Nel panorama del cinema italiano degli anni ’70, il giallo ha rappresentato un genere di punta, in grado di coniugare mistero, suspense e una certa dose di violenza visiva. Nessun altro regista ha saputo elevare il giallo a una forma d’arte visiva e narrativa come Dario Argento, e “Profondo Rosso”, uscito nel millenovecento settantacinque, ne rappresenta l’apice creativo. Con una sapiente miscela di suspense, estetica barocca e una colonna sonora che ha fatto scuola, il film è stato immediatamente riconosciuto come un capolavoro, confermando Argento come uno dei più grandi maestri del brivido.
La trama di “Profondo Rosso” si sviluppa attorno alla figura di Marcus Daly, un pianista inglese interpretato da David Hemmings, che diventa testimone di un efferato omicidio ai danni di una sensitiva, Helga Ulmann (Macha Méril). Spinto da un crescente interesse e dall’incapacità di dimenticare un dettaglio chiave, Marcus inizia un’indagine parallela a quella della polizia, affiancato dalla giornalista Gianna Brezzi, interpretata da Daria Nicolodi, musa e partner di Argento in quegli anni.
La sceneggiatura di Argento, co-scritta con Bernardino Zapponi, gioca abilmente con i temi del doppio, del trauma rimosso e della percezione distorta, tipici della psicanalisi freudiana. Il dettaglio che Marcus non riesce a cogliere si rivela essere la chiave di volta del mistero, in un climax che sfocia in una verità sconvolgente. Argento sfrutta al massimo i meccanismi del giallo classico, disseminando indizi che solo alla fine trovano una coerenza, ma lo fa aggiungendo la sua tipica propensione per l’horror visivo e per una violenza quasi coreografica, trasformando ogni omicidio in una sorta di raccapricciante performance.
Il tema del trauma è uno degli elementi centrali in “Profondo Rosso”, non solo come espediente narrativo, ma come vero e proprio motore psicologico del film. Marcus Daly si trova a dover ricostruire non solo l’enigma di un omicidio, ma anche la sua stessa percezione della realtà. La scena chiave, quella in cui Marcus assiste all’omicidio della sensitiva Helga, è un perfetto esempio di come Argento giochi con la rimozione del trauma: lo spettatore, proprio come il protagonista, vede qualcosa di cruciale, ma non riesce a elaborarlo fino a quando tutti i pezzi del puzzle non si ricompongono. Questo meccanismo rimanda direttamente alla psicanalisi freudiana, e suggerisce che il film non sia solo un viaggio fisico tra gli indizi, ma un’indagine psicologica che scava nel passato e nell’inconscio.
David Hemmings, già noto per il suo ruolo in “Blow-Up” di Michelangelo Antonioni, incarna un protagonista curioso ma vulnerabile, lontano dall’eroe infallibile tipico di molti thriller. La sua performance sobria e controllata crea un interessante contrasto con l’atmosfera surreale e violenta che lo circonda. Daria Nicolodi, al contrario, porta sullo schermo un personaggio vivace e ironico, la cui leggerezza bilancia i toni cupi del film, offrendo anche uno spunto di riflessione sul rapporto di genere, con Gianna che sfida apertamente il machismo di Marcus.
Un tema ricorrente nel cinema di Argento è la rappresentazione del femminile, spesso ambigua e controversa. In “Profondo Rosso”, i personaggi femminili sono centrali, ma si muovono in una costante ambivalenza tra forza ed estrema vulnerabilità. Da un lato, abbiamo Gianna Brezzi, interpretata da Daria Nicolodi, una donna emancipata e indipendente, che sfida continuamente le convenzioni di genere, dall’altro, le vittime femminili sono figure fragili, spesso ridotte a oggetti del desiderio o della violenza. Questa dicotomia tra forza e debolezza, emancipazione e pericolo, riflette le tensioni culturali dell’epoca, ma apre anche a una lettura critica del ruolo delle donne nei film di genere, in cui la loro rappresentazione oscilla tra progressismo e stereotipo.
Il resto del cast, pur ricoprendo ruoli secondari, contribuisce a creare quell’aura di mistero e inquietudine che caratterizza il film. Ogni personaggio sembra nascondere un segreto, e le interpretazioni volutamente sopra le righe di alcuni attori contribuiscono a rendere l’atmosfera ancora più disturbante e onirica.
La regia di Dario Argento in “Profondo Rosso” è il vero protagonista. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina è studiato per amplificare la tensione e disorientare lo spettatore. Argento utilizza long take mozzafiato, zoom improvvisi e carrellate che seguono i personaggi da angolazioni insolite, creando un senso di minaccia costante. Gli omicidi, coreografati con precisione maniacale, diventano veri e propri spettacoli di sangue e violenza estetizzata, ma mai gratuita. L’utilizzo di riflessi, specchi e superfici traslucide crea un gioco visivo in cui lo spettatore, come Marcus, è chiamato a decifrare ciò che vede, ma rischia sempre di essere tratto in inganno.
La fotografia di Luigi Kuveiller è un elemento fondamentale per il successo visivo del film. Kuveiller adopera una tavolozza di colori saturi e accesi, che richiamano l’estetica del cinema barocco italiano e si ispirano alle opere di registi come Mario Bava. Il rosso, come suggerisce il titolo, domina la scena, ma non è mai fine a sé stesso. Viene utilizzato per segnalare momenti chiave, sottolineare la violenza o anticipare l’orrore. La scelta di ambientazioni reali, come l’architettura decadente di Torino, conferisce al film una dimensione quasi gotica, dove il passato sembra intrappolare i personaggi in una spirale di morte e follia.
Se l’aspetto psicanalitico domina il racconto, è l’estetica del colore a rendere “Profondo Rosso” un’opera visivamente rivoluzionaria. Il rosso, come suggerisce il titolo, è il colore cardine che non solo simboleggia il sangue e la violenza, ma diventa un segnale visivo che preannuncia momenti di scoperta o di pericolo. Argento, influenzato dal cinema di Mario Bava, utilizza il colore in modo espressionista, caricandolo di significati psicologici. Il contrasto tra i colori saturi e gli spazi oscuri riflette anche l’ambiguità morale dei personaggi e delle situazioni. Approfondire questo uso simbolico del colore ci permette di comprendere come Argento non si limiti a dirigere un thriller, ma costruisca un universo visivo denso di significati.
Il legame di Dario Argento con le arti visive è evidente in ogni scena di “Profondo Rosso”. Gli ambienti, spesso spazi vuoti o claustrofobici, sembrano riflettere lo stato mentale dei personaggi. L’uso di architetture reali, come la decadente villa torinese in cui si svolge uno degli omicidi, diventa parte integrante della narrazione, creando una dimensione gotica e surreale. Le inquadrature di Argento, che spesso enfatizzano angoli impossibili o riflessi distorti, creano un senso di disorientamento e isolamento. Interessante notare come alcuni interni richiamino opere pittoriche, in particolare il realismo freddo di Edward Hopper o il surrealismo di De Chirico. Gli spazi, dunque, non sono meri fondali, ma luoghi che amplificano la tensione emotiva e psichica del film.
Se “Profondo Rosso” è ricordato anche per un altro elemento, questo è sicuramente la colonna sonora dei Goblin. La collaborazione tra Argento e il gruppo guidato da Claudio Simonetti ha dato vita a uno dei temi musicali più iconici del cinema horror. Il mix di rock progressivo, sintetizzatori e melodie inquietanti accompagna perfettamente l’atmosfera del film, enfatizzando i momenti di tensione e diventando parte integrante dell’esperienza sensoriale dello spettatore. Il tema principale, con il suo ritmo ipnotico e incalzante, è diventato leggendario e ha influenzato numerosi compositori successivi.
Uno degli aspetti più affascinanti del cinema di Argento è il suo rapporto con lo spettatore, che in “Profondo Rosso” diventa a tutti gli effetti un co-detective. Attraverso l’uso di indizi visivi e inganni percettivi, Argento costringe il pubblico a partecipare attivamente alla risoluzione del mistero. Lo spettatore, come Marcus, si trova spesso ad essere disorientato e ingannato, con l’illusione di avere in mano la chiave per svelare il mistero, solo per scoprire alla fine di essere stato fuorviato. Questo meccanismo coinvolge lo spettatore su un piano emotivo e cognitivo, rendendo l’esperienza di visione unica nel suo genere.
Alla sua uscita nel millenovecento settantacinque, “Profondo Rosso” divise la critica. Da un lato, molti lo elogiarono per l’audacia visiva e la capacità di Argento di trasformare un giallo in un’opera d’arte, dall’altro, alcuni critici più conservatori lo trovarono troppo violento e stilizzato. Il pubblico, però, rispose con entusiasmo: il film divenne subito un successo commerciale, consolidando Argento come un maestro del genere.
Nel corso degli anni, il film ha guadagnato sempre più consensi, diventando un calt e influenzando una generazione di registi, tra cui John Carpenter, David Lynch e Quentin Tarantino. La sua estetica è stata ripresa in numerosi film horror successivi, e la colonna sonora dei Goblin ha continuato a ispirare musicisti di tutto il mondo.
Durante le riprese, uno degli episodi più curiosi riguarda proprio la casa in cui si svolge uno degli omicidi principali. Argento decise di girare in una villa abbandonata a Torino, che molti ritenevano infestata. La troupe riportò episodi strani e inspiegabili, contribuendo a creare un alone di mistero attorno al film. Inoltre, si racconta che Argento abbia voluto dirigere personalmente alcune delle scene di omicidio più cruente, come quella della decapitazione finale, per garantire la precisione visiva che aveva in mente.
“Profondo Rosso” è diventato un punto di riferimento non solo per il cinema di genere, ma per la cultura pop in generale. Ha aperto la strada a film come “Halloween” di Carpenter, che ha ripreso molti degli stilemi visivi e narrativi di Argento, e ha contribuito a ridefinire il ruolo della colonna sonora nell’horror, trattandola come un elemento diegetico tanto quanto le immagini.
Profondo Rosso” rappresenta un esempio perfetto di come il giallo italiano abbia saputo evolversi, ibridando il thriller psicologico con l’horror viscerale. Se da un lato il film segue le regole del giallo classico – un mistero da risolvere, un detective dilettante, una serie di indizi disseminati lungo la trama – dall’altro introduce elementi tipicamente horror, come la rappresentazione grafica della violenza e un’atmosfera costante di terrore latente. Questo connubio di generi ha influenzato pesantemente il successivo cinema horror, in particolare lo slasher americano, di cui “Profondo Rosso” può essere considerato un precursore.
In conclusione, “Profondo Rosso” è molto più di un giallo. È un’opera che, attraverso la sua estetica radicale, la sua colonna sonora avanguardista e la sua trama avvincente, ha saputo ridefinire i confini del cinema di genere, imponendosi come un classico senza tempo. Per chi ama il cinema dell’orrore, resta un’esperienza visiva e sensoriale imperdibile.
Shining di Stanley Kubrick: Un Labirinto di Paure e Interpretazioni
Stanley Kubrick ha dato vita a un capolavoro intramontabile con Shining, trasformando l’opera di Stephen King in un’esperienza cinematografica densa di significato e inquietudine. La storia ruota attorno a Jack Torrance, uno scrittore in difficoltà e alcolizzato che accetta un incarico come custode invernale dell’Overlook Hotel, un lussuoso e isolato albergo immerso tra le Montagne Rocciose. Jack si trasferisce lì con la moglie Wendy e il figlio Danny, un bambino dotato di poteri paranormali. Man mano che l’isolamento e la solitudine iniziano a erodere la sanità mentale di Jack, l’influenza maligna dell’hotel lo conduce a una follia sempre più profonda, minacciando la sicurezza della sua famiglia.
Il film è un’opera che va oltre il semplice genere horror, offrendo una rappresentazione profonda e inquietante della psiche umana. Kubrick non si limita a raccontare una storia di terrore; crea un’esperienza visiva e psicologica che esplora i temi del male e della follia attraverso un’enorme attenzione ai dettagli e all’atmosfera. La produzione del film, nota per i suoi rigori e per la lunga durata delle riprese, è stata particolarmente impegnativa. Kubrick, famoso per il suo perfezionismo, ha insistito su innumerevoli riprese e ha imposto condizioni estreme al cast, come dimostrato dalla famosa frase di Shelley Duvall riguardo alle dure condizioni di lavoro.
L’Overlook Hotel è molto più di un semplice sfondo per gli eventi del film. Diventa un personaggio a sé stante, un luogo che sembra quasi vivo e che esercita una potente influenza malefica sui suoi ospiti. Kubrick utilizza la fotografia e il montaggio per creare un’atmosfera claustrofobica, dove i corridoi infiniti e le stanze vuote amplificano la sensazione di terrore e disorientamento. Questo approccio visivo riflette le complessità della mente di Jack, rendendo l’hotel una metafora vivente del suo caos interno. La scelta di Kubrick di utilizzare la Steadicam, per esempio, contribuisce a un’esperienza immersiva che trascende il tradizionale uso della macchina da presa, dando vita a movimenti fluidi che accentuano la tensione.
Il cast di Shining offre interpretazioni che hanno lasciato un segno indelebile nel cinema. Jack Nicholson, con il suo ritratto di Jack Torrance, presenta una trasformazione graduale da scrittore mite a folle assassino, con una performance che è diventata iconica per la sua intensità e la sua risata maniacale. Shelley Duvall, che interpreta Wendy, offre una performance fisica ed emotiva estremamente impegnativa, affrontando le violenze psicologiche inflitte dal marito con una fragilità palpabile. Danny Lloyd, nel ruolo di Danny, fornisce una performance sorprendentemente intensa per la sua giovane età, rendendo il suo sussurro di “Redrum” una delle immagini più inquietanti del film. Scatman Crothers, nel ruolo di Dick Hallorann, aggiunge un tocco di umanità e rassicurazione che serve a contrastare l’atmosfera di follia che pervade l’hotel.
Shining è un film denso di simbolismi. Elementi come il numero 237, i colori predominanti e la geometria degli ambienti non sono casuali ma aggiungono profondità al racconto. Il rosso, ad esempio, è strettamente legato alla violenza e alla follia, mentre il bianco della neve rappresenta una purezza contaminata dalla corruzione. La disposizione degli spazi, con i suoi angoli inquietanti e il design labirintico, contribuisce a creare una sensazione di oppressione e disorientamento, riflettendo la fragilità della mente di Jack.
Il finale di Shining è tra i più enigmatici del cinema. L’immagine di Jack Torrance in una vecchia fotografia del 1921, alla fine del film, solleva interrogativi su cosa rappresenti davvero: è un sogno, un ricordo distorto o una premonizione? Le diverse interpretazioni del finale continuano a stimolare discussioni e riflessioni personali, contribuendo al fascino duraturo del film.
Il confronto tra il film di Kubrick e il romanzo di King evidenzia differenze significative. Mentre King si concentra maggiormente sugli elementi soprannaturali e sull’atmosfera gotica, Kubrick esplora la psiche dei suoi personaggi e crea una crescente tensione psicologica. Questa differenza di approccio ha diviso i fan del romanzo ma ha permesso a Kubrick di realizzare un’opera autonoma e originale.
La colonna sonora di Wendy Carlos e Rachel Elkind gioca un ruolo cruciale nel creare l’atmosfera opprimente del film. Le musiche, caratterizzate da suoni dissonanti e inquietanti, amplificano la sensazione di disagio e paura, con l’uso di strumenti elettronici e effetti sonori sperimentali che contribuiscono a un’atmosfera surreale e onirica.
Kubrick ha anche attinto da influenze diverse, come il cinema espressionista tedesco e la letteratura gotica. Questi riferimenti arricchiscono il film e lo collocano all’interno di una tradizione di esplorazione del terrore psicologico. Inoltre, Shining ha generato una serie di teorie del complotto, come quella che sostiene che il film contenga messaggi nascosti sulla missione Apollo 11, aggiungendo un ulteriore strato di mistero e speculazione.
In sintesi, Shining di Stanley Kubrick è un’opera che trascende il semplice genere horror. Con la sua atmosfera opprimente, il simbolismo complesso, le interpretazioni straordinarie e le tecniche cinematografiche innovative, il film rimane un enigma affascinante. È un’opera che continua a stimolare discussioni e riflessioni, mantenendo il suo status di classico senza tempo nel panorama del cinema.
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“Questo è il miglior breve racconto dell’orrore che mai sia stato scritto” disse Eustachio accendendosi una sigaretta con mani tremanti. Il fumo si alzò lento, come i suoi pensieri. “Il miglior racconto dell’orrore,” ripeté, quasi per convincere se stesso. Il vento freddo della sera gli sferzava il viso, ma lui non se ne curava. Era abituato al freddo, alla solitudine, alla disperazione.
Seduto su una panchina arrugginita, Eustachio osservava le ombre dei palazzi di periferia allungarsi sopra la strada. Ogni ombra aveva una storia, e lui le conosceva tutte. Aveva visto cose che avrebbero fatto impazzire un uomo ordinario, ma lui non era normale. Era un sopravvissuto, un relitto umano che si aggrappava alla vita e alla bottiglia. Soprattutto alla bottiglia, purché fosse di buona qualità. Beveva solo vino piacentino di marca. E la sua marca preferita la conoscevano in pochi. Una piccola cantina di un produttore indipendente, disperato come lo era Eustachio.
“Stelle cadenti,” mormorò, guardando il cielo. “Un racconto di orrore e follia.” Rise amaramente, un suono che si perse nel vento. “Come la mia vita.”
Un rumore di passi lo fece voltare. Una figura si avvicinava, barcollando. Una donna, con i capelli arruffati e gli occhi gonfi. Aveva un’aria familiare, forse un’avventura del passato. “Chi sei?” chiese Eustachio, ma la donna non rispose. Si sedette vicino, e lui sentì l’odore pungente dell’alcol.
Eustachio le offrì da bere un sorso dalla sua bottiglia di vino. La donna accettò, gli rispose con un sorriso, ma non disse una sola parola.
Il sole stava calando, tingendo il cielo di un arancione sporco. Sotto un ponte, poco più avanti, un gruppo di barboni si radunava attorno a un fuoco improvvisato. Le loro facce erano scavate, segnate da anni di lotta e costernazione. Uno di loro, con una barba incolta e lo sguardo vuoto, stringeva una bottiglia di gutturnio come fosse l’ultima cosa preziosa al mondo.
Le risate erano amare, spezzate da colpi di tosse e lamenti. Ogni uomo aveva una storia, ma nessuno voleva ascoltarla. Erano fantasmi vivi, invisibili alla città che li circondava. Il fumo del fuoco si mescolava con l’odore pungente della miseria, creando un’aria pesante, quasi tangibile.
Un vecchio con un cappotto logoro provò a darsi coraggio. “Domani sarà meglio,” mormorò, ma nessuno gli credette. Le parole si persero nel vento, come promesse non mantenute. La notte calava, e con essa, un’altra battaglia per la sopravvivenza.
Eustachio e la donna dai capelli arruffati si baciarono. Poi salirono in casa da lui. Un vecchio appartamento di due stanze, sporche e rovinate.
Eustachio stappò la seconda bottiglia di vino bianco: un ortrugo frizzante dei colli piacentini.
Poi guardò fuori dalla finestra. L’appartamento stava al terzo piano di un caseggiato decrepito. Vedeva le persone camminare lungo la via, vestiti con cappotti grigi e giacche blu e vestiti neri. Indossavano pantaloni eleganti o gonne raffinate e avevano gli occhi senza occhi e la bocca senza bocca. Camminavano velocemente, come se la frenesia del quotidiano avesse potuto risvegliare la morte e tramutarla in vita. Erano un carnevale di decadenza e atrocità.
La donna continuò a bere senza parlare e alla fine si addormentò sul letto di Eustachio. Era vecchia, doveva avere almeno quarant’anni.
Lui si sedette alla macchina da scrivere. Era tremendo. Per tutta la vita aveva desiderato scrivere storie horror ma non gli veniva fuori niente. Non aveva nemmeno pensieri profondi, idee originali o storie interessanti. Era rovinato, non riusciva a mettere giù una sola parola e si sentiva incastrato in un angolo. Aveva sognato di scrivere il miglior racconto breve dell’orrore. Ma era solo un sogno. Ogni duecento anni nasceva un grande scrittore, ma quello non era lui. Si sentiva fottuto e stappò la terza bottiglia di ortrugo.
Bevve ancora qualche bicchiere. Ormai si era fatta notte fonda. Decise di andare a dormire. La donna era scomparsa. Fuori iniziò a piovere. Si sentivano i tuoni e lampi improvvisi squarciavano l’oscurità della notte.
Eustachio si avvicinò al letto, il rumore della pioggia che batteva contro i vetri della finestra era quasi ipnotico. I tuoni rimbombavano in lontananza, mentre i lampi illuminavano a intermittenza la stanza, creando ombre inquietanti sui muri. Si tolse le scarpe e si preparò a coricarsi, cercando di scacciare dalla mente l’immagine della donna dai capelli arruffati.
Proprio mentre si stava infilando sotto le coperte, un lampo particolarmente forte illuminò la stanza, rivelando una figura nell’angolo. Eustachio si bloccò, aveva bevuto ma era ancora lucido. La donna era tornata, e questa volta aveva un cacciavite in mano. I suoi occhi erano grandi, spalancati e pazzi, e un ghigno malvagio le imbruttiva il volto.
Con un grido soffocato, Eustachio cercò di alzarsi, ma la donna fu più veloce. Si lanciò su di lui, brandendo il cacciavite con una forza sorprendente. Eustachio riuscì a parare il primo colpo con il braccio, sentendo il metallo freddo che gli graffiava la pelle. Il dolore lo fece urlare, ma non poteva permettersi di cedere alla paura.
La donna continuava a colpire, ogni movimento accompagnato da un sibilo di rabbia. Eustachio lottava disperatamente, cercando di afferrare il cacciavite per disarmarla. La stanza era un caos di ombre e suoni, il rumore della pioggia e dei tuoni mescolato ai loro respiri affannosi e ai colpi sordi del cacciavite contro il legno del letto.
Finalmente, Eustachio riuscì a spingere via la donna, facendola cadere a terra. Il cacciavite scivolò dalle sue mani, rotolando sotto il letto. La donna si rialzò, gli occhi pieni di odio, ma Eustachio non le diede il tempo di riprendersi. Con un balzo, si lanciò verso la porta, sperando di trovare una via di fuga prima che lei potesse attaccare di nuovo.
La tensione era palpabile, ogni secondo sembrava un’eternità mentre Eustachio correva verso la salvezza, con la consapevolezza che la donna non avrebbe rinunciato facilmente alla sua preda.
La pioggia continuava a battere contro i vetri, e i tuoni sembravano avvicinarsi sempre di più. Raggiunse la maniglia e la girò con forza, ma la porta non si aprì. Era bloccata.
Dietro di lui, la donna si rialzò lentamente, una smorfia crudele le alterava la faccia. Eustachio sentì il panico crescere dentro di sé, ma cercò di mantenere la calma. Doveva trovare un modo per uscire da quella stanza.
Con un rapido sguardo, notò una finestra aperta dall’altra parte della camera. Era una possibilità rischiosa, ma l’unica che aveva. Si lanciò verso la finestra, sentendo i passi della donna che si avvicinavano sempre di più. Riuscì a raggiungerla e a sporgersi fuori, ma la pioggia e il vento rendevano difficile la fuga.
Proprio mentre stava per saltare, sentì una mano afferrargli la caviglia. La donna lo tirò indietro, facendolo cadere a terra. Eustachio si girò, cercando di liberarsi, ma la donna era sopra di lui, il cacciavite di nuovo in mano.
Eustachio afferrò una lampada dal comodino e la colpì con tutta la forza che aveva. La donna urlò di dolore e cadde di lato, lasciando cadere il cacciavite. Lui non perse tempo: si rialzò e si lanciò dalla finestra, saltando fuori nella notte tempestosa.
Si sfracellò sull’asfalto bagnato, fracassandosi tutto. Il giorno dopo fu trovato morto dai netturbini, che per poco non lo scambiarono per un sacco della spazzatura.
Della donna non si seppe più nulla, ed il caso fu archiviato come suicidio. Il sipario calò in questo modo sulla triste vita fallita di un aspirante scrittore di racconti dell’orrore.
Gli eventi narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone, cose, luoghi o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Quel pomeriggio di inizio estate faceva molto caldo, Edda e Rino si erano incontrati per passare qualche ora insieme, mangiare un gelato, tenersi per mano.
Ma tutto ciò era per Edda di una noia micidiale, lei preferiva vivere emozioni forti, leggere libri di avventure o guardare film pulp.
Così decise di coinvolgere Rino in un’ardimentosa e proibitissima azione.
Voleva organizzare un pigiama party a tema horror nella cantina del nonno, quella proibita dove nessuno poteva entrare, quella con il pozzo della morte.
Quando lo disse a Rino, egli ebbe paura. A tutti i bambini in tutta la valle avevano raccontato macabre storie di crudeli esecuzioni, di gente spinta dentro al pozzo pieno di lame nella cantina dell’antico palazzo medioevale.
Il vecchio Maldracini lo aveva comperato un quarto di secolo prima, ma il pozzo con le lame stava dentro a quella cantina da almeno cinquecento anni.
“Ho rubato la chiave per entrare nella cantina del nonno, se mi ami, questa notte verrai con me. Ci saranno anche Matilda, Gilda e Franchino”
Rino era terrorizzato, ma ad Edda non sapeva dire di no. Lei lo dominava totalmente.
“D’accordo, dimmi a che ora dobbiamo incontrarci”
“A mezzanotte” disse lei, poi gli sorrise raggiante, lo baciò sulle labbra e se ne andò.
Rino rimase imbambolato per alcuni minuti, confuso e felice. Era la prima volta che Edda lo baciava. Tornò a casa euforico, non vedeva l’ora che arrivasse la mezzanotte, e per qualche ora si dimenticò della cantina proibita.
Vittorio Maldracini si affacciò al balcone del suo ufficio, da dove poteva dominare tutte le sue terre. Aveva occhi di ghiaccio e folti baffi argentati e aveva fatto fortuna vendendo vino Gutturnio in tutto il mondo.
Si accese la pipa meditando sul futuro. Aveva messo in piedi un impero partendo dal nulla, ma la vita non gli aveva fatto sconti: era rimasto vedovo a cinquant’anni e, soprattutto, il suo unico figlio era un coglione.
Si chiamava Umberto, ed era così stupido che non avrebbe potuto condurre nemmeno un’edicola, figurarsi una megaditta come la Vinicola Maldracini. L’avrebbe portata al fallimento in pochi anni se mai un giorno fosse stato chiamato a guidarla.
Era un vero deficiente, lo sapevano tutti, ma era anche il suo unico erede e quindi senza dubbio un buon partito. E così Vittorio Maldracini era riuscito a trovare al figlio una brava moglie, istruita, capace ed intelligente. In futuro avrebbe affidato a lei le redini della sua azienda, o ancora meglio, se fosse vissuto abbastanza, direttamente alla nipote Edda.
Edda aveva già compiuto diciassette anni, aveva lo stesso carattere di nonno Vittorio e per fortuna non era scema come papà Umberto. Portava lunghi capelli biondi raccolti in due grosse trecce, andava bene a scuola, era un tipo sportivo, amava correre e le piaceva comandare.
Esercitava la sua influenza tanto sulle amiche quanto sul suo fidanzatino Rino. Poteva far di lui ciò che voleva, e le piaceva anche approfittarne, lasciando trapelare una latente devianza verso il sadismo.
A mezzanotte il cielo era terso ed una luna giallognola e pustolosa galleggiava nel buio, quando i cinque giovani in infradito e vestiti con colorati pigiami giunsero davanti all’ingresso della cantina proibita. Ci erano arrivati attraversando il giardino silenziosi, protetti dalle tenebre.
La porta per accedere alla cantina si presentava davanti a loro misteriosa ed inquietante, come una raccapricciante bocca di teschio spalancata, con grosse ante in ferro arrugginito chiuse tra le fauci scheletriche.
“Avanti, seguitemi” ordinò Edda, dopo aver aperto il lucchetto che serrava il catenaccio.
Le pesanti ante in ferro si aprirono cigolando, quel tanto che bastava ai corpi esili e pieni di vita dei cinque adolescenti per sgattaiolare all’interno dell’edificio, poi Edda le richiuse dietro di sé provocando un sinistro frastuono.
“Accendi la torcia elettrica” ordinò.
Franchino eseguì il comando ed un debole fascio di luce cominciò a scandagliare l’oscurità dalla quale erano rimasti avvolti.
L’ambiente nel quale si erano introdotti apparve ai loro occhi come lugubre e greve. Era una specie di lungo e largo corridoio sormontato da un basso soffitto a volta in mattoni. Dal centro del soffitto, nella parte centrale della cantina, pendevano come arti mozzati delle grosse pancette arrotolate, coppe piacentine e salami. Non vi erano finestre ma soltanto delle strette feritoie che davano sul cortile del palazzo ed erano schermate dall’interno con dei vecchi paraluce di legno consumati dall’umidità. Lungo le pareti laterali erano accatastate a stagionare migliaia di pregiate bottiglie di vino Gutturnio.
Verso la fine della cantina, qualche metro prima del muro di fondo, si apriva lo spaventoso e famigerato pozzo delle lame.
“Dobbiamo trovare l’interruttore della luce” suggerì Gilda, avendo notato alcune vecchie lampadine penzolare lungo le pareti tra i cumuli di bottiglie.
“Buona idea” condivise Franchino, illuminando i muri vicino all’ingresso alla spasmodica ricerca di un quadro elettrico.
“Eccolo!” disse esultante Edda, appena il fascio di luce passò sopra ad un vecchio interruttore.
“Accendi la luce” ordinò a Rino.
Il ragazzo si avvicinò esitante all’interruttore e dopo qualche attimo di incertezza premette il pulsante.
Una flebile luce rischiarò il tetro ambiente attorno ai ragazzi. Anche se era stata illuminata, una sorta di sinistra sensazione di malessere si poteva percepire per tutta la lunghezza di quella dannata cantina.
“Quello cos’è!?” indicò Matilda, puntando il dito verso un punto della stanza in mezzo a due cataste di bottiglie. Era sconvolta, ed un afflato di autentico ribrezzo le sfigurò la faccia in un’espressione di genuino terrore.
“Che schifo!” urlò Gilda.
“Veramente disgustoso” aggiunse Franchino puntando la torcia in quel punto nel tentativo di illuminarlo meglio.
Vi era una gabbia arrugginita per l’allevamento dei conigli. La maggior parte degli scompartimenti erano vuoti, ma in due di essi vi erano intrappolati tre nauseanti ratti neri grossi come gatti. Uno stava chiuso da solo, gli altri due assieme. Quello solo sembrava mansueto. Nell’altro scompartimento un ratto si muoveva nervosamente dando segni di evidente aggressività, mentre il secondo giaceva morto con la pancia sventrata.
Appena Franchino si avvicinò per ispezionare meglio le gabbie, il ratto aggressivo cercò di saltargli addosso, ma fu fermato dalla rete metallica alla quale si aggrappò emettendo degli orribili squittii.
Franchino si ritrasse istintivamente.
“Mi viene da vomitare, fanno ribrezzo” disse Gilda tenendosi una mano sullo stomaco
“Mio Dio, ma chi cazzo ce li ha messi dentro la gabbia?” chiese Matilda.
“Soltanto mio Nonno ha le chiavi di questa cantina. Ma quello fissato con i ratti è senza dubbio mio padre, ne parla in continuazione” disse Edda, mentre osservava affascinata le ripugnanti creature.
Franchino proseguì oltre e si avvicinò con prudenza al pozzo delle lame.
L’apertura del pozzo era sigillata da una grata in ferro ribaltabile. Si presentava di forma circolare e di diametro piuttosto modesto. Una persona ci sarebbe passata a fatica.
Franchino provò ad illuminare l’interno del pozzo, ma il buco scuro e profondo sembrava non avere il fondo. Nel punto più basso raggiunto dal fascio di luce della torcia, si vedevano luccicare le prime lame che come artigli spuntavano dalle pareti.
Un indefinibile e disgustoso puzzo di morte esalava dalle viscere della terra in cui il canale sembrava immergersi senza fine.
“E adesso cosa facciamo? Questo posto mette i brividi” osservò Matilda.
“Hai ragione, dovremmo andarcene, ho paura anch’io” disse Gilda.
Franchino lasciò cadere 50 centesimi nel centro del pozzo.
Non si udì nessun rumore, la moneta fu inghiottita dall’oscurità.
“Non andremo da nessuna parte sino all’alba” sentenziò Edda.
Poi appoggiò il suo zaino sul pavimento in pietra e cominciò a tirare fuori gli oggetti che aveva preparato per l’occasione: una stuoia arrotolata, 5 candele rosse di grosso diametro, un accendino, un cavatappi, bicchieri di carta, cartine per sigarette, tabacco, e due grammi di marijuana.
Distese la stuoia poco distante dal pozzo e vi sedette sopra invitando gli altri a raggiungerla. L’enorme ratto aggressivo continuava ad agitarsi dentro la gabbia muovendo la lunga coda schifosa.
Rino fu il primo a sedersi, poi arrivarono anche Franchino, Gilda e Matilda, la più carina delle tre ragazze.
Erano tutti in pigiama, giovani e belli, e con le candele spente vicino ai piedi scalzi.
“Lo sapevate che la provincia di Piacenza è la più infestata d’Italia?” disse Edda, mentre stappava una bottiglia di Gutturnio presa dalla catasta più vicina.
“Infestata da cosa? Dai topi?” chiese Matilda indicando i ratti nella gabbia.
“No cretina, sto parlando di spiriti e fantasmi”
“Edda ha ragione” convenne Franchino, “ogni castello ha il suo fantasma su queste colline, e nel piacentino di castelli ce ne sono tanti”
“Ma tu cosa ne sai?” disse Gilda ridacchiando.
“Il più famoso è il Conte Pier Maria Scotti” spiegò Edda, mentre versava da bere a tutti.
“Fu pugnalato a morte nel 1514 vicino al castello di Agazzano. Il suo cadavere fu gettato nel fossato senza essere sepolto e non fu più ritrovato. Nelle notti di luna piena, molti testimoni nel corso dei secoli, raccontano di aver visto il suo fantasma vestito di nero aggirarsi intorno al maniero brandendo una spada e terrorizzando i presenti”
Tra i giovani scese il silenzio, Edda aveva catturato la loro attenzione.
“Un altro fantasma famoso è quello di Rosania. Si racconta che la sventurata sia stata murata viva dentro una stanza segreta del castello di Gropparello dal marito geloso. Aveva scoperto che lei se la faceva con un cortigiano di nome Lancillotto e la sua vendetta è stata spietata. Le testimonianze ci dicono che da più di ottocento anni, nelle notti tempestose, è possibile udire strazianti urla femminili provenire dai sotterranei del castello.”
“Queste storie mettono paura” disse Matilda buttando giù una sorsata di vino e stringendosi al petto le ginocchia.
Tutti sghignazzarono.
Poi uno strano e terribile rumore, come di qualcosa che gratta sul legno e che sembrava provenire dalle profondità del pozzo, ridusse i ragazzi al silenzio.
“Avete sentito tutti?” domandò Gilda sbiancando.
Gli altri annuirono.
“Veniva dal pozzo o mi sbaglio?” chiese Matilda.
“Mi è sembrato proprio che venisse da lì” confermò Franchino.
I ragazzi restarono nuovamente in silenzio, ma si poteva soltanto avvertire lo zampettare ributtante del ratto nero che si agitava nella gabbia.
“Coraggio, sarà stata solo una suggestione, non può esserci nulla di vivo in fondo a quel pozzo” cercò di rassicurali Edda, mentre accendeva le candele intorno a loro.
“Sono proprio necessarie le candele accese?” domando Gilda, sempre più pallida, “mi mettono angoscia.”
“Servono a creare la giusta atmosfera per il nostro pigiama party gotico” spiegò Edda.
“Allora dove eravamo rimasti?”
“Ci stavi raccontando dello spirito inquieto di Rosania” disse Franchino.
Edda sogghignò osservando i volti cinerei delle ragazze: “Cosa succede? Avete paura?”
La guardarono incredule.
“Tu non ne hai?” chiese Gilda, buttando giù la sua dose di Gutturnio.
“Io non ho paura di niente.”
“Sta bene” disse Matilda con tono di sfida, allora vai a dare un occhio a quel pozzo, visto che sei tanto coraggiosa, mettici dentro un braccio.”
Gli altri ammutolirono, mentre Edda, per nulla preoccupata, si avvicinò al pozzo con lentezza teatrale, vi si inginocchiò davanti e ancora più lentamente infilò la mano e tutto il braccio destro tra le maglie della grata sino quasi a toccarla con la testa.
“Così può andare bene?” chiese sorniona, sapendo di aver vinto la prova.
I ragazzi applaudirono, Gilda e Rino la incoraggiarono: “Brava… sì… che dura… così… brava…”
All’improvviso però, il volto di Edda si fece serio, poi scuro, poi una smorfia di sofferenza le imbruttì la faccia e lei cacciò un pauroso urlo di dolore.
Cercò di tirare fuori il braccio dal pozzo, ma sembrava che qualcosa lo stesse trattenendo.
“Aiuto… mi fa male… aiutatemi… vi prego!” urlava Edda.
Gilda, ormai bianca come un cencio urlò a sua volta e cominciò a piangere, Matilda, terrorizzata, strillava tirandosi i capelli, Rino era paralizzato dal panico. Soltanto Franchino, poco prima intento a preparare un paio di spinelli con cartine, tabacco e marijuana, accennò una minima reazione cercando di scappare verso l’uscita della cantina.
“Siete dei cacasotto” gridò Edda, tirando fuori il braccio dal pozzo e rimettendosi in piedi. “Era solo uno scherzo, ci siete cascati tutti” disse sghignazzando.
“Sei una stronza, sono quasi morta di paura” protestò Matilda
“Non era divertente” piagnucolò Gilda, ancora scossa.
Franchino fece finta di nulla, e tornò a sedere riprendendo a rollare le canne.
“Raccontaci un’altra storia di spiriti e fantasmi piacentini” propose Rino, per darsi un tono, e per dissimulare la paura e nascondere la figuraccia che aveva appena fatto.
“Con piacere, ne conosco ancora, in onore del nostro pigiama party horror” disse Edda tornando a sedere.
Rino la guardò camminare a piedi nudi sulle pietre del pavimento estasiato con occhio rapito e cuore innamorato.
“Allora la sapete la storia del cuoco Giuseppe?”
“E chi cazzo è il cuoco Giuseppe?” domandò Franchino.
“Era il cuoco del Castello di Rivalta, circa trecento anni fa. Secondo la leggenda fu ucciso per vendetta dal maggiordomo a cui aveva scopato la moglie. E così da allora, sino ai giorni nostri, certe notti dentro al castello si sentono terrificanti rumori provenire dalle cucine: suoni di coltelli, pentole e carne pestata.”
Edda non terminò di pronunciare le parole “carne pestata” che un nuovo inquietante strepitio come di catene trascinate uscì fuori dal pozzo terrorizzando tutti quanti.
Il frastuono anche questa volta fu breve, poi di nuovo calma.
I giovani si guardarono impauriti, persino sulla fronte di Edda si era formata una scintillante pellicola di freddo sudore.
“Non è che per caso c’è qualche fantasma anche in questo palazzo?” chiese Matilda, ridacchiando in modo isterico.
Il volto di Edda si adombrò, mentre tutti gli sguardi erano su di lei.
“Qualcosa si racconta…” ammise infine, dopo un prolungato silenzio.
“È successo durante la guerra… C’era una banda di partigiani comunisti qui in Val Tidone. Pare che il capo fosse una carogna e che abbia fatto passare brutti momenti ai nazi e ai loro alleati fascisti. Nell’inverno del 1944 il suo gruppo è stato sgominato e lui è stato catturato vivo.”
“E lo hanno portato qui?” chiese Gilda pallida, stringendo la mano a Matilda.
“Esatto, lo hanno interrogato per alcuni giorni proprio in questa cantina e non stiamo parlando di interrogatori con una lampada sulla faccia e le mani legate dietro la schiena. No signori, si sono scomodati dall’alto comando nazi per mandare dei professionisti della tortura e farlo cantare”
“Ed il partigiano ha confessato?” domandò Franchino mentre finiva di preparare il primo spinello.
“Se ha parlato, oppure si è portato all’inferno i suoi segreti non te lo so proprio dire” disse Edda versandosi altro vino nel bicchiere.
“Quello che so, è che il partigiano non è uscito vivo da questa cantina e che alla fine lo hanno spinto giù nel pozzo della morte.”
Gilda e Matilda erano ancora più spaventate
“Forse, adesso vuole uscire dal pozzo per vendicarsi” ipotizzò Franchino, abbassando gli occhi sulle forme del seno di Matilda, ben evidenziate dal pigiama aderente.
“Adesso vi faccio vedere io qualcosa di veramente spaventoso” disse Edda alzandosi in piedi.
Rino, seduto sulla stuoia, la guardava con occhi devoti, desideroso di compiacerla, come se lei fosse la sua dea.
Lei si guardò attorno con fare annoiato, poi piantò lo sguardo in faccia a Rino. Era in piedi davanti a lui e lo sovrastava fisicamente e psicologicamente.
“Ascoltami bene” cominciò a spiegare appoggiandogli un piede sul ginocchio, “adesso voglio che tu faccia fuori quello schifoso ratto nero che continua ad agitarsi nella gabbia.”
“Cosa? E come posso riuscirci?” domandò Rino incredulo, senza togliere gli occhi dal piede di Edda.
“È facile, la vedi quella tanica da dieci litri, mezza piena di gasolio agricolo nell’angolo vicino all’ingresso?”
Rino annuì, iniziando ad eccitarsi mentre lei spostava il piede dal ginocchio sopra la coscia.
“Farai una bella doccia di gasolio al ratto, e poi gli darai fuoco con l’accendino.”
“Che schifo!” protestò Matilda.
“Almeno smetterà di agitarsi e squittire” convenne invece Franchino, accendendo uno degli spinelli che aveva appena terminato di preparare.
Rino si alzò, incapace di disobbedire ad un ordine di Edda.
Dopo aver recuperato la tanica di gasolio ne aprì il tappo, e con due colpi secchi lanciò un paio di getti addosso al ratto. La bestia reagì con furore, tentando di attaccarlo, ma le strette maglie della gabbia erano una prigione invalicabile. Vi si aggrappò mordendo le sbarre e squittendo in modo atroce.
Poi Rino, dopo aver riposto la tanica di gasolio a distanza di sicurezza, si accostò nuovamente alla gabbia con l’accendino acceso nella mano destra. Quando fu abbastanza vicino passò la fiamma sopra una delle zampe del ratto aggrappate alle maglie di metallo.
La creatura si trasformò in una palla di fuoco, iniziò a lanciarsi con veemenza da un lato all’altro della gabbia nel disperato tentativo di fuggire, emettendo raccapriccianti squittii di rabbia e dolore. La forza del ratto era tale che, complice anche il calore del fuoco, le maglie di ferro si piegarono in più punti e Rino dovette indietreggiare spaventato, temendo che riuscisse a sfondarle.
Una disgustosa puzza di carne bruciata si diffuse per tutta la cantina.
Gilda si era coperta gli occhi per non assistere alla scena, mentre Franchino continuò a fumare, le sue attenzioni erano tutte rivolte al fondoschièna di Matilda, involontariamente offerto ai suoi occhi mentre lei, piegata sulle ginocchia, vomitava in un angolo.
Alla fine il grosso ratto nero si adagiò agonizzante al centro della gabbia. Il muso era contratto e la bocca, dalla quale fuoriuscivano gli affilati incisivi, era semiaperta e contorta in una smorfia feroce. Gli occhi pieni di odio e cattiveria fissavano Rino in modo spaventoso.
Edda guardò l’intera esecuzione affascinata dalle fiamme e dall’efferata mattanza.
Poi, senza provare il minimo rimorso, prese una seconda bottiglia di Gutturnio, la stappò e nuovamente riempì i bicchieri per tutti.
Rino tornò a sedere vicino a lei profondamente turbato.
Gilda e Matilda, particolarmente sconvolte, cercarono di riprendersi bevendo vino, mentre Franchino era già mezzo partito per gli effetti della marijuana.
Fu allora che si sentirono nuovamente agghiaccianti rumori, come di unghie che grattano sul legno, provenire da dentro il pozzo. Tra i ragazzi calò nuovamente un glaciale silenzio.
Questa volta il rumore si protrasse per alcuni interminabili secondi, e lo sentirono tutti: difficile sostenere che si trattasse di una semplice suggestione.
“Voglio tornare a casa” urlò Gilda tra le lacrime.
“Oh, Gesù… Che cazzo era quel rumore, lo avete sentito tutti vero? Veniva dal pozzo!” gridò Matilda.
Franchino ora rideva senza senso con lo sguardo perso nel vuoto e le pupille dilatate, come se il suo cervello fosse partito per un viaggio lontano da lì.
Edda prese in mano la situazione.
“Rino, prendi la torcia e seguimi, andiamo a vedere cosa succede in quel dannato pozzo”
Rino eseguì, ma tremava e se la stava facendo sotto.
Prima che potessero raggiungere l’apertura della cavità i rumori erano cessati. Edda esaminò con la torcia elettrica le profondità del canale senza vedere altro che qualche lama scintillante spuntare dalle pareti.
“Non si vede un cazzo di niente qui dentro” informò il gruppo.
“E i rumori? Si sentono ancora i rumori?” indagò Matilda.
“No, non si sente più nulla, a parte una gran puzza di merda in decomposizione, sembra il cesso del diavolo.”
“Guarda, qui c’era una porta” osservò Rino indicando il muro in fondo alla cantina.
“Hai ragione e sembra che sia stata murata di recente” intuì Edda ispezionando la malta ancora fresca tra i mattoni”
Rino si avvicinò incuriosito per osservare meglio la porta murata. Franchino continuava a ridacchiare completamente estraniato, mentre Gilda e Matilda tremavano terrorizzate in disparte.
“Lo senti anche tu?” domandò Edda avvicinando l’orecchio ai mattoni.
Rino si appoggiò letteralmente alla parete per poi ritrarsi subito dopo spaventato.
“Santo Cielo… i rumori del pozzo… vengono da lì dietro.”
“Proprio così. Coraggio datti da fare e cerca di aprire un buco in questo muro”
Rino impallidì impaurito.
“Allora? Cosa stai aspettando?”
“Potrebbe essere pericoloso, e poi… se ci scoprono?”
“Non fare il fifone, e non farmi incazzare. Voglio che apri un passaggio in quella porta murata e tu lo farai.”
Lo sguardo infervorato ed il tono perentorio non ammettevano repliche.
Rino raccolse un grosso chiodo arrugginito abbandonato sul pavimento e cominciò a scavare la malta nei punti dove gli sembrava che fosse più malleabile.
Dopo alcuni minuti di certosino lavoro era già riuscito ad estrarre dal muro un paio di mattoni aprendo una piccola feritoia.
Rino continuò, tolti i primi mattoni il lavoro procedeva più speditamente, e dopo circa un quarto d’ora il buco nel muro era già sufficientemente grande per poterci entrare.
“Passami la pila” disse Edda infilandosi nel varco.
Rino le passò la torcia elettrica restando poi imbambolato a guardare il suo flessuoso corpo scomparire dentro l’apertura.
“C’è una scala di pietra” disse la voce di Edda da dietro la porta murata.
“Venite” fu il perentorio invito.
I suoi amici avevano paura, e poi il puzzo mortifero che proveniva da dietro quella porta era nauseante.
Ma nessuno di loro poteva resistere al fascino e alle richieste di Edda, e così, facendosi coraggio e aiutati da una irresistibile curiosità, Rino e Matilda la raggiunsero per scendere assieme a lei le angoscianti profondità dove quella scalinata di pietra li avrebbe condotti.
Gilda invece, paralizzata dal terrore, rimase tremebonda a fianco di Franchino che, rovinato dalla droga, si era addormentato appoggiato ad una catasta di bottiglie di Gutturnio in stagionatura.
La scalinata di pietra era ripida e stretta e si attorcigliava su sé stessa come una lunga chiocciola senza fine.
Dopo diversi minuti e moltissimi gradini, avvolti dalle tenebre e dal fetore sempre più intenso, i tre adolescenti arrivarono al livello inferiore, dentro una stanza circolare scavata nel tufo.
Nel centro del soffitto a cupola si apriva un canale attraverso il quale filtrava una flebilissima luce. Dal pavimento in terra battuta al centro della stanza spuntavano lance e lame acuminate.
Edda con la torcia elettrica ispezionò quell’antro diabolico. In un orribile carnevale della follia, la luce artificiale illuminò un susseguirsi di spaventose, macabre, disgustose edicole collocate lungo tutta la circonferenza della stanza. In corrispondenza di ogni edicola, si vedevano sul pavimento e sulla parete decine di croci di legno e piccole lapidi di pietra.
“Mio Dio!” esclamò Matilda sconvolta, “i cadaveri dei condannati al supplizio del pozzo sono stati sepolti direttamente qui sotto.”
“Ed ecco spiegati i misteriosi rumori” aggiunse Edda, mentre il fascio di luce della torcia elettrica inquadrava un gigantesco ratto intento a rosicchiare una croce di legno sgangherata.
Poi la luce della torcia cominciò ad indebolirsi.
“Faremmo meglio ad andarcene da qui sotto prima che la pila si spenga” osservò Rino con la voce tremante.
Si udì un nuovo angosciante stridio, un clangore cigolante di metallo arrugginito.
Matilda e Rino si strinsero impauriti al corpo di Edda.
Lei diresse la torcia verso l’apertura al centro del soffitto da dove provenivano i suoni di ferraglia e tutti trattennero il respiro. Dai bordi del canale, piccole lacrime di sangue gocciolavano pigramente precipitando silenziose sul pavimento.
“No!! Haaa… noo… pietà… nooo… Aiutooo!!”
Erano le urla disperate di Gilda.
Subito dopo, un ultimo straziante grido disumano si accompagnò ad orribili suoni di carne sbattuta, tessuti strappati e muscoli lacerati.
Poi un corpo tragicamente martoriato fu sputato fuori come carne masticata dal buco al centro del soffitto, e si andò a sfracellare sopra le lame che spuntavano dal pavimento sottostante. La faccia orribilmente sfigurata di Gilda fissava ora nel vuoto con un solo occhio vitreo, mentre una lancia insanguinata spuntava dall’altra cavità oculare dopo avergli trapassato il cranio.
I ragazzi urlando per lo spavento si ritrassero istintivamente verso la parete circolare della stanza.
Rino inciampò sul femore di uno scheletro legato ad una catena di ferro e cadde urlando. Edda illuminò quel punto che non avevano ancora perlustrato portando alla luce le numerose ossa torturate di altri sventurati condannati a morire là sotto.
Matilda divenne pallida come un cadavere e svenne cadendo in avanti. Il corpo privo di sensi rimbombò sul pavimento.
“Franchino ci sei ancora?” urlò Edda in direzione del buco nel soffitto. Rino intanto si era rialzato stringendosi a lei come una cozza agli scogli.
Nessuno rispose.
“E adesso cosa facciamo?”
“Torniamo di sopra, tu caricati Matilda sulla schiena.”
Rino eseguì volentieri, non vedeva l’ora di andarsene da quell’inferno.
“Come cazzo avrà fatto Gilda a cadere nel pozzo…” disse Edda, mentre risalivano la ripida scalinata.
“Temo che qualcuno l’abbia spinta dentro, forse Franchino è impazzito, o forse lo ha fatto per via della droga” suggerì Rino ansimando. Matilda era bella, anche da svenuta, ma pesava più di quaranta chili e lui era già scoppiato a metà della salita.
La torcia elettrica ormai quasi del tutto esaurita emetteva solo una fioca luce, praticamente inutile. Edda decise di spegnerla per conservare quel poco che restava in caso di emergenza.
Lei e Rino, che per di più aveva Matilda in groppa, dovettero procedere al buio, lentamente.
“Ti prego fermiamoci un poco, non ce la faccio più, sono stanco”
“Sei senza fisico” commentò Edda con disprezzo.
All’improvviso un vento gelido e puzzolente salì lungo la scalinata e investì i loro corpi.
“Cosa cazzo sta succedendo?” gridò Rino mentre gli si scompigliavano i capelli.
“Non lo so” gli urlò Edda di rimando, cercando di aggrapparsi alle pareti per non cadere.
Matilda riprese i sensi, confusa impiegò qualche secondo per capire che si trovava sulla schiena di Rino, poi si sentì sollevare dal vento putrescente ed una forza invisibile iniziò a trascinarla verso il basso.
Matilda gridò il suo sgomento con tutto il fiato che aveva in gola.
Rino allungò un braccio e riuscì ad afferrarla per la maglietta del pigiama, ma il risucchio era troppo potente, il pigiama si strappò e la ragazza fu ingoiata dalle tenebre sotto di loro.
Lei si sentì avvolgere il petto nudo da qualcosa di freddo, pulsante e viscido mentre il suo corpo precipitava sempre più in basso. Vide la cosa fluorescente che l’aveva presa. Sbarrò gli occhi. “Via! Vattene Via! Aiutatemi, salvatemi, Aiutooo!”
Si udirono altre orribili urla di terrore provenire dal fondo della scalinata poi finalmente il vento si placò e tornò il silenzio.
“Usciamo da qui, e alla svelta” balbettò Edda, ma le gambe erano pesanti e riusciva a muoverle con fatica.
Rino allungò le mani tremanti nel tentativo di aggrapparsi a lei.
Continuarono a salire tenendosi per mano, con il cuore in gola ed il fiato corto, allungando il passo man mano che la luce proveniente dalla cantina sopra di loro si faceva più forte.
Quando finalmente arrivarono in cima e riuscirono a superare la porta murata erano esausti. Rino era fradicio di sudore e verde dalla paura, Edda sconvolta.
Davanti ai loro piedi nudi e sporchi la grata di ferro ribaltabile era stata aperta, e oltre il pozzo un giovane avanzava verso di loro barcollando come uno zombie. Sulla faccia grottesca era stampato una specie di sorriso stupido, mentre gli occhi cerchiati di nero roteavano follemente nelle orbite. Dalla testa gli spuntava il grosso chiodo di ferro arrugginito che Rino aveva usato per scavare il passaggio nella porta murata.
Il corpo crollò sulle ginocchia poco prima di raggiungere l’apertura del pozzo e poi cadde di lato emettendo un ultimo gemito gutturale.
“Cazzo! Hanno ammazzato anche Franchino!” gridò Edda isterica.
Rino spalancò la bocca. Un rivolo di sangue e cervella uscì dalla testa perforata di Franchino rovesciata sul pavimento di pietra.
Si sentirono nuovi rumori provenire contemporaneamente da dentro il pozzo e da dietro la porta. Sembrava il suono di un vecchio giradischi, ed il motivetto orecchiabile era inconfondibile, persino Edda, Rino e tutta la loro generazione lo avevano già sentito almeno una volta in vecchi film di guerra o in qualche documentario storico di quelli che davano in televisione.
Fischia il vento e infuria la bufera
scarpe rotte e pur bisogna andar
Poi qualcosa di spaventoso e maleodorante cominciò a fuoriuscire dal pozzo fluttuando lentamente.
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell’avvenir
Era una gelatinosa presenza fluorescente vagamente simile ad una figura umanoide e puzzava di cadavere in avanzato stato di decomposizione.
Ogni contrada è patria del ribelle,
ogni donna a lui dona un sospir,
Il corpo indefinito era coperto da una lacera divisa militare sporca di fango, sangue, e terrore.
nella notte lo guidano le stelle,
forte il cuor e il braccio nel colpir
Le scheletriche mani ossute con le dita nere e livide si protendevano già verso i ragazzi.
“Gesù, Giuseppe e Maria”, mormorò Rino divenuto bianco come la panna.
Se ci coglie la crudele morte,
dura vendetta verrà dal partigian;
La faccia orribile era coperta dalle mosche, deturpata dall’odio e dalla sanguinaria sete di vendetta, e attraverso la bocca distorta in un ghigno mostruoso e disumano, si intravedevano putridi denti marci ed un moncherino di lingua bluastra.
ormai sicura è già la dura sorte
del fascista vile e traditor.
“Non ucciderci”, implorò Edda singhiozzando, “Non farlo… per favore, ti prego…”
Gli occhi dello spettro erano torbidi e diabolici e iniettati di sangue e brillavano di una sinistra luce assassina. Sul capo portava un bucherellato berretto da ufficiale con l’emblema comunista della falce e martello.
La mano sinistra del fantasma, viscosa e palpitante, si strinse attorno alla gola di Rino in una morsa fatale, poi il braccio destro penetrò nel petto per strappargli il cuore. Un copioso rigagnolo di sangue uscì dalla bocca del ragazzo tingendogli il mento di rosso.
Edda gridò, chiese aiuto, implorò pietà, ma la sua anima fu avvolta dal nero sudario dell’oscurità. Poi non sentì più niente di niente e si dimenticò anche del pigiama party horror nella cantina proibita.
Umberto, il figlio coglione di Vittorio Maldracini, fu processato per il triplice omicidio di Gilda, Franchino e Rino. Il corpo di Matilda non fu mai ritrovato.
Il giorno in cui fu pronunciata la sentenza di primo grado, Edda, l’unica sopravvissuta, era presente nell’aula del tribunale.
Condanna all’ergastolo, fu il verdetto.
Suo padre fu trascinato via in manette con la faccia inebetita.
Lei osservò la scena a pugni stretti.
Poi aprì lentamente la mano sinistra che nascondeva uno stemma insanguinato con la falce e martello.
Alzò lo sguardo verso i giudici ed una perversa luce omicida brillò nei suoi folli occhi color del ghiaccio.
Gimbo Spazzacorrotti era un vecchio di quarant’anni, terrapiattista e teorico del complotto. Disoccupato da almeno vent’anni, tirava avanti con il reddito di cittadinanza e la pensione della madre. Era anche tendenzialmente ludopatico con manie di persecuzione, ipocondriaco, sovrappeso e strabico dall’occhio sinistro.
I suoi passatempi preferiti consistevano nello scrivere brevi racconti horror, oppure nell’intrattenere i pensionati che frequentavano l’unico bar del paesino dove viveva, aggiornandoli con le più recenti e inquietanti teorie del complotto.
Come scrittore di racconti dell’orrore era veramente scarso, e in fondo lo sapeva anche lui. Per questo motivo era più facile che si dedicasse alla divulgazione delle trame più segrete e delle verità più sconvolgenti.
Era un piovoso pomeriggio di inizio primavera in Val Tidone, quando Gimbo, svegliatosi da poco, si recò al bar per fare colazione.
Quella settimana faceva il turno del pomeriggio Matilda, la sua barista preferita. Lui la corteggiava da sempre, ma lei preferiva uscire con i muscolosi figli dei più facoltosi proprietari terrieri della provincia, che il sabato sera la portavano a ballare in discoteca, mentre Gimbo l’aveva più volte invitata, sempre senza successo, a qualche conferenza della Flat Earth Society o ai meeting organizzati dal movimento raeliano o da qualche altra congrega specializzata in rapimenti alieni o teorie degli antichi astronauti.
“Ciao bellezza, come ti butta oggi? Mi prepari il solito?”
Matilda accennò un sorriso affettato.
“Portamelo al tavolo, dolcezza” aggiunse Gimbo, facendole l’occhiolino.
Che coglione, pensò Matilda, sfoggiando la sua miglior smorfia di circostanza seguita da un educato cenno di assenso. In verità desiderava prenderlo a calci nel culo, ma era una professionista ed aveva imparato a disprezzare i clienti più odiosi in silenzio e senza farsi scoprire.
“Amici” disse Gimbo rivolgendosi carico di orgoglio al suo uditorio abituale, “ho le nuove ultime e definitive prove che il Molise e la Finlandia non esistono”
Piero, Ugo, Sandro e Luigi erano le sue vittime preferite. A quell’ora del pomeriggio, dopo aver iniziato a bere Gutturnio e Malvasia sin dalla mattina, erano già abbastanza intontiti dal vino da poter ascoltare e forse persino credere alle teorie complottiste raccontate da Gimbo. Dopo anni passati ad assistere ai suoi monologhi, sapevano tutto sulla teoria della terra piatta, sul finto allunaggio, sul crollo indotto delle torri gemelle, sulle manovre cospirazioniste delle multinazionali del farmaco per vendere i vaccini.
“Ma mio nipote ha sposato una donna di Campobasso” osò obiettare Piero, pensionato di settant’anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero per non vedersi ridurre la pensione.
Gimbo lo guardò in tralice, ma assorbì bene il colpo.
“Sciocchezze, vi dico che il Molise non esiste, è solo il parto della fantasia di un famoso scrittore. Per sfuggire alle accuse di aver incendiato la chiesa del suo villaggio, diede la colpa agli abitanti di quel luogo fantastico: i famigerati molisani.”
“Ma mio figlio è stato in viaggio di nozze a Termoli nel 1986, mi ha mandato anche una cartolina” disse Ugo, pensionato di settantadue anni che lavorava ancora nelle vigne, rigorosamente in nero, per non vedersi ritirare la seconda pensione di invalidità.
Gimbo cominciò a sudare impercettibilmente, non si aspettava questa resistenza. Era forse accaduto qualcosa? Aveva perso il consueto ascendente su quei dannati vecchi?
“Dovete fidarvi di me, il Molise non esiste, ne è una prova il famoso detto popolare secondo cui le battute sui molisani sono scontate, ma sono belle perché nessuno si offende”
“Io ci sono stato durante la guerra” disse gonfiando il petto Sandro, 94 anni, che mangiava carne una sola volta a settimana, ma solo se aveva lavorato nelle vigne anche il sabato, rigorosamente in nero, per non vedersi decurtare il cumulo delle sue tre pensioni: quella di guerra, quella di contadino, e quella di vecchiaia.
Gimbo cominciava ad irritarsi ed un caldo rossore gli si arrampicò su dal collo fino alle guance.
Matilda si avvicinò sculettando al loro tavolo. Indossava pantaloncini aderenti che le mettevano in risalto glutei marmorei e le belle e lunghe gambe. Il seno era offerto alla vista della compiaciuta clientela attraverso una camicetta di cotone a quadrettoni in stile country lasciata oscenamente aperta sul davanti. Sul vassoio portava un paio di bottiglie di Gutturnio frizzante, un cappuccio ed un cornetto al pistacchio.
“Allora non lo volete proprio capire. Vi dico che il Molise è un’invenzione dell’ordine costituito, fa parte di una cospirazione planetaria per dominare il mondo e nasconderci che la terra è piatta” insistette Gimbo, immergendo il cornetto nel cappuccio ancora caldo, e cominciando a mangiarlo nervosamente.
I quattro pensionati lo ascoltavano scettici, riempiendosi i bicchieri di vino e continuando a bere.
Fu allora che si mise di mezzo Artemio, un rappresentante di prodotti fitosanitari che stava leggendo la Gazzetta dello sport seduto al tavolo accanto.
“Certe cazzate non si possono proprio sentire, a voi terrapiattisti e teorici del complotto vi si dovrebbe prendere a legnate, così vi passerebbe la voglia di propagandare idiozie.”
Gimbo si sentì avvolgere da una scura nube di disagio, non poteva subire un simile affronto e percepì crescere dentro di sé una collera sorda e nera.
“Non ascoltate questo servo del potere, al soldo delle multinazionali della chimica. Vuole solo confondervi le idee per indurvi a comperare cibo sintetico e frutta transgenica”
Artemio scoppiò in una grassa risata: “deve proprio mancarti qualche rotella, i tuoi genitori hanno partorito anche figli normali o in famiglia sono tutti disconnessi come te?”
La faccia di Gimbo si accartocciò allora in una cupa smorfia rabbiosa, era come un cielo plumbeo prima di una tempesta. Artemio lo stava sfidando apertamente con insulti infamanti e non poteva sopportarlo. Aprì di scatto le mani, le richiuse in pugni stretti e serrati, le riaprì allungando le dita sui fianchi. Si era alzato in piedi rovesciando la tazzina del cappuccio sul tavolo.
“Stai molto attento a quel che dici, i confini tra lecito e illecito sono come l’arcobaleno, apparentemente esistono ma osservando da vicino si dissolvono.”
“Mi stai forse minacciando pidocchio?” chiese Artemio confuso, incerto sul significato di quelle parole.
“Che cazzo fai!? Vedi di stare più attento, che poi mi tocca pulire” ringhiò Matilda, appena si accorse della tazzina rovesciata. La sua stridula voce tradiva tutto il disprezzo che provava per lui.
Gimbo si sentì accerchiato. Tutti erano contro di lui: i vecchi ubriaconi, la bella Matilda che lo aveva sempre respinto, il maledetto venditore di prodotti chimici per l’agricoltura. Le sue narici cominciarono a dilatarsi ritmicamente come quelle di un animale in fuga che ha fiutato il predatore, le mani continuarono a serrarsi e a riaprirsi ritmicamente, una grossa vena gli pulsava nel collo.
“Non riuscirete a fregarmi!” strillò loro in faccia, “conosco i vostri trucchetti del cazzo, volete incastrarmi ma non ci riuscirete, io sono migliore di voi, sono più intelligente di voi e ho capito il vostro gioco…”
“Che stupidaggini” lo interruppe Stefanone, un grosso contadino che lavorava la vigna a giornata, rigorosamente in nero, per non perdere il sussidio di disoccupazione ed il reddito di cittadinanza.
Gimbo si sentì braccato, senza scampo, stretto d’assedio da un anello di fuoco, barricato nel bunker della sua pazza testa. Con un rapido scatto si lanciò dietro al bancone del bar ed afferrò un grosso coltello che usavano per affettare il salame.
“Siete un branco di vigliacchi, prostitute dei poteri forti. Scommetto che vi si siete già fatti tutti impiantare il chip sottocutaneo. E’ con quello che vi controllano lo so, ora vi ordineranno di farmi fuori, ma io l’ho già capito bastardi!” urlò in preda all’ira, furibondo, fuori di sé.
Salì in piedi sul bancone del bar brandendo il coltello come una spada, guardandosi attorno con l’occhio sano iniettato di sangue, la faccia trasfigurata in un grugno di follia.
“Nooo!! Scendi subito dal bancone con quei luridi piedi” gli gridò Matilda disperata.
Gimbo le balzò sopra come una furia, la buttò a terra, e prima che chiunque potesse intervenire le piantò il coltello nella pancia, mordendole la faccia con bestiale ferocia mentre le sprofondava la lama dentro le budella.
La ragazza urlava devastata dal dolore, sentiva il fetore del suo alito sulla faccia, mentre lui le strappava a morsi brandelli di carne dal volto come un lupo affamato.
Artemio fu il primo a reagire. Afferrò la sedia sulla quale stava seduto ed usandola come un’arma colpì Gimbo sul collo, di taglio, quasi ammazzandolo sul colpo.
Stefanone fu su di lui subito dopo, lo sollevò di peso e lo lanciò contro alla parete come fosse stato un sacco nero dell’immondizia pieno di stracci bagnati.
Matilda continuava ad urlare e a piangere, con la faccia sfigurata, il coltello nella pancia ed il sangue che usciva copioso e scuro e viscido e puzzolente.
Gimbo cercò di rimettersi in piedi ma Artemio e Stefanone lo picchiarono duro, e furono pugni pesanti come martellate e calci violenti come fucilate.
Gimbo sentì il dolore avvolgerlo in un sudario di morte e sofferenza.
I carabinieri e due ambulanze arrivarono dopo circa quindici minuti. Matilda morì durante il trasporto in ospedale.
Gimbo Spazzacorrotti fu condannato a cinque anni di reclusione per omicidio preterintenzionale con l’attenuante della seminfermità mentale.
Durante la carcerazione scrisse molti brevi racconti horror.
Scontata la pena tornò a frequentare il bar del suo paese e continuò a raccontare storie di cospirazioni e teorie del complotto.
La nuova barista si chiamava Luisa, e Gimbo la corteggiava da sempre.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Luigino Socialnerd aveva raggiunto i diecimila follower su Instagram ed ora era una star. Si era fatto strada accreditandosi come un teorico del complotto e organizzando risse tra adolescenti in centro a Piacenza. Ed era con quest’ultima attività che aveva collezionato il più significativo aumento di seguaci digitali. Orde di ragazzotti scemi si davano appuntamento ogni sabato sotto i portici di Palazzo Gotico per suonarsele di santa ragione, ipnotizzati dal richiamo social di Luigino.
Quel giorno era in programma un incontro tra il campione dei licei piacentini Toni Maldracini e il famoso picchiatore della Val Tidone Beppe Faina, detto Dinamite per la potenza esplosiva del suo gancio sinistro. L’evento messo in piedi con il solito giro di messaggi su WhatsApp, Facebook ed Instagram aveva attirato una gran folla. Maldracini aveva una certa fama ed anche Dinamite era popolare nella sua zona perché lavorava come tuttofare nel famoso Agriturismo Piacenza. E poi l’incontro assomigliava un po’ ad una sfida fra città e campagna e la cosa interessava.
Luigino era in prima fila tra la calca che circondava i due ragazzi che da lì a poco si sarebbero ammazzati di botte. Era raggiante per l’affluenza ed entusiasta della sua ultima trovata di accettare scommesse su chi ne sarebbe uscito vincitore. Ci avrebbe guadagnato dei soldi, oltra a numerosi nuovi follower tra ludopatici, scommettitori seriali e malati di gioco d’azzardo. Alle cinque esatte del pomeriggio, dopo un tripudio di incitazioni, selfie e video coi telefonini, iniziò il combattimento.
Maldracini, si capì subito, aveva uno stile superiore, ma Dinamite era più veloce e il primo round fu piuttosto equilibrato: i ragazzi si scambiarono un paio di schiaffi e qualche calcio, ma nulla di risolutivo, mentre gli altri giovani tutt’attorno ululavano per il tifo e filmavano con dirette Facebook, stories su Instagram e live in youtube. Il secondo round era cominciato bene per Maldracini che era andato all’attacco. Dinamite però incassava bene e all’improvviso riuscì a sferrare uno dei suoi leggendari ganci sinistri mandando il Maldracini al tappeto.
“Mi hai tirato un colpo basso bastardo” protestò rialzandosi.
Dinamite sorrise sarcastico, scosse il capo in segno di diniego e si toccò il mento per indicare dove lo aveva colpito.
“No, faccia di merda” urlò Maldracini furibondo, mentre la folla attorno strepitava, “hanno visto tutti, prima mi hai colpito con una ginocchiata nelle palle e mentre mi abbassavo per il dolore mi hai colpito al mento.”
Dinamite scrollò le spalle sghignazzando.
Maldracini allora avanzò minaccioso stringendo i pugni: “ora ti faccio vedere io campagnolo del cazzo!”
“Picchialo.. ammazzalo.. fallo a pezzi…” urlava la folla eccitata. I più esagitati si erano ubriacati bevendo gutturnio ed ora cantavano lanciando in aria le bottiglie vuote.
Maldracini caricò come un tir fuori controllo, ma era troppo furioso per ragionare e sparò un cazzotto fuori misura che l’altro evitò facilmente. Cercò ancora di colpirlo con un calcio ad uncino ma Dinamite evitò anche quello e poi fulminò Maldracini con un diretto alla mascella. E non fece fatica a colpirlo forte e duro, perché Maldracini era rimasto lì fermo, completamente scoperto, ed ora era nuovamente a terra. Dinamite si guardava attorno trionfante, alla fine era stato piuttosto facile.
Gli adolescenti urlanti furono allora investiti come da una ventata di sgomento: la temperatura divenne artica, un acre odore di morte e putrefazione si diffuse ovunque e un urlo tremendo di autentico terrore si alzò dalla folla.
Maldracini si era rialzato, ma il suo volto sfigurato non aveva più nulla di umano: gli occhi rossi bruciavano come le fiamme dell’inferno e una coppia di aguzzi canini faceva capolino da sotto le labbra brillando come lame affilate.
La maggior parte dei convenuti cominciò a scappare presa dal panico, alcuni caddero e finirono col morire calpestati dalla massa impazzita.
Dinamite non si rese conto di nulla, Maldracini era già sopra di lui: gli spezzò il collo azzannandolo con violenza inusitata, e affondando i canini vampireschi nelle sue giovani carni, spruzzò sangue sui portici del Gotico e sulla piazza sottostante. Quando ebbe finito scaraventò il corpo senza vita contro una panchina. L’urto fu tremendo ed emise un suono inquietante: carne su legno, davvero disgustoso.
Luigino Socialnerd aveva ripreso tutto con il suo telefonino. I carabinieri presto lo avrebbero arrestato. Rischiava di essere condannato a parecchi anni di carcere.
Tuttavia non aveva alcuna importanza, avrebbe comunque ottenuto migliaia di nuovi follower.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Il musicista Lucio Spaccanoci arrivò alla Locanda della Luna Nera a notte fonda, molto oltre l’orario di chiusura. Aveva prenotato.
La locandiera, una vecchia dai capelli grigi e con le mani rovinate dall’artrite, andò ad aprire di pessimo umore: detestava i ritardatari, odiava i musicisti, e non poteva sopportare i clienti che avanzavano troppe pretese. La sua era solo una locanda di campagna, amava dire per commiatarsi da quelli che gli avevano rotto troppo i coglioni, poco prima di ucciderli.
“Buonasera signora” si presentò Spaccanoci, senza sorridere.
“E’ notte fonda” replicò gelida la locandiera, guardandolo con disprezzo. Il suo volto era flaccido e giallognolo, solcato da profonde rughe.
“Vorrei un limone, e dell’acqua minerale, fresca naturalmente” disse lui con tono arrogante.
Il limone puoi ficcartelo nel culo, pensò la vecchia, poi guardandolo come fosse uno scarafaggio disse: “La colazione sarà servita domani mattina alle ore 9:00, adesso l’accompagno alla sua camera. Intanto mi consegni un documento, per la registrazione.”
Lucio Spaccanoci, un po’ sorpreso dalla rudezza della donna, recuperò la patente dai pantaloni e prima di porgerla alla signora precisò: “Devo fare colazione alle sette, le nove è troppo tardi.”
Certamente, vedrai che bella colazione ti servirò fottuto bastardo, mandò a mente la locandiera, poi senza guardare in faccia il fastidioso ospite, con voce calma, disse: “Attraversata la strada c’è un bar, quello apre alle 6:00. Adesso mi segua.”
La locandiera si avviò lentamente lungo una vecchia scala di legno che cigolando al suo passaggio saliva al piano superiore. L’ambiente era semiavvolto dall’oscurità, illuminato solo dalla fioca luce proveniente da una sgangherata lampadina appesa al muro del pianerottolo superiore. Spaccanoci la seguì contrariato, osservando con disappunto le vecchie pareti scrostate della locanda, e le ragnatele penzolanti dagli angoli del vetusto soffitto consunto dal tempo.
“Questa locanda ha più di quattrocento anni” commentò la vecchia, come se avesse indovinato i pensieri del musicista, “di qui sono passati in tanti, gente che va, gente che viene, alcuni rimangono: per sempre.”
“In che senso?” domandò il musicista senza capire, ed iniziando ad avvertire un indefinibile senso di disagio.
“Nel senso che lasciano un buon ricordo, che rimane nel tempo” spiegò la donna ansimando. Aveva già passato la settantina e la vecchia rampa di scale cigolanti cominciava ad essere una salita impegnativa.
Arrivata in cima si infilò nel corridoio che conduceva alle stanze degli ospiti. Erano contraddistinte con nomi, anziché numeri: camera delle rose, camera dei gerani, camera delle viole, camera dei tulipani, ed in fondo al corridoio quella preferita dalla vecchia, dove ci metteva sempre i clienti più odiati: la camera dei crisantemi.
“Come mai nomi di fiori?” domandò il musicista, guardandosi attorno con sospetto, sempre più inquieto.
“Mi piacciono i fiori” rispose la vecchia aprendo la porta della camera dei crisantemi, “più delle persone in verità. Profumano, Ti ascoltano, non parlano e soprattutto non danno fastidio a nessuno. E adesso si accomodi, prego.”
Il musicista infilò la testa nella camera per ispezionarla, ma senza oltrepassare l’uscio, trattenuto da un’invisibile istinto di conservazione.
Era arredata in modo spartano: un letto singolo, un comodino di legno devastato dalle tarme, uno specchio tondo appeso al muro pitturato di viola, una cassettiera malandata messa peggio del comodino. Sul pavimento ricoperto da un parquet di rovere scuro e antico non meno della locanda intera, era adagiato un grosso tappeto persiano dai colori sbiaditi e macchiato in più punti. Nella camera vi era una sola piccola finestra con gli scuri chiusi. Nessun’altra porta interna alla stanza.
“E il bagno?” domandò il musicista, ostentando un’espressione della faccia sempre più insoddisfatta e preoccupata.
“In fondo al corridoio, proprio qui a fianco” spiegò la vecchia, sfidandolo con uno sguardo torvo e assassino.
“Non ha una stanza con il bagno privato e in camera?”
“No! Se vuole il Grand Hotel a cinque stelle può proseguire sino a Piacenza, questa è solo una locanda di campagna.”
“Non credo di voler restare allora, questa bettola inospitale non soddisfa le mie aspettative.”
“La Signora Beretta qui presente però soddisfa certamente le mie” disse la locandiera sadica, tirando fuori una pistola calibro 9 da sotto il grembiule e puntandola in faccia al musicista.
“Ma.. ma lei è pazza” cercò di protestate Spaccanoci balbettando.
“E tu sei un rompicoglioni di prima categoria. Ora entra in questa camera o ti faccio un secondo buco nel culo, faccia di merda” ordinò la vecchia, mentre la bocca rugosa le si contraeva in un ghigno terrificante.
Spaccanoci entrò tremando all’interno della stanza, il volto era divenuto cereo, e anche la palpebra dell’occhio destro iniziò a sussultare ritmicamente.
“Mettiti lì al centro, sopra al tappeto.”
Spaccanoci eseguì. Quando lui raggiunse il punto indicato, la diabolica locandiera aprì uno sportellino ubicato vicino alla porta, vi infilò la mano artritica sino ad afferrare una leva dall’impugnatura in avorio, e fece forza tirandola verso di sé.
Un orribile stridore di catene proveniente da sotto il tappeto fu accompagnato dall’urlo disperato di Spaccanoci, mentre il suo corpo precipitava nel vuoto, risucchiato nella botola azionata dalla perfida vecchia.
L’insopportabile musicista sprofondò per circa sei di metri come in una foiba infernale, sino a schiantarsi sul pavimento in terra battuta della cantina. Si ruppe sul colpo una caviglia, un braccio e un paio di costole, svenendo per il dolore.
Quando riprese i sensi si ritrovò legato ad una sedia con un limone di plastica dura infilato nella bocca e la locandiera sadica armata di cesoie che lo osservava con fare malvagio e pericoloso. I suoi occhi erano fissi in quelli di Lucio, truci e gelidi come una tomba profanata.
Un pungente ed insopportabile fetore di morte e carne in putrefazione pervadeva la maleodorante cantina, illuminata solo dal riflesso di una pallida luna grigia, che pigramente filtrava attraverso una grata arrugginita vicino al soffitto.
Per prima cosa lei gli amputò le dita delle mani, una ad una, sogghignando divertita, mentre il musicista cercava di urlare piangendo e dimenandosi in prede alla disperazione, dilaniato dall’orribile dolore.
Le falangi saltavano via con un rumore fastidioso come di ossa di pollo spezzate, e lunghi fiotti di sangue raggiungevano il pavimento trasformandosi in fetido fango a contatto con l’umido terriccio del pavimento.
“Scommetto che adesso il bagno in camera, la colazione alle 7:00, il limone e l’acqua fresca non son poi tanto importanti, non è vero stupido bastardo?”
Lui era ormai esausto e stava nuovamente per svenire.
Lei gli tagliò via l’ultima falange superstite, prima che perdesse i sensi: quella del mignolo della mano sinistra.
Poi si piegò a raccogliere le dita maciullate cadute sul pavimento, sfoggiando un inquietante sorriso infernale.
“Le userò per il pranzo di domani” disse con voce malvagia.
Fu l’ultima cosa che il musicista riuscì a vedere, prima di addormentarsi tra le fredde braccia della morte. Spirò poco prima dell’alba, defunto per dissanguamento.
Il giorno dopo, alla Locanda della Luna Nera, lo “Spezzatino della Casa” abbinato con un vino Gutturnio Superiore d’annata fu il piatto più venduto.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Verso le 11:30 del 17 marzo 1943 il maresciallo dei carabinieri Melchiade Maffeo era pronto per recarsi sul luogo del delitto, un delitto comunista: una giovane donna stuprata e poi uccisa dai partigiani. Avendo avuto notizia che il castello piacentino dove avevano trovato il cadavere della donna era decorato con mosaici e simboli sacri, ritenne quindi più prudente coinvolgere anche il brigadiere Rubiano Rufina, che era un appassionato d’arte e magari poteva tornare utile. Inserire una relazione del Rufina nel proprio rapporto, pensò sorridendo compiaciuto della propria astuzia, gli avrebbe conferito un certo spessore culturale.
Il brigadiere Rufina dal canto suo pensava più o meno la stessa cosa. Si augurava che una breve interpretazione di qualche simbolo allegorico gli sarebbe bastata per dimostrare la propria competenza in campo artistico. Avrebbe lasciato al maresciallo tutti gli onori, ma soprattutto gli oneri, di dover scoprire chi era la ragazza morta, chi l’aveva uccisa e perché. Lui aveva altro a cui pensare, ancora poche ore e sarebbe partito per una licenza di tre giorni.
Si incamminarono così verso il castello in cima alla collina, entrambi convinti di dover sbrigare una pratica ordinaria o poco di più, senza sospettare minimamente quali inaspettate sorprese quel luogo antico e misterioso avesse in serbo per loro.
Appena giunti davanti all’edificio, il brigadiere Rufina capì subito ad un primo sguardo che non si trattava di una castello qualunque, e che non vi avrebbe trovato delle semplici immagini allegoriche, ma molto di più. Sperduto sulle colline del piacentino era stato edificato un maniero alla cui custodia erano stati affidati numerosi messaggi esoterici.
Dentro al timpano, incastonato nel muro sopra l’ingresso principale, campeggiava un triangolo equilatero attorniato da fiamme rosse con al centro l’occhio che tutto vede. L’iconografia egizia dell’occhio racchiuso nella piramide era divenuta nel tempo uno dei modelli usati dagli artisti del Medioevo per raffigurare il Dio cristiano. Ma in epoche successive la medesima simbologia era stata adottata anche dalla massoneria. Si trattava di un caso o poteva avere un qualche significato occulto? Rufina pensò che lo avrebbe scoperto visitando meglio il vecchio edificio.
Sotto al timpano si apriva il portone a due ante, entrambe erano state rinforzate con una spessa inferriata. Ad attirare l’attenzione del brigadiere fu la grossa croce patente rossa stampigliata sullo stipite destro.
Il maresciallo osservava il Rufina con sufficienza, senza badare allo sguardo rapito con il quale si era messo ad osservare attentamente quell’architettura, come un bambino guarderebbe la carovana che conduce al paese dei balocchi.
Entrarono e il Rufina ebbe conferma delle sue iniziali intuizioni. La pianta a forma rettangolare era perfettamente disposta secondo i quattro punti cardinali con l’ingresso orientata ad occidente e l’ampia vetrata del salone delle feste orientato ad oriente, verso la Terra Santa, come le più importanti cattedrali gotiche sparse per tutta Europa. L’interno era in stile barocco e molte camere erano decorate da affreschi alle pareti e mosaici sul pavimento. Il brigadiere comprese che l’edificio doveva aver subito diverse ristrutturazioni nel corso dei secoli, variando il proprio aspetto originale. Ritenne di poter datare il pian terreno come quello più antico, vecchio di almeno otto o nove secoli. I soggetti di cui era composto il coevo mosaico pavimentale, in tessere bianche e nere con inserti policromi, erano solo parzialmente visibili e distribuiti in modo disordinato, senza nessun apparente criterio logico. Le iconografie erano inscritte in cerchi concentrici elaborati, disposti in un reticolo di tredici quadrati che si ispiravano a temi sacri e profani. Molte parti dell’opera originaria erano andate chiaramente perdute.
A fianco del grande camino in marmo, sulla parte sinistra del pavimento e in posizione defilata, il Rufina individuò dei frammenti di misteriose lettere, proprio nel punto dove il mosaico aveva subito nel corso del tempo i più vistosi rimaneggiamenti, risultando irrimediabilmente alterato. Questo fatto gli sembrò insolito, perché altre zone più esposte al calpestio, come quelle al centro del salone, erano invece intatte. Sembrava quasi che nel passato qualcuno avesse voluto cancellare le tracce di un messaggio lasciato in precedenza dagli autori del mosaico originale.
Rufina si soffermò ad analizzare quella zona dove l’opera musiva era più confusa: i tondi in cui si vedevano delle fiere erano capovolti, vi erano pezzi di altri soggetti indecifrabili, troncati e frammentati ad altri che erano stati ricomposti alla rinfusa, facendo disperdere l’armonica ed organica lettura che in origine l’autore doveva avere impresso alla propria opera.
In tutta quella mescolanza, il brigadiere riconobbe delle lettere superstiti e ben leggibili, collocate in verticale: R, O, T, una A intuibile ed una S girata di 90 gradi. Ritenne che le prime quattro lettere fossero le finali delle parole SATOR, AREPO, TENET, OPERA, e la S di ROTAS dovesse probabilmente seguirle nell’ordine, ma a causa di inspiegabili modificazioni era finita in quella anomala posizione. Le lettere ben leggibili erano inoltre affiancate da delle linee verticali nere e spesse, come se fossero state poste a delimitare le parole entro delle caselle, le 25 caselle che formavano il quadrato magico del SATOR.
Il brigadiere era sicuro della sua intuizione e decise di prendere degli appunti riproducendo il quadrato magico sul proprio taccuino.
S
A
T
O
R
A
R
E
P
O
T
E
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E
T
O
P
E
R
A
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O
T
A
S
Dopo aver così scoperto la presenza della famosa frase latina palindroma, leggibile da destra verso sinistra, dall’alto verso il basso, ma allo stesso modo dal basso verso l’alto e da sinistra verso destra, il Rufina proseguì ad analizzare i mosaici nelle parti meglio conservate e che mostravano nel loro inalterato splendore animali reali e fantastici, tipici del bestiario medievale. La sua attenzione fu particolarmente attratta da una di queste allegorie pagane, una grossa sirena con due code, sormontata da un curioso berretto frigio e con il volto bruno, quasi mascolino.
Il brigadiere continuò a prendere appunti: la sirena bicaudata era un simbolo di femminilità e di fertilità, nelle chiese cristiane rappresentava la duplicità della natura umana, il dualismo bene-male, ragione-istinto. Terminò poi l’ispezione di quel luogo misterioso. Il cadavere della ragazza era stato rinvenuto in cantina, abbandonato in posizione fetale alla fine di una galleria sotterranea che si incuneava nel ventre profondo della collina, ma che ad un certo punto era stata interrotta da uno spesso muro di sassi e mattoni.
“Quando è stato fatto questo muro?” chiese il maresciallo avvicinandosi al brigadiere e indicando l’ostacolo che ostruiva il passaggio.
“Probabilmente qualche secolo fa, ma non ho idea del motivo, né potrei dire dove conducesse questa galleria. Forse era una via di fuga sotterranea, nel caso il castello fosse stato preso d’assedio. Possiamo fare solo delle ipotesi.”
“Secondo Voi, per quale motivo l’assassino ha abbandonato il cadavere della ragazza proprio in questo punto?” chiese ancora Melchiade, illuminando con una torcia la pozza di sangue rappreso sopra al pavimento in pietra del cunicolo.
“Non saprei proprio dire maresciallo”.
“Ditemi, allora, avete travato qualcosa di interessante, o meglio di utile per scoprire chi è l’assassino? Ho visto che state prendendo persino degli appunti” disse allora Melchiade in modo beffardo.
Il Rufina non raccolse la provocazione, sorrise maliziosamente e disse sibillino: “Dovessi scoprire il nome dell’assassino, sareste il primo a saperlo.”
“Bene” chiosò il maresciallo, “cosa avete trovato allora di tanto interessante?”
“Per il momento solo i resti di una frase palindroma: SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS.”
“E cosa diavolo significa?”
“Il significato esatto è ancora oggetto di studio, a causa della parola AREPO che non ha una traduzione certa poiché non è latina, a differenza delle altre. Poiché il quadrato del Sator è presente in molte chiese e non solo in Italia, si pensa che abbia avuto origine ai tempi dei primi cristiani, e identificando la figura del seminatore, il Sator, in quella del Creatore, la versione più accreditata è questa: Il Creatore, l’autore di tutte le cose, mantiene con cura le proprie opere.”
“Una frase piuttosto enigmatica, come pensate che possa esserci utile?” chiese il maresciallo senza nascondere il suo abituale sorrisetto ironico.
“Ancora non lo so, forse lo scopriremo più avanti” rispose piccato il brigadiere.
“A mio avviso abbiamo a che fare con un pazzo fuori di senno” giudicò il maresciallo, mentre osservava quel luogo tetro e claustrofobico.
Il brigadiere stava maturando un’opinione diversa, ma preferì tacere tenendo i propri pensieri per sé. Non erano pensieri confortanti e nella sua mente si consolidava il sospetto che l’autore di quei gesti non fosse affatto guidato dalla follia, ma seguisse piuttosto una logica precisa.
“Con ogni probabilità la vittima ha cercato di difendersi” continuò il maresciallo richiamando l’attenzione del Rufina, “sono state rinvenute tracce di pelle sotto le unghie della ragazza. Il medico legale ritiene che lei abbia cercato di fuggire prima di essere uccisa, in una delle mani impugnava ancora la maniglia spezzata di una porta.”
“Chiunque abbia commesso l’omicidio, deve dunque aver fatto un gran rumore, non ci sono persone che abbiano sentito qualche cosa?” domandò il brigadiere, pensando di fare una domanda pertinente.
“Abbiamo già interrogato gli abitanti delle case più vicine, nessuno ha udito nulla” rispose il maresciallo mostrandosi dubbioso. Al brigadiere sembrò di scorgere sul volto del suo superiore la medesima perplessità che egli stesso nutriva. Forse qualche testimone esisteva ma aveva paura di esporsi, pensò. Un così efferato e crudele omicidio e la paura di una vendetta partigiana avrebbe indotto chiunque ad una certa prudenza.
Terminato il sopralluogo sulla scena del delitto, i due carabinieri si avviarono verso l’uscita, e fu a quel punto che accadde l’imprevedibile.
Un rumore basso e smorzato catturò la loro attenzione. Inizialmente non riuscirono a capire da dove provenisse, poi lo sentirono di nuovo. E ancora una terza volta, sempre uguale, profondo e angosciante.
“Mi sembra che provenga dal muro infondo alla galleria” disse il brigadiere con la faccia contratta dalla tensione.
“Ma non ha senso”, obiettò il maresciallo, “come può un muro emettere suoni così sinistri, come i rintocchi di una campana rotta?”
Il brigadiere decise di ispezionare meglio la parete, per studiare il muro da vicino. La malta ingiallita era irregolare, l’intonaco consumato dal tempo era in gran parte scrostato, le pietre trasudavano umidità. Accostò l’orecchio al muro, ma i rumori erano cessati. Cominciò a picchiettare sulla superficie levigata di alcuni mattoni e sentì un rimbombo sordo risuonare nelle sue orecchie. Un sospetto si fece strada nella sua mente, forse che oltre quella parete si nascondesse qualcosa, forse un’alta stanza, oppure un passaggio segreto?
Continuò ad armeggiare lì intorno fino a quando riuscì a trovare quello che stava cercando. Sul lato destro, a mezza altezza, fuoriusciva dal muro la capocchia di un grosso chiodo, era fatta di ferro battuto, ma facendovi sopra pressione rientrava leggermente dentro la parete. Il brigadiere spinse con maggiore energia, e la capocchia penetrò in profondità dentro al muro azionando un meccanismo.
Il muro cominciò ad aprirsi cigolando verso l’interno. Era stato costruito su di un telaio di ferro arrugginito incardinato su tre grossi perni d’acciaio.
Lo sguardo del maresciallo fu rapito dallo stupore, il suo sottoposto aveva appena fatto funzionare una porta segreta che conduceva ad una camera sotterranea del castello, occultata proprio al centro della collina sulla quale il maniero era stato costruito secoli prima.
L’interno era buio e i due furono investiti da una vampata d’aria calda proveniente dalla stanza che avevano appena scoperto.
Il maresciallo Melchiade Maffeo squarciò l’oscurità con la luce della sua torcia elettrica. All’interno della camera c’era una bella scrivania in mogano, sulla quale era collocata una lampada da tavolo. I due si avvicinarono e il brigadiere l’accese.
Una flebile luce filtrata da un paralume di stoffa rossa illuminò debolmente l’ambiente. Era una specie d’ufficio: con delle cassettiere di legno, una fornita libreria traboccante di testi scritti in cirillico, e un piccolo salottino con un comodo divano imbottito. Sul muro dietro alla scrivania era appesa una fotografia di Giuseppe Stalin, sulla parete opposta una grande bandiera rossa con la falce ed il martello. Non vi erano altri ingressi, non c’erano finestre. In un angolo era ubicato un grosso orologio a pendolo, segnava le 3:10 del pomeriggio ora di Mosca. Il maresciallo capì da dove provenivano i rintocchi che avevano attirato la loro attenzione qualche minuto prima.
“Mondo boia! Abbiamo scoperto una sezione clandestina del partito comunista” esclamò il brigadiere, sconvolto dalla scoperta.
Questa volta una promozione non me la leva nessuno, pensò il maresciallo senza parlare, ma con gli occhi dilatati dall’eccitazione.
Il brigadiere iniziò ad ispezionare la scrivania. Uno dei cassetti sotto al tavolo era chiuso a chiave. Forzò la serratura con il calcio della sua pistola.
Dentro al cassetto c’era la copia di un documento della NKVD, classificato come “segretissimo” ed indirizzato all’agente italiano compagno Pietro Dinamite. Il frontespizio titolava: “Idi di Marzo”
Era scritto in italiano, ed il maresciallo cominciò a leggerlo avidamente. Ogni tanto alzava lo sguardo dal fascicolo per guardarsi attorno, poi dopo aver bisbigliato tra sé frasi incomprensibili, riprendeva la lettura.
Il rapporto era dettagliato, nelle premesse faceva riferimento alle informazioni raccolte da un confidente estero ritenuto affidabile. La fonte riferiva l’esistenza di un laboratorio militare segreto, ubicato nell’Italia del nord, dove erano in corso ricerche segretissime su nuove armi il cui “sabotaggio” era definito “vitale allo sforzo bellico sovietico.”
“Questa è roba grossa, roba che scotta” commentò ad alta voce il maresciallo.
Il brigadiere annuì trionfante, aveva trovato uno schedario pieno zeppo di nomi e di indirizzi di fiancheggiatori della cellula comunista. Erano decine, sparsi in diverse città, arrestarli tutti avrebbe richiesto un’operazione in grande stile.
“Qui ci becchiamo una medaglia” disse il Rufina senza nascondere il suo entusiasmo.
Melchiade Maffeo non disse nulla. Il suo volto era improvvisamente divenuto pallido, i suoi occhi ora fissavano il vuoto. Dalla pancia gli usciva una lunga ed affilata e sanguinante lama d’acciaio. Era stato trafitto alle spalle con uno stocco medioevale e passato da parte a parte. Un rivolo di sangue uscì dalla bocca e gli sporcò il mento.
Il Rufina non capì cosa stava succedendo, e quando vide il corpo del maresciallo cadere a terra privato della vita era troppo tardi. L’assassino era già davanti a lui e lo teneva sotto tiro con la pistola rubata al Maffeo, prima che il suo cadavere rovinasse sul pavimento.
“Ma cosa state facendo? Avete ammazzato il maresciallo!” provò a protestare il Rufina.
“E adesso ucciderò anche Voi” disse l’uomo con la pistola.
“Ma Voi non potete, Voi siete il segretario del Partito Fascista!” urlò il brigadiere, che aveva riconosciuto il suo interlocutore.
L’uomo con la pistola annuì: “Ma sono anche una spia al soldo dell’Unione Sovietica” replicò l’uomo con la pistola esibendo un ghigno spavaldo.
“Siete un traditore allora!”
“Io la vedo sotto un’altra prospettiva, sono solo passato dalla parte dei più forti. La guerra per l’Asse è perduta, ed io mi sono già riposizionato con i vincitori.”
“Voi siete un pazzo!” protestò il brigadiere, “un pazzo e un traditore!”
L’uomo con la pistola non replicò. Premette il grilletto è sparò in faccia al brigadiere.
La testa del carabiniere esplose spruzzando sangue e cervella sul ritratto di Stalin appeso alla parete.
“Merda” mormorò il comunista, “ora dovrò procurarmene uno nuovo.”
Era il terzo delitto comunista di cui si macchiava in pochi giorni.
Poi uscì dalla stanza, chiuse il passaggio segreto e tornò a casa. L’ora del pranzo era passata da un pezzo, e lui non aveva ancora mangiato.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
La vita del professor Carlo Centodonne non era più stata la stessa da quando aveva vinto il concorso per quella cattedra all’Università. Si era sentito arrivato dopo anni di studi e di sacrifici, e da allora aveva cominciato ad assumere uno stile di vita scapestrato, dedito all’alcol, alle scommesse sui cavalli, alle donne ed ai romanzi d’avventura. Le numerose amanti e soprattutto il vizio del gioco gli avevano ormai messo a soqquadro l’esistenza.
Come ogni mattino, prima di radersi si guardò allo specchio. Aveva una faccia tremenda, quasi tragica. La barba incolta sottolineava il colorito smunto del volto che a sua volta evidenziava due grosse borse sotto agli occhi. La bocca era impastata ed aveva sete. Si era alzato tardi, ma le molte ore di sonno non avevano cancellato le tracce degli eccessi della notte precedente. Si era ubriacato pesantemente risvegliandosi nel proprio letto con una giovane donna che non ricordava di aver conosciuto. Non ricordava nemmeno come avesse fatto a tornarci a casa insieme. La guardò attraverso la porta socchiusa del bagno, lei era stesa nuda sul letto profondamente addormentata.
Non sapeva neanche come lei si chiamasse, però aveva un bel culo. I capelli erano scuri e lunghi, il volto innocente e grazioso tradiva la sua età, non poteva avere più di vent’anni. Il professore si interrogò sulle ragioni che lo spingevano a desiderare sempre nuove donne e sempre più giovani, pur avendone già avute moltissime. Doveva essere la paura di invecchiare, oppure della morte. Sapeva di sentirsi attratto da cose sbagliate come il gioco d’azzardo e l’amore a pagamento, ma non riusciva a sottrarsi al seducente richiamo del vizio e del peccato. Se pur la sua coscienza ogni tanto lo costringeva a riflettere sulla propria condotta, un cinico fatalismo lo induceva a perseverare. Per pentirsi c’era ancora tempo, ripeteva a sé stesso in quelle occasioni.
Dopo essersi rasato si vestì con cura, ci teneva a mantenere un contegno ed un decoro eleganti. Il clima di fine inverno era ancora fresco, e sopra ad una camicia di cotone a quadri si infilò una giacca di tweed con una cravatta fantasia. Indossò dei pantaloni di velluto a coste color cachi e si sentì pronto per una nuova giornata.
Andò nel suo studio, sulla scrivania vi erano due lettere.
Aprì la prima: era un sollecito di pagamento della drogheria sotto casa. Ci aveva dato dentro con vino, birra e altri alcolici e adesso non aveva i soldi per pagare il conto. Appallottolò la missiva e la buttò nel cestino. Negli ultimi tempi era andato tutto storto. Alle corse dei cavalli aveva perso una montagna di soldi. Era anche indietro con l’affitto ed ora rischiava seriamente lo sfratto.
Prese la seconda lettera ed iniziò a leggerla. Era scritta da una sua ammiratrice che desiderava conoscerlo, aveva letto il suo libro di argomento esoterico dal titolo: Occulto misterioso. Aveva dedicato a quella fatica vent’anni delle sue ricerche, ed ora era considerato tra i massimi esperti italiani della materia. Anche Julius Evola aveva scritto una lusinghiera recensione della sua pubblicazione, complimentandosi per l’accuratezza e la profondità dell’opera. Tutto ciò risaliva alla metà degli anni trenta però. Ora la vita del professore aveva preso tutt’altra piega, per colpa dei suoi vizi: le corse dei cavalli e l’alcol.
La sua ammiratrice aveva anche accluso una fotografia: era una ragazza giovane e molto carina, scriveva da Bologna. Lui pensò che le avrebbe certamente risposto, poi prese la lettera e la mise dentro ad un cassetto della sua scrivania.Decise che si sarebbe dedicato a quella corrispondenza in un secondo momento, per quel giorno aveva questioni più urgenti a cui dedicarsi. Chiuse il cassetto e restò pensieroso a guardare fuori dalla finestra. Il sole era già alto nel cielo e vide delle rondini sbucare fuori dal sottotetto di un palazzo sull’altro lato della via. Viveva nella periferia sud di Milano, vicino a viale Isonzo. Da casa sua si potevano ancora vedere rogge, campi coltivati e bambini scalzi correre per i prati.
La ragazza nel letto si era intanto svegliata, e lo raggiunse nello studio con indosso solo una vestaglia da uomo, volutamente lasciata aperta sul davanti. Salutandolo lo baciò sulla bocca.
“L’ho presa nel tuo armadio, non ho trovato altro. Vivi da solo?” chiese lei.
“Ancora ci riesco, con un po’ di mestiere” rispose lui, pensando con fastidio alle norme che obbligavano i dipendenti pubblici ad essere sposati per poter far carriera.
La ragazza lo guardò con occhi languidi, lasciando intravedere le proprie nudità con consumata malizia.
“Ora te ne devi andare” disse il professore con freddezza, come faceva sempre quando voleva sbarazzarsi di una donna.
“Sta bene, ma prima devi pagarmi, questa notte ti sei divertito, ma eri troppo ubriaco, hai detto di non ricordare dove avevi messo i soldi. Ora voglio quel che mi spetta” disse lei senza scomporsi, sorridendo con complicità.
Un’altra puttana, pensò lui. Avrebbe dovuto smettere di farsi succhiare via i soldi in quel modo. Si frugò nelle tasche ma le trovò vuote. Aprì un paio di raccoglitori accatastati sulla sua scrivania, ma erano pieni solo di carte e qualche cambiale. Provò un senso di disagio, ma alla fine ammise imbarazzato:
“Sono rimasto al verde dolcezza, potrò pagarti non prima della settimana prossima.”
“Sei un stronzo” disse la ragazza incrociando le braccia sul petto, sembrava non credergli.
“Non dovresti fidarti dei clienti ubriachi” la rimproverò.
“Vai a farti fottere!” replicò lei.
Il professore fece spallucce, poi andò in cucina e cominciò a prepararsi la colazione. La giovane donna raccolse le proprie cose, si rivestì in fretta e andò via sbattendo la porta, senza salutare.
Carlo aveva altro per la testa, si fece un surrogato di caffè e lo corresse con una dose abbondante di grappa, poi si affettò del salame che mangiò insieme a del pane secco. Per ammorbidirlo lo inzuppò in una tazza piena di vino. Erano quasi le due del pomeriggio, e la giornata si annunciava poco stimolante. Avrebbe passato il pomeriggio nel suo studio a correggere le bozze di alcune tesi di laurea, scritte da laureandi che lo avevano imprudentemente scelto come relatore.
La sera, al contrario, sarebbe stata molto più interessante. Aveva ricevuto un invito a cena da una delle sue amanti, una ricca signora, moglie di un alto papavero del Partito Fascista milanese. Nella sua mente stava già iniziando ad elaborare un piano per farsi prestare del denaro da quella donna. Chiedere soldi senza compromettere la propria dignità ed il proprio orgoglio, questo era quanto stava cercando di architettare. Gli serviva una scusa plausibile e decorosa. Stabilì che le avrebbe chiesto un’offerta per l’orfanotrofio dei Martinitt, presso il quale era cresciuto e aveva fatto qualche volta del volontariato. Era uno stratagemma spregevole, ma se domenica avesse indovinato un paio di corse, avrebbe potuto tamponare la situazione, e magari un giorno devolvere davvero dei soldi ai poveri orfanelli della città.
Si sedette alla sua scrivania ed iniziò a leggere il Corriere della Sera del giorno prima, il 16 marzo 1939. Il titolo era ad otto colonne: “AUMENTI DEGLI STIPENDI E DELLE PAGHE.” Il giorno antecedente la Germania aveva invaso la Boemia e la Moravia, ma il Corriere aveva dato la notizia soltanto in terza pagina e con solo un modesto richiamo in prima. Al professore non era sfuggito il puerile tentativo di minimizzare la portata dell’evento. Per questo aveva conservato quel numero del giornale. Forse ci sarebbe stata un’altra Monaco, o più probabilmente l’Europa sarebbe precipitata in una nuova guerra, aveva pensato leggendo quelle notizie la prima volta. Conosceva bene gli inglesi, e sapeva che non avrebbero mai permesso a Hitler di conquistare tutto il continente. Aveva ragione, come quando aveva immaginato che qualsiasi italiano avrebbe rinunciato volentieri all’aumento della paga, pur di avere la certezza di evitare la guerra.
Lui invece aveva maledettamente bisogno di denaro. Cercò di non pensarci e cominciò a leggere un dattiloscritto sulla “Carta di Wala”, opera di uno dei suoi studenti. Lo trovò banale e noioso, un lavoro meramente accademico. La figura dell’abate francese Wala, nipote di Carlo Martello e cugino di Carlo Magno, era indagata senza alcuna originalità. Si sarebbe persino addormentato se quella lettura non gli avesse ricordato una delle sue conquiste di gioventù. Una giovane contadinella di Bobbio, la stessa città dove Wala era stato abate della famosa abbazia di San Colombano. Non riusciva a ricordare il nome di quella florida fanciulla, ma non poteva dimenticare la piacevole estate che vent’anni prima aveva condiviso con lei. Pensò a quei giorni con nostalgia, non tanto perché sentisse la mancanza di quella ragazza, quanto piuttosto perché avrebbe voluto avere ancora i suoi trent’anni, l’energia di quell’età e la spensieratezza di quei tempi. Allora una guerra era da poco terminata, e lui aveva davanti una vita intera colma di promesse. Adesso invece l’avvenire non prospettava nulla di buono.
Fuori dal palazzo dove abitava il professore il pomeriggio trascorreva pigramente, e l’uomo vestito di nero, seduto su di una panchina poco distante, aveva gli occhi e le orecchie ben aperti. Stava fingendo di leggere un quotidiano, ma intanto si guardava intorno e prendeva nota di tutto quanto accadeva in quella via. Controllava chi e quando entrava oppure usciva dal portone del civico 17, quello dove abitava Carlo Centodonne, annotava le targhe delle automobili, ascoltava il chiacchiericcio dei passanti. Indossava un cappello di feltro e portava gli occhiali da sole con il bavero dell’impermeabile alzato per nascondere il volto. Nessuno sembrava accorgersi di lui, tutti erano affaccendati nei propri affari.
Quando scese la sera, dopo aver ascoltato il notiziario alla radio, Carlo uscì per andare all’appuntamento galante carico di aspettative, era sicuro di convincere la sua amante a sganciargli una somma ingente.
La signora si chiamava Eleonora, aveva cinquantacinque anni ed era sposata da trenta, ma non era riuscita ad avere figli. Questo increscioso problema era stato motivo d’imbarazzo per il marito, e ne aveva in parte ostacolato la carriera nel partito. Lui la ritenne responsabile, e non l’aveva mai perdonata. Così la loro vita di coppia si era incrinata ed Eleonora aveva iniziato a desiderare consolazione. Il marito ormai la ignorava e quando capitava ancora che si occupasse di lei, il più delle volte era solo per colpevolizzarla di non avergli dato dei figli. Eleonora aveva così da tempo smesso di sentirsi amata. Quando ad una festa aveva conosciuto Carlo, non aveva saputo resistere alle sue premure ed attenzioni. Aveva certamente perduto l’avvenenza della giovinezza, e l’interesse mostrato dal professore aveva per questo fatto più facilmente breccia nel suo cuore.
Per il professore, invece, era soltanto l’ennesima avventura. Aveva cercato di sedurla per il puro piacere di aggiungere un altro trofeo alla sua collezione di donne sposate. Quando poi aveva scoperto che la signora Eleonora dava il meglio di sé sotto le lenzuola, aveva piacevolmente prolungato quella relazione clandestina. Ora che aveva così tanto bisogno di denaro e pensando che lei avrebbe potuto aiutarlo, era particolarmente compiaciuto di sé stesso e della propria lungimiranza, almeno in fatto di donne.
Quando Eleonora venne ad aprire la porta però, lui capì subito al primo sguardo che la faccenda sarebbe stata più complicata di quanto aveva sperato.
Lei era bassa, con il naso grosso e la fronte larga, ma vestiva sempre con eleganza quando doveva incontrarlo, e poi normalmente era allegra e simpatica, e ci sapeva fare con il sesso. Quest’ultimo talento compensava ampiamente il fatto che fosse bruttina e un po’ sovrappeso. Ma quella sera non era per nulla contenta, quando Carlo entrò in casa, lei nemmeno lo salutò.
“Bene” disse Eleonora, “dove siete stato ieri notte?”
Il professore simulò indifferenza, e cercò di eludere la domanda.
“Niente bacio di benvenuto?” disse forzando un sorriso.
“Ditemi dove eravate ieri notte.”
Carlo non rispose, la notte prima si era ubriacato ed era andato a puttane, ovviamente non poteva confessarlo. Rimase in silenzio pensando a cosa dire, ma non gli veniva in mente nulla.
“Allora Vi dirò io dove siete stato Carlo, eravate con una donna, una di quelle per giunta.” La voce di Eleonora si affievolì sul finale, aveva gli occhi rossi ed era sul punto di iniziare a piangere.
“Non capisco di cosa stiate parlando, ieri non sono nemmeno uscito di casa” mentì il professore.
“Siate sincero, adesso. Vi ho veduto con i miei occhi mentre passeggiavate ubriaco a braccetto di quella donnaccia. Come avete potuto?” squittì lei esternando tutto il suo sgomento.
Carlo era imbarazzato e la fronte gli si imperlò di sudore. Era stato scoperto, ed ora avrebbe avuto un bel da fare per recuperare la situazione.
“Ma lo capite cosa mi avete fatto? E se fossi stata io a tradirvi? Come Vi sentireste?” disse iniziando a singhiozzare, mentre le lacrime presero a sgorgarle dagli occhi rigandole il viso.
“Non è il caso di prenderla in questo modo” abbozzò lui goffamente, “in effetti ieri ho bevuto un po’ troppo, ma con quella ragazza non vi è stato nulla, stavamo solo passeggiando.”
Eleonora gridò, e si mise a piangere più forte.
Il professore cercò di afferrarle la mano, ma lei la ritrasse stizzita.
“Ho veduto che la baciavate” protestò, “siete un bugiardo e un mascalzone!”
Le previsioni del professore erano state del tutto fallaci. La signora aveva scoperto che lui si dava da fare anche con altre donne, più giovani per giunta, e come se non bastasse, persino di facili costumi.
“Be’, ecco… io non ricordo” cercò maldestramente di giustificarsi, “lo avete detto anche Voi, ero ubriaco, non so spiegarmi come sia successo.”
“Lo avete fatto perché era più bella o perché era così giovane, oppure per entrambi i motivi?”
“Oh, per Dio, Eleonora…”
“Non siate evasivo, ditemi perché lo avete fatto.”
“Io non so perché l’ho fatto, non vi è una ragione per queste cose, semplicemente accadono” disse lui esasperato.
“Mi avete mai baciato come baciavate ieri notte quella là?” Eleonora aveva smesso di piangere, ed il suo tono si era ora fatto inquisitorio.
“No, penso di no… non credo almeno.”
“E allora come? Come l’avete baciata?”
“Santo cielo, Eleonora, cose volete che vi dica, non lo so..”
“Come!?” ringhiò lei. Adesso sembrava molto arrabbiata.
“Ecco, io.. credo che fosse in modo diverso.”
“Diverso come?”
“Dannazione Eleonora, Io non me lo ricordo, ero ubriaco.”
“Siete un mostro!” gridò la signora, poi gli diede uno schiaffo. Carlo abbassò lo sguardo, lei gli voltò le spalle e riprese a singhiozzare. Era rimasta profondamente offesa e indignata.
Sulla strada intanto, dentro ad una Fiat Balilla scura, due uomini con la faccia da ceffi tenevano d’occhio la situazione. Erano vestiti di nero, erano armati, ed avevano seguito il professore sin da quando era uscito. Ci sapevano fare, nessuno si era ancora accorto di loro, nessuno poteva immaginare cosa avrebbero fatto e perché.
La luna era bella sopra al cielo, ma il professore dovette penare tutta la sera per riuscire a recuperare la situazione, per evitare di essere scaricato. Dovette accantonare i propositi che aveva elaborato per ottenere dei soldi. La signora lo mandò in bianco lasciandolo al verde, e non gli offrì nemmeno da bere. Quando tornò a casa a notte inoltrata era prostrato. La giornata si era conclusa nel peggiore dei modi, e per consolarsi si attaccò alla bottiglia, affogando il suo fallimento nell’alcol.
Si ubriacò a tal punto da non accorgersi di nulla, quando gli uomini vestiti di nero fecero irruzione nel suo appartamento, il professore dormiva stordito dalla sbornia.
Gli intrusi erano stati mandati dal marito della signora, che non aveva preso sportivamente il fatto che lei lo tradisse. Per vendicarsi aveva deciso di dare una lezione all’impudente professore, e per farlo aveva assoldato i due sicari vestiti di nero.
Quelli fecero un lavoro preciso e ben fatto.
Il giorno dopo Carlo Centodonne si svegliò senza più le palle. Lo avevano castrato, così come si fa con un cane qualunque. Lui da quel momento non toccò più una donna per il resto dei suoi giorni. Fu solo dopo alcuni anni di assoluta disperazione che riuscì a trovare consolazione. Decise allora di iscriversi al coro delle voci bianche della sua parrocchia.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale
Fulgenzio ed Alice furono massacrati una sera di mezza estate in quella che è passata alle cronache come lastrage di Calendasco. Si erano conosciuti sin dall’infanzia perché lei, figlia di poveri braccianti agricoli, viveva in una miseranda casa attigua alla dimora padronale dove viveva Fulgenzio, in quel di Calendasco, un borgo piacentino abitato in quel tempo da poco meno di quattromila anime. E nel cortile della grande cascina i figli dei ricchi padroni e quelli dei miseri contadini potevano mischiarsi. I primi senza eccezione curati e ben vestiti, i secondi spesso trasandati e sempre con umili indumenti, ma nell’innocenza della loro fanciullezza, quelle non erano ancora barriere che potessero separare gli uni da gli altri. Con il sopraggiungere dell’adolescenza e gli iniziali rudimenti dell’educazione, i due giovani avevano imparato presto che, secondo gli usi del tempo, le proprie vite erano destinate a non doversi mai più incrociare. E per quanto la giovinetta fosse ben certa e consapevole di non poter anelar nemmeno in sogno alla compagnia del bel Fulgenzio, quest’ultimo, sin da allora di indole ribelle, non si rassegnava affatto a dover seguire i costumi, le regole e le consuetudini dell’epoca.
A dispetto delle aspettative del vecchio padre, che per il suo unico figlio maschio progettava un futuro a fianco di qualche fanciulla ricca e di buona famiglia, Fulgenzio si innamorò, contro ogni ragionevole previsione, proprio di quella umile e povera contadinella.
Da prima i due iniziarono con lo scambiarsi degli sguardi diversi da quelli che erano stati abituali durante i giochi dell’infanzia, poi anche il modo di parlare tra loro divenne diverso, nelle forme, ma soprattutto nei contenuti. Infine, una sera di fine estate all’inizio degli anni trenta, Fulgenzio si decise a prendere l’iniziativa, si appartò con la ragazza in un angolo buio della cascina, e dopo essersi dichiarato la baciò sulla bocca.
Lei arrossì per l’emozione, senza fiatare si aggrappò al collo del bel Fulgenzio e ne corrispose le attenzioni, incurante delle conseguenze. Per entrambi era quello il primo bacio, e segnò l’inizio di una storia d’amore appassionata e travolgente, che gli avrebbe legati a lungo contro ogni avversità.
E le tribolazioni per i giovani innamorati iniziarono subito. Per timore di dar scandalo si incontravano di nascosto, in qualche capanno in aperta campagna, o in altri luoghi lontani da occhi indiscreti. Il loro amore clandestino e segreto ebbe però vita breve, qualcuno un giorno li vide insieme e in un lampo la loro relazione divenne di pubblico dominio sino a giungere alle orecchie del vecchio padre di Fulgenzio.
Il genitore la prese molto male ed impazzì di rabbia. Mandò a chiamare il padre della ragazza e gli intimò di tener in casa la figlia scostumata, minacciando le più radicali rappresaglie se non fosse stato ubbidito. Quindi, dopo averlo convocato al suo cospetto, affrontò il figlio con le più scorbutiche intenzioni.
“Come hai osato gettare ombra sul rango della tua famiglia? Non sai tu che con quella pezzente non hai nulla da spartire né oggi né mai ne avrai in futuro?” lo interrogò con il volto irrigidito dall’irritazione, con cipiglio minaccioso e con occhi severi, di quelli che non ammettono repliche.
“Padre, io amo quella giovane e la prenderò in sposa, mi rammarico che la cosa Vi sia sgradita, ma questo è il mio intendimento” rispose il giovane Fulgenzio arrossendo per l’emozione, ma dando prova di insospettabile fermezza e sfrontatezza, dinnanzi all’uomo che lo aveva sino a quel giorno considerato come una delle tante proprietà, delle quali poteva disporre a piacimento e senza render conto delle proprie decisioni.
“Maleducato!” esclamò il padre, indietreggiando due passi, tutto imbruttito per l’indignazione, e piantandogli in faccia due occhi inquisitori lo ammonì: “Sei senza creanza, e dunque è così che ora ti rivolgi al padre tuo? Ma stai ben certo che senza il mio consenso nessuna di queste tue malsane intemperanze potrai condurre a compimento. Faresti meglio a mettere giudizio in fretta o queste tue spalle da mascalzone conosceranno le carezze che ti sarai così maldestramente meritate!”
“Padre, io non temo la vostra ira e nemmeno le vostre punizioni” disse il giovane sommessamente, sapendo bene che rischiava di essere sonoramente legnato.
“Sono pronto a sopportare ogni violenza o privazione” proseguì sfidando l’autorità paterna, “ma nulla potrà dividermi dalla mia amata, e il mio destino sarà di unirmi a lei, che Voi lo vogliate oppure no!”
“Questo è troppo figlio sciagurato!” replicò il vecchio schiumando rabbia, “sapevo della tua indole ribelle, che si manifestò sin dall’infanzia, ma giungere a tanta irriverenza ed insolenza non è cosa che si possa lasciar passare come una qualunque marachella. Ora io mi pento di averti fatto parte delle antiche prerogative del nostro casato. Mi chiedo con terrore se un animo così indisciplinato ed un indole tanto poco rispettosa delle tradizioni, potranno mai consentirti di tener fede agli obblighi che il portare il tuo cognome comporta! Non voglio più vederti sino a quando non avrai riconsiderato i tuoi propositi.”
Il vecchio sembrava una belva in gabbia e si muoveva inquieto davanti lo scrittoio dello studio dove aveva ricevuto l’ingrato figlio. Ormai aveva deciso di allontanarlo, e così gli urlò indicando l’uscio con impeto furente: “Ora lasciami col mio dolore ed esci da questa casa!”
Fulgenzio, che era rimasto immobile col capo chino, rassegnato ad ascoltare in silenzio la rampogna del genitore irato, fu sulle prime colto alla sprovvista, non avendo preventivato di poter essere cacciato di casa. Ma dopo l’iniziale sbalordimento si riprese, e ostentando un orgoglio anche eccessivo, uscì da dove era venuto, e da quel giorno non fece più ritorno alla casa paterna né si riconciliò più con il burbero padre.
Nei suoi intendimenti Fulgenzio desiderava trasferirsi a Milano con la sua amata Alice. Ma quando lo venne a sapere Sandrino, un giovane attivista del locale partito comunista, fu l’inizio della fine.
Anche Sandrino amava Alice, e non poteva sopportare che lei gli preferisse un ricco, un borghese, un nemico del popolo.
Il giovane comunista aggredì la coppia appartata nelle campagne, ed assassinò Fulgenzio fracassandogli la testa a sassate. Alice cercò di impedirlo, con il solo risultato di beccarsi una coltellata nella pancia.
Fulgenzio ed Alice morirono assassinati nella strage di Calendasco, una sera di mezza estate.
Il duplice omicidio fu derubricato a delitto politico e Sandrino beneficiò dell’amnistia Togliatti, senza fare nemmeno un giorno di carcere.
I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale