Il musicista Lucio Spaccanoci arrivò alla Locanda della Luna Nera a notte fonda, molto oltre l’orario di chiusura. Aveva prenotato.
La locandiera, una vecchia dai capelli grigi e con le mani rovinate dall’artrite, andò ad aprire di pessimo umore: detestava i ritardatari, odiava i musicisti, e non poteva sopportare i clienti che avanzavano troppe pretese. La sua era solo una locanda di campagna, amava dire per commiatarsi da quelli che gli avevano rotto troppo i coglioni, poco prima di ucciderli.
“Buonasera signora” si presentò Spaccanoci, senza sorridere.
“E’ notte fonda” replicò gelida la locandiera, guardandolo con disprezzo. Il suo volto era flaccido e giallognolo, solcato da profonde rughe.
“Vorrei un limone, e dell’acqua minerale, fresca naturalmente” disse lui con tono arrogante.
Il limone puoi ficcartelo nel culo, pensò la vecchia, poi guardandolo come fosse uno scarafaggio disse: “La colazione sarà servita domani mattina alle ore 9:00, adesso l’accompagno alla sua camera. Intanto mi consegni un documento, per la registrazione.”
Lucio Spaccanoci, un po’ sorpreso dalla rudezza della donna, recuperò la patente dai pantaloni e prima di porgerla alla signora precisò: “Devo fare colazione alle sette, le nove è troppo tardi.”
Certamente, vedrai che bella colazione ti servirò fottuto bastardo, mandò a mente la locandiera, poi senza guardare in faccia il fastidioso ospite, con voce calma, disse: “Attraversata la strada c’è un bar, quello apre alle 6:00. Adesso mi segua.”
La locandiera si avviò lentamente lungo una vecchia scala di legno che cigolando al suo passaggio saliva al piano superiore. L’ambiente era semiavvolto dall’oscurità, illuminato solo dalla fioca luce proveniente da una sgangherata lampadina appesa al muro del pianerottolo superiore. Spaccanoci la seguì contrariato, osservando con disappunto le vecchie pareti scrostate della locanda, e le ragnatele penzolanti dagli angoli del vetusto soffitto consunto dal tempo.
“Questa locanda ha più di quattrocento anni” commentò la vecchia, come se avesse indovinato i pensieri del musicista, “di qui sono passati in tanti, gente che va, gente che viene, alcuni rimangono: per sempre.”
“In che senso?” domandò il musicista senza capire, ed iniziando ad avvertire un indefinibile senso di disagio.
“Nel senso che lasciano un buon ricordo, che rimane nel tempo” spiegò la donna ansimando. Aveva già passato la settantina e la vecchia rampa di scale cigolanti cominciava ad essere una salita impegnativa.
Arrivata in cima si infilò nel corridoio che conduceva alle stanze degli ospiti. Erano contraddistinte con nomi, anziché numeri: camera delle rose, camera dei gerani, camera delle viole, camera dei tulipani, ed in fondo al corridoio quella preferita dalla vecchia, dove ci metteva sempre i clienti più odiati: la camera dei crisantemi.
“Come mai nomi di fiori?” domandò il musicista, guardandosi attorno con sospetto, sempre più inquieto.
“Mi piacciono i fiori” rispose la vecchia aprendo la porta della camera dei crisantemi, “più delle persone in verità. Profumano, Ti ascoltano, non parlano e soprattutto non danno fastidio a nessuno. E adesso si accomodi, prego.”
Il musicista infilò la testa nella camera per ispezionarla, ma senza oltrepassare l’uscio, trattenuto da un’invisibile istinto di conservazione.
Era arredata in modo spartano: un letto singolo, un comodino di legno devastato dalle tarme, uno specchio tondo appeso al muro pitturato di viola, una cassettiera malandata messa peggio del comodino. Sul pavimento ricoperto da un parquet di rovere scuro e antico non meno della locanda intera, era adagiato un grosso tappeto persiano dai colori sbiaditi e macchiato in più punti. Nella camera vi era una sola piccola finestra con gli scuri chiusi. Nessun’altra porta interna alla stanza.
“E il bagno?” domandò il musicista, ostentando un’espressione della faccia sempre più insoddisfatta e preoccupata.
“In fondo al corridoio, proprio qui a fianco” spiegò la vecchia, sfidandolo con uno sguardo torvo e assassino.
“Non ha una stanza con il bagno privato e in camera?”
“No! Se vuole il Grand Hotel a cinque stelle può proseguire sino a Piacenza, questa è solo una locanda di campagna.”
“Non credo di voler restare allora, questa bettola inospitale non soddisfa le mie aspettative.”
“La Signora Beretta qui presente però soddisfa certamente le mie” disse la locandiera sadica, tirando fuori una pistola calibro 9 da sotto il grembiule e puntandola in faccia al musicista.
“Ma.. ma lei è pazza” cercò di protestate Spaccanoci balbettando.
“E tu sei un rompicoglioni di prima categoria. Ora entra in questa camera o ti faccio un secondo buco nel culo, faccia di merda” ordinò la vecchia, mentre la bocca rugosa le si contraeva in un ghigno terrificante.
Spaccanoci entrò tremando all’interno della stanza, il volto era divenuto cereo, e anche la palpebra dell’occhio destro iniziò a sussultare ritmicamente.
“Mettiti lì al centro, sopra al tappeto.”
Spaccanoci eseguì. Quando lui raggiunse il punto indicato, la diabolica locandiera aprì uno sportellino ubicato vicino alla porta, vi infilò la mano artritica sino ad afferrare una leva dall’impugnatura in avorio, e fece forza tirandola verso di sé.
Un orribile stridore di catene proveniente da sotto il tappeto fu accompagnato dall’urlo disperato di Spaccanoci, mentre il suo corpo precipitava nel vuoto, risucchiato nella botola azionata dalla perfida vecchia.
L’insopportabile musicista sprofondò per circa sei di metri come in una foiba infernale, sino a schiantarsi sul pavimento in terra battuta della cantina. Si ruppe sul colpo una caviglia, un braccio e un paio di costole, svenendo per il dolore.
Quando riprese i sensi si ritrovò legato ad una sedia con un limone di plastica dura infilato nella bocca e la locandiera sadica armata di cesoie che lo osservava con fare malvagio e pericoloso. I suoi occhi erano fissi in quelli di Lucio, truci e gelidi come una tomba profanata.
Un pungente ed insopportabile fetore di morte e carne in putrefazione pervadeva la maleodorante cantina, illuminata solo dal riflesso di una pallida luna grigia, che pigramente filtrava attraverso una grata arrugginita vicino al soffitto.
Per prima cosa lei gli amputò le dita delle mani, una ad una, sogghignando divertita, mentre il musicista cercava di urlare piangendo e dimenandosi in prede alla disperazione, dilaniato dall’orribile dolore.
Le falangi saltavano via con un rumore fastidioso come di ossa di pollo spezzate, e lunghi fiotti di sangue raggiungevano il pavimento trasformandosi in fetido fango a contatto con l’umido terriccio del pavimento.
“Scommetto che adesso il bagno in camera, la colazione alle 7:00, il limone e l’acqua fresca non son poi tanto importanti, non è vero stupido bastardo?”
Lui era ormai esausto e stava nuovamente per svenire.
Lei gli tagliò via l’ultima falange superstite, prima che perdesse i sensi: quella del mignolo della mano sinistra.
Poi si piegò a raccogliere le dita maciullate cadute sul pavimento, sfoggiando un inquietante sorriso infernale.
“Le userò per il pranzo di domani” disse con voce malvagia.
Fu l’ultima cosa che il musicista riuscì a vedere, prima di addormentarsi tra le fredde braccia della morte. Spirò poco prima dell’alba, defunto per dissanguamento.
Il giorno dopo, alla Locanda della Luna Nera, lo “Spezzatino della Casa” abbinato con un vino Gutturnio Superiore d’annata fu il piatto più venduto.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Era un bel mattino di fine estate e, come tutte le domeniche, Piero Bellamorte si recò al parco comunale per fare una passeggiata e scambiare quattro chiacchiere con gli anziani ospiti della vicina casa di riposo. Anche se ormai la sua impresa di pompe funebri aveva da tempo sbaragliato la concorrenza sino a diventare l’unica in tutta la vallata, Piero non aveva perso le sue abitudini e continuava ad esercitare il suo potere segreto, quello che gli aveva consentito di creare la sua fortuna materiale su questa terra.
Si da quando era bambino aveva scoperto di possedere un dono, una speciale qualità grazie alla quale era in grado di capire quando le altre persone sarebbero morte. Gli bastava prendere un uomo per mano, concentrarsi per qualche secondo e guardarlo negli occhi. Ciò che avrebbe visto nei pochi istanti successivi gli avrebbe rivelato quanto tempo restava da vivere a quella persona. Come un qualunque ciarlatano capace di leggere i fondi del caffè, Piero era capace di leggere dentro l’anima della gente attraverso i loro occhi, con l’unica differenza che Piero non era un ciarlatano, e che le sue previsioni erano sempre esatte.
Anche se conoscere in anticipo la data, e talvolta le circostanze, della dipartita degli altri poteva risultare sgradevole, Piero aveva presto imparato a trarne profitto. Ci riusciva soprattutto con le persone anziane che per via dell’età erano meglio predisposte a fare i conti con l’inevitabile momento del trapasso. E poiché nel corso degli anni almeno nella zona si era diffusa la voce circa le capacità divinatorie di Piero, oramai erano i suoi futuri clienti a cercarlo per scoprire quanto gli restasse da vivere, e lui non doveva nemmeno più prendersi il disturbo di convincere i morituri a concedergli la propria fiducia.
Quella mattina era seduto sulla solita panchina di cemento a godersi il sole con nell’aria il profumo dei mosti e della vendemmia, quando ad avvicinarlo fu una bella ragazza dai capelli dorati e la pelle bianca e liscia. Non poteva avere più di vent’anni.
“Mi hanno detto che sai prevedere quando muore la gente” dichiarò con aria seria rivolgendosi a Piero.
“A volte ci riesco” si schernì lui. Non gli interessavano i giovani. Se fossero morti prematuramente sarebbe stata una disgrazia, e se fossero morti molti anni dopo, probabilmente non si sarebbero serviti dei servizi offerti dalla sua impresa di pompe funebri.
“Conosci anche quando arriverà il tuo momento?” domandò la ragazza scrutandolo con sguardo indagatore.
“No, anche se forse potrei scoprirlo, ma non ho mai voluto farlo.”
“Perché allora lo dici gli altri? Non pensi che nessuno in fondo voglia saperlo?”
“Forse” disse lui con un ghigno, “ma in certe circostanze, e ad una certa età, cambiano le prospettive, le priorità sono diverse e per alcuni saperlo può essere un vantaggio.”
Piero non aveva ancora compiuto i cinquant’anni ed almeno sino ad allora non aveva ancora sentito il bisogno di conoscere quando sarebbe stato il suo giorno.
“Tu ti sei servito di questo talento per arricchirti e vendere i servizi della tua impresa di pompe funebri” sentenziò la ragazza con voce ferma ed un espressione sul viso vagamente accusatoria.
“Le persone si fidano di me, non faccio nulla di sbagliato” disse Piero abbassando lo sguardo. Era la prima volta che qualcuno lo rimproverava per aver tratto vantaggio dalla sua particolare dote. Lui pensava fosse naturale farlo, come le attrici usavano la propria avvenenza, gli scienziati il cervello ed i calciatori le proprie gambe. Avrebbe voluto dirlo anche a quella ragazza bella come un angelo, ma quando rialzò la testa per parlarle, lei era scomparsa.
Piero tornò a casa prima del solito, aveva perso il desiderio di lavorare per quel giorno. Il breve colloquio con quella bionda lo aveva turbato nel profondo. Il dubbio di aver mal vissuto la propria vita iniziò ad insinuarsi nel suo cervello come un tarlo. Improvvisamente avvertì la necessità di redimersi, di recuperare il tempo perduto, di dedicarsi al prossimo, magari anche di utilizzare il suo talento segreto ma in modo nuovo e diverso, senza più metterlo al servizio della sua smisurata sete di ricchezza. Ma ne avrebbe avuto il tempo? Quanto ancora gli restava da vivere? Ecco che per la prima volta volle sapere quando sarebbe giunto il giorno della sua morte.
Si recò con passo incerto sino al bagno, gli si strinse lo stomaco in preda all’ansia, ora che aveva deciso di indagare la propria dipartita. Appoggiò il peso del proprio corpo sulle braccia aggrappandosi al lavandino mentre iniziò a guardare il suo volto riflesso dallo specchio.
Era ancora giovane in fin dei conti, si sentiva in forze, certamente avrebbe ancora avuto il tempo necessario.
Fissò i suoi occhi riflessi dallo specchio e dopo alcuni secondi il suo corpo fu attraversato da un brivido, si sentì avvolgere dal gelo mentre la morte gli sorrideva beffarda e un infarto fulminante lo stroncava sul posto in quella tarda, calda e profumata mattina di fine estate.
Piero Bellamorte fu trovato senza vita soltanto alcuni giorni dopo, e quasi nessuno presenziò al suo funerale.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Il cielo sopra l’abbazia si era oscurato, il vento sferzava l’interno del chiostro sollevando nuvole di polvere e scuotendo le piante. I monaci si erano già tutti ritirati all’interno dell’edificio, per evitare di essere sorpresi dal temporale in arrivo. Soltanto il vecchio era rimasto.
Attese che anche l’ultimo religioso se ne fosse andato, poi camminò sino a raggiungere il lato occidentale dell’austero cortile. Si avvicinò al muro logorato dal tempo, individuò il cerchio magico graffito nell’intonaco consunto e spinse la pietra ottagonale collocata ai suoi piedi. Il meccanismo si azionò con un rumore basso e lugubre, aprendo il passaggio segreto. Si guardò attorno con circospezione, per assicurarsi di non essere visto, poi si lanciò all’interno dell’oscuro pertugio, un attimo prima che il muro di pietra si richiudesse alle sue spalle. Fuori da lì, oltre la parete, un tuono fragoroso squassò l’aria e cominciò a piovere copiosamente.
Da sotto il mantello il vecchio tirò fuori una torcia elettrica e l’accese. Davanti a lui, come una tetra catacomba, si dipanava una buia galleria che lo avrebbe condotto nel cuore dell’edificio, si fece allora coraggio e si incamminò. Avanzò con cautela, le pareti trasudavano umidità e brulicavano di insetti ripugnanti, il terreno sul quale stava camminando era molliccio, sotto le travi di pietra che sostenevano il soffitto da non meno di sei secoli. L’aria era pesante, viziata da un pungente odore sulfureo la cui provenienza non era in grado di individuare. Continuò ad avanzare sino a raggiungere la scalinata che scendeva alla camera sotterranea. Il cuore gli martellava forte nel petto e rimase immobile per un po’, prima di procedere lungo la ripida rampa.
Intorno a lui tutto era silenzio, e poteva udire solo l’affanno del proprio respiro e il battito del suo cuore. Mentre scendeva sulle gambe incerte vide un grosso pipistrello appeso allo stipite della porta, in fondo alle scale, circondato dall’oscurità. Quando varcò la soglia il chirottero spiccò il volo e scomparve rumorosamente oltre il cunicolo.
Era la terza volta in tre giorni che entrava nella camera segreta, ma l’emozione era ancora grande. Come uno scolaretto davanti al suo primo racconto di fantascienza, avanzò timidamente verso il centro della stanza.
Un volto privo di umanità brillava di luce aurea, nascosto nel buio di quell’ambiente plumbeo e soffocante, e due occhi smeraldini privi di vita fissarono il vecchio, penetrando la sua coscienza e mettendo a nudo la sua vanità.
Il desiderio di conoscenza e la brama di sapere si erano accresciuti in lui nelle ultime ore, così come il sospetto e la paura che le conseguenze di quella scoperta potessero essergli fatali. Voleva avere cognizione del suo destino e non sapendo più trattenersi porse una nuova domanda, dopo le molte che aveva già fatto nei giorni precedenti e che gli avevano svelato molte verità sconcertanti.
“Mi resta molto da vivere?”
“No” risuonò nella camera una voce metallica e spaventosa, mentre gli occhi smeraldini si accendevano emanando un bagliore sinistro.
Il vecchio impallidì, i suoi più cupi presentimenti trovavano crudele conferma, ora sapeva di dover fare in fretta, misteriosi ed invisibili nemici minacciavano la sua vita.
“Sarò dunque ucciso?” chiese nuovamente cercando di nascondere il tremore delle mani.
“Si” fu la nuova terribile risposta che si diffuse raccapricciante nella stanza.
La torcia elettrica gli cadde di mano rimbalzando sul pavimento di pietra, ed il vecchio si sentì mancare. Ciò che aveva trovato sarebbe dovuto restare segreto, qualcuno agiva nell’ombra per mantenerlo nascosto, qualcuno senza scrupoli, che non avrebbe esitato ad uccidere per raggiungere il suo scopo. Ed il vecchio sapeva con chi avrebbe avuto a che fare. Da sette secoli quelle stesse persone proteggevano il segreto, lo avevano sottratto al mondo per impedire che si conoscesse la verità, e non gli avrebbero mai permesso di svelarla.
Lui era troppo vecchio e debole per affrontarli. Comprese di avere ancora poco tempo e si chiese cosa fare. Avrebbe potuto restare in quel luogo per appagare la propria sete di conoscenza in attesa della fine, ma quanto aveva già appreso era ormai sufficiente. Decise allora che avrebbe agito. Sapeva di non poterli battere, ma forse poteva ancora ingannarli. Con astuzia e intelligenza aveva già lasciato degli indizi alle sue spalle. Avrebbe avuto bisogno di altro aiuto e sapeva dove cercarlo. Con un po’ di fortuna avrebbe sottratto il segreto all’oblio per consegnarlo all’umanità.
Si voltò per tornare sui suoi passi e mettere in pratica i suoi intendimenti, quando un dolore atroce lo investì alla base della testa. Crollando inerme sul pavimento realizzò di essere stato colpito. Gli occhi gli si chiusero e la sua anima fu avvolta dalle tenebre. Poi fu l’oblio.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Il dottor Sadico era in piedi nel mezzo della stanza, indossava un camice bianco su di una camicia azzurra stirata di fresco con una cravatta del partito. La sua barba folta e grigia brillava sotto la luce artificiale delle lampade al neon, ed una espressione di preoccupata sorpresa gli adombrò il volto quando vide un uomo sbucare dal nulla, uscendo da un buco nel pavimento del suo laboratorio. Sembrava un mostro uscito da un romanzo o da un racconto horror in un cimitero.
Leo Investigato si mosse d’istinto, impugnato il pugnale si avvicinò al dottore zoppicando ma con rapidità. Nonostante le menomazioni subite la sua mole era ancora intimidatoria, la barba incolta e la fronte segnata dalle cicatrici conferivano al suo volto un aspetto spaventoso. Il dottore rimase immobile, intuendo che opporre resistenza sarebbe stato pericoloso.
Leo lo teneva in scacco, il dottore era disarmato, lui invece aveva il pugnale e una P38. Erano soli nel laboratorio e se il dottore avesse cercato di chiedere aiuto lui lo avrebbe ucciso in un istante. Valutò che avrebbe potuto ottenere preziose informazioni, e iniziò ad interrogarlo.
“Ora ti farò alcune domande, dovrai rispondere semplicemente annuendo o scuotendo il capo, sono stato chiaro?” disse premendogli la lama del pugnale sotto al mento. Il dottore annuì, i suoi occhi erano terrorizzati.
“Gli accessi alla fortezza sono sorvegliati?”
Il dottore scosse la testa, come per rispondere no.
“Per arrivarci dobbiamo passare da altri posti di guardia?”
Il dottore scosse nuovamente la testa, ma abbassando lo sguardo. Investigato capì che stava mentendo.
“Non cercare di fregarmi, saresti il primo a finire ammazzato” ringhiò aumentando la pressione del pugnale sulla gola. “Ti ripeto la domanda, per arrivare al castello dobbiamo passare posti di guardia?”
Questa volta il dottore annuì timidamente.
“Più di uno?”
“Dipende da che parte volete passare” rispose a mezza voce il dottore.
“Il percorso più breve” disse Investigato.
“Posso indicarvelo” propose il dottore.
“Ti ho già detto di non cercare di fottermi. Ci andremo insieme e se qualcosa va storto, ti ucciderò.”
Il dottore impallidì, sapeva che non stava bluffando. L’uomo con la fronte sfregiata poteva spezzare in un attimo l’esile filo al quale era ora appesa la sua vita.
“Vi potete fidare, se non siete ancora morto è proprio grazie a me, mi sono speso con tutto me stesso affinché il Vostro bel corpo non venisse rovinato del tutto” disse cercando di blandirlo.
“Mi hai salvato solo per farmi fare da cavia nei tuoi esperimenti maledetti, brutto ceffo” protestò Investigato.
Il dottore sembrò risentirsi e replicò piccato: “Con i miei esperimenti contribuisco al progresso dell’umanità.”
“Sei solo uno schifoso criminale, hai sulla coscienza migliaia di vittime innocenti. Non sei altro che uno sporco assassino.”
“Vi sbagliate grossolanamente, la nostra è una azione meritoria, stiamo estirpando una minaccia genetica per la nazione. Eliminiamo esseri inutili che non offrono alcun contributo alla società.”
L’agente segreto Investigato si sentì avvampare dalla rabbia, in quel momento avrebbe voluto uccidere il dottore, ma riuscì a dominarsi, doveva servirsi di lui per raggiungere la fortezza.
“Stai zitto!” lo redarguì “chi credi di essere per giudicare il diritto alla vita di altri uomini?”
Un espressione di sincero sbalordimento si materializzò sulla faccia del dottore.
“Le persone sottoposte ai nostri programmi non sono veramente esseri umani” disse con tono professorale, “come Voi non esitereste ad eliminare le zecche o i pidocchi, così noi disinfestiamo la nazione dai parassiti che la guastano”.
“Ora basta!” urlò Investigato colpendo il dottore con un energico schiaffo.
“Chiudi quella fogna di bocca e cammina, portami al castello e guai a te se cerchi di fare scherzi.”
“Il passaggio più vicino è lungo la strada che porta in cima alla collina, ma ci sono sempre due sentinelle di guardia” rispose il dottore toccandosi il volto arrossato dal ceffone, mentre Investigato continuava a premere il coltello sulla sua gola.
“E la mulattiera? Anche quella è presidiata?”
“Non credo sia percorribile, è abbandonata da anni” piagnucolò il dottore, sentendo sanguinare la ferita che si era lentamente aperta a contatto con la lama affilata.
“E come possiamo arrivare al castello allora?”
“Potremmo passare dal cimitero, ma fate piano, con quel coltello mi state facendo male” disse temendo di essere sgozzato.
“Allora andiamo, cammina, tu ora verrai con me, come in un racconto horror in un cimitero.”
“Lasciatemi andare, non Vi ho fatto nulla di male, mi occupo solo dei miei esperimenti.”
Investigato colpì il dottore allo stomaco con una ginocchiata, lui si piegò in avanti gemendo per il dolore. Poi lo spinse in avanti tenendogli il pugnale puntato nella schiena e lo condusse fuori dal laboratorio, sulla strada che portava al castello.
Camminarono sino in fondo alla via, dove girato un angolo si proseguiva sin dentro al piccolo, vecchio e malandato cimitero. L’illuminazione era scarsa, ed il campo santo era diviso a metà da due grosse cappelle private.
“Dimmi dove dobbiamo andare ora” ordinò Investigato premendo il coltello sotto la gola del dottore.
“L’ultima tomba sulla destra, oltre la grande cappella” disse il dottore a denti stretti, allungando il collo per evitare che la lama gli tagliasse la gola. “Sotto la lapide si apre un passaggio segreto che conduce direttamente dentro all’obitorio del castello”.
Investigato lo spinse senza cortesia sin davanti alla tomba che egli aveva indicato. Poi lo obbligò a sollevare la lapide. Sotto vi era nascosta una botola di ferro, ma era chiusa da una serratura arrugginita. Avrebbe avuto bisogno di un piede di porco per forzarla. Valutò anche la possibilità di sparare con la P38, ma l’operazione sarebbe risultata troppo rumorosa per poter essere seriamente presa in considerazione.
“Dove sono le chiavi?”
“Non ne ho idea” disse il dottore scuotendo la testa.
“Non mentire, è la porta del passaggio segreto che porta all’obitorio e tu sei il fottuto dottore, dimmi dove sono le chiavi per aprire o ti pianto il pugnale nella schiena!”
“Sono uno scienziato, non faccio il portinaio” protestò il dottor Sadico.
Investigato iniziò a spazientirsi, aveva già consumato molto tempo prezioso, doveva sbrigarsi se voleva ancora sperare di cavarsela. Il dottore stava deliberatamente cercando di rallentare le sue manovre e si stava rivelando un fastidioso impaccio.
Esaminò la botola con maggiore attenzione. Il telaio era consumato dal tempo, pensò che avrebbe potuto sfondarla con un paio di calci ben assestati. Ma il rumore avrebbe potuto rivelare la sua presenza. Non poteva correre un simile rischio. Gli serviva qualche strumento per fare leva tra gli stipiti senza provocare eccessivo fragore. Si guardò intorno e vide una robusta pala di ferro appoggiata ad un muro, di quelle che si usavano per scavare le tombe giardino. Con quella avrebbe potuto forzare la porta. Ma doveva prima sbarazzarsi del dottore.
Lo costrinse a indietreggiare sino alla cappella più vicina. Poi gli ordinò di entrare.
Quando il dottore realizzò che la porta della cappella era aperta, un’espressione di disappunto gli corrugò il volto barbuto. Quella fu la sua ultima smorfia, sentì una pressione terribile, insopportabile e soffocante avvolgergli la gola. Raccolse le sue ultime forze e cercò di urlare.
Investigato lo stava strangolando, e gli aveva stretto il collo con entrambe le mani fermando il suo grido. Aveva già ucciso in passato, ma era la prima volta che guardava in faccia, così da vicino, gli occhi della sua vittima. Li vide sbarrarsi nell’attimo in cui la scintilla della vita abbandonava il suo corpo, e provò un brivido. Percepì il sopraggiungere della morte, mentre il cadavere del dottore gli si afflosciava tra le braccia emettendo un ultimo disgustoso rantolo.
Era stato un lavoro pulito, quasi perfetto, lo aveva strozzato in pochi minuti. Cercando di non guardare il livido viola che adesso cerchiava il collo di quel corpo senza vita, lo adagiò sul pavimento. La sua coscienza ora aveva una nuova macchia fresca, ed Investigato provò una sensazione di disagio.
Aveva ammazzato un uomo disarmato a tradimento, senza nessun preavviso, senza che potesse in alcun modo difendersi. Il dottore era certamente una persona spregevole e avrebbe meritato una fine anche peggiore, pensò, ma lui si era comportato in modo disonorevole e questo lo disturbava.
Ma cosa avrebbe potuto fare? Si guardò ancora il piede ferito cercando di assolversi. Non poteva rischiare di nuovo, il dottore avrebbe potuto anche fuggire o cercare di colpirlo, aveva dovuto agire così perché era il modo più sicuro, disse a sé stesso.
Si sentì un po’ meglio, poteva continuare con il suo piano d’azione, ora. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare: i dettagli gli erano venuti in mente mentre lo stava uccidendo.
Gli tolse le scarpe e provò a indossarle. Gli calzavano un po’ strette, ma potevano andare. Per sua fortuna il dottore aveva i piedi grandi. Poi si travestì usando il camice bianco, la camicia e persino la cravatta con le insegne del partito.
Alla fine guardò ancore il cadavere.
Erano nemici, se non lo avesse ucciso, lui avrebbe potuto causare la sua morte. Ed era un autentica canaglia, rimuginò, aveva torturato e fatto morire migliaia di innocenti, ora avrebbe solo fatto da cibo per i vermi.
Investigato sbuffò, mentre trascinava il morto dentro la cappella. Diede una rapida occhiata ai loculi dove giacevano le bare di molti illustri personaggi piacentini per un meritato riposo eterno.
Se come immaginava nessuno fosse entrato nel cimitero sino al giorno successivo, prima che potessero trovare il dottore morto e stecchito, lui avrebbe avuto tutto il tempo di compiere la sua missione.
Aveva ancora qualche ora di buio a sua disposizione poi sarebbe sorta l’alba.
Raggiunse nuovamente la botola e usando il pesante badile come leva scassinò la serratura che la serrava. La ferraglia arrugginita crepitò e la porta si aprì.
Il passaggio era buio, cercò di attivare l’interruttore elettrico ma non funzionò.
Costruì allora una fiaccola artigianale con il manico in legno del badile ed alcuni lembi di stoffa ricavati dai pantaloni del dottore assassinato.
Alla luce del fuoco l’ambiente era anche più sinistro di quanto avesse immaginato. Una puzza ripugnante di morte lo investì. Sul pavimento, vicino alle pareti, grossi ratti corsero in tutte le direzioni spaventati dal suo arrivo. L’aria era quasi irrespirabile.
Investigato cercò di avanzare, trattenendo il respiro. Lungo i muri erano disposti numerosi letti di legno sui quali giacevano cadaveri, scheletri e altri resti umani avvolti in sudici sudari.
“Che schifo” mormorò guardandosi attorno in quel luogo spettrale. Una passeggiata nel mondo dei morti gli mancava, considerò incamminandosi.
Attraversò il passaggio segreto il più velocemente possibile, rischiando anche di cadere, inciampando in un femore rotolato da chissà dove, probabilmente spostato da qualche sorcio. Alla fine si trovò davanti ad una porta di legno.
Sperando che non fosse serrata cercò di aprirla. La porta si spalancò e lui uscì da quel corridoio di morte. Poteva tornare a respirare.
Vide le feritoie dalle quali si poteva guardare la luna, le fiaccole accese lungo i muri, le colonne in pietra che sorreggevano il soffitto. Comprese di trovarsi all’interno dell’obitorio, dentro al castello.
Ma non ebbe il tempo di riflettere, né la possibilità di abbandonarsi ai ricordi. Non era solo in quella stanza.
Seduti ad un tavolo due soldati della guardia stavano giocando a carte. Quando lo videro uscire dal passaggio che portava al cimitero rimasero sgomenti: aveva la torcia in mano, il camice bianco, la faccia da pazzo e i capelli sporchi di sangue.
“Che mi venga un colpo” balbettò uno dei soldati, “hanno portato al cimitero un uomo ancora vivo!”
“Come è possibile?” disse l’altro, “lì dentro non entra nessuno da almeno sei giorni.”
“Grande Giove!” esclamò il primo deglutendo, “allora quello è un fottuto fantasma.”
“Oppure uno degli esperimenti del dottor Sadico” aggiunse l’altro. “Ho sentito dire che ha inventato una tecnica per rianimare i morti.”
Investigato sogghignò. Aveva un aspetto selvaggio. Il suo volto sembrava il muso di una fiera feroce poco prima di serrare le sue fauci affamate sulla preda inerme.
“E adesso cosa facciamo?” chiese il soldato più giovane tremando dalla paura.
“Spariamogli alla testa” disse l’altro aprendo la fondina e cercando di estrarre la pistola. Indossava una divisa da caporale.
Investigato doveva impedire che sparassero, gettò la torcia a terra e andò all’attacco armato di pugnale. Il piede ferito faceva ancora male, e si spostava zoppicando. Ma i suoi movimenti erano ugualmente rapidi e riuscì a disarmare la sentinella prima che potesse premere il grilletto. Iniziarono a lottare furiosamente. Investigato era indebolito, e si sosteneva con la forza della disperazione.
“Ammazza questa lurida canaglia!” urlò il caporale cercando di bloccare un fendente. Ma il soldato giovane non si mosse, era paralizzato, i suoi occhi luccicavano di paura.
Investigato colpì il caporale e il sangue schizzò fuori dal petto sfregiato. Era una ferita superficiale. Aveva avuto fortuna, ma la prossima volta sarebbe morto, pensò osservando il nemico indietreggiare con la faccia cisposa deformata dal dolore.
Alla vista del sangue il soldato giovane si risvegliò dal torpore, e come spinto da una forza invisibile afferrò il suo pugnale e aggredì Investigato alle spalle.
La lama affondò nelle carni, e lui lanciò un bestiale urlo di dolore.
Si girò barcollando sulle gambe spossate, il pugnale era rimasto conficcato nella spalla e faceva un male infernale. Vide il giovane soldato che portava le mani alla fondina: stava per prendere la sua pistola.
Investigato sentì la testa girare, la stanza intorno a sé si muoveva come una giostra ammattita, e pensò di aver compromesso la possibilità di centrare il suo obbiettivo. Un forte senso di nausea gli stinse lo stomaco, e con la coda dell’occhio scorse il caporale avvicinarsi per dare il colpo di grazia.
“Ora ti spedirò all’inferno, marrano” urlò prima di iniziare l’ultimo affondo. Investigato udì quelle grida stridule e si spostò di lato giusto in tempo per evitare una coltellata che gli avrebbe reciso il collo.
Doveva reagire, si disse, e mentre il caporale si voltava per tornare all’attacco, riuscì a trafiggergli il ventre con un fendente micidiale. L’uomo colpito a morte stramazzò a terra agonizzante, con il pugnale piantato in pancia.
“Crepa con tutto comodo” gli sibilò, cercando di togliersi la lama che aveva infilzata nella spalla.
Il soldato più giovane, intanto, aveva impugnato la sua pistola ed ora lo teneva sotto tiro.
“Avanti, facciamola finita, premi quel grilletto!” esclamò Investigato in tono di sfida. Si rese conto che il suo piano era fallito, ed era pronto a pagarne le conseguenze.
Il giovane soldato però esitò ancora, pensava che avrebbe dovuto arrestarlo, ma credendo che fosse un morto vivente non sapeva come fare.
Investigato lesse l’incertezza nei suoi occhi e decise di approfittarne. Che sciocco, quel giovanotto non ha il coraggio per sparare, pensò, mentre si sfilava il pugnale dalle carni, emettendo un pietoso lamento di dolore.
Il soldato lo guardò a bocca aperta, non aveva mai visto nulla di simile prima di allora. Un fiotto disgustoso di sangue zampillò dal corpo martoriato dell’agente Investigato.
Quello non ebbe il tempo di sparare, lui gli lanciò il coltello in faccia, e lo trafisse in piena fronte sfondandogli il cranio. Anche la seconda sentinella cadde sul pavimento privata della vita.
Se i due soldati avessero combattuto coordinando i loro attacchi lo avrebbero sopraffatto facilmente. Invece il più giovane era rimasto a lungo immobile, senza prendere alcuna iniziativa. Questo imperdonabile errore gli aveva permesso di eliminarli uno alla volta.
Non era stato sparato un solo colpo. Poteva ancora terminare la sua missione, e lo ripeteva tra sé come un mantra. Dopo aver estratto il pugnale dalla pancia del caporale moribondo, si avviò zoppicando verso il fondo della stanza, dove cominciò a minare le fondamenta del castello con tutto l’esplosivo al plastico che aveva nello zaino.
Appena ebbe finito, accese la miccia e si infilò di gran lena nel passaggio che conduceva sino al camposanto. Quando uscì dalla botola, come in un racconto horror in un cimitero, fu investito da un rombo assordante e una nuvola di polvere, macerie e colori lo avvolse sin quasi a sommergerlo.
A causa dell’esplosione, il castello era crollato collassando su sé stesso, tutte le persone che vi erano all’interno erano certamente morte.
“Quella vigliacca di mia moglie impara a mettermi le corna” commentò Investigato scrollandosi la polvere di dosso.
Lei era l’amante del maggiordomo del castello, e da quel momento sarebbe rimasta con lui, sotto le macerie, per sempre.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Il tenente Annibale Mutilato era ancora vivo. Nelle ultime tredici settimane aveva passato le pene dell’inferno ma era sopravvissuto. Le terribili torture inflitte dal dottor Sofferenza lo avevano menomato nel corpo e nella mente. Più volte era stato vicino ad impazzire, ma alla fine il sadico dottore si era stancato di seviziarlo prima che lui potesse perdere del tutto la ragione.
Da molti giorni era rinchiuso in una cella umida e buia, mantenuto in vita solo per volontà del suo malvagio aguzzino, intenzionato ad utilizzarlo come cavia per i suoi orribili esperimenti.
Annibale non era più in grado di distinguere lo scorrere del tempo. Passava ore ed ore a guardarsi la mano sinistra martoriata, alla quale erano state amputate le ultime due dita. Il volto ricoperto da una folta e lurida barba, i capelli lunghi e sporchi, vestito di stracci maleodoranti e infestati dai pidocchi, consumava lentamente la sua esistenza imbruttendosi in una malsana prigione, ammorbata dagli effluvi delle sue stesse lordure, dove persino i ratti si intrattenevano malvolentieri.
Covava silenzioso sentimenti di vendetta, voleva ad ogni costo sopravvivere per riuscire ad avere tra le proprie mani, o tra ciò che di esse rimaneva, il dannato dottore che lo aveva ridotto in quello stato.
Non gli avevano rotto le ossa, e nemmeno era stato ferito vicino ad organi vitali. Anche la faccia e la testa erano state grosso modo risparmiate, con la sola eccezione di una grossa cicatrice sulla fronte, che il maledetto medico gli aveva inciso con uno stiletto arroventato.
Il sonno di Annibale era sempre tormentato da orrendi incubi, e spesso gli appariva in sogno il sadico ghigno del dottor Sofferenza mentre gli affondava la lama nelle carni.
La macchina dell’elettroshock, i bagni dentro l’acqua ghiacciata, le unghie strappate, i mozziconi di sigaretta spenti sulla lingua, i denti trapanati sino a tormentare i nervi, e altre spaventose torture non erano bastate a farlo confessare. Non si sentiva un eroe per questo, soltanto era troppo intelligente per dire la verità. Se avesse ammesso di essere una spia avrebbero continuato a torturarlo sino ad ucciderlo. Soltanto fingersi un pazzo lo avrebbe mantenuto in vita, soltanto un pazzo non avrebbe iniziato a parlare dopo l’amputazione di due dita e l’incisione della testa.
Alla fine il dottore gli aveva creduto, pensando che fosse uno squilibrato, o che lo fosse diventato a causa delle torture. In ogni caso si era rassegnato all’idea che non gli avrebbe strappato nessuna informazione utile.
Non vi era stato modo di farlo parlare, o almeno di fargli dire cose che avessero un minimo di logica e di coerenza. Le risposte che aveva fornito erano diventate giorno dopo giorno più sconclusionate e prive di senso, man mano che le torture erano diventate più dolorose, sino ai limiti della sopportazione umana. Il dottore sapeva bene che superato quel limite, alla fine, tutte le vittime impazzivano veramente, e non era più possibile trarre informazioni attendibili dopo che le loro menti erano state sino a quel punto sconvolte.
Passarono così molte settimane, ed Annibale era sempre chiuso nell’angusta cella sotterranea del castello, edificato secoli prima sulle dolci colline della Valle Luretta. Fuggire era impossibile, le pareti in pietra secolare non potevano essere scalfite, le sbarre in ferro della prigione erano state elettrificate, qualsiasi tentativo di scappare sarebbe miseramente fallito.
Una notte disperata e folle, il tenente Mutilato decise di farla finita. Avrebbe cercato di evadere, incurante delle conseguenze. Meglio la morte che una vita senza più speranze.
Attese il momento dell’ispezione serale per agire. Quando la guardia si avvicinò per assicurarsi che il prigioniero fosse ancora vivo, Annibale scattò come una molla e allungando le braccia attraverso le sbarre l’afferrò per il collo trascinandola contro i ferri elettrificati.
Un urlo mostruoso eruppe dalla bocca della guardia, mentre la faccia si deformava per il dolore e un raccapricciante sfrigolio si diffondeva dal suo corpo.
Un odore disgustoso di carne bruciata saturò in pochi istanti l’aria ammorbata della prigione.
Quando il corpo del secondino crollò a terra ormai privo di vita, Annibale riuscì ad afferrare il mazzo delle chiavi caduto sul pavimento lurido: era costituito da quattro pezzi.
Selezionò quella che gli sembrò più adatta alla serratura che apriva la cella, la infilò nella toppa e provò a girarla. Non ci riuscì, la serratura offriva una decisa resistenza. Provò allora una seconda chiave, simile alla prima ma un po’ più piccola. Anche in questo caso il meccanismo non si aprì.
“Maledizione!” imprecò temendo che quello non fosse il mazzo giusto. Afferrò una terza chiave e replicò l’operazione, ancora una volta senza fortuna. La quarta chiave nemmeno entrò nella serratura.
Il sudore ora colava lungo le tempie tra i lunghi capelli unti di Annibale che si sentì sopraffare dal panico. La possibilità di una fuga tanto agognata gli stava svanendo tra le mani.
Respirò a fondo e lentamente, il lezzo era ripugnante e insopportabile, ma riuscì a dominarsi ed ebbe un’idea. Provò ancora con la prima chiave, questa volta infilandola nella toppa sul lato esterno della porta, dalla parte dove veniva abitualmente utilizzata dalle guardie. Poi provò a girare. Il meccanismo offrì nuovamente una certa resistenza elastica, ma questa volta inferiore, i denti metallici sferragliarono sui loro anelli e finalmente scattò la prima mandata. Annibale tirò un sospiro di sollievo, girò ancora la chiave, ripetutamente, e dopo quattro scatti la porta si aprì.
Ripeté l’operazione con il lucchetto che chiudeva la cavigliera saldata alla catena murata alla parete, l’anello di ferro si aprì con uno scatto, emettendo un suono simile ad uno squittio.
Era libero, e in un attimo si trovò davanti alla successiva porta di ferro, proprio nel momento in cui si stava aprendo.
Il soldato non si accorse di nulla, Annibale lo aveva già afferrato per i capelli fracassandogli il cranio contro lo stipite con una brutalità inaudita. Fu una morte violenta, ma così repentina da non provocare dolore.
Un terzo secondino non ebbe il tempo di richiudere la porta. Annibale gli aveva già artigliato il collo. Le dita tozze si strinsero sul gozzo del militare affondando nelle carni come ganci da macellaio. Il malcapitato morì soffocato in pochi minuti
Eliminati i secondini, Annibale si incamminò lungo le scale in pietra che portavano al livello superiore. In cima alle scale si trovò in una camera vuota.
Su di un muro in mattoni si aprivano delle piccole finestrelle, attraverso le quali si poteva scorgere il cielo. Si vedevano le stelle brillare nel blu profondo della notte.
Sulla parete opposta, delle lampadine elettriche illuminavano la stanza diffondendo una luce bianca e intensa.
Annibale sapeva cosa fare: attraversò l’unica uscita e si portò nella stanza adiacente.
L’ambiente era buio e gli ci vollero alcuni secondi affinché i suoi occhi si abituassero alla nuova oscurità. Una flebile luce tremolante proveniva dal fondo di un lungo corridoio di pietre e mattoni.
Si richiuse la porta alle spalle e camminò sul pavimento fatto di pietre antiche perfettamente levigate. Non vi erano finestre né aperture di altro genere, soltanto sassi e laterizi.
Giunto a metà del lunghissimo corridoio, trovò la porta che portava alle docce. Si fermò a riflettere: puzzava come una carogna, non si lavava da mesi ed era ricoperto dai pidocchi. Era stata una precisa disposizione del dottor Sofferenza, finalizzata ad incrementare il senso di degrado fisico e psicologico cui dovevano essere sottoposti i prigionieri.
Annibale pensò che tentare la fuga in quello stato poteva essere pericoloso, i cani lo avrebbero fiutato a chilometri di distanza. Valutò che darsi una lavata gli avrebbe certamente dato sollievo e forse risolto il problema dei cani. Ma dissipare il poco tempo che aveva a disposizione poteva essere molto pericoloso. Il dubbio su cosa fare lo stava arrovellando.
Alla fine decise di farsi la doccia. Entrando nei bagni vide il suo corpo riflesso in uno specchio. Lo avevano ridotto come un barbone, con la mano sinistra quasi ridotta ad un moncherino, la faccia ricoperta dai lunghi capelli lerci e la fronte sfregiata. Annibale ebbe paura della sua stessa immagine.
Si levò gli stracci maleodoranti, che un tempo erano stati dei vestiti, gettandoli in un angolo. Poi aperto uno dei rubinetti si lanciò sotto un getto di acqua gelida. Il freddo era un disagio sopportabile, poca cosa a confronto della piacevole sensazione che provò nello scrollarsi di dosso settimane di sudiciume e pelle morta.
Uscì dalle docce nudo e bagnato. I pettorali erano ancora scolpiti e la muscolatura tonica, pur avendo perso peso aveva conservato la prestanza fisica dei giorni migliori.
Non vi erano altre sentinelle a guardia delle quattro porte collocate lungo la seconda metà del corridoio. Annibale si avvicinò per controllare le prime due.
La porta alla sua sinistra era a doppia anta e chiusa con un grosso chiavistello serrato con un pesante lucchetto. La porta alla sua destra era più piccola. Provò a girare la maniglia e si aprì.
L’interno era buio, ma sul muro didentro vi era un grosso interruttore elettrico. Annibale cercò di sollevarlo, riuscendo a dare elettricità alla stanza. Le luci si accesero e lui entrò.
Era una grossa camera rettangolare, il pavimento era ricoperto con moderno linoleum e le pareti intonacate erano verniciate di verde acqua. C’era un tavolo operatorio con una morsa per la testa e cinghie per immobilizzare polsi e caviglie, una grande scaffalatura sui cui erano collocati teste umane imbalsamate e dei vasi di vetro contenenti cervelli sotto spirito, una vetrinetta piena di droghe, siringhe, bisturi, lacci emostatici e altri strumenti chirurgici, un mobiletto sul quale erano collocate provette, alambicchi, e numerosi preparati chimici, un tavolaccio sul quale erano accatastati vecchi volumi polverosi e numerose protesi.
Era il laboratorio del dottor Sofferenza.
Annibale avvertì un’intensa sensazione di nausea, la stanza era priva di finestre, e in un angolo, seminascosta da un grosso paravento di legno dipinto, stava in piedi immobile e lo fissava con sguardo vitreo una raccapricciante mummia umana.
Si avvicinò per esaminare meglio il cadavere imbalsamato, e constatò che era quello di una giovane donna. Annibale comprese facilmente che non si trattava di un reperto dell’antichità, ma piuttosto di un altro orribile esperimento condotto dal malvagio dottore su qualche sfortunata cavia.
Gli occhi erano la parte più impressionante, sembravano di vetro, ma fissati in un’espressione di sgomento, si sarebbe detto che il volto fosse stato mummificato per l’eternità nell’attimo della morte, una morte sopraggiunta violenta e dolorosa.
Il tenente restò alcuni secondi imbambolato a fissare quella cosa orrenda, chiedendosi come un uomo potesse giungere a simili livelli di barbarie. Chiunque fosse stata quella ragazza, doveva aver sofferto in modo disumano.
Prima che egli potesse distogliere lo sguardo dalla mummia, questa iniziò all’improvviso ad animarsi. Il panico ed il terrore si impadronirono di lui, mentre la donna imbalsamata gli afferrava il collo con tutte e due le mani avvolte nelle bende.
Era una presa micidiale, nelle braccia della mummia della Val Luretta vi era una forza portentosa, e Annibale non fu in grado di opporre una valida resistenza.
Tutto si consumò in pochi minuti, il corpo strangolato e senza vita di Annibale giaceva ora ai piedi putrescenti della ragazza imbalsamata. Il volto di lei si era contratto in un ghigno malvagio, gli occhi brillavano di una nuova luce infernale. Cominciò a camminare, ed uscita dalla stanza partì alla ricerca di suo padre: il dottor Sofferenza.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Il partigiano Pancrazio Spadone era pronto a combattere con violenza partigiana ed entrò in una grande stanza dal soffitto in mattoni sorretto da colonne in pietra. I muri erano in sasso e vi erano tre piccole finestre sul lato ovest ed altre due sul lato sud. Una serie di fiaccole accese e collocate lungo le pareti illuminavano in modo spettrale l’ambiente. L’atmosfera era resa ancor più suggestiva dai lunghi drappi rossi con la croce uncinata, appesi lungo i muri a guisa di paramenti.
Al centro della sala, appoggiata sopra un piano rialzato, si ergeva una gabbia in ferro, del tipo di quelle in uso nei circhi per contenere le fiere feroci. Coricato su di un pagliericcio in un angolo all’interno della gabbia, sembrava dormire un uomo.
Pancrazio iniziò ad osservare meglio la camera, sembrava fosse stata preparata per una qualche forma di rituale. Quando si voltò verso la gabbia per ispezionarla, il suo cuore fu avvolto dall’orrore.
L’uomo era sveglio, ora stava in piedi e lo fissava. Era completamente nudo e il suo corpo era sfigurato da una muscolatura innaturale e gigantesca, il suo volto ricoperto da una lunga barba nera era una maschera di sofferenza, la bocca era chiusa da un grosso bavaglio di cuoio, le mani incatenate dietro la schiena. Le gambe mostruosamente muscolose erano ricoperte da una folta ed ispida pelliccia, e terminavano con degli zoccoli da cavallo al posto dei piedi.
Pancrazio guardò la creatura sbigottito per alcuni secondi, poi si avvicinò alla gabbia per osservarla più da vicino.
L’uomo ebbe paura e si ritrasse leggermente, i suoi occhi supplicavano pietà e Pancrazio ebbe pena per quell’essere infelice. Avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarlo. Ma cosa poteva fare? Non aveva molto tempo e doveva badare a sé stesso per portare a termine la missione.
Prese la macchina fotografica, una Leica di fabbricazione tedesca, e fotografò la creatura.
L’uomo nella gabbia si sentì umiliato, lo sguardo di pietà lasciò il posto allo sconforto e alle lacrime.
Pancrazio si commosse. Poteva cercare di forzare la serratura della gabbia e liberare quell’uomo. Sapeva di poterci riuscire ma l’operazione avrebbe richiesto alcuni minuti. Comunque non poteva certamente aiutarlo a fuggire, lo avrebbero velocemente catturato e cercare di favorire quella creatura lo avrebbe esposto al rischio di essere ucciso. Poteva contare su tutta la violenza partigiana di cui era capace, ma probabilmente non sarebbe bastata.
Ripose l’apparecchio fotografico nello zaino e si avvicinò ad una delle due porte collocate sulla parete est. Vi appoggiò sopra l’orecchio per cercare di sentire se dall’altra parte vi fossero delle sentinelle. Gli sembrò che non vi fosse nessuno, cercò di aprirla ma scoprì che era chiusa dall’esterno.
Stava riflettendo su cosa fare quando udì rimbombare oltre la porta un vocio concitato e intenso, misto al chiaro scalpiccio di numerosi passi in avvicinamento.
La creatura nella gabbia sembrò presa dal panico, iniziò a muoversi nervosamente all’interno della sua prigione, gli occhi disperati urlavano tutto il loro sgomento.
Pancrazio comprese che non vi era un solo istante da perdere, camminò vicino all’altra porta e provò ad aprila. Anche quella era chiusa a chiave. Corse dall’altra parte della stanza e provò ad entrare nella torre ovest. Afferrò la maniglia per abbassarla ma anche quell’ingresso era serrato. Mentre i passi e il vociare si facevano sempre più vicini corse ancora più veloce verso il passaggio dal quale era entrato.
Doveva assolutamente uscire da quella camera prima che arrivassero le sentinelle. Se si fossero accorte della sua presenza avrebbero dato l’allarme e le probabilità di riuscire a fuggire dal castello incolume erano ben poche.
Pancrazio riuscì a raggiungere la porta proprio mentre le guardie stavano aprendo il grosso lucchetto posto a chiusura di uno spesso catenaccio. Lui stava lottando contro il tempo ed il destino e si domandò per quale dannata ragione non fossero tutti ad ubriacarsi festeggiando il capodanno, anziché aggirarsi per gli scantinati del castello.
La porta si spalancò proprio nell’istante in cui Pancrazio usciva dalla stanza. La scarsa illuminazione avrebbe nascosto il fatto che lui aveva lasciato l’uscio accostato: voleva vedere cosa sarebbe accaduto.
Ciò che vide fu disgustoso. Le guardie aggredirono a turno la creatura, la percossero con dei bastoni, la ricoprirono di sputi. I soldati erano cinque, e quello dall’aspetto più umano sembrava una capra.
I gemiti di dolore e disperazione dell’essere chiuso nella gabbia rimbombarono nella stanza, mischiati alle risa di scherno e al vociare della soldataglia. Sembravano tutti posseduti dal demonio, e i loro volti animaleschi illuminati dal fuoco incutevano sgomento.
Quando ebbero terminato il loro turpe rituale se ne andarono lasciando Pancrazio solo con la creatura. Lui piangeva in un angolo buio della stanza, provando rimorso e vergogna: non aveva fatto assolutamente nulla per cercare di salvare la vittima dai suoi aguzzini. La creatura giaceva sconfitta e umiliata sul pavimento della gabbia. Non era quella la prima volta, non sarebbe stata l’ultima.
Prima dell’alba del nuovo giorno, Pancrazio fu catturato vivo, e prima che potesse scatenare la proverbiale violenza partigiana fu selvaggiamente picchiato e gettato agonizzante nel pozzo rasoio del castello. Era quello un medievale e terribile strumento di tortura. Nella parte terminale, le pareti di questi pozzi della morte erano interamente rivestite di corpi contundenti ed affilati.
Il partigiano Pancrazio morì fra atroci sofferenze fatto a pezzi dalle lame del pozzo. Della sua amata non si seppe più nulla.
La dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra, annunciata in diretta radiofonica alle ore 18:00 di quel 10 giugno 1940, fu accolta dal popolo italiano con partecipata emozione.
Nel trambusto di quelle ore concitate, nessuno aveva fatto caso all’arrivo di quel forestiero ben vestito, dall’aria distinta, alto e biondo con due grandi occhi azzurri color ghiaccio. Senza essere notato aveva parcheggiato la sua Mercedes poco lontano dalle prime case di Trevozzo in Val Tidone e aveva poi raggiunto la sua meta a piedi, qualche minuto prima dell’orario in cui abitualmente Ermegisto rincasava.
Il vecchio edificio dall’intonaco grigio consunto dal tempo, sovrastava un piccolo giardinetto ornato da fiori colorati e rose rosse. A prima vista la facciata austera e tetra assomigliava ad un volto severo, reso ancor più sinistro dalle fioche luci delle lampade a petrolio che fuoriuscivano dalle persiane accostate del piano superiore, come fossero occhi illuminati da lampi spettrali. Ma il visitatore non prestò alcuna attenzione alla bizzarra architettura, concentrato sui suoi obiettivi attraversò il giardinetto e bussò alla porta.
Poco dopo la signora Lina, la moglie di Ermegisto, venne ad aprire. Lo stupore si dipinse sul volto dell’anziana donna, sorpresa di trovarsi di fronte un giovane di così bel aspetto e dal portamento così fiero e altero.
“Buona sera” esordì l’uomo tradendo un evidente accento straniero, “sto cercando il signor Ermegisto” continuò svelando ulteriormente le proprie origini teutoniche. Il tono della voce e l’espressione del viso erano freddi, gelidi.
“Mio marito non è ancora tornato, posso sapere chi siete e da dove venite?” domandò la signora Lina, senza preoccuparsi di nascondere la propria curiosità. Vestiva abiti semplici che coprivano il suo corpo segnato dal tempo e dalla vita. Il volto era indurito dalle delusioni di un’esistenza amara, consumata lentamente dal lavoro nei campi.
“Se mi fate entrare sarò ben lieto di attendere in casa che Vostro marito ritorni” replicò seccato il giovane, senza badare alle domande della donna.
“Io non faccio entrare sconosciuti. Ditemi: Voi chi siete?” protestò lei, appoggiandosi le mani ai fianchi per darsi un tono più autorevole, e gonfiando il petto di per sé già assai abbondante.
L’uomo si volse come per assicurarsi che nessuno lo avesse visto, poi tornando a guardare la donna e sforzandosi di sorridere si presentò dando delle false generalità. Mentendo ancora disse: “Vengo da Monaco, ora posso entrare?”
La signora Lina era ancora titubante, ma dopo alcuni attimi di esitazione infine acconsentì, inconfessabilmente attratta dall’avvenenza del giovane.
“Prego accomodatevi, potete attendere il ritorno di Ermegisto qui in soggiorno. Arriverà a minuti, torna sempre per l’ora di cena.”
L’uomo si sedette su una delle scomode sedie di legno massello che costituivano lo spartano e povero arredamento della casa, senza ringraziare e senza proferire altra parola. La Lina cercò ancora di interrogarlo: “Un giovane tedesco della vostra età non dovrebbe essere in guerra? Cosa vi porta dalla lontana Monaco sino a Trevozzo? Cosa volete da mio marito?”
Lo straniero la fulminò col suo sguardo di ghiaccio, penetrante e spaventoso, così inquietante che la Lina si pentì della propria indiscrezione ed ebbe paura. Quell’uomo esercitava su di lei un fascino magnetico ma anche terribile. Aveva risvegliato nella donna sensazioni da lungo tempo sopite, mandandola in confusione, incerta tra contrastanti sentimenti che non era in grado di comprendere e tanto meno di fronteggiare con lucidità, combattuta tra attrazione, paura e curiosità.
“Sono in licenza signora, e sono qui per ragioni di studio” disse glaciale il giovane stemperando con quelle fredde parole la tensione che si era creata. La Lina però non sapeva come comportarsi e rimase a fissarlo senza muoversi e senza parlare. Anche il forestiero continuò a tenere lo sguardo sull’anziana donna, come se ne volesse controllare i movimenti.
Lei si sentiva osservata e iniziò a insospettirsi, domandandosi se quell’uomo le avesse mentito. E se fosse stato un bandito? Oppure un assassino? Studiando meglio l’abbigliamento di quel tizio misterioso si rassicurò. Gli assassini non indossavano abiti eleganti, non portavano i gemelli d’oro ai polsi della camicia, non avevano scarpe costose, si disse mentalmente. Si fece allora coraggio e tornò ad investigare.
“Cosa siete venuto a studiare in questo remoto borgo, se posso chiedere signore?”
Il giovane nulla fece per nascondere quanto fastidio quelle domande gli provocassero, l’espressione contrariata del suo volto svelava in quel frangente i suoi pensieri come fosse stato un libro aperto.
“Studio opere d’arte” replicò annoiato “e Voi di cos’altro vi occupate oltre a fare domande?”
La Lina si adombrò un istante chiedendosi cosa fosse più opportuno rispondere.
“Sono la moglie di Ermegisto” disse infine con orgoglio, per poi tacere nuovamente risentita, avendo notato un sorriso di scherno dipingersi sul volto del forestiero.
In quel momento si aprì la porta e Ermegisto entrò nella stanza. Egli non fu meno sorpreso di sua moglie alla vista di quell’uomo sconosciuto.
“Come posso aiutarvi?” disse subito dopo le presentazioni con tono sbrigativo, nel timore che la cena si freddasse.
“Desidero visitare il santuario di Santa Maria del Monte di Nibbiano” replicò asettico lo straniero.
“Sarò lieto di mostrarvelo domani mattina, avete preso alloggio presso la locanda?”
“No, nella notte devo rientrare a Milano, vorrei vedere la chiesa ora, cortesemente.”
“E’ solo una piccola chiesa di provincia, cosa Vi aspettate di trovare di tanto significativo da non poter aspettare domani?”
“Degli affreschi molto belli che ho avuto incarico di studiare per conto della Ahnenerbe.”
“Bene, ragione in più per aspettare. Così avrete modo di apprezzarli alla luce del giorno. Inoltre devo avvisarvi che in buona parte sono stati danneggiati nel corso dei secoli a seguito di approssimativi restauri” disse Ermegisto con una decisione che non ammetteva repliche.
Lo straniero si irritò, non si aspettava tante storie da un semplice campagnolo. Sapeva di avere poco tempo, ma ancora di più sapeva di dover mantenere la segretezza sulla propria missione. Avrebbe desiderato aggredire quel piccolo omuncolo grassottello. Considerò però più vantaggioso cercare di ottenerne la collaborazione, sia per accorciare i tempi della ricerca, sia per evitare le complicazioni che prendere la situazione di petto gli avrebbe procurato.
“La mia associazione culturale sarà lieta di contribuire alle opere di bene patrocinate dalla Vostra comunità con una generosa offerta. Sono certo che in cambio di questi aiuti sarete tanto gentile dal volermi condurre alla chiesa oggi stesso” disse l’uomo estraendo dalle tasche due mazzette di banconote.
Ermegisto osservò il denaro ostentando indifferenza.
“Ogni regalo profuso dalla provvidenza è certamente ben accetto, ma per visitare la chiesa dovrete comunque aspettare il giorno nuovo. Questa sera ho altri e più pressanti impegni che non posso procrastinare” rispose il contadino opponendo un nuovo inaspettato rifiuto alle richieste del forestiero.
“Ora che anche l’Italia è in guerra, sono sottoposto a nuove pressioni. I miei superiori esigono che completi la mia ricerca con anticipo. Per questo necessito di vedere la chiesa questa sera stessa. Sono sicuro, in nome dell’amicizia che lega i nostri due Paesi, che saprete comprendere la mia situazione portandomi subito alla chiesa.”
All’ennesima insistenza dello straniero Ermegisto iniziò a spazientirsi, replicando piccato.
“Personalmente non nutro alcuna amicizia verso il Vostro Paese. Tanto meno sono interessato a questa assurda guerra che condanno con risolutezza. Vi mostrerò la chiesa domani. Adesso Vi prego cortesemente di lasciare questa casa.”
“Portatemi al santuario, non costringetemi ad usare la forza” disse allora l’uomo venuto dal nord, avvicinando alla faccia del povero contadino un lungo e luccicante coltello dal manico prezioso, rivestito in polimero nero e ornato con due decorazioni metalliche a rilievo, raffiguranti le rune delle SS e l’aquila nazionale.
Ermegisto guardò fisso negli occhi di ghiaccio dello straniero, e capì di trovarsi di fronte ad un ufficiale della famigerata organizzazione paramilitare nazista. Comprese di essere in grave pericolo ma mantenne la calma, e rispose con freddezza: “Ormai è quasi notte e la strada per il santuario è interrotta da una frana, a piedi ci vorranno ore, io non so proprio cosa farci e penso che non troverete nessun’altro disposto ad aiutare Voi nazisti in Val Tidone”
L’uomo pensò che il contadino fosse un duro, lo spinse contro la parete con violenza, gli afferrò il polso premendogli la mano al muro, e dopo averne trapassato il palmo con il coltello lo minacciò ancora: “Non vi farò questa domanda una terza volta, portatemi al santuario! Io so chi siete, conosco il Vostro segreto. Voi siete il Gran Maestro della setta esoterica Occulto Misterioso e voglio avere ciò che custodite nascosto dentro la chiesa!”
Il volto del Gran Maestro si contrasse in una smorfia di dolore orrenda, un grido senza speranza gli uscì dalla gola mentre la lama gli attraversava le carni: “Non lo faro, vai a farti fottere!”
Il Gran Maestro cercò di divincolarsi da quella presa micidiale. Avrebbe voluto urlare ancora e chiedere aiuto, ma la mano dello straniero copriva già la sua bocca. Pensieri di morte gli offuscarono la mente. Quel maledetto tedesco conosceva la sua identità segreta. Ma come era possibile? Chi poteva aver tradito? E ancora, come aveva fatto a scoprire dove era stato nascosto il Necronomicon? Pensò che a queste domande non avrebbe mai avuto risposta se non fosse riuscito a fuggire e chiedere aiuto. Sospinto dalla disperazione e dalla paura, diede fondo a tutte le sue forze colpendo il suo aggressore al volto con la mano ancora sana, lo spinse indietro e dopo essersi liberato fuggì verso la porta d’uscita.
Il Gran Maestro correva veloce stringendosi la mano trafitta e sanguinante, ma il tedesco gli stava dietro. Raggiunta la porta tentò di aprirla, ma nella foga del momento la maniglia si spezzò. Il Gran Maestro di Trevozzo fu preso dal panico, si sentì perduto, l’uomo con il coltello era già alle sue spalle. Si girò di scatto cercando ancora di colpire il suo nemico, nella speranza di poter usare la maniglia rotta come un arma. Il fendente questa volta andò a vuoto, lo stranierò lo evitò scansandosi. Ermegisto stava per urlare di nuovo, ma la voce gli rimase soffocata nella gola. Il tedesco con un rapido gesto gli spaccò il cuore pugnalandolo al petto. Ebbe solo il tempo per un ultimo pensiero di conforto prima della fine. Il malvagio forestiero sapeva del Necronomicon, ma lo stava cercando nella chiesa sbagliata. Almeno per quella notte ancora, il nascondiglio non sarebbe stato violato. Un attimo dopo il suo corpo senza vita si afflosciò in una pozza di sangue.
La signora Lina aveva assistito a tutta la scena immobile come una statua e muta come un pesce. Non era riuscita né a fuggire né a gridare, il terrore l’aveva immobilizzata.
Il tedesco non ebbe pietà, con un salto le fu sopra, e con la lama affilata squarciò la sua gola rugosa.
L’ultima sensazione della donna fu il calore del proprio sangue che le colava sul petto, poi fu la morte.
Il Sturmbannführer delle SS si rialzò e ripulì la lama. Si guardò attorno bestemmiando. Un sospetto inquietante si fece strada serpeggiando nella sua mente. E se le informazioni di cui disponeva fossero state fallaci? Comprese che aver ucciso così in fretta Ermegisto era stato un errore. Certo, immaginò, farlo confessare non sarebbe stato semplice, ma ora che era morto sarebbe stato semplicemente impossibile. Poi si ricordò di quanto aveva pagato quelle informazioni e pensò alla reputazione di cui godeva la persona che gliele aveva vendute. Si rassicurò, il Necronomicon doveva per forza essere celato all’interno del santuario. Doveva solo andare a prenderlo. Ne era certo, avrebbe portato a termine con successo la sua missione nazista in Val Tidone.
Decise allora di mettersi al lavoro, aveva ancora poco tempo e molto da fare, prima dell’alba del nuovo giorno.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale