo faccione vichingo tradiva tutta la sua paura.

Ebbe fortuna, il responso delle urne era stato favorevole:

Pony-Boy contro Sweet Ganja

Leccapali contro Mani di Fata

Sperminator contro Mandingo

Uomo Trota contro Leatherface

“Molto bene Mandingo, Sperminator è un vero brocco, è assolutamente alla tua portata. Se riesci a passare il turno te la dovrai vedere con il vincente tra Uomo Trota e Leatherface” commentò soddisfatto il Professore.

“Chi sono quelli nella seconda metà del tabellone?” chiese ancora la giovane Linda.

“Quelle sono le schiave femmine: Little Slut contro Scarafaggio Ruth, Sluttern Honey contro Cunnilingus, Miss Piggy contro Puppy Doll e Donna Capra contro Bondagewoman”

“E chi sono le favorite tra le donne?” domandò Linda con un filo d’ansia nella voce, immaginando per un momento di essere un giorno anche lei costretta a combattere.

“La favorita è Donna Capra, la schiava di Lady Moralizzatrice, una temuta e spietatissima padrona: integerrimo funzionario dello Stato di giorno e implacabile e perversa dominatrice di notte” la informò lui con sadico compiacimento.

“E il divertimento consiste nel guardare questa gente che si prende a pugni?”

“Naturalmente, e poi ci sono anche le scommesse”.

Un vecchio sdentato si avvicinò allora tutto serio al Professore e gli disse: “voglio togliermi una soddisfazione prima di morire, ho simpatia per Leatherface e ho puntato 200 euro su di lui.”

“Uomo Trota è uno dei favoriti, mentre Leatherface ha perso gli ultimi tre incontri, non credo abbia speranze” obiettò il Professore.

“Staremo a vedere” disse il vecchio, e attese che iniziasse il combattimento.

L’Uomo Trota vinse al primo round. Leatherface era grosso e possente, ma lento, mentre l’Uomo Trota era svelto, agile, sfuggente: lo stese con un paio di diretti ben assestati sulla faccia ricoperta da una maschera grottesca di pelle nera che gli dava il nome.

Il pubblico intorno al ring intanto ondeggiava psichedelico, tutti assieme sembravano una gran massa di ipnotizzati, gridavano, tifavano, facevano le loro puntate mentre i combattimenti si susseguivano a ritmo incessante, uno via l’altro.  In circa un’ora si era concluso il primo turno, meno di 10 minuti ad incontro in media.

Il Professore aveva continuato a bere, era ormai alla terza bottiglia di Ortrugo ma lo reggeva bene.

Quasi tutti i favoriti avevano vinto, come era prevedibile. Unica eccezione Cunnilingus data per vincente 3 a 1 che si era fatta battere dalla esordiente Sluttern Honey data a 10.

Chi aveva puntato sui perdenti aveva adesso la faccia torva, la sconfitta stampata sul volto, la follia straripante dagli occhi stralunati.

Il vecchio sdentato era incazzatissimo, aveva puntato su Leatherface, Cunnilingus, e Mani di Fata. Tutti sconfitti. Ci aveva rimesso un migliaio di euro.

“Ma che diavolo, quella puttana di Cunnilingus si è fatta fregare da una principiante. Questi giochi andrebbero vietati, che io sia maledetto” ringhiò, tutto rosso in faccia. Sembrava sul punto di avere un infarto.

Il Professore si allontanò da lui per andare a ritirare una vincita. Aveva fatto una sola puntata di 500 euro su Donna Capra data 2 a 1. Avrebbe voluto puntare anche su Mandingo, ma era vietato scommettere sui combattimenti dove partecipavano i propri schiavi.

“Sono tutte delle mezze seghe effemminate, alcuni di questi rammolliti possono anche decidere di perdere deliberatamente, per paura di andare avanti” commentò un ciccione infervorato: il suo schiavo Sperminator aveva perso il combattimento proprio contro Mandingo.

Gli incontri del secondo turno furono anche più brevi. Si svolgevano con armi da taglio come spade o coltelli e alla prima ferita si veniva eliminati. Mandingo ci sapeva fare discretamente con il coltello, e in meno di sette minuti riuscì a rifilare un fendente sulla faccia di Uomo Trota. Ai fortunati che avevano puntato su di lui aveva fruttato un bel bottino, perché era dato per sfavorito e pagato 5 a 1. Ci furono anche delle proteste perché Uomo Trota aveva combattuto molto sotto i suoi standard abituali: forse per paura di arrivare alle semifinali, forse perché era stanco, oppure perché aveva bevuto troppo vino Gutturnio tra il primo incontro ed il secondo. Ad ogni buon conto Mandingo aveva superato la prima fase e adesso era terrorizzato.

“Avanti Mandingo, puoi farcela, sei forte, sei molto resistente ed hai una elevata capacità di sopportare il dolore” cercò di incoraggiarlo il Professore.

“Se resisti ed arrivi in finale, ti faccio fare un massaggio completo da Linda” gli promise.

Linda, che aveva anche bevuto un paio di bicchieri di bianco ed era un po’ alticcia, arrossì imbarazzata.

“Ho paura padrone” confessò Mandingo a voce bassa.

“Sei andato forte sino ad ora, perché hai paura?” chiese Linda.

“Le regole della seconda fase sono diverse” iniziò a spiegare il Professore, “Il sorteggio ha accoppiato Mandingo con Donna Capra e Pony-Boy con Little Slut.  Ma gli schiavi non combatteranno tra loro. No, se la vedranno con il dominatore del loro avversario sottoponendosi and una sessione BDSM senza limiti”

“E come funziona?”

“Lo schiavo che per primo pronuncerà la safe-word sarà eleminato. I dominatori devono rispettare una sola regola: non infliggere danni fisici permanenti agli schiavi. Per il resto possono disporre a piacimento dei loro corpi e delle loro menti”

“Ma è terribile” disse Linda lasciandosi sfuggire un piccolo rutto, dovuto al vino frizzante che aveva bevuto.

“Già proprio così” chiosò il Professore con un ghigno malvagio, pregustando il suo turno, quando avrebbe avuto la Donna Capra per le mani.

Mandingo invece sarebbe finito sotto le grinfie di Lady Moralizzatrice, e proprio per questo se la stava facendo sotto: la ferocia di quella dominatrice era leggendaria.

“Poteva andarti peggio” cercò allora di consolarlo il Professore, “potevi capitare con Pony-Boy ed affrontare Lady Circe.

Mandingo annuì, ma le parole del suo padrone non furono sufficienti a lenire la disperazione nel suo animo.

 

Capitolo quarto: Little Slut contro Pony-Boy

 

La prima a scendere in campo fu Little Slut. Era una debosciata ventiseienne bionda piuttosto esperta e ben addestrata dalla sua padrona australiana Miss Cane.

Correva voce che Little Slut fosse capace di lottare persino contro alligatori e canguri, ed in effetti aveva superato in scioltezza i primi due turni, dando prova di notevole forza fisica e padronanza delle arti marziali.

Aveva eliminato Scarafaggio Ruth in quattro minuti e Sluttern Honey in sette. Quest’ultima aveva abbandonato l’arena con un coltello conficcato nelle budella.

Ora però la musica era destinata a cambiare, perché avrebbe dovuto fronteggiare la malvagia Lady Circe.

Sul ring era stato portato un carrello a disposizione di tutti i dominatori con gli attrezzi e gli oggetti più pericolosi: aghi, spilli, pinze, vibratori, martelletti, fruste, lame, bisturi, chiodi, ganci, corde, cinghie e molto altro. Appositamente per Lady Circe furono portate una strana gabbietta di ferro ed un misterioso vaso di vimini chiuso con un coperchio di gomma.

Little Slut era in piedi al centro del ring con in dosso solamente delle piccole mutandine di cotone bianco. Era una bella e perversa ragazza nel fiore della giovinezza, e sembrava sicura di sé, per niente intimorita da ciò che l’aspettava.

Quando Lady Circe salì sul ring e le fu davanti, suonò il gong e partì il cronometro. Aveva esattamente 10 minuti di tempo per costringere Little Slut ad usare la Safe-word implorando pietà.

“Inginocchiati!” intimò Lady Circe.

Little Slut obbedì.

“Incrocia le braccia dietro la schiena, schifosa depravata!”

Little Slut eseguì senza protestare, anzi un sorriso malizioso le si disegnò sulla faccia.

Lady Circe le piazzò allora la gabbietta di ferro sulla faccia, legandola con delle corde intorno alla testa, di modo che la sottomessa non potesse allontanarla dal proprio corpo. La gabbietta era aperta su di un lato, che adesso aderiva perfettamente al volto grazioso della disgraziata.

Dalla parte opposta della gabbietta vi era invece uno sportellino. Lady Circe lo aprì.

Poi con lentezza teatrale si avvicinò al vaso di vimini, tolse il coperchio di gomma e vi infilò dentro un braccio. Lo ritrasse dopo un paio di secondi mostrando al pubblico e soprattutto a Little Slut cosa vi aveva estratto.

Nella sua pallida mano, bloccato tra le lunghe dita smaltate di rosso, si agitava un disgustoso e grosso ratto nero, con la coda lunghissima ed enormi denti affilati.

“Non mangia da tre giorni” disse Lady Circe contraendo le labbra carnose in un sadico ghigno. Poi si avvicinò alla gabbietta legata alla faccia di Little Slut.

Appena la poveretta comprese che Lady Circe stava per chiudere il ratto nella gabbietta, offrendo alle fauci del roditore affamato il suo viso indifeso, fu presa dal panico, iniziò ad urlare in preda ad una crisi di nervi, si alzò in piedi e si lanciò fuori dal ring tentando di fuggire. La fuga, così come il rifiutarsi di eseguire un ordine decretava la fine.

Il cronometro fu fermato dopo soli due minuti e 10 secondi. Un ottimo tempo. Quasi da record.

Fu allora il momento di Pony-Boy. Per arrivare in finale gli bastava resistere per due minuti e 11 secondi contro Miss Cane, la padrona di Little Slut.

Pony-Boy era stato un bel ragazzo un tempo, adesso invece era stato trasformato in una creatura grottesca. Aveva abbandonato la postura eretta e stava sempre a quattro zampe. Le mani ed i piedi erano intrappolati dentro a delle scatole a forma di zoccoli equini, mentre nel retto era stabilmente inserito un plug anale realizzato con materiali di primissima qualità: acciaio inossidabile per il plug e vere crine di cavallo per la coda.  Sulla bocca gli era stato inserito un morso da briglia a canna intera con ponte in acciaio inox, con tanto di redini in cuoio. Per il resto era coperto soltanto della sua naturale peluria, ad eccezione di una rudimentale sella legata sopra la schiena.

“Sei un repellente pervertito” ruggì Miss Cane appena fu il suo momento.

Dal carrellino degli attrezzi prese un fallo in lattice dalle dimensioni impressionanti, e poi si andò a posizionare davanti a Pony-Boy.

Afferrò le briglie e con violenza le strappò via insieme al morso da briglia, che risultò essere di dimensioni piuttosto ardite, ma comunque insignificanti rispetto al membro colossale che Miss Cane teneva stretto nella mano destra.

Afferrò lo schiavo per i capelli tirandogli indietro la testa.

“Apri la bocca debosciato”

Pony Boy obbedì spalancando la cavita orale.

Miss Cane vi sputò dentro una grossa, vischiosa e ripugnante scatarrata verde.

“E adesso ingoia per bene, merdaccia”

Pony-Boy ingoiò subito, ma sembrava più eccitato che dispiaciuto.

Lei allora iniziò a spingergli tra le labbra il mastodontico cazzo di lattice.

Con stupore di tutti, dopo una brevissima resistenza, la bocca già in precedenza addestrata dai trattamenti di Lady Circe, accolse per intero il gigantesco fallo di Miss Cane.

Lei gli chiuse allora il naso con un mollettone, rendendogli impossibile la respirazione. Lo costrinse in apnea per novanta secondi, poi quando il colore del volto era ormai cianotico e lo sventurato stava per svenire gli estrasse dalla gola il membro artificiale.

“Ne hai avuto abbastanza stupido bastardo?”

Pony-Boy, dopo ave rantolato alcuni secondi per riprendere fiato, si rivolse alla dominatrice con sguardo languido e la sfidò: “Ne voglio uno più grosso Padrona”

Miss Cane reagì male, corse al tavolino ed afferrò un manganello di gomma rigida, tornò dallo schiavo e lo colpì ripetutamente sui fianchi, sulle terga e persino sulla faccia.

Pony-Boy gemette più volte per il dolore, iniziò anche a sanguinare dal naso e dalla bocca, ma appena la donna si fermò per rifiatare lui la sfidò nuovamente: “Ne voglio ancora Padrona, colpisca più forte”

Miss Cane comprese allora che quel ragazzo ributtante era un osso duro, ma non aveva più tempo: erano passati due minuti e 11 secondi ed era stata sconfitta. Pony-Boy era il primo finalista.

 

Capitolo quinto: Mandingo contro Donna Capra

 

Mandingo stava in piedi in mezzo al ring con il solo perizoma addosso, i muscoli del corpo in tensione e la faccia di uno che va incontro alla morte.

Lady Moralizzatrice gli si parava davanti esibendo un’espressione fiera e perversa. Indossava una tuta in latex aderente color rosso fuoco, stivali coordinati in pelle tacco 12. I folti capelli erano rossi e ricci. Il viso era duro, gli occhi sadici, il mento affilato.

Appena il cronometro fu azionato lei prese un lungo spillone di acciaio inossidabile con capocchia d’avorio dal tavolino delle torture, poi afferrò Mandingo per un braccio.

Lui non oppose resistenza. Lady Moralizzatrice appoggiò lo spillone all’altezza del bicipite destro di Mandingo, poi lo spinse con forza ed iniziò ad infilare lo spillone dentro al braccio. Lo spillone era spesso e lungo non meno di una dozzina di centimetri, ma il bicipite di Mandingo misurava quasi il doppio, per cui accolse lo spillone per intero, sino alla capocchia d’avorio.

Mandingo gemette, mentre il sangue colava lungo il braccio infilzato e il suo volto si imbruttiva in una languida espressione di lussuria.

“Ma allora sei un rivoltante pervertito” commentò lei schiaffeggiandogli la faccia.

Mandingo sembrò gradire, lasciandosi sfuggire un gemito di piacere.

Lady Moralizzatrice comprese che era meglio cambiare tattica.

Decise allora di bendargli gli occhi, e di legargli i polsi e le caviglie con dei cavi elettrici. Poi lo assicurò ad un gancio da macellaio fissato ad una catena basculante fatta appositamente calare dal soffitto.

In pochi secondi Mandingo si trovò sollevato da terra, appeso per i polsi, privato della vista e in balia della spietata dominatrice rossa: Iniziò a sudare freddo e a tremare impercettibilmente.

Lady Moralizzatrice si avvicinò al tavolino, osservò i numerosi oggetti di tortura e con sadico compiacimento scelse una pesante spranga di ferro.

Il regolamento dei giochi parlava chiaro, non si potevano infliggere danni permanenti, per cui doveva stare attenta a non colpire organi vitali oppure la testa.

Ma poteva comunque infliggere dolori terribili, concentrandosi sulle parti ossee o sulle articolazioni come caviglie, stinchi, ginocchia, gomiti. Eventuali ferite o rotture in quelle parti potevano essere successivamente curate.

Girò intorno al corpo indifeso di Mandingo con fare rapace, poi prese bene la mira e vibrò un brutale colpo di spranga sul suo gomito. Lo schiavo squarciò l’aria con un grido di dolore.  Poi lo colpì ancora più volte, con violenza crescente, prima sulle caviglie, poi sulle scapole. Lasciò passare alcuni secondi tra una sprangata e l’altra. Poiché Mandingo era bendato, il breve tempo che passava tra un colpo e quello successivo si trasformava in un’attesa infinita carica di angoscia e sofferenza.

“Ne hai avuto abbastanza verme disgustoso?” lo interrogò Lady Moralizzatrice.

Mandingo non disse nulla, ma iniziò a piangere in silenzio.

“Devi sapere, lurido scimmione, che in questi casi è una buona idea rompere subito una gamba. Il dolore diventa quasi insopportabile, soprattutto quando si colpisce ripetutamente l’osso spezzato. Cosa ne dici, procedo o ti arrendi, puzzolente sacco di merda?”

Mandingo era già sul punto di cedere, ma prima che potesse pronunciare la safe-word intervenne il Professore urlando: “Qualunque cosa ti faccia lei, se adesso ti arrendi, quando torniamo a casa, io te ne faccio il doppio brutto stronzo, hai capito bene? Quindi stringi i denti e tieni duro!”

Mandingo sapeva bene che il Professore diceva sul serio, quindi si fece coraggio e con un filo di voce rispose: “Andiamo avanti”

Lady Moralizzatrice contrasse le labbra in un ghigno diabolico, tornò velocemente al tavolino, lasciò la spranga di ferro e prese un grosso martello da fabbro, tornò vicino a Mandingo, mirò subito sotto il ginocchio, e colpì con tutta la forza che aveva in corpo.

Il nitido schianto dell’osso che si rompeva riecheggiò nell’arena, accompagnato dalle disperate urla di dolore di Mandingo, mentre si dimenava come una biscia impazzita.

Linda, costretta ad assistere dall’inizio all’orribile supplizio, cadde svenuta ai piedi del Professore.

Le urla di Mandingo si sostituirono a gemiti strazianti, pianto a dirotto e stridore di denti.

La Moralizzatrice prese nuovamente la mira, e scagliò una seconda terribile martellata proprio nel punto in cui dalla gamba fuoriusciva un bianco pezzo dell’osso spezzato.

Questa volta il dolore fu troppo grande, Mandingo urlò come se non ci fosse un domani e poi svenne.

La sadica dominatrice prese allora un secchio d’acqua posato in un angolo del ring e lo lanciò sulla faccia dello schiavo, che riprese i sensi urlando ancora più forte.

“Cosa mi dici sudicia merdaccia, getti la spugna o devo spezzarti anche l’altra gamba?” ringhiò la donna sollevando nuovamente il martello

Mandingo aveva superato i suoi limiti, e senza altri indugi si arrese urlando la safe-wod con tutto il fiato che ancora aveva in corpo.

Era durato in tutto sei minuti.

Il Professore lo stava ancora insultando mentre veniva trasportato in barella fuori dall’arena. Avrebbe voluto seguirlo sino all’infermeria per continuare a pestarlo sulla tibia fratturata, ma non ne aveva il tempo. Era ora il suo turno: doveva salire sul ring per affrontare la Donna Capra.

Sapeva bene che con la schiava della Moralizzatrice non sarebbe stato facile, l’aveva vista combattere con selvaggia determinazione durante gli incontri della prima fase.

Era comunque fiducioso, pensava che prima o poi lei avrebbe ceduto sconfitta dal suo metodo infallibile.

Ciò che lo preoccupava era il fattore tempo, doveva raggiungere il suo scopo in meno di sei minuti e questo rendeva l’intera faccenda maledettamente complicata.

Quando raggiunse l’interno del ring era tutto pronto: gli inservienti avevano portato la macchina dell’elettroshock ed una specie di tavolo operatorio secondo le sue disposizioni, e la Donna Capra lo attendeva imperturbabile al centro della scena con indosso solamente dei piccolissimi slip.

Lei era di una bruttezza inquietante: aveva un giovane flessuoso e sensuale corpo da top model internazionale, ma la testa era deforme con un’orribile faccia caprina, piccoli occhi cisposi e grosse labbra gibbose.

“Sdraiati sul tavolo brutta stronza!” ordinò il Professore appena fu suonato il gong che dava avvio alla sessione.

La Donna Capra obbedì.

Il professore legò velocemente al tavolo i polsi e le caviglie della donna con dei legacci, poi le bloccò la testa caprina con una specie di grosso morsetto.

Si avvicinò senza perdere tempo alla macchina dell’elettroshock, afferrò i cavi che terminavano su due pinze a coccodrillo e le attaccò agli alluci smaltati della Donna Capra, una per piede. Poi fece un passo indietro e prima di dare corrente indugiò per un attimo sul corpo indifeso della ragazza.

La scarica durò circa quindici secondi e la Donna Capra riuscì a non urlare, senza tuttavia poter trattenere le lacrime, che iniziarono a sgorgarle dagli occhi arrossati.

“Questa era meno della metà della potenza massima” la informò il Professore sorridendo in modo malvagio.

“Allora metta al massimo, padrone” disse lei singhiozzando.

Lui usava raramente la massima potenza e solamente quando le torture si protraevano molto a lungo. Tendenzialmente cercava di non farlo se possibile, per evitare che nella vittima potesse subentrare la pazzia.

“Ti accontenterò volentieri” annunciò in questo caso il Professore, che avendo poco tempo era intenzionato ad andare sino in fondo.

Aumentò il voltaggio alla massima potenza e lasciò accesa la macchina per altri dieci secondi, ghignando sadicamente mentre la ragazza si dimenava per il dolore, gridando e urlando questa volta senza remore.

“Brutta debosciata, ti arrendi o vuoi una scarica da trenta secondi?”

“No” lo implorò lei. “Ti prego padrone, trenta secondi no”

“Allora pronuncia la safe-word” disse lui con uno sguardo di trionfo dipinto sul volto.

“Falla di almeno… quaranta, secondi” sussurrò lei con un filo di voce vagamente lascivo.

“Schifosa sgualdrina, te ne pentirai amaramente!”

Il Professore allora le strappò le pinzette a coccodrillo dai piedi facendola nuovamente urlare, poi afferrò dal tavolo degli attrezzi un grosso cilindro di ebanite che misurava cinque centimetri di diametro a circa venticinque in lunghezza. Intorno al cilindro erano fissate delle placche di metallo alle quali attaccò le pinzette collegandolo in questo modo alla macchina.

Poi si avvicinò nuovamente alla ragazza e senza troppi complimenti le spinse violentemente il cilindro per due terzi dentro alla bocca. Quindi, senza indugiare, diede nuovamente corrente: per quaranta interminabili secondi.

La Donna Capra gridò disperata, mentre il suo corpo era scosso dalle convulsioni, e si contorceva in modo innaturale, e una disgustosa puzza di carne bruciata si diffondeva per tutta la stanza.

“Arrenditi cagna nauseabonda” le intimò lui ancora una volta.

Ma era troppo tardi, prima che potesse fare altro, il gong suonò: erano passati sei minuti ed un secondo, e il Professore era stato sconfitto.

 

Capitolo sesto: scontro finale

 

Per il gran finale salirono per prime sul ring la Donna Capra e Lady Circe.

Appena il cronometro iniziò a scandire i secondi, la padrona del castello si avvicinò alla ragazza dal volto caprino, che ancora scossa per l’elettroshock stava in piedi a fatica, tutta tremebonda.

“Offrimi il collo, schiava” ordinò Lady Circe.

La Donna Capra obbedì come ipnotizzata, scostando i lunghi capelli scuri con le mani tremolanti e concedendo la gola indifesa.

Lady Circe spalancò allora la bocca esibendo mostruosi candidi denti aguzzi e si avventò sul collo della ragazza squarciandole le carni, affondando nella carotide gli immondi incisivi ancora ben visibili tra le labbra carnose, dentro l’orribile bocca stillante sangue.

La Donna Capra emise un gemito strozzato lasciandosi cadere quasi morta tra le braccia della padrona.

A reagire con impeto fu la Moralizzatrice, che urlando disperata con un salto balzò sul ring, afferrò una grossa mazza di ferro e cominciò a colpire Lady Circe sulla testa e sulla faccia mandandole in pezzi gli occhiali da sole e costringendola ad aprire le fauci mollando la preda.

Lady Circe si girò allora verso la donna che aveva osato aggredirla.

Il volto sino a poco prima di colore bianco cadaverico aveva iniziato a fiammeggiare di demoniaco furore, e i grandi occhi rossi incandescenti ardevano ora di rabbia, odio e collera, così grandi da far impallidire i diavoli dell’inferno.

“Come hai osato colpirmi stupida troia!?” ringhiò digrignando i denti insanguinati come una bestia selvaggia.

“Non sono ammessi danni permanenti, ricordi puttana? Hai scritto tu le regole, e non puoi vampirizzare la mia schiava senza che io ti spacchi la testa” rispose la Moralizzatrice afferrando uno spadone medioevale dal tavolo delle torture.

“Io faccio quello che voglio, come voglio, quando voglio e con chi voglio, e adesso ti rimanderò a casa a calci, dopo aver sculacciato per bene quel tuo grosso grasso culone pieno di merda!”

“Ti sbagli di molto, brutta ciuccia sangue del cazzo, sarò io a staccarti quella stupida zucca vuota dal collo rispedendoti all’inferno”

Lady Circe, senza aggiungere altra parola, si mosse veloce come un fulmine, con un morso bestiale azzannò la Moralizzatrice ad una spalla strappandole pelle, muscoli e carne viva sino alla clavicola.

“Sei troppo lenta, stupida stronza” commentò Circe leccandosi le labbra spruzzate dal sangue uscito dai tessuti sventrati.

La Moralizzatrice fece roteare disperatamente lo spadone un ultima volta nel vano tentativo di colpire la sadica vampira, ma ormai le mancavano le forze, le girava la testa, e dopo aver tentato un ultimo affondo senza successo, cadde sulle ginocchia esausta.

Lady Circe le fu sopra in un attimo, le afferrò la testa con le sue fredde mani dalle lunghe dita e poi affondò le spaventosi e bestiali zanne affilate sulla gola della dominatrice ormai sconfitta, spezzandole il collo.

Il rumore delle vertebre che andavano in pezzi riecheggiò nello scantinato del castello nel silenzio più assoluto. Tutto il pubblico aveva infatti assistito ammutolito a questo gran finale a sorpresa.

I corpi della Moralizzatrice e della Donna Capra giacevano privi di vita sul telo bianco del ring macchiato del loro stesso sangue.

“E’ con grande piacere che comunico ora il vincitore di questi giochi perversi” annunciò Lady Circe dopo essersi ricomposta.

“Il primo classificato è il mio adorabile schiavo Pony-Boy, che dichiaro vincitore per manifesta rinuncia della sua avversaria, Donna Capra”

Il pubblico applaudì entusiasta, e desideroso di andarsene il prima possibile.

Lady Circe rise in modo satanico per poi iniziare a congedare gli ospiti sopravvissuti.

Mancavano pochi minuti all’alba e per lei si avvicinava il momento di ritirarsi.

Lo stanzone dei giochi si era quasi svuotato del tutto quando si fece avanti Locusta, lo storpio, tirando fuori da sotto il mantello un grosso crocefisso d’argento.

“Vade retro, demonio” intimò alla padrona di casa.

Circe si ritrasse furibonda alla vista della croce e iniziò a ringhiare mentre il volto le si imbruttiva per la collera.

Franchino, la ragazza del Bar e altre tre serve circondarono lo storpio, ma non potevano avvicinarsi paralizzati dal potere della croce.

“Come osi sfidarmi nella mia dimora storpio” urlò Circe con una voce che non aveva più nulla di umano.

“Non sono qui per sfidarti, ma per liberare il mondo dalla tua mefistofelica presenza” puntualizzò lo storpio, che con l’altra mano ora impugnava una pistola.

“E pensi davvero ti poterci riuscire con una croce e una pistola?”

“E’ una pistola ad acqua, puttana, ma caricata con acqua benedetta, o acqua Santa che dir si voglia.”

Franchino allora si fece sotto per disarmarlo: “Vediamo se hai il sangue dolce, storpio” gridò spalancando le fauci e allungando le mani ossute trasformate ora in artigli ferini.

“Vai a farti fottere” disse il poeta, e gli sparò in faccia un getto d’acqua benedetta che gli incendiò la barba e la faccia e i denti anneriti dal tempo.

Poi fu attaccato dalla morettina del bar e dalle altre serve, che sbavavano dalla rabbia e dal desiderio di morderlo sul collo, ma Locusta era insospettabilmente agile e riusciva ad evitare gli affondi di quelle maledette e le colpiva con la croce e con l’acqua Santa e in breve le serve del diavolo stavano bruciando sul pavimento nella sala dei giochi perversi.

Sembrava che nulla potesse fermarlo.

“O Signore, donaci il coraggio in queste ore tormentose” disse alzando gli occhi verso il cielo, prima di avanzare minaccioso al cospetto di Lady Circe.

Ma lei si mosse più veloce, e in un lampo riuscì a colpirlo con un paio di schiaffi disarmandolo della croce e della pistola ad acqua, ed ora gli aveva attanagliato il collo con le mani e lo teneva sollevato da terra.

“Non ti berrò tutto in una volta” disse mostrando gli immondi canini vampireschi.

“Prima ti farò diventare il mio schiavo e ti costringerò a mangiare ratti e scarafaggi”

Lo storpio rantolava, la presa micidiale della creatura satanica lo stava strangolando.

“Ti userò come uno zerbino, ti farò leccare merda dai tacchi dei miei stivali, ti trasformerò in un mulo da soma e userò il tuo lurido culo come portaombrelli”

“I peccatori che vagano nell’oscurità hanno visto la luce” riuscì a sussurrare il poeta mentre le ultime forze gli venivano meno.

“Ben venuto nel mondo degli schiavi” ruggì infine Lady Circe con voce demoniaca, mentre stava per azzannarlo sul collo.

Ma un instante prima che potesse chiudere le diaboliche fauci sul gozzo dello storpio, un palo di legno la trapassò da parte a parte. Fece appena in tempo a voltarsi per guardare chi l’avesse trafitta, poi il suo corpo satanico e la faccia pallida e sfigurata dalla perversione e dal peccato si incenerirono in un gran bagliore di fuoco e di fiamme.

Quando il fumo si dissolse Linda era lì in piedi davanti alle ceneri di Lady Circe, con il paletto di legno in mano, pietrificata dalla paura.

“Solo un autentico servo di Dio può infilare con tale grazia un palo di legno nel cuore di questi mostri” disse il poeta tossendo, mentre cercava di tornare a respirare.

“Non esageriamo, è solo la gamba di una sedia rotta” si intromise il Professore, desideroso di recuperare i suoi schiavi e andarsene da quello scantinato.

“Convertiti, finché sei in tempo” lo ammonì lo storpio, “non c’è salvezza per chi muore nel peccato e senza pentimento”

Ma lui non gli rispose, aveva afferrato Linda per un braccio e stava già salendo la scalinata che lo avrebbe riportato in superficie.

“Che nottata di merda” commentò poco dopo aver lasciato il castello a bordo della sua automobile insieme ai suoi schiavi.

Mandingo era sdraiato sui sedili posteriori con la gamba rotta fasciata alla meno peggio e dilaniato dal dolore. Linda era seduta davanti senza parlare e in stato di shock.

“Non c’è nulla di più fastidioso di due donne pazze che litigano, è una cosa che non posso sopportare” aggiunse accendendosi un sigaro e dirigendo il veicolo verso casa.

Il sole si stava alzando pigramente sulla rigogliosa valle coltivata a vigneto. Era il primo giorno di primavera, e quella settimana il professore avrebbe imbottigliato il vino dell’ultima vendemmia.

 
 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

 

Scritto da Anonimo Piacentino

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