Racconto horror in un cimitero

Il dottor Sadico era in piedi nel mezzo della stanza, indossava un camice bianco su di una camicia azzurra stirata di fresco con una cravatta del partito. La sua barba folta e grigia brillava sotto la luce artificiale delle lampade al neon, ed una espressione di preoccupata sorpresa gli adombrò il volto quando vide un uomo sbucare dal nulla, uscendo da un buco nel pavimento del suo laboratorio. Sembrava un mostro uscito da un romanzo o da un racconto horror in un cimitero.

Leo Investigato si mosse d’istinto, impugnato il pugnale si avvicinò al dottore zoppicando ma con rapidità. Nonostante le menomazioni subite la sua mole era ancora intimidatoria, la barba incolta e la fronte segnata dalle cicatrici conferivano al suo volto un aspetto spaventoso. Il dottore rimase immobile, intuendo che opporre resistenza sarebbe stato pericoloso.

Leo lo teneva in scacco, il dottore era disarmato, lui invece aveva il pugnale e una P38. Erano soli nel laboratorio e se il dottore avesse cercato di chiedere aiuto lui lo avrebbe ucciso in un istante. Valutò che avrebbe potuto ottenere preziose informazioni, e iniziò ad interrogarlo.

“Ora ti farò alcune domande, dovrai rispondere semplicemente annuendo o scuotendo il capo, sono stato chiaro?” disse premendogli la lama del pugnale sotto al mento. Il dottore annuì, i suoi occhi erano terrorizzati.

“Gli accessi alla fortezza sono sorvegliati?”

Il dottore scosse la testa, come per rispondere no.

“Per arrivarci dobbiamo passare da altri posti di guardia?”

Il dottore scosse nuovamente la testa, ma abbassando lo sguardo. Investigato capì che stava mentendo.

“Non cercare di fregarmi, saresti il primo a finire ammazzato” ringhiò aumentando la pressione del pugnale sulla gola. “Ti ripeto la domanda, per arrivare al castello dobbiamo passare posti di guardia?”

Questa volta il dottore annuì timidamente.

“Più di uno?”

“Dipende da che parte volete passare” rispose a mezza voce il dottore.

“Il percorso più breve” disse Investigato.

“Posso indicarvelo” propose il dottore.

“Ti ho già detto di non cercare di fottermi. Ci andremo insieme e se qualcosa va storto, ti ucciderò.”

Il dottore impallidì, sapeva che non stava bluffando. L’uomo con la fronte sfregiata poteva spezzare in un attimo l’esile filo al quale era ora appesa la sua vita.

“Vi potete fidare, se non siete ancora morto è proprio grazie a me, mi sono speso con tutto me stesso affinché il Vostro bel corpo non venisse rovinato del tutto” disse cercando di blandirlo.

“Mi hai salvato solo per farmi fare da cavia nei tuoi esperimenti maledetti, brutto ceffo” protestò Investigato.

Il dottore sembrò risentirsi e replicò piccato: “Con i miei esperimenti contribuisco al progresso dell’umanità.”

“Sei solo uno schifoso criminale, hai sulla coscienza migliaia di vittime innocenti. Non sei altro che uno sporco assassino.”

“Vi sbagliate grossolanamente, la nostra è una azione meritoria, stiamo estirpando una minaccia genetica per la nazione. Eliminiamo esseri inutili che non offrono alcun contributo alla società.”

L’agente segreto Investigato si sentì avvampare dalla rabbia, in quel momento avrebbe voluto uccidere il dottore, ma riuscì a dominarsi, doveva servirsi di lui per raggiungere la fortezza.

“Stai zitto!” lo redarguì “chi credi di essere per giudicare il diritto alla vita di altri uomini?”

Un espressione di sincero sbalordimento si materializzò sulla faccia del dottore.

“Le persone sottoposte ai nostri programmi non sono veramente esseri umani” disse con tono professorale, “come Voi non esitereste ad eliminare le zecche o i pidocchi, così noi disinfestiamo la nazione dai parassiti che la guastano”.

“Ora basta!” urlò Investigato colpendo il dottore con un energico schiaffo.

“Chiudi quella fogna di bocca e cammina, portami al castello e guai a te se cerchi di fare scherzi.”

“Il passaggio più vicino è lungo la strada che porta in cima alla collina, ma ci sono sempre due sentinelle di guardia” rispose il dottore toccandosi il volto arrossato dal ceffone, mentre Investigato continuava a premere il coltello sulla sua gola.

“E la mulattiera? Anche quella è presidiata?”

“Non credo sia percorribile, è abbandonata da anni” piagnucolò il dottore, sentendo sanguinare la ferita che si era lentamente aperta a contatto con la lama affilata.

“E come possiamo arrivare al castello allora?”

“Potremmo passare dal cimitero, ma fate piano, con quel coltello mi state facendo male” disse temendo di essere sgozzato.

“Allora andiamo, cammina, tu ora verrai con me, come in un racconto horror in un cimitero.

“Lasciatemi andare, non Vi ho fatto nulla di male, mi occupo solo dei miei esperimenti.”

Investigato colpì il dottore allo stomaco con una ginocchiata, lui si piegò in avanti gemendo per il dolore. Poi lo spinse in avanti tenendogli il pugnale puntato nella schiena e lo condusse fuori dal laboratorio, sulla strada che portava al castello.

Camminarono sino in fondo alla via, dove girato un angolo si proseguiva sin dentro al piccolo, vecchio e malandato cimitero. L’illuminazione era scarsa, ed il campo santo era diviso a metà da due grosse cappelle private.

“Dimmi dove dobbiamo andare ora” ordinò Investigato premendo il coltello sotto la gola del dottore.

“L’ultima tomba sulla destra, oltre la grande cappella” disse il dottore a denti stretti, allungando il collo per evitare che la lama gli tagliasse la gola. “Sotto la lapide si apre un passaggio segreto che conduce direttamente dentro all’obitorio del castello”.

Investigato lo spinse senza cortesia sin davanti alla tomba che egli aveva indicato. Poi lo obbligò a sollevare la lapide. Sotto vi era nascosta una botola di ferro, ma era chiusa da una serratura arrugginita. Avrebbe avuto bisogno di un piede di porco per forzarla. Valutò anche la possibilità di sparare con la P38, ma l’operazione sarebbe risultata troppo rumorosa per poter essere seriamente presa in considerazione.

“Dove sono le chiavi?”

“Non ne ho idea” disse il dottore scuotendo la testa.

“Non mentire, è la porta del passaggio segreto che porta all’obitorio e tu sei il fottuto dottore, dimmi dove sono le chiavi per aprire o ti pianto il pugnale nella schiena!”

“Sono uno scienziato, non faccio il portinaio” protestò il dottor Sadico.

Investigato iniziò a spazientirsi, aveva già consumato molto tempo prezioso, doveva sbrigarsi se voleva ancora sperare di cavarsela. Il dottore stava deliberatamente cercando di rallentare le sue manovre e si stava rivelando un fastidioso impaccio.

Esaminò la botola con maggiore attenzione. Il telaio era consumato dal tempo, pensò che avrebbe potuto sfondarla con un paio di calci ben assestati. Ma il rumore avrebbe potuto rivelare la sua presenza. Non poteva correre un simile rischio. Gli serviva qualche strumento per fare leva tra gli stipiti senza provocare eccessivo fragore. Si guardò intorno e vide una robusta pala di ferro appoggiata ad un muro, di quelle che si usavano per scavare le tombe giardino. Con quella avrebbe potuto forzare la porta. Ma doveva prima sbarazzarsi del dottore.

Lo costrinse a indietreggiare sino alla cappella più vicina. Poi gli ordinò di entrare.

Quando il dottore realizzò che la porta della cappella era aperta, un’espressione di disappunto gli corrugò il volto barbuto. Quella fu la sua ultima smorfia, sentì una pressione terribile, insopportabile e soffocante avvolgergli la gola. Raccolse le sue ultime forze e cercò di urlare.

Investigato lo stava strangolando, e gli aveva stretto il collo con entrambe le mani fermando il suo grido. Aveva già ucciso in passato, ma era la prima volta che guardava in faccia, così da vicino, gli occhi della sua vittima. Li vide sbarrarsi nell’attimo in cui la scintilla della vita abbandonava il suo corpo, e provò un brivido. Percepì il sopraggiungere della morte, mentre il cadavere del dottore gli si afflosciava tra le braccia emettendo un ultimo disgustoso rantolo.

Era stato un lavoro pulito, quasi perfetto, lo aveva strozzato in pochi minuti. Cercando di non guardare il livido viola che adesso cerchiava il collo di quel corpo senza vita, lo adagiò sul pavimento. La sua coscienza ora aveva una nuova macchia fresca, ed Investigato provò una sensazione di disagio.

Aveva  ammazzato un uomo disarmato a tradimento, senza nessun preavviso, senza che potesse in alcun modo difendersi. Il dottore era certamente una persona spregevole e avrebbe meritato una fine anche peggiore, pensò, ma lui si era comportato in modo disonorevole e questo lo disturbava.

Ma cosa avrebbe potuto fare? Si guardò ancora il piede ferito cercando di assolversi. Non poteva rischiare di nuovo, il dottore avrebbe potuto anche fuggire o cercare di colpirlo, aveva dovuto agire così perché era il modo più sicuro, disse a sé stesso.

Si sentì un po’ meglio, poteva continuare con il suo piano d’azione, ora. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare: i dettagli gli erano venuti in mente mentre lo stava uccidendo.

Gli tolse le scarpe e provò a indossarle. Gli calzavano un po’ strette, ma potevano andare. Per sua fortuna il dottore aveva i piedi grandi. Poi si travestì usando il camice bianco, la camicia e persino la cravatta con le insegne del partito.

Alla fine guardò ancore il cadavere.

Erano nemici, se non lo avesse ucciso, lui avrebbe potuto causare la sua morte. Ed era un autentica canaglia, rimuginò, aveva torturato e fatto morire migliaia di innocenti, ora avrebbe solo fatto da cibo per i vermi.

Investigato sbuffò, mentre trascinava il morto dentro la cappella. Diede una rapida occhiata ai loculi dove giacevano le bare di molti illustri personaggi piacentini per un meritato riposo eterno.

Se come immaginava nessuno fosse entrato nel cimitero sino al giorno successivo, prima che potessero trovare il dottore morto e stecchito, lui avrebbe avuto tutto il tempo di compiere la sua missione.

Aveva ancora qualche ora di buio a sua disposizione poi sarebbe sorta l’alba.

Raggiunse nuovamente la botola e usando il pesante badile come leva scassinò la serratura che la serrava. La ferraglia arrugginita crepitò e la porta si aprì.

Il passaggio era buio, cercò di attivare l’interruttore elettrico ma non funzionò.

Costruì allora una fiaccola artigianale con il manico in legno del badile ed alcuni lembi di stoffa ricavati dai pantaloni del dottore assassinato.

Alla luce del fuoco l’ambiente era anche più sinistro di quanto avesse immaginato. Una puzza ripugnante di morte lo investì. Sul pavimento, vicino alle pareti, grossi ratti corsero in tutte le direzioni spaventati dal suo arrivo. L’aria era quasi irrespirabile.

Investigato cercò di avanzare, trattenendo il respiro. Lungo i muri erano disposti numerosi letti di legno sui quali giacevano cadaveri, scheletri e altri resti umani avvolti in sudici sudari.

“Che schifo” mormorò guardandosi attorno in quel luogo spettrale. Una passeggiata nel mondo dei morti gli mancava, considerò incamminandosi.

Attraversò il passaggio segreto il più velocemente possibile, rischiando anche di cadere, inciampando in un femore rotolato da chissà dove, probabilmente spostato da qualche sorcio. Alla fine si trovò davanti ad una porta di legno.

Sperando che non fosse serrata cercò di aprirla. La porta si spalancò e lui uscì da quel corridoio di morte. Poteva tornare a respirare.

Vide le feritoie dalle quali si poteva guardare la luna, le fiaccole accese lungo i muri, le colonne in pietra che sorreggevano il soffitto. Comprese di trovarsi all’interno dell’obitorio, dentro al castello.

Ma non ebbe il tempo di riflettere, né la possibilità di abbandonarsi ai ricordi. Non era solo in quella stanza.

Seduti ad un tavolo due soldati della guardia stavano giocando a carte. Quando lo videro uscire dal passaggio che portava al cimitero rimasero sgomenti: aveva la torcia in mano, il camice bianco, la faccia da pazzo e i capelli sporchi di sangue.

“Che mi venga un colpo” balbettò uno dei soldati, “hanno portato al cimitero un uomo ancora vivo!”

“Come è possibile?” disse l’altro, “lì dentro non entra nessuno da almeno sei giorni.”

“Grande Giove!” esclamò il primo deglutendo, “allora quello è un fottuto fantasma.”

“Oppure uno degli esperimenti del dottor Sadico” aggiunse l’altro. “Ho sentito dire che ha inventato una tecnica per rianimare i morti.”

Investigato sogghignò. Aveva un aspetto selvaggio. Il suo volto sembrava il muso di una fiera feroce poco prima di serrare le sue fauci affamate sulla preda inerme.

“E adesso cosa facciamo?” chiese il soldato più giovane tremando dalla paura.

“Spariamogli alla testa” disse l’altro aprendo la fondina e cercando di estrarre la pistola. Indossava una divisa da caporale.

Investigato doveva impedire che sparassero, gettò la torcia a terra e andò all’attacco armato di pugnale. Il piede ferito faceva ancora male, e si spostava zoppicando. Ma i suoi movimenti erano ugualmente rapidi e riuscì a disarmare la sentinella prima che potesse premere il grilletto. Iniziarono a lottare furiosamente. Investigato era indebolito, e si sosteneva con la forza della disperazione.

“Ammazza questa lurida canaglia!” urlò il caporale cercando di bloccare un fendente. Ma il soldato giovane non si mosse, era paralizzato, i suoi occhi luccicavano di paura.

Investigato colpì il caporale e il sangue schizzò fuori dal petto sfregiato. Era una ferita superficiale. Aveva avuto fortuna, ma la prossima volta sarebbe morto, pensò osservando il nemico indietreggiare con la faccia cisposa deformata dal dolore.

Alla vista del sangue il soldato giovane si risvegliò dal torpore, e come spinto da una forza invisibile afferrò il suo pugnale e aggredì Investigato alle spalle.

La lama affondò nelle carni, e lui lanciò un bestiale urlo di dolore.

Si girò barcollando sulle gambe spossate, il pugnale era rimasto conficcato nella spalla e faceva un male infernale. Vide il giovane soldato che portava le mani alla fondina: stava per prendere la sua pistola.

Investigato sentì la testa girare, la stanza intorno a sé si muoveva come una giostra ammattita, e pensò di aver compromesso la possibilità di centrare il suo obbiettivo. Un forte senso di nausea gli stinse lo stomaco, e con la coda dell’occhio scorse il caporale avvicinarsi per dare il colpo di grazia.

“Ora ti spedirò all’inferno, marrano” urlò prima di iniziare l’ultimo affondo. Investigato udì quelle grida stridule e si spostò di lato giusto in tempo per evitare una coltellata che gli avrebbe reciso il collo.

Doveva reagire, si disse, e mentre il caporale si voltava per tornare all’attacco, riuscì a trafiggergli il ventre con un fendente micidiale. L’uomo colpito a morte stramazzò a terra agonizzante, con il pugnale piantato in pancia.

“Crepa con tutto comodo” gli sibilò, cercando di togliersi la lama che aveva infilzata nella spalla.

Il soldato più giovane, intanto, aveva impugnato la sua pistola ed ora lo teneva sotto tiro.

“Avanti, facciamola finita, premi quel grilletto!” esclamò Investigato in tono di sfida. Si rese conto che il suo piano era fallito, ed era pronto a pagarne le conseguenze.

Il giovane soldato però esitò ancora, pensava che avrebbe dovuto arrestarlo, ma credendo che fosse un morto vivente non sapeva come fare.

Investigato lesse l’incertezza nei suoi occhi e decise di approfittarne. Che sciocco, quel giovanotto non ha il coraggio per sparare, pensò, mentre si sfilava il pugnale dalle carni, emettendo un pietoso lamento di dolore.

Il soldato lo guardò a bocca aperta, non aveva mai visto nulla di simile prima di allora. Un fiotto disgustoso di sangue zampillò dal corpo martoriato dell’agente Investigato.

Quello non ebbe il tempo di sparare, lui gli lanciò il coltello in faccia, e lo trafisse in piena fronte sfondandogli il cranio. Anche la seconda sentinella cadde sul pavimento privata della vita.

Se i due soldati avessero combattuto coordinando i loro attacchi lo avrebbero sopraffatto facilmente. Invece il più giovane era rimasto a lungo immobile, senza prendere alcuna iniziativa. Questo imperdonabile errore gli aveva permesso di eliminarli uno alla volta.

Non era stato sparato un solo colpo. Poteva ancora terminare la sua missione, e lo ripeteva tra sé come un mantra. Dopo aver estratto il pugnale dalla pancia del caporale moribondo, si avviò zoppicando verso il fondo della stanza, dove cominciò a minare le fondamenta del castello con tutto l’esplosivo al plastico che aveva nello zaino.

Appena ebbe finito, accese la miccia e si infilò di gran lena nel passaggio che conduceva sino al camposanto. Quando uscì dalla botola, come in un racconto horror in un cimitero, fu investito da un rombo assordante e una nuvola di polvere, macerie e colori lo avvolse sin quasi a sommergerlo.

A causa dell’esplosione, il castello era crollato collassando su sé stesso, tutte le persone che vi erano all’interno erano certamente morte.

“Quella vigliacca di mia moglie impara a mettermi le corna” commentò Investigato scrollandosi la polvere di dosso.

Lei era l’amante del maggiordomo del castello, e da quel momento sarebbe rimasta con lui, sotto le macerie, per sempre.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com

Il gatto grigio di Stadera

Gatto grigio

Photo by Pixabay on Pexels.com

 

Una bella domenica d’inizio estate, quando la guerra era ancora lontana, Sandrino portò la sua bella in gita fuori città. La caricò sulla sua bicicletta e pedalando di buona lena, in mezza giornata raggiunsero il fiume Po.

Lei era bella, dentro un vestitino di cotone bianco che a stento conteneva le sue grazie, con i capelli sciolti e al vento, ed un fiore infilato dietro l’orecchio.

Passarono delle ore felici, leggendo brevi racconti e combattendo la calura grazie alla brezza trasportata dalle acque e l’ombra della vegetazione florida. Alice era euforica, tutta la giornata Sandrino si sarebbe dedicato a lei, e a lei soltanto. Ma quando il cuore è gonfio di emozioni, non si riesce a essere lucidi con la mente, e così Alice non si rese conto del pericolo che si avvicinava. Da par suo, lui era troppo distratto dalla bellezza del paesaggio per prestare attenzione a quel grosso gattone grigio che sbucato fuori dal bosco come se venisse dal nulla si era avvicinato loro con passo felino e facendo le fusa. Assomigliava al gatto grigio della zia di Sandrino che abitava a Stadera, una frazione di Nibbiano, un comune della Val Tidone ubicato a pochi chilometri da quei luoghi.

Gli occhi dell’animale erano astuti, il suo pelo liscio e lucente lo faceva apparire innocuo, e per tanto fu accolto con favore, accarezzato, coccolato. I due giovani ancora sull’orlo della vita, non capirono che era quello il tempo del lupo anche se si palesava sotto forma di gatto. Sarebbe stato loro concesso di sottrarsi alla forza del destino nell’ora del fato avverso?

Prima del tramonto, quando ancora qualche nuvola leggere rotolava serafica nel cielo di quel tardo pomeriggio estivo, e mentre i due amanti erano ancora distesi sulla riva del grande fiume, il gattone allungò le zampe sulle gambe di Sandrino e gli artigliò le carni.

Il giovane comunista reagì con rabbia scomposta all’improvviso dolore. Con un pugno furioso cercò di offenderlo, ma quello era un gatto, e con un agile salto evitò il colpo.

I graffi nella gamba di Sandrino erano profondi e sanguinavano. Lui ora si era alzato in piedi accecato dall’ira, con un gran desiderio che gli montava dentro di acchiappare il gattone e farlo a pezzi. Il suo volto abitualmente così bello e perfetto si era in pochi attimi imbruttito, come inghiottito da un ghigno. Uno di quei ghigni cattivi, che gli attraversò la faccia dagli occhi alle labbra in un lampo di crudeltà.

Alice si sentì turbata, mai aveva visto il suo amato comportarsi in tal modo, mai prima di allora aveva visto quella rabbia latente che infestava gran parte del mondo farsi palpabile, rendersi visibile plasticamente scolpita su di una faccia. E quella faccia ora ribolliva in attesa di esplodere, ed era la faccia dell’uomo di cui lei si era innamorata.

Sandrino cercò di avventarsi sopra alla bestiola, e la reazione del gattone fu immediata. Di fronte al comunista bellicoso, il felino si era allungato e aveva irrigidito le zampe, allontanandosi quanto più possibile dal terreno. Per fare questo aveva inarcato la schiena, ingobbendosi come fosse di gomma fino ad assumere la forma di una “U” rovesciata. La coda si era eretta e i muscoli erano scattati facendo alzare anche i peli, trasformando tutto il mantello in una specie di spazzola. Gli occhi si erano spalancati, le pupille dilatate e la bocca aperta in un soffio bestiale, mentre le guance gonfie si allargavano come due piccoli mantici.

Il risultato di questa trasformazione era impressionante ed ora il gattone appariva ancora più grosso. Per esaltare questa illusione si era messo di sbieco e si muoveva mantenendo sempre la stessa posizione, nascondendo le sue reali dimensioni per sembrare anche più robusto e quindi più pericoloso.

Ma il giovane non si era fatto intimidire e caricato un gran destro tentò di calciare la bestiaccia come fosse una palla.

Tuttavia non ebbe fortuna, il gatto si scansò di lato e Sandrino, sbilanciatosi, perse l’equilibrio scivolando all’indietro e franando rovinosamente a terra. Nell’urto terribile si procurò una frattura multipla e scomposta delle ossa dell’avambraccio destro.

Le sordide imprecazioni che a quel punto proruppero dalla bocca del giovane sono irriferibili. Esse gorgogliarono senza sosta per molti minuti come le acque nere e putride di una cloaca in piena. E la violenza e l’impeto furono tali che Alice avvampò dalla vergogna.

Il Gattone era intanto scomparso nel bosco così come dal bosco era venuto, lasciando i due giovani soli.

Tutto intorno a loro era adesso pace e tranquillità, e la natura dominava inalterata il paesaggio circostante. Nell’aria dell’ultimo sole, Sandrino si sentì depresso come se del respiro del mondo non avesse ancora capito nulla. Guardò allora dentro agli occhi buoni di Alice ed iniziò a piangere.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com

L’alchimista della Val Tidone

 

Acacio Rovinati, da tutti conosciuto come l’alchimista della Val Tidone, si sollevò dal letto nel tardo pomeriggio, la testa gli scoppiava come dopo la peggiore delle sbornie e qualsiasi movimento facesse gli procurava dolore, come se fosse intrappolato in qualche racconto breve scritto da un malvagio scrittore.

Era nervoso, si condusse a forza sino al soggiorno e dal cassetto della scrivania tirò fuori una bottiglia di Scotch Whisky, riempì un bicchiere e ricominciò subito a bere. Si abbandonò sulla sedia dietro al tavolo e appoggiato allo schienale iniziò a domandarsi come fosse potuto accadere proprio a lui. Aveva fantasticato più di una volta di dover affrontare la morte per mano di qualche marito geloso, ma mai avrebbe immaginato di essere licenziato per aver sedotto la figlia di un generale dell’esercito.

Suonarono alla porta.

“Avanti, è aperto” urlò lui dal soggiorno.

Pur confuso per i postumi della sbornia riuscì a distinguere chiaramente i passi pesanti del visitatore che si avvicinava, poi alzò lo sguardo verso la porta e la vide.

Era la signora Elvira Birondisi, la padrona di casa, un’orrenda vecchia, mai stata moglie, inacidita e inesorabile.

“Siete indietro con l’affitto Rovinati, già di due settimane. Non penserete di farla franca senza pagare vero?”

Acacio non sapeva cosa rispondere, per un attimo, come si era già proposto di fare in passato, pensò di sedurre l’orribile arpia, ma, guardandola in faccia per alcuni secondi, abbandonò l’idea turbato dall’incredibile bruttezza di quella figura.

La Birondisi indossava un’improbabile abito di stoffa a tinta unita color carta da zucchero, la linea del busto aderente metteva in risalto i fianchi sfatti e abbondanti, il soprabito elegante e le piume di struzzo le davano un tono grottesco.

“Cosa succede Rovinati? Il gatto Vi ha mangiato la lingua? Esigo di avere ciò che mi spetta, come intendete giustificare il Vostro imbarazzante ritardo?”

Sembrava che la donna non avesse fatto alcun caso al volto sconvolto di Acacio che alla fine, dopo un lungo silenzio, replicò:

“Signora Elvira, dovrete perdonarmi, questo mese ho avuto alcune impreviste difficoltà, ma salderò il mio debito quanto prima, è mia ferma intenzione farlo” disse barcollando nel tentativo di alzarsi dalla sedia.

“L’unica Vostra fermezza consiste nell’abusare dell’alcol. Guardate come Vi siete ridotto, fate ribrezzo. O Vi decidete a pagarmi entro la settimana o Vi sbatterò fuori!”

Lui non poteva confessare quale fosse la reale causa dell’improvviso dissesto finanziario, cercò allora, ma senza successo, di imbonire la padrona di casa millantando una serie di poco credibili spese straordinarie cui era stato costretto.

“Non credo ad una sola delle stupidaggini che mi avete raccontato. Siete solo un pagliaccio. Dovreste ambire ad un più rispettabile decoro. Ma, evidentemente, non avete alcuna cognizione dei vostri limiti e siete solo un vecchio ubriacone.”

La signora Birondisi se ne andò senza lasciare il tempo per una qualunque replica, che comunque Acacio non era più in grado di elaborare. La visita di quella vecchia malvagia aveva aggiunto altro sale alla ferita. Doveva in qualche modo far fronte ai debiti che aveva accumulato, doveva trovarsi in fretta un nuovo lavoro, altrimenti si sarebbe trovato in mezzo ad una strada.

Andò al cesso e vomitò. Poi si fece un bagno caldo nel tentativo di ritemprarsi. Servì a poco.

Asciugatosi indossò biancheria e abiti puliti. Desiderava distrarsi dai suoi problemi, ma il whisky era finito. Si preparò la pipa seduto alla sua scrivania. Rimase seduto a meditare per diversi minuti lisciandosi la lunga barba grigia, poi sentì il bisogno di bere e decise di uscire.

Un po’ d’aria fresca e la brezza della sera gli avrebbero fatto bene, pensò. Si incamminò lungo la via principale del suo paese, la ridente cittadina di Borgonovo Val Tidone. Dopo un centinaio di metri entrò nella locanda Il Gatto Nero, una bettola di provincia dove gli facevano ancora credito e dove era solito ubriacarsi in compagnia di altri disperati ai margini della società: barboni, prostitute, fannulloni senza un fisso lavoro.

Tutti gli abituali avventori di quella taverna lo conoscevano: per via dei suoi vestiti stravaganti e del parlar forbito. Non poteva certo passare inosservato.

Appena fu arrivato, la signorina Marianna, vedendogli il volto solcato dalle occhiaie, gli si fece incontro interessandosi per la sua salute, una parentesi di umanità che gli offrì conforto.

“O mio Dio, cosa Vi è successo signor Acacio, avete un aspetto terribile” disse premurosa la figlia dell’oste.

Marianna era giovane e graziosa, dai lunghi capelli nero corvino e il corpo ben fatto. Non somigliava per nulla al padre, un omone enorme, più simile ad una scimmia gigantesca che ad un essere umano. I maligni sparlavano alle sue spalle sostenendo che il vero padre della bella ragazza fosse un altro.

“Andateci piano con quella roba” finse di lamentarsi Acacio, mentre la giovane donna gli riempiva un piatto di pisarei fumanti e profumati.

“Chi Vi ha ridotto in questo modo?” si interessò uno dei vecchi ubriaconi seduti al tavolo vicino.

Lui non rispose, iniziando a mangiare in silenzio.

L’oste era intento a mescere il vino ed anche Rovinati, che non desiderava altro, ebbe la sua dose. Non era un gran che bere, ma in quello stato faceva pure poca differenza. La figlia continuava intanto ad occuparsi dei clienti servendo la cena a chi l’aveva ordinata. Era brava, ormai in età da marito e con numerosi pretendenti.

Lo stesso Acacio non era rimasto insensibile alle grazie dell’attraente Marianna, ma la mole poderosa del padre, vero o presunto che fosse, lo aveva sempre indotto a miti consigli, e anche da ubriaco non aveva mai osato insidiarla.

I minuti passavano veloci al Gatto Nero e il Rovinati se ne stava seduto in un angolo con il fiasco di vino aperto e la pipa in bocca: beveva, fumava, si grattava la barba e pensava alle sue disgrazie, dando di tanto in tanto un occhiata furtiva alle gambe della figlia dell’oste, che lo ricambiava con sguardi ingenui ed innocenti.

Verso la mezzanotte una donna si sedette al suo tavolo. Si faceva chiamare Romualda e praticava il mestiere più antico del mondo.

“Salve Bambolo” disse, “Volete fare quattro salti? Mi sembrate un po’ giù di corda, ma io saprei bene come farvi risollevare” continuò con tono ammiccante.

“Mi spiace tesoro, non ho più un soldo, la sorte oggi mi è avversa” rispose triste Acacio.

“Oh, poverino, come mi dispiace” aggiunse lei senza troppa convinzione, accendendosi una sigaretta.

Mostrava più dei suoi anni, le labbra erano carnose e ricoperte da uno spesso strato di rossetto, i fianchi e il petto ben forniti. Sapeva come fare il suo lavoro, ed in passato il Rovinati aveva con soddisfazione fruito dei suoi servizi. Non era un gran che bella, ma si capiva che ci metteva impegno, e questo a lui era piaciuto. Gli piaceva sempre quando una donna ci metteva passione, quale che fosse il motivo per cui decideva di darsi: per noia o per capriccio, per denaro o per amore.

“Al massimo posso offrirti un calice di barbera” biascicò Acacio.

“Be’ piuttosto che niente, meglio il vino, amico sincero e generoso” sorrise lei.

Bevvero insieme augurandosi fortuna l’un l’altra e si fece notte fonda. L’osteria andava svuotandosi e ciascuno degli avventori tornava alle sue miserie. Anche Acacio salutò Romualda, l’oste e i pochi clienti rimasti. Malfermo sulle gambe rincasò barcollante. Una decente dormita, ragionò con un lampo di residua lucidità, gli avrebbe certamente giovato, e l’indomani poteva ancora pianificare il da farsi per aggiustare i pasticci nei quali si era venuto a trovare.

Si svegliò tardi, quasi a mezzodì. Andò in bagno ed espletò le incombenze del caso, vomitò un po’ di sangue. Aveva fame.  In cucina aprì la credenza e si fece un grappino, tanto per cominciare.

Si accorse di non essere solo, dei colpi sordi provenivano dal soggiorno, come se qualcuno stesse bussando sui vetri delle finestre. La faccenda gli parve strana, perché il suo appartamento era al secondo piano e non aveva balconi. Si avvicinò silenzioso attraversando il corridoio, i colpi sul vetro non calavano di intensità. Iniziò a sudare freddo e a preoccuparsi, sbirciò nel soggiorno dallo stipite della porta, per non essere visto.

Imprecò per la rabbia quando realizzò che si trattava solo di uno stupido gatto, entrato chissà quando e da chissà dove, probabilmente durante la notte. Nel tentativo di acchiappare la dannata bestiaccia rimediò pure dei graffi profondi sulle braccia, ma alla fine il detestabile felino sgattaiolò fuori dalla porta d’ingresso. Acacio la chiuse e tornò in cucina per un secondo grappino.

Consumò un pasto semplice e solitario riflettendo sulle possibili opzioni a sua disposizione. Non poteva espatriare perché gli mancava il denaro necessario, emigrare era dunque impensabile e del resto non avrebbe avuto alcun senso, l’Europa era sconvolta da una nuova guerra, e lasciare il paese era diventato complicato. C’era comunque il problema dei debiti e dell’affitto. Concluse quindi che gli servivano dei soldi, molti e in fretta. Si immaginò di rapinare una banca o di rubare in casa di qualche ricca signora, di quelle che aveva corteggiato nel passato. Tuttavia valutò che l’impresa fosse troppo rischiosa e lo esponesse inoltre al pericolo di essere arrestato.

Aprì le finestre del suo studio, facendo entrare l’aria fresca della primavera, auspicando di trovare una soluzione. Si sentì un po’ meglio, ma nessuna buona idea parve attraversargli il cervello. Si abbandonò sulla sua poltrona, le ferite provocate dai graffi del fottuto gattaccio bruciavano, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Rimase a lungo seduto, rimuginando sul proprio destino e senza toccare bicchiere per diverse ore. Osservava le persone passeggiare lungo la via sotto casa e ne provava ribrezzo: la gente non gli piaceva, nemmeno gli animali gli piacevano, forse soltanto le piante gli andavano a genio, ma nemmeno di questo era sicuro. Aveva sempre guardato con simpatia agli uomini del passato, e pensava che la modernità non facesse al caso suo. Era nato nell’epoca sbagliata e i suoi guai derivano forse da questo dispetto comminatogli dal fato, cinico e baro.

Quando il sole fu tramontato e le stelle si alzarono alte nel cielo, tutte le luci si spensero per via dell’oscuramento, e Acacio accese la lampada da tavolo che teneva sulla sua scrivania. Poi si alzò per chiudere le finestre.

Il gran buio fuori dalla casa pesava, copriva ogni cosa e lui cominciò ad avere brutti presentimenti.

Proprio in quel momento tre uomini vestiti di nero entrarono nel portone del suo palazzo e salirono svelti le scale. Alcuni secondi dopo, mentre Acacio Rovinati era ancora assorto nei suoi pensieri, un frastuono improvviso lo fece sobbalzare. Si alzò spaventato ed uscì dal soggiorno per dirigersi verso l’ingresso, da dove aveva sentito provenire il rumore. Giunto in anticamera notò che la porta dell’appartamento era socchiusa. Gli sembrò un indizio sinistro. Trattenne il respiro ma non successe nulla, intorno a lui ora c’era solo silenzio. La luce in anticamera si accese quando premette l’interruttore. Vide che la porta d’ingresso era stata forzata e un brivido gli attraversò la schiena. Ispezionò con cautela la cucina, ma non vi era nessuno. Senza sentirsi per questo sollevato si diresse nuovamente in soggiorno, guadagnò la scrivania per afferrare il tagliacarte, ma fu pietrificato da delle parole che lo fecero paralizzare.

“Buona sera Rovinati, fossi in voi lascerei stare quell’oggetto contundente, potreste anche farvi male” disse una voce calma e impostata.

Acacio si voltò e rimase sorpreso. Sprofondato nella poltrona collocata nell’angolo dello studio tra la libreria e la finestra, con le braccia mollemente adagiate sui braccioli, sedeva un ragazzo. Vestito sobriamente in nero indossava la divisa della milizia fascista, portava un paio di baffi tagliati corti per sembrare più vecchio, ma era sulla trentina, con due profondi occhi scuri e la carnagione bianca.

“Chi siete?” chiese il Rovinati confuso, mentre altri due tipacci con le facce orrende apparvero sulla porta, bloccando l’unica via di fuga.

“Sono il capitano Renzo Mattei dell’OVRA, la polizia segreta, e sono venuto a prendervi.”

Acacio si lasciò cadere incredulo e senza fiato sulla sedia della scrivania, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi terrorizzato, restando in silenzio per alcuni secondi. Mille pensieri si affollarono nella sua mente in quel momento terribile. Cosa poteva volere da lui la polizia politica del regime? Erano venuti ad arrestarlo? Cosa diavolo aveva combinato per finire in un simile guaio? Possibile che il generale a cui aveva sedotto la figlia fosse a tal punto incarognito da non accontentarsi di averlo fatto licenziare?

“Cosa volete?” fu l’unica cosa che riuscì a dire, con la voce tremante.

“Ve l’ho appena detto Rovinati, siamo venuti a prendervi” replicò il giovane senza scomporsi, con la bocca piegata in un ghigno crudele.

“Perché? Io non ho fatto niente” protestò timidamente Acacio.

“Questi sono gli ordini che ho ricevuto” disse il giovane con indifferenza.

“Ho il diritto di sapere per quale ragione volete arrestarmi. Non so nemmeno di cosa sono accusato.”

“Le questioni che ignorate sono infinite mio caro Rovinati, diciamo pure che non sapete proprio nulla. Ma non dovete agitarvi, non siamo qui per arrestarvi, altrimenti lo avremmo già fatto.”

Acacio era ora ancora più confuso, volevano portarlo via, ma senza arrestarlo, forse che quel giovane si stesse prendendo gioco di lui?

“Se mi rifiutassi di venire con Voi?” chiese allora, cercando di darsi coraggio.

“Non potete rifiutarvi” fu la laconica risposta.

“Dite che non mi state arrestando, ma non posso rifiutarmi di venire con Voi. Se non è un arresto dunque, Voi come lo chiamate?” obiettò Acacio.

“Lo chiamiamo accompagnamento coatto, mi stupisco che non lo sappiate” disse il capitano con tono sarcastico.

“E di grazia, potrei sapere dove volete portarmi e per quale ragione?”

“Siete stato scelto” iniziò a spiegare il capitano, “perché a Roma pensano di potervi utilizzare come informatore.”

“A Roma si stanno grossolanamente sbagliando, non sono per nulla portato alla delazione, trovo sia un’attività ignobile” si lamentò Acacio, offeso.

“Temo abbiate equivocato il significato di informatore. Sono richieste le Vostre competenze per contribuire allo nostro sforzo bellico” disse Mattei sorridendo in modo ironico.

Acacio si irrigidì, gli veniva prospettato qualcosa di assolutamente inaspettato.

“Ma io sono solo un vecchio, come posso essere utile allo sforzo bellico?” domandò dopo l’iniziale esitazione.

“Sappiamo tutto Rovinati. La nostra organizzazione tutto deve sapere e conoscere, così vanno le cose di questi tempi e non esiste modo per sfuggire questo destino. Voi non siete un semplice vecchio. C’è anche dell’altro… ”

Acacio non sapeva cosa dire, si sentiva intimidito, vulnerabile, non capiva a cosa Mattei si stesse riferendo e rimase in silenzio.

“Si tratta delle Vostre competenze nel campo della filosofia e della storia di quella dottrina nota con il nome di alchimia. Secondo le nostre informazioni siete tra i massimi esperti del Regno in questa materia” concluse il giovane ufficiale dell’OVRA.

Rovinati sorrise, era onorato da tanta considerazione, ma allo stesso tempo si preoccupò anche più di prima. Come era possibile che la polizia segreta si interessasse all’alchimia? Per quale ragione erano a conoscenza dei suoi studi su questa antica disciplina? E soprattutto come intendevano servirsene?  Tutte queste domande si affastellarono nella sua mente sconvolta come sacchi di sabbia lungo l’argine di un fiume in piena. Cercò di guadagnare tempo, per riflettere.

“Io non so nulla di utile in merito all’arte alchemica, ho solo letto qualche vecchio libro e nulla di più” cercò di sminuirsi. In realtà aveva dedicato alla materia gran parte della propria vita. Aveva anche pubblicato, usando uno pseudonimo, molti articoli su riviste come Atanor o Ignis prima che venissero soppresse[1], e che evidentemente non erano sfuggiti all’attenzione dei pignoli funzionari dell’OVRA.

“La vostra falsa modestia è in questo caso fuori luogo Rovinati, nell’ambiente sanno tutti della Vostra passione per questioni esoteriche, occultismo, alchimia e altro ciarpame annesso e connesso. Personalmente non nutro alcuna fiducia in questo genere di ricerche, retaggio di superstizioni medioevali o prodotto di ridicole congetture oscurantiste, ma io ho dei superiori e devo eseguire degli ordini. Diciamo che qualcuno ai piani alti ritiene che questo tipo di immondizia possa avere una qualche utilità.”

Acacio non disse nulla, osservò Mattei senza commentare, scrutando a lungo quel volto dai lineamenti fanciulleschi, così almeno gli sembravano nella penombra dello studio, scarsamente illuminato dalla lampada collocata sulla sua scrivania. Fece un profondo sospiro poi disse ispirato: “Secondo l’insegnamento dei loro predecessori, gli alchimisti di oggi devono ricordare che solo uomini dal cuore puro e dalle intenzioni elevate possono dedicarsi a questa antichissima disciplina. Continuo a dubitare che le informazioni di cui dispongo possano servirvi.”

“Concordo intimamente con quanto mi dite Rovinati, ma a Roma hanno una opinione differente e la mia missione è solo quella di portarvi sino alla capitale.”

Acacio scosse il capo con disappunto sfidando il suo giovane interlocutore: “Se mi rifiutassi di collaborare potreste fallire la Vostra missione dunque. Una prospettiva che forse non avete adeguatamente considerato.”

“Se credete che il marito tradito possa evirandosi dare la giusta punizione alla moglie infedele, allora potete anche immaginare di non assecondare la mia volontà. Ma diciamo che non credo siate così stupido. In fondo non avete scelta. Con le buone o con le cattive, Voi verrete via con me.”

“Parliamo della mia ricompensa allora, voglio sperare non Vi aspettiate che io accetti senza un’adeguata remunerazione.”

“Posso garantirvi la massima soddisfazione sotto questo profilo” annui Mattei allungandogli una busta.

“E’ solo un anticipo una tantum, in contanti ed esentasse. Servire la Patria può essere un affare assai soddisfacente” disse il fascista, con fare compiaciuto.

Acacio impiegò diversi secondi per contare il denaro contenuto nella busta, corrispondeva ad almeno tre mensilità del suo vecchio lavoro. Con quei denari avrebbe tenuto tranquilla la Birondisi. Forse poteva anche cavarsela a buon mercato, imbrogliando qualche alto gerarca con storie misteriose su antiche civiltà e oscuri presagi. Forse tutta quella storia non sarebbe stata poi tanto pericolosa, pensò prendendo coraggio.

“E quando dovremmo partire?” domandò ingenuamente.

“Prepari le valige Rovinati, una macchina è già qui sotto che ci sta aspettando” rispose il capitano Mattei con un ghigno soddisfatto che gli illuminò il volto.

Acacio si recò meccanicamente nelle propria camera da letto e rassegnato raccolse i pochi effetti personali che gli permisero di portar via. Scrisse sotto dettatura due lettere per spiegare le ragioni della sua improvvisa partenza: una per la governante e una per la signora Birondisi. Fu costretto a lasciare quasi tutti i soldi che poco prima gli erano stati consegnati, in quel modo avrebbe pagato gli arretrati e anticipato i prossimi mesi dell’affitto. Gli fu fatto scrivere che si stava trasferendo a Roma per svolgere una consulenza presso il Ministero della Cultura Popolare. Così avrebbe iniziato la sua nuova attività sotto copertura. Con qualche telefonata e cartolina, avrebbe in seguito avvisato i pochi amici.

Era buio da parecchio tempo, quando il capitano Mattei, gli sgherri ai suoi ordini e Rovinati uscirono silenziosamente dal palazzo. Una volta in strada montarono a bordo di una Fiat Balilla nera dell’OVRA, parcheggiata davanti al portone d’ingresso. Il tipaccio più alto sedette al posto di guida. Mattei senza manifestare alcuna emozione sedette davanti, cinicamente distaccato. Acacio e l’altro agente salirono dietro. Nessuno parlò. La macchina  partì e si diresse lentamente verso la stazione di Piacenza. I fari erano coperti con le mascherine per via dell’oscuramento e il viaggio richiese più tempo di quanto il lui si aspettasse.

Durante tutto il tragitto non fece altro che pensare a questa nuova e inaspettata svolta nella sua vita. In fin dei conti poteva anche essere considerato un colpo di fortuna, un modo come un altro per mettere insieme i denari di cui aveva bisogno per pagare i suoi debiti. La città eterna inoltre era bellissima, nel tempo libero non avrebbe certo corso il rischio di annoiarsi.

Quando finalmente arrivarono a destinazione, giusto in tempo per prendere l’ultimo treno notturno per Roma, Acacio cercò di raccogliere qualche nuova informazione.

“Chi dovrò incontrare di tanto importante da dover fare tutto così di corsa e all’improvviso?”

Mattei si fece scuro in volto. Sembrava disturbato dalla domanda.

“Lo scoprirete domani, che fretta avete?” disse con voce contrita.

Acacio percepì nell’atteggiamento di Mattei qualcosa di strano, per un attimo pensò che potesse addirittura essere invidia. Ma sapeva che non poteva avere senso. Tuttavia era curioso e provò ancora a stuzzicare il giovane ufficiale.

“Cosa succede? Avete paura che io possa cambiare idea e cercare di scappare durante la notte?”

“No” rispose il capitano con freddezza, “non avete scelta. Dovete venire a Roma, perché il Duce vuole vedervi.”

L’alchimista della Val Tidone Acacio Rovinati rimase di sasso. La guerra era iniziata da tre giorni, la polizia segreta lo aveva preso in custodia per condurlo a Roma con accompagnamento coatto, e Mussolini in persona voleva incontrarlo. In quel momento gli tornarono alla mente le parole di Papa Pio XII: “Nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra.” E la guerra di Acacio con la vita e con i suoi guai era appena cominciata.


[1] Atanor è una storica casa editrice italiana specializzata in esoterismo. Nella prima meta del Novecento, la casa editrice diede alle stampe le riviste Atanòr e Ignis, considerate le più note rassegne del secolo passato dedicate agli studi tradizionali e iniziatici.

Chiusa nel 1926 a seguito delle leggi contro la Massoneria, le edizioni Atanòr riaprirono dopo il 1945.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013racconti-brevi.com

La strage di Calendasco

 

Fulgenzio ed Alice furono massacrati una sera di mezza estate in quella che è passata alle cronache come la strage di Calendasco. Si erano conosciuti sin dall’infanzia perché lei, figlia di poveri braccianti agricoli, viveva in una miseranda casa attigua alla dimora padronale dove viveva Fulgenzio, in quel di Calendasco, un borgo piacentino abitato in quel tempo da poco meno di quattromila anime. E nel cortile della grande cascina i figli dei ricchi padroni e quelli dei miseri contadini potevano mischiarsi. I primi senza eccezione curati e ben vestiti, i secondi spesso trasandati e sempre con umili indumenti, ma nell’innocenza della loro fanciullezza, quelle non erano ancora barriere che potessero separare gli uni da gli altri. Con il sopraggiungere dell’adolescenza e gli iniziali rudimenti dell’educazione, i due giovani avevano imparato presto che, secondo gli usi del tempo, le proprie vite erano destinate a non doversi mai più incrociare. E per quanto la giovinetta fosse ben certa e consapevole di non poter anelar nemmeno in sogno alla compagnia del bel Fulgenzio, quest’ultimo, sin da allora di indole ribelle, non si rassegnava affatto a dover seguire i costumi, le regole e le consuetudini dell’epoca.

A dispetto delle aspettative del vecchio padre, che per il suo unico figlio maschio progettava un futuro a fianco di qualche fanciulla ricca e di buona famiglia, Fulgenzio si innamorò, contro ogni ragionevole previsione, proprio di quella umile e povera contadinella.

Da prima i due iniziarono con lo scambiarsi degli sguardi diversi da quelli che erano stati abituali durante i giochi dell’infanzia, poi anche il modo di parlare tra loro divenne diverso, nelle forme, ma soprattutto nei contenuti. Infine, una sera di fine estate all’inizio degli anni trenta, Fulgenzio si decise a prendere l’iniziativa, si appartò con la ragazza in un angolo buio della cascina, e dopo essersi dichiarato la baciò sulla bocca.

Lei arrossì per l’emozione, senza fiatare si aggrappò al collo del bel Fulgenzio e ne corrispose le attenzioni, incurante delle conseguenze. Per entrambi era quello il primo bacio, e segnò l’inizio di una storia d’amore appassionata e travolgente, che gli avrebbe legati a lungo contro ogni avversità.

E le tribolazioni per i giovani innamorati iniziarono subito. Per timore di dar scandalo si incontravano di nascosto, in qualche capanno in aperta campagna, o in altri luoghi lontani da occhi indiscreti. Il loro amore clandestino e segreto ebbe però vita breve, qualcuno un giorno li vide insieme e in un lampo la loro relazione divenne di pubblico dominio sino a giungere alle orecchie del vecchio padre di Fulgenzio.

Il genitore la prese molto male ed impazzì di rabbia. Mandò a chiamare il padre della ragazza e gli intimò di tener in casa la figlia scostumata, minacciando le più radicali rappresaglie se non fosse stato ubbidito. Quindi, dopo averlo convocato al suo cospetto, affrontò il figlio con le più scorbutiche intenzioni.

“Come hai osato gettare ombra sul rango della tua famiglia? Non sai tu che con quella pezzente non hai nulla da spartire né oggi né mai ne avrai in futuro?”  lo interrogò con il volto irrigidito dall’irritazione, con cipiglio minaccioso e con occhi severi, di quelli che non ammettono repliche.

“Padre, io amo quella giovane e la prenderò in sposa, mi rammarico che la cosa Vi sia sgradita, ma questo è il mio intendimento” rispose il giovane Fulgenzio arrossendo per l’emozione, ma dando prova di insospettabile fermezza e sfrontatezza, dinnanzi all’uomo che lo aveva sino a quel giorno considerato come una delle tante proprietà, delle quali poteva disporre a piacimento e senza render conto delle proprie decisioni.

“Maleducato!” esclamò il padre, indietreggiando due passi, tutto imbruttito per l’indignazione, e piantandogli in faccia due occhi inquisitori lo ammonì: “Sei senza creanza, e dunque è così che ora ti rivolgi al padre tuo? Ma stai ben certo che senza il mio consenso nessuna di queste tue malsane intemperanze potrai condurre a compimento. Faresti meglio a mettere giudizio in fretta o queste tue spalle da mascalzone conosceranno le carezze che ti sarai così maldestramente meritate!”

“Padre, io non temo la vostra ira e nemmeno le vostre punizioni” disse il giovane sommessamente, sapendo bene che rischiava di essere sonoramente legnato.

“Sono pronto a sopportare ogni violenza o privazione” proseguì sfidando l’autorità paterna, “ma nulla potrà dividermi dalla mia amata, e il mio destino sarà di unirmi a lei, che Voi lo vogliate oppure no!”

“Questo è troppo figlio sciagurato!” replicò il vecchio schiumando rabbia, “sapevo della tua indole ribelle, che si manifestò sin dall’infanzia, ma giungere a tanta irriverenza ed insolenza non è cosa che si possa lasciar passare come una qualunque marachella. Ora io mi pento di averti fatto parte delle antiche prerogative del nostro casato. Mi chiedo con terrore se un animo così indisciplinato ed un indole tanto poco rispettosa delle tradizioni, potranno mai consentirti di tener fede agli obblighi che il portare il tuo cognome comporta! Non voglio più vederti sino a quando non avrai riconsiderato i tuoi propositi.”

Il vecchio sembrava una belva in gabbia e si muoveva inquieto davanti lo scrittoio dello studio dove aveva ricevuto l’ingrato figlio. Ormai aveva deciso di allontanarlo, e così gli urlò indicando l’uscio con impeto furente: “Ora lasciami col mio dolore ed esci da questa casa!”

Fulgenzio, che era rimasto immobile col capo chino, rassegnato ad ascoltare in silenzio la rampogna del genitore irato, fu sulle prime colto alla sprovvista, non avendo preventivato di poter essere cacciato di casa. Ma dopo l’iniziale sbalordimento si riprese, e ostentando un orgoglio anche eccessivo, uscì da dove era venuto, e da quel giorno non fece più ritorno alla casa paterna né si riconciliò più con il burbero padre.

Nei suoi intendimenti Fulgenzio desiderava trasferirsi a Milano con la sua amata Alice. Ma quando lo venne a sapere Sandrino, un giovane attivista del locale partito comunista, fu l’inizio della fine.

Anche Sandrino amava Alice, e non poteva sopportare che lei gli preferisse un ricco, un borghese, un nemico del popolo.

Il giovane comunista aggredì la coppia appartata nelle campagne, ed assassinò Fulgenzio fracassandogli la testa a sassate. Alice cercò di impedirlo, con il solo risultato di beccarsi una coltellata nella pancia.

Fulgenzio ed Alice morirono assassinati nella strage di Calendasco, una sera di mezza estate.

Il duplice omicidio fu derubricato a delitto politico e Sandrino beneficiò dell’amnistia Togliatti, senza fare nemmeno un giorno di carcere.

 

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com

Comunisti assassini

Dai campi e dai poggi tutto intorno saliva un fresco odore di erba appena tagliata, mentre il sole della sera illuminava i sentieri e le mulattiere che si arrampicavano come edera su per le colline. Il palazzotto si ergeva austero ai piedi della scalinata che portava alla chiesa del borgo, e dominava il paesaggio. Era il secondo edificio per importanza, secondo solo al castello, che se ne stava abbarbicato sulla cima più alta, appoggiato alla chiesa.

Alice, Faustino e la sua famiglia, si erano da mesi stabiliti nel piccolo villaggio sui colli piacentini, avevano preso possesso delle stalle del palazzotto. Per non destare sospetti si erano presentati ai diffidenti abitanti del piccolo paese come i nuovi custodi, incaricati di rimettere in ordine l’edificio abbandonato e i campi incolti distribuiti lì intorno.

Per gli abitanti del piccolo borgo di confine tra oltre Po pavese e piacentino, l’arrivo di quei forestieri era stato un evento sin dal primo giorno. Ma anche alla metà di quel mese di giugno del 1940, con l’estate ormai alle porte e dopo quasi sei mesi dal loro arrivo, ogni movimento era attentamente monitorato da occhi instancabili e orecchie sempre all’erta.

Mentre il cielo si colorava di sangue, e le ultime ore di luce lasciavano lentamente il posto al buio della notte, la piazzetta del villaggio si andava animando. Le donne, dopo aver accudito le faccende di casa, scalze e vestite di cenci, con i capelli unti e arruffati, si incontravano davanti agli usci delle casupole. Alcune stendevano i panni, altre rammendavano, altre ancora spidocchiavano i figli. Tutte cicalavano delle più disparate questioni: chi del tempo, chi dei raccolti, chi sparlava di chi era assente o doveva ancora arrivare, chi diceva male di chi era appena andato via.

Gruppi di bambini chiassosi, si rincorrevano giocando nella piazza, seminudi e ricoperti di fango. Si lanciavano sassi, cacciavano lucertole, saltavano fossi. Le madri gli stavano dietro urlano improperi dall’alba al tramonto.

Alice, dopo una giornata nei campi, risaliva la strada sterrata che portava alla piazza, stanca e preoccupata, perché da molto tempo non riceveva notizie da Fulgenzio, sin dal giorno che si erano salutati davanti alla casa di Faustino a Milano. Camminava affaticata dal duro lavoro, e con il cuore gonfio d’angoscia, nella speranza di poter scoprire qualche notizia, magari appena giunta al villaggio con i giornali della sera, oppure per bocca di qualche mercante che era stato in città, raccogliendo testimonianze di prima mano.

Alice era una giovane donna timorata di Dio, istruita ed intelligente.

Aveva già saputo dello sfondamento dei tedeschi sul fronte occidentale. La capitolazione della Francia era data per certa un po’ da tutti, si trattava solo di capire quando questo sarebbe avvenuto. Un simile inatteso precipitare degli eventi le aveva dato ulteriore motivo di apprensione. Si chiedeva se Fulgenzio fosse mai arrivato a Parigi, oppure se avesse trovato scampo altrove. Si domandava con orrore cosa sarebbe accaduto se lo avessero arrestato i tedeschi. Aveva sentito raccontare cose orribili a proposito della gestapo, la polizia politica del Reich. Recitava un rosario tutte le sere, confidando nell’aiuto della Madonna e di Dio per superare quella terribile prova.

Quando arrivò sulla piazza, già cento occhi erano su di lei: le altre donne del villaggio la scrutavano, per loro era come una straniera.

Alice si era presentata come la sorella di Faustino, ma non erano poche quelle che in paese avevano avanzato il sospetto che non fosse la sua vera identità. Pettegolezzi rimasti latenti, ma mai dissipati del tutto, nonostante la giovane conducesse una vita irreprensibile totalmente dedicata al lavoro e alla fede. Partecipava a tutte le funzioni religiose del villaggio e si offriva sempre volontaria per tutte le opere di assistenza organizzate dalla parrocchia. Il suo stile di vita più simile a quello di una santa piuttosto che di una contadina, non era comunque bastato a superare la diffidenza degli abitanti del posto.

Entrò nella drogheria posta al centro della piazza, superando i tre scalini consunti dal tempo. Una megera dall’aspetto tremendo, con grosse labbra prominenti, il naso adunco e gli occhi stralunati, serviva alcune vecchie signore da dietro il bancone.

“La gente ha sempre paura” disse ad una delle sue clienti mentre Alice entrava nel negozio, “della fame, della malattia, della grandine, e adesso ci mancava pure la guerra.”

“La fame e la grandine ci portano la miseria, ma la guerra e la malattia ci portano via i figli” rispose una delle vecchie.

“I figli… i figli… di che vi lamentate Voi, che ne avete messi al mondo quindici?” disse la droghiera incartando la spesa in una busta, “credete a me, la miseria ne porta via più della guerra, perché arriva ovunque e non finisce mai. Guardate noi ad esempio, abbiamo della terra, ma non rende più nulla. Il vino che mio marito produce dalla vigna, se lo comprassimo al mercato ci costerebbe due volte di meno.”

“Dite bene, c’è la crisi, ne parlano tutti, e con la guerra va anche peggio, che ci daranno la tessera, guerra più miseria e stiamo tutti fregati” disse ancora la vecchia.

“E non è quello il peggio” si intromise un’altra signora, “la cosa più terribile sono le sciagure, che capitano tutte assieme ed una si porta dietro l’altra: la crisi porta la guerra che porta l’alluvione che porta la fame. E per noi povera gente non resta che affidarci alla Madonna, sperando che ci protegga almeno dal diavolo.”

Alice ascoltava quelle donne senza guardarle, teneva gli occhi fissi sul pavimento, un po’ per la sua indole umile, un po’ perché percepiva la diffidenza di quelle persone. I primi tempi ne aveva anche sofferto, ma in quel momento aveva altri pensieri per la testa. Voleva conoscere gli sviluppi della situazione bellica in Francia, sperava di ottenere qualche informazione che le consentisse di avere notizie sul destino di Fulgenzio.

E le novità che riuscì a scoprire scorrendo i titoli dei giornali in vendita le misero i brividi: Parigi era stata occupata. Le cadde l’occhio su di un pezzo del Popolo d’Italia, il quotidiano fondato da Mussolini. Nella colonna centrale il secondo articoletto titolava: “L’ingresso dei tedeschi a Parigi”. Alice iniziò a leggerlo con il cuore in gola. “Sulla cronaca dell’ingresso delle truppe di Hitler a Parigi si hanno finora pochi particolari. Alle 8 una colonna di carri armati e di fanteria motorizzata ha fatto il suo ingresso ufficiale a Parigi sulla quale volteggiavano vari stormì dell’Aviazione germanica. Le strade erano deserte. Tutti i negozi erano chiusi. Chiuse erano quasi tutte le finestre.

La sua lettura fu interrotta dalla voce stridula della terribile megera titolare del negozio: “Se vuoi leggere il giornale, signorina, ci vorrebbe prima che lo pagassi. Non siamo mica un ente di beneficenza noi. E nemmeno il dopolavoro del fascio. Se vuoi il giornale, mi dai 40 centesimi.”

Alice arrossì per la vergogna, era venuta apposta per comperare un giornale, stava solo guardando per scegliere quale prendere. Il Corriere della Sera era già andato esaurito quel giorno, così, senza dire una parola, tirò fuori di tasca il denaro e pagò. Si mise il giornale sotto braccio e uscì frettolosamente dalla drogheria, mentre le vecchie iniziavano già a riempire l’aria con odiosi commenti, senza nascondere la soddisfazione di aver finalmente colto in fallo la contadinella di pianura.

Lei tornava a passo svelto verso il palazzotto, i rurali rientravano nel borgo provenendo dalla campagna circostante. Si vedevano arrivare stanchi e cenciosi, affamati e piegati in avanti, avvezzi a quella postura per l’abitudine di lavorar la terra, assuefatti ad una vita di soggezione e servitù.

Alice notò che la gran parte si andava ammassando davanti alla locanda del paese, dinanzi alla scalinata che portava alla chiesa. Pian piano, uno ad uno, scomparivano dentro la stamberga. Pensando che vi si tenesse un qualche gran avvenimento, anche Alice si mise in fila per entrare.

“Presto, fate in fretta” diceva un giovane con al petto le insegne del partito fascista, “il podestà ha da fare delle comunicazioni alla cittadinanza, avanti, affrettatevi, prendete posto.”

“Ma io ho fame, ho lavorato tutto il giorno” protestò un rurale con la faccia color del cuoio, pochi capelli già colorati di grigio, la schiena gobba e le mani rovinate dalla fatica.

“Mangerete più tardi, dopo il discorso del podestà” disse il giovane con le insegne fasciste in tono sbrigativo, dando per scontato che il contadino gli avrebbe ubbidito. Il contadino eseguì il comando, e si mise in fila borbottando volgarità irriferibili.

Quando Alice entrò nella locanda si andò ad accovacciare in un angolo, sperando di passare inosservata. Nella trattoria erano adunati una cinquantina di straccioni, ammassati uno vicino all’altro, con gli occhi sottomessi e rassegnati. Le facce erano contorte, deformate dalla fame e dalle malattie. Una puzza intensa di letame e panni sporchi si sprigionava dal gruppo, inquinando l’aria.

Il podestà stava in piedi in fondo alla locanda, indossava la divisa della milizia e teneva le mani ai fianchi gonfiando il petto. Era un uomo di mezza età con i capelli tagliati corti. Sul volto un’espressione fiera non bastava a celare l’aria stupida. Occhi vuoti e senz’anima galleggiavano su di una faccia di cera.

“Cittadini, Camice nere, Uomini e donne del borgo e della valle… ascoltate…” cominciò il suo comizio con aria enfatica, “un altro giorno di importanza storica mondiale volge al termine, mentre le eroiche truppe dell’asse avanzano vittoriose su tutti i fronti…”

La gente ascoltava senza interesse, le vittorie conseguite dal regime avevano raramente portato concreti benefici ai lavoratori di quelle valli, ed essi si erano assuefatti al proselitismo dei funzionari di partito, che iniziavano ormai a perdere di mordente, incapaci di dare risposte concrete ai loro veri problemi.

Anche Alice, ascoltando la bolsa retorica del podestà, rimase indifferente. Per la testa le passarono come al cinematografo le immagini della propaganda: le battaglie del grano e di “quota 90”, la creazione dell’Impero, la guerra di Spagna e l’annessione dell’Albania. Tutti i successi del fascismo le sembrarono indigesti, il prezzo da pagare troppo alto, ora che la sua stessa libertà era in gioco, adesso che aveva sul collo il fiato della polizia segreta, uno dei più efficaci strumenti per la ricerca e la repressione dei dissidenti politici. Inoltre era stata costretta a separarsi dall’amato Fulgenzio, e questo era per lei il sacrificio più grande e più difficile da accettare.

“La rivoluzione rurale ha conseguito i suoi obiettivi su tutta la linea” continuò con enfasi esagerata il podestà, “permettendo all’Italia del Littorio il progresso materiale e spirituale, salvando il paese dal pericolo comunista…”

A quelle nuove parole il volto di Alice si irrigidì. La sua mente semplice ed ingenua non riusciva ad immaginare Fulgenzio e gli altri compagni del partito clandestino come un pericolo. Ai suoi occhi erano tutte brave persone, forse con idee bizzarre, ma in fin dei conti incapaci di far del male a una mosca. Davvero non riusciva a spiegarsi per quale ragione il Governo si accanisse tanto contro di loro.

Comunisti assassini! Essi sono subdoli fuorilegge” disse in quel momento il podestà roteando il pugno chiuso con aria bellicosa, “si riuniscono di notte, nelle fogne delle città, per tramare contro lo Stato, sputando sulla croce e vendendo l’anima al demonio pur di raggiungere i loro fini criminali.”

Udendo quelle spaventose rivelazioni, Alice ebbe paura. Non aveva mai partecipato alle riunioni segrete del partito, ma conosceva le idee anticlericali e atee di Fulgenzio. Il sospetto che i comunisti potessero veramente commettere omicidi o sputare sulla croce o vendere l’anima al diavolo si impadronì dei suoi pensieri dandole i brividi. Aveva tanto pregato per il suo amato, affinché egli ritrovasse la fede. Ora cominciava a temere che le sventure da cui erano stati colpiti, fossero correlate con questi riti satanici. Forse lui aveva veramente venduto l’anima, ed era per questo che si era allontanato da lei, considerò per un momento. Poi cercò di allontanare quel brutto pensiero dalla mente, e continuò ad ascoltare il discorso del podestà sino alla fine.

Quando la gente cominciò a rialzarsi dal pavimento per tornare alle proprie abitazioni, anche Alice si avviò mestamente verso il palazzotto. Il podestà fu subito attorniato dai notabili locali del partito: i volti di questi uomini erano euforici, il crollo della Francia aveva alimentato in loro effimere speranze ed esagerate aspettative. Avevano cercato di trasmettere queste emozioni ai rurali forzatamente convocati ad ascoltare il comizio del podestà, ma in questo non avevano ottenuto grande riscontro. Tutto ciò avrebbe dovuto indurli a riflettere, ma non quella sera. La voglia di festeggiare era troppo grande, il desiderio di esorcizzare il demone di una guerra, che poteva ancora essere lunga e dolorosa, troppo intenso.

Il podestà ordinò da bere per tutti e rimase alla locanda fino a tardi, a parlamentare con i suoi seguaci circa i destini dell’Italia nel mondo di domani. Verso la mezzanotte le loro voci si erano fatte stridule, erano stonate, avvinazzate, rallentate sino a perdere il fiato, e accompagnate dai gesti grotteschi caratteristici della gente ubriaca.

Alice era da tempo tornata alle stalle dove aveva preso dimora insieme a Faustino e la sua famiglia. Le quattro mura dove abitavano avevano l’aspetto di un porcile. Per entrarvi bisognava piegarsi, le finestre erano piccole e la poca luce che lasciavano filtrare durante il giorno era del tutto assente la notte. Al lume di due grosse candele, a fatica si potevano scorgere i pagliericci sui quali dormivano gli sventurati. Una puzza tremenda saturava l’ambiente malsano. Una capra ruminava in un angolo un po’ di paglia sudicia. Un tavolaccio unto, alcune sedie spagliate ed una panchetta di legno appoggiata al camino costituivano il restante mobilio, povero ed essenziale.

I figli di Faustino giacevano addormentanti sul pagliericcio. Erano tre: due maschi e una femminuccia. Il più grande non aveva ancora compiuto i dieci anni, la più piccola aveva circa venti mesi di vita. I piedi dei due bambini più grandicelli erano gonfi, pieni di cicatrici e sporchi di terra. Non possedevano scarpe e con la bella stagione riuscivano almeno a sottrarsi ai tormenti del freddo.

“Voglio tornare a Milano” disse Alice rivolgendosi a Faustino, “devo parlare con don Celestino, credo possa aiutarmi a trovare Fulgenzio.”

In cielo brillava uno specchio di luna, i grilli cantavano pieni di energia nella notte stellata. Faustino guardò Alice allibito e le labbra gli si piegarono in una smorfia.

“Se torni a Milano ti arresteranno, non posso permettere che tu corra questo rischio, ho promesso a Fulgenzio di proteggerti” disse con voce agitata, mentre prendeva un fazzoletto con la lentezza dei vecchi, per asciugarsi la fronte imperlata dal caldo.

“Devo andare” rispose Alice. I suoi occhi erano rossi e tormentati. “Non posso restare qui a nascondermi, non abbiamo più avuto alcuna notizia, e mi sembra di impazzire. Non mi importa di correre dei rischi. Devo riuscire a scoprire dove si trova.”

“Come pensi che don Celestino possa aiutarti? E’ solo un povero prete, cosa vuoi che ne sappia dei rifugiati politici in Francia?”

“Le vie del Signore sono infinite, sono certa che in qualche modo mi aiuterà.”

Faustino non replicò e anche lei rimase in silenzio. Certi silenzi possono essere piacevoli, a volte, ma quello sembrava di morte.

“Conviene aspettare che sia finita la guerra” disse Fulvia, la moglie di Faustino, rompendo la quiete.

“Non sembra che manchi molto ormai. Quando tutto sarà finito sarà più facile” aggiunse sorridendo.

Fulvia aveva un bel sorriso, le sue labbra erano rosse e piene, e rendevano piacevole un volto già indurito da una vita di stenti e miseria, nonostante non avesse ancora trent’anni. Indossava abiti umili, una camicetta un tempo bianca, ma ormai divenuta grigia e lisa, con le falde che cadevano su di una sbiadita gonna consunta dal tempo.

“Non posso più aspettare” commentò Alice, “non avrei dovuto lasciarlo partire da solo. Ma posso ancora rimediare, scoprire dove si trova e cercare di raggiungerlo.”

“Tutto questo non ha senso” protestò Faustino, “il nostro compito è di rimanere qui, in attesa della rivoluzione.”

“E cosa ci sarà di diverso da adesso con la rivoluzione?” chiese Alice dubbiosa.

“Ci sarà l’abolizione della proprietà privata della terra.”

“E chi dovrebbe farla la rivoluzione? Tu? Fulgenzio? Oppure gli altri vostri compagni che sono stati tutti arrestati o sono fuggiti all’estero o al massimo si nascondono come noi, come fossimo dei delinquenti?”

“La rivoluzione la faremo noi poveri” disse Faustino con voce grave. Indossava vestiti logori e trasandati che gli davano un aspetto melanconico, ma la sua passione era sincera, la sua speranza in una emancipazione delle classi popolari genuina.

“Per i poveri ci sono i sussidi e le mense statali, a cosa servirebbe abolire la proprietà privata della terra? I contadini continuerebbero a fare i contadini, come ora. Cosa cambierebbe?” domandò Alice, poco convinta dalle argomentazioni di Faustino.

“Con la rivoluzione e l’abolizione della proprietà privata sarà possibile salvare il popolo dall’ingordigia della proprietà. E’ lì che si nasconde il demonio.”

“L’unica salvezza dal demonio è nella fede e nella chiesa. Come possiamo fidarci della rivoluzione, se con la proprietà vuole abolire anche la religione?”

“Con la rivoluzione e la redenzione del popolo, non ci sarà più necessità della religione. Lo Stato provvederà ad ogni bisogno” sentenziò Faustino.

“Lo Stato? Non è forse quanto già avviene oggi? Non è forse nel nome dello Stato che si va in guerra? Che si arrestano i dissidenti? Che si perseguitano gli oppositori?” esclamò Alice con tono accorato.

“Io credo che la Vostra rivoluzione non porterà a nulla di buono” continuò lei, perlustrando la faccia di Faustino con fare cortese, ma deciso.

“Modificheranno le parole, si professeranno idee diverse forse, ma alla fine non cambierà nulla. Si affermerà una nuova dittatura che si servirà di ogni mezzo, compreso il terrore, per distruggere ogni dissidenza e impedire la libertà di pensiero. Come avviene in Russia. Vogliono distruggere la chiesa e perseguitare le religioni perché hanno paura di chi vuol continuare a pensare con la propria testa.”

Faustino abbassò il capo, la sua faccia aveva assunto il colore del mogano lucidato, i suoi occhi piccoli si chiusero e le labbra si serrarono in una smorfia di disappunto. Uno smorto refolo di aria calda e umida penetrò nel tugurio attraverso la porta aperta, e il frinire dei grilli si fece assordante per alcuni secondi.

“Come puoi giudicarci in questo modo?” domandò infine riaprendo gli occhi e guardando Alice con rassegnazione, come se già sapesse che non avrebbe ottenuto una risposta soddisfacente.

“Io non giudico, mi limito a constatare. Il paradiso in terra che andate predicando, il Socialismo Sovietico, non è diverso dalle altre dittature. La Germania ha aggredito la Polonia, ma la Russia sovietica non ha fatto la stessa cosa? La Germania ha invaso la Norvegia, la Danimarca e l’Olanda, così come Stalin ha attaccato la Finlandia. Se i dissidenti politici sono perseguitati in Italia come in Germania, lo stesso avviene in Unione Sovietica. Ci sono tanti comunisti assassini quanti ve ne sono tra i fascisti. Tutto ciò per cui dite di combattere è marciò almeno quanto i regimi che vi proponete di rovesciare. Io comunque non vi giudico e non mi interessa cosa pensate o volete fare. A me interessa solo ritrovare Fulgenzio, sposarlo e mettere al modo dei figli, come ogni buon cristiano dovrebbe fare. Non ho altre pretese dalla vita, e voglio fare tutto quanto mi è possibile per realizzare le mie modeste ambizioni.”

Alice disse tutto d’un fiato. Più volte in passato aveva provato il desiderio di condividere quei pensieri con Fulgenzio, ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo. Lui le avrebbe liquidate come idee reazionarie e avrebbero finito con il litigare. Di cosa avrebbe detto o pensato Faustino invece non le importava quasi nulla, e così aveva trovato la forza di vuotare il sacco.

“Non puoi cercare di fermarla” si intromise Fulvia nella conversazione. Sino a quel momento era rimasta ad ascoltare senza dire nulla. A quel punto valutò opportuno dare il proprio sostegno e un po’ di solidarietà femminile ad Alice: “Deve seguire il suo destino, non abbiamo alcun diritto di impedirglielo.”

“Se la catturano anche noi saremo in pericolo, ci arresteranno tutti, dobbiamo considerare anche questo aspetto” osservò Faustino con malcelato fastidio.

Alice arrossì. Non aveva ponderato le conseguenze che il suo comportamento poteva avere sugli altri. Era determinata a ritrovare Fulgenzio, ma non voleva certo esporre Faustino e la sua famiglia ad ulteriori pericoli.

“Cerchiamo di essere ragionevoli” disse ancora Fulvia, “la polizia ha cose più urgenti di cui occuparsi. Milano è una grande città e nessuno si accorgerà dell’arrivo di Alice, né della sua partenza. Vuole solo parlare con don Celestino, per quale ragione al mondo dovrebbe essere arrestata? Per quanto ne sappiamo le autorità non hanno nemmeno una sua fotografia, non sappiamo nemmeno se è veramente ricercata.”

Faustino sembrava ancora titubante, ma non osò contraddire la moglie. Si limitò ad annuire, e poi rivolgendosi ad Alice concluse: “Sta bene, se però non sarai di ritorno entro due giorni, abbandoneremo questo villaggio e ci sposteremo altrove, anche se non so ancora dove. Ma su… via… ha ragione Fulvia, andrai solo a parlare con un prete, perché mai dovrebbero arrestarti?”

Alice si sentì un poco sollevata, ora che entrambi si erano convinti a lasciarla partire. Preparò le poche cose che avrebbe portato in viaggio l’indomani e si coricò sul lurido pagliericcio, tra la capretta e i bambini.

Faticava però a prendere sonno, si sentiva come se anche il suo cuore fosse avvolto dal buio, e il silenzio le trasmetteva una specie di dolore sordo che avrebbe certamente impedito l’accesso ai sogni. Così pensò a lungo alla guerra, all’amore e alla morte, e solo a notte fonda riuscì ad addormentarsi.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com

Mummie in Val Luretta

Il tenente Annibale Mutilato era ancora vivo. Nelle ultime tredici settimane aveva passato le pene dell’inferno ma era sopravvissuto. Le terribili torture inflitte dal dottor Sofferenza lo avevano menomato nel corpo e nella mente. Più volte era stato vicino ad impazzire, ma alla fine il sadico dottore si era stancato di seviziarlo prima che lui potesse perdere del tutto la ragione.

Da molti giorni era rinchiuso in una cella umida e buia, mantenuto in vita solo per volontà del suo malvagio aguzzino, intenzionato ad utilizzarlo come cavia per i suoi orribili esperimenti.

Annibale non era più in grado di distinguere lo scorrere del tempo. Passava ore ed ore a guardarsi la mano sinistra martoriata, alla quale erano state amputate le ultime due dita. Il volto ricoperto da una folta e lurida barba, i capelli lunghi e sporchi, vestito di stracci maleodoranti e infestati dai pidocchi, consumava lentamente la sua esistenza imbruttendosi in una malsana prigione, ammorbata dagli effluvi delle sue stesse lordure, dove persino i ratti si intrattenevano malvolentieri.

Covava silenzioso sentimenti di vendetta, voleva ad ogni costo sopravvivere per riuscire ad avere tra le proprie mani, o tra ciò che di esse rimaneva, il dannato dottore che lo aveva ridotto in quello stato.

Non gli avevano rotto le ossa, e nemmeno era stato ferito vicino ad organi vitali. Anche la faccia e la testa erano state grosso modo risparmiate, con la sola eccezione di una grossa cicatrice sulla fronte, che il maledetto medico gli aveva inciso con uno stiletto arroventato.

Il sonno di Annibale era sempre tormentato da orrendi incubi, e spesso gli appariva in sogno il sadico ghigno del dottor Sofferenza mentre gli affondava la lama nelle carni.

La macchina dell’elettroshock, i bagni dentro l’acqua ghiacciata, le unghie strappate, i mozziconi di sigaretta spenti sulla lingua, i denti trapanati sino a tormentare i nervi, e altre spaventose torture non erano bastate a farlo confessare. Non si sentiva un eroe per questo, soltanto era troppo intelligente per dire la verità. Se avesse ammesso di essere una spia avrebbero continuato a torturarlo sino ad ucciderlo. Soltanto fingersi un pazzo lo avrebbe mantenuto in vita, soltanto un pazzo non avrebbe iniziato a parlare dopo l’amputazione di due dita e l’incisione della testa.

Alla fine il dottore gli aveva creduto, pensando che fosse uno squilibrato, o che lo fosse diventato a causa delle torture. In ogni caso si era rassegnato all’idea che non gli avrebbe strappato nessuna informazione utile.

Non vi era stato modo di farlo parlare, o almeno di fargli dire cose che avessero un minimo di logica e di coerenza. Le risposte che aveva fornito erano diventate giorno dopo giorno più sconclusionate e prive di senso, man mano che le torture erano diventate più dolorose, sino ai limiti della sopportazione umana. Il dottore sapeva bene che superato quel limite, alla fine, tutte le vittime impazzivano veramente, e non era più possibile trarre informazioni attendibili dopo che le loro menti erano state sino a quel punto sconvolte.

Passarono così molte settimane, ed Annibale era sempre chiuso nell’angusta cella sotterranea del castello, edificato secoli prima sulle dolci colline della Valle Luretta. Fuggire era impossibile, le pareti in pietra secolare non potevano essere scalfite, le sbarre in ferro della prigione erano state elettrificate, qualsiasi tentativo di scappare sarebbe miseramente fallito.

Una notte disperata e folle, il tenente Mutilato decise di farla finita. Avrebbe cercato di evadere, incurante delle conseguenze. Meglio la morte che una vita senza più speranze.

Attese il momento dell’ispezione serale per agire. Quando la guardia si avvicinò per assicurarsi che il prigioniero fosse ancora vivo, Annibale scattò come una molla e allungando le braccia attraverso le sbarre l’afferrò per il collo trascinandola contro i ferri elettrificati.

Un urlo mostruoso eruppe dalla bocca della guardia, mentre la faccia si deformava per il dolore e un raccapricciante sfrigolio si diffondeva dal suo corpo.

Un odore disgustoso di carne bruciata saturò in pochi istanti l’aria ammorbata della prigione.

Quando il corpo del secondino crollò a terra ormai privo di vita, Annibale riuscì ad afferrare il mazzo delle chiavi caduto sul pavimento lurido: era costituito da quattro pezzi.

Selezionò quella che gli sembrò più adatta alla serratura che apriva la cella, la infilò nella toppa e provò a girarla. Non ci riuscì, la serratura offriva una decisa resistenza. Provò allora una seconda chiave, simile alla prima ma un po’ più piccola. Anche in questo caso il meccanismo non si aprì.

“Maledizione!” imprecò temendo che quello non fosse il mazzo giusto. Afferrò una terza chiave e replicò l’operazione, ancora una volta senza fortuna. La quarta chiave nemmeno entrò nella serratura.

Il sudore ora colava lungo le tempie tra i lunghi capelli unti di Annibale che si sentì sopraffare dal panico. La possibilità di una fuga tanto agognata gli stava svanendo tra le mani.

Respirò a fondo e lentamente, il lezzo era ripugnante e insopportabile, ma riuscì a dominarsi ed ebbe un’idea. Provò ancora con la prima chiave, questa volta infilandola nella toppa sul lato esterno della porta, dalla parte dove veniva abitualmente utilizzata dalle guardie. Poi provò a girare. Il meccanismo offrì nuovamente una certa resistenza elastica, ma questa volta inferiore, i denti metallici sferragliarono sui loro anelli e finalmente scattò la prima mandata. Annibale tirò un sospiro di sollievo, girò ancora la chiave, ripetutamente, e dopo quattro scatti la porta si aprì.

Ripeté l’operazione con il lucchetto che chiudeva la cavigliera saldata alla catena murata alla parete, l’anello di ferro si aprì con uno scatto, emettendo un suono simile ad uno squittio.

Era libero, e in un attimo si trovò davanti alla successiva porta di ferro, proprio nel momento in cui si stava aprendo.

Il soldato non si accorse di nulla, Annibale lo aveva già afferrato per i capelli fracassandogli il cranio contro lo stipite con una brutalità inaudita. Fu una morte violenta, ma così repentina da non provocare dolore.

Un terzo secondino non ebbe il tempo di richiudere la porta. Annibale gli aveva già artigliato il collo. Le dita tozze si strinsero sul gozzo del militare affondando nelle carni come ganci da macellaio. Il malcapitato morì soffocato in pochi minuti

Eliminati i secondini, Annibale si incamminò lungo le scale in pietra che portavano al livello superiore. In cima alle scale si trovò in una camera vuota.

Su di un muro in mattoni si aprivano delle piccole finestrelle, attraverso le quali si poteva scorgere il cielo. Si vedevano le stelle brillare nel blu profondo della notte.

Sulla parete opposta, delle lampadine elettriche illuminavano la stanza diffondendo una luce bianca e intensa.

Annibale sapeva cosa fare: attraversò l’unica uscita e si portò nella stanza adiacente.

L’ambiente era buio e gli ci vollero alcuni secondi affinché i suoi occhi si abituassero alla nuova oscurità. Una flebile luce tremolante proveniva dal fondo di un lungo corridoio di pietre e mattoni.

Si richiuse la porta alle spalle e camminò sul pavimento fatto di pietre antiche perfettamente levigate. Non vi erano finestre né aperture di altro genere, soltanto sassi e laterizi.

Giunto a metà del lunghissimo corridoio, trovò la porta che portava alle docce. Si fermò a riflettere: puzzava come una carogna, non si lavava da mesi ed era ricoperto dai pidocchi. Era stata una precisa disposizione del dottor Sofferenza, finalizzata ad incrementare il senso di degrado fisico e psicologico cui dovevano essere sottoposti i prigionieri.

Annibale pensò che tentare la fuga in quello stato poteva essere pericoloso, i cani lo avrebbero fiutato a chilometri di distanza. Valutò che darsi una lavata gli avrebbe certamente dato sollievo e forse risolto il problema dei cani. Ma dissipare il poco tempo che aveva a disposizione poteva essere molto pericoloso. Il dubbio su cosa fare lo stava arrovellando.

Alla fine decise di farsi la doccia. Entrando nei bagni vide il suo corpo riflesso in uno specchio. Lo avevano ridotto come un barbone, con la mano sinistra quasi ridotta ad un moncherino, la faccia ricoperta dai lunghi capelli lerci e la fronte sfregiata. Annibale ebbe paura della sua stessa immagine.

Si levò gli stracci maleodoranti, che un tempo erano stati dei vestiti, gettandoli in un angolo. Poi aperto uno dei rubinetti si lanciò sotto un getto di acqua gelida. Il freddo era un disagio sopportabile, poca cosa a confronto della piacevole sensazione che provò nello scrollarsi di dosso settimane di sudiciume e pelle morta.

Uscì dalle docce nudo e bagnato. I pettorali erano ancora scolpiti e la muscolatura tonica, pur avendo perso peso aveva conservato la prestanza fisica dei giorni migliori.

Non vi erano altre sentinelle a guardia delle quattro porte collocate lungo la seconda metà del corridoio. Annibale si avvicinò per controllare le prime due.

La porta alla sua sinistra era a doppia anta e chiusa con un grosso chiavistello serrato con un pesante lucchetto. La porta alla sua destra era più piccola. Provò a girare la maniglia e si aprì.

L’interno era buio, ma sul muro didentro vi era un grosso interruttore elettrico. Annibale cercò di sollevarlo, riuscendo a dare elettricità alla stanza. Le luci si accesero e lui entrò.

Era una grossa camera rettangolare, il pavimento era ricoperto con moderno linoleum e le pareti intonacate erano verniciate di verde acqua. C’era un tavolo operatorio con una morsa per la testa e cinghie per immobilizzare polsi e caviglie, una grande scaffalatura sui cui erano collocati teste umane imbalsamate e dei vasi di vetro contenenti cervelli sotto spirito, una vetrinetta piena di droghe, siringhe, bisturi, lacci emostatici e altri strumenti chirurgici, un mobiletto sul quale erano collocate provette, alambicchi, e numerosi preparati chimici, un tavolaccio sul quale erano accatastati vecchi volumi polverosi e numerose protesi.

Era il laboratorio del dottor Sofferenza.

Annibale avvertì un’intensa sensazione di nausea, la stanza era priva di finestre, e in un angolo, seminascosta da un grosso paravento di legno dipinto, stava in piedi immobile e lo fissava con sguardo vitreo una raccapricciante mummia umana.

Si avvicinò per esaminare meglio il cadavere imbalsamato, e constatò che era quello di una giovane donna. Annibale comprese facilmente che non si trattava di un reperto dell’antichità, ma piuttosto di un altro orribile esperimento condotto dal malvagio dottore su qualche sfortunata cavia.

Gli occhi erano la parte più impressionante, sembravano di vetro, ma fissati in un’espressione di sgomento, si sarebbe detto che il volto fosse stato mummificato per l’eternità nell’attimo della morte, una morte sopraggiunta violenta e dolorosa.

Il tenente restò alcuni secondi imbambolato a fissare quella cosa orrenda, chiedendosi come un uomo potesse giungere a simili livelli di barbarie. Chiunque fosse stata quella ragazza, doveva aver sofferto in modo disumano.

Prima che egli potesse distogliere lo sguardo dalla mummia, questa iniziò all’improvviso ad animarsi. Il panico ed il terrore si impadronirono di lui, mentre la donna imbalsamata gli afferrava il collo con tutte e due le mani avvolte nelle bende.

Era una presa micidiale, nelle braccia della mummia della Val Luretta vi era una forza portentosa, e Annibale non fu in grado di opporre una valida resistenza.

Tutto si consumò in pochi minuti, il corpo strangolato e senza vita di Annibale giaceva ora ai piedi putrescenti della ragazza imbalsamata. Il volto di lei si era contratto in un ghigno malvagio, gli occhi brillavano di una nuova luce infernale. Cominciò a camminare, ed uscita dalla stanza partì alla ricerca di suo padre: il dottor Sofferenza.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com

Violenza partigiana

Il partigiano Pancrazio Spadone era pronto a combattere con violenza partigiana ed entrò in una grande stanza dal soffitto in mattoni sorretto da colonne in pietra. I muri erano in sasso e vi erano tre piccole finestre sul lato ovest ed altre due sul lato sud. Una serie di fiaccole accese e collocate lungo le pareti illuminavano in modo spettrale l’ambiente. L’atmosfera era resa ancor più suggestiva dai lunghi drappi rossi con la croce uncinata, appesi lungo i muri a guisa di  paramenti.

Al centro della sala, appoggiata sopra un piano rialzato, si ergeva una gabbia in ferro, del tipo di quelle in uso nei circhi per contenere le fiere feroci. Coricato su di un pagliericcio in un angolo all’interno della gabbia, sembrava dormire un uomo.

Pancrazio iniziò ad osservare meglio la camera, sembrava fosse stata preparata per una qualche forma di rituale. Quando si voltò verso la gabbia per ispezionarla, il suo cuore fu avvolto dall’orrore.

L’uomo era sveglio, ora stava in piedi e lo fissava. Era completamente nudo e il suo corpo era sfigurato da una muscolatura innaturale e gigantesca, il suo volto ricoperto da una lunga barba nera era una maschera di sofferenza, la bocca era chiusa da un grosso bavaglio di cuoio, le mani incatenate dietro la schiena. Le gambe mostruosamente muscolose erano ricoperte da una folta ed ispida pelliccia, e terminavano con degli zoccoli da cavallo al posto dei piedi.

Pancrazio guardò la creatura sbigottito per alcuni secondi, poi si avvicinò alla gabbia per osservarla più da vicino.

L’uomo ebbe paura e si ritrasse leggermente, i suoi occhi supplicavano pietà e Pancrazio ebbe pena per quell’essere infelice. Avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarlo. Ma cosa poteva fare? Non aveva molto tempo e doveva badare a sé stesso per portare a termine la missione.

Prese la macchina fotografica, una Leica di fabbricazione tedesca, e fotografò la creatura.

L’uomo nella gabbia si sentì umiliato, lo sguardo di pietà lasciò il posto allo sconforto e alle lacrime.

Pancrazio si commosse. Poteva cercare di forzare la serratura della gabbia e liberare quell’uomo. Sapeva di poterci riuscire ma l’operazione avrebbe richiesto alcuni minuti. Comunque non poteva certamente aiutarlo a fuggire, lo avrebbero velocemente catturato e cercare di favorire quella creatura lo avrebbe esposto al rischio di essere ucciso. Poteva contare su tutta la violenza partigiana di cui era capace, ma probabilmente non sarebbe bastata.

Ripose l’apparecchio fotografico nello zaino e si avvicinò ad una delle due porte collocate sulla parete est. Vi appoggiò sopra l’orecchio per cercare di sentire se dall’altra parte vi fossero delle sentinelle. Gli sembrò che non vi fosse nessuno, cercò di aprirla ma scoprì che era chiusa dall’esterno.

Stava riflettendo su cosa fare quando udì rimbombare oltre la porta un vocio concitato e intenso, misto al chiaro scalpiccio di numerosi passi in avvicinamento.

La creatura nella gabbia sembrò presa dal panico, iniziò a muoversi nervosamente all’interno della sua prigione, gli occhi disperati urlavano tutto il loro sgomento.

Pancrazio comprese che non vi era un solo istante da perdere, camminò vicino all’altra porta e provò ad aprila. Anche quella era chiusa a chiave. Corse dall’altra parte della stanza e provò ad entrare nella torre ovest. Afferrò la maniglia per abbassarla ma anche quell’ingresso era serrato. Mentre i passi e il vociare si facevano sempre più vicini corse ancora più veloce verso il passaggio dal quale era entrato.

Doveva assolutamente uscire da quella camera prima che arrivassero le sentinelle. Se si fossero accorte della sua presenza avrebbero dato l’allarme e le probabilità di riuscire a fuggire dal castello incolume erano ben poche.

Pancrazio riuscì a raggiungere la porta proprio mentre le guardie stavano aprendo il grosso lucchetto posto a chiusura di uno spesso catenaccio. Lui stava lottando contro il tempo ed il destino e si domandò per quale dannata ragione non fossero tutti ad ubriacarsi festeggiando il capodanno, anziché aggirarsi per gli scantinati del castello.

La porta si spalancò proprio nell’istante in cui Pancrazio usciva dalla stanza. La scarsa illuminazione avrebbe nascosto il fatto che lui aveva lasciato l’uscio  accostato: voleva vedere cosa sarebbe accaduto.

Ciò che vide fu disgustoso. Le guardie aggredirono a turno la creatura, la percossero con dei bastoni, la ricoprirono di sputi. I soldati erano cinque, e quello dall’aspetto più umano sembrava una capra.

I gemiti di dolore e disperazione dell’essere chiuso nella gabbia rimbombarono nella stanza, mischiati alle risa di scherno e al vociare della soldataglia. Sembravano tutti posseduti dal demonio, e i loro volti animaleschi illuminati dal fuoco incutevano sgomento.

Quando ebbero terminato il loro turpe rituale se ne andarono lasciando Pancrazio solo con la creatura. Lui piangeva in un angolo buio della stanza, provando rimorso e vergogna: non aveva fatto assolutamente nulla per cercare di salvare la vittima dai suoi aguzzini. La creatura giaceva sconfitta e umiliata sul pavimento della gabbia. Non era quella la prima volta, non sarebbe stata l’ultima.

Prima dell’alba del nuovo giorno, Pancrazio fu catturato vivo, e prima che potesse scatenare la proverbiale violenza partigiana fu selvaggiamente picchiato e gettato agonizzante nel pozzo rasoio del castello. Era quello un medievale e terribile strumento di tortura. Nella parte terminale, le pareti di questi pozzi della morte erano interamente rivestite di corpi contundenti ed affilati.

Il partigiano Pancrazio morì fra atroci sofferenze fatto a pezzi dalle lame del pozzo.  Della sua amata non si seppe più nulla.

Vuoi sapere cosa era successo prima? Bene, allora leggi qui

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com 

Nazisti in Val Tidone


 

La dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra, annunciata in diretta radiofonica alle ore 18:00 di quel 10 giugno 1940, fu accolta dal popolo italiano con partecipata emozione.

Nel trambusto di quelle ore concitate, nessuno aveva fatto caso all’arrivo di quel forestiero ben vestito, dall’aria distinta, alto e biondo con due grandi occhi azzurri color ghiaccio. Senza essere notato aveva parcheggiato la sua Mercedes poco lontano dalle prime case di Trevozzo in Val Tidone e aveva poi raggiunto la sua meta a piedi, qualche minuto prima dell’orario in cui abitualmente Ermegisto rincasava.

Il vecchio edificio dall’intonaco grigio consunto dal tempo, sovrastava un piccolo giardinetto ornato da fiori colorati e rose rosse. A prima vista la facciata austera e tetra assomigliava ad un volto severo, reso ancor più sinistro dalle fioche luci delle lampade a petrolio che fuoriuscivano dalle persiane accostate del piano superiore, come fossero occhi illuminati da lampi spettrali. Ma il visitatore non prestò alcuna attenzione alla bizzarra architettura, concentrato sui suoi obiettivi attraversò il giardinetto e bussò alla porta.

Poco dopo la signora Lina, la moglie di Ermegisto, venne ad aprire. Lo stupore si dipinse sul volto dell’anziana donna, sorpresa di trovarsi di fronte un giovane di così bel aspetto e dal portamento così fiero e altero.

“Buona sera” esordì l’uomo tradendo un evidente accento straniero, “sto cercando il signor Ermegisto” continuò svelando ulteriormente le proprie origini teutoniche. Il tono della voce e l’espressione del viso erano freddi, gelidi.

“Mio marito non è ancora tornato, posso sapere chi siete e da dove venite?” domandò la signora Lina, senza preoccuparsi di nascondere la propria curiosità. Vestiva abiti semplici che coprivano il suo corpo segnato dal tempo e dalla vita. Il volto era indurito dalle delusioni di un’esistenza amara, consumata lentamente dal lavoro nei campi.

“Se mi fate entrare sarò ben lieto di attendere in casa che Vostro marito ritorni” replicò seccato il giovane, senza badare alle domande della donna.

“Io non faccio entrare sconosciuti. Ditemi: Voi chi siete?” protestò lei, appoggiandosi le mani ai fianchi per darsi un tono più autorevole, e gonfiando il petto di per sé già assai abbondante.

L’uomo si volse come per assicurarsi che nessuno lo avesse visto, poi tornando a guardare la donna e sforzandosi di sorridere si presentò dando delle false generalità. Mentendo ancora disse: “Vengo da Monaco, ora posso entrare?”

La signora Lina era ancora titubante, ma dopo alcuni attimi di esitazione infine acconsentì, inconfessabilmente attratta dall’avvenenza del giovane.

“Prego accomodatevi, potete attendere il ritorno di Ermegisto qui in soggiorno. Arriverà a minuti, torna sempre per l’ora di cena.”

L’uomo si sedette su una delle scomode sedie di legno massello che costituivano lo spartano e povero arredamento della casa, senza ringraziare e senza proferire altra parola. La Lina cercò ancora di interrogarlo: “Un giovane tedesco della vostra età non dovrebbe essere in guerra? Cosa vi porta dalla lontana Monaco sino a Trevozzo? Cosa volete da mio marito?”

Lo straniero la fulminò col suo sguardo di ghiaccio, penetrante e spaventoso, così inquietante che la Lina si pentì della propria indiscrezione ed ebbe paura. Quell’uomo esercitava su di lei un fascino magnetico ma anche terribile. Aveva risvegliato nella donna sensazioni da lungo tempo sopite, mandandola in confusione, incerta tra contrastanti sentimenti che non era in grado di comprendere e tanto meno di fronteggiare con lucidità, combattuta tra attrazione, paura e curiosità.

“Sono in licenza signora, e sono qui per ragioni di studio” disse glaciale il giovane stemperando con quelle fredde parole la tensione che si era creata. La Lina però non sapeva come comportarsi e rimase a fissarlo senza muoversi e senza parlare. Anche il forestiero continuò a tenere lo sguardo sull’anziana donna, come se ne volesse controllare i movimenti.

Lei si sentiva osservata e iniziò a insospettirsi, domandandosi se quell’uomo le avesse mentito. E se fosse stato un bandito? Oppure un assassino? Studiando meglio l’abbigliamento di quel tizio misterioso si rassicurò. Gli assassini non indossavano abiti eleganti, non portavano i gemelli d’oro ai polsi della camicia, non avevano scarpe costose, si disse mentalmente. Si fece allora coraggio e tornò ad investigare.

“Cosa siete venuto a studiare in questo remoto borgo, se posso chiedere signore?”

Il giovane nulla fece per nascondere quanto fastidio quelle domande gli provocassero, l’espressione contrariata del suo volto svelava in quel frangente i suoi pensieri come fosse stato un libro aperto.

“Studio opere d’arte” replicò annoiato “e Voi di cos’altro vi occupate oltre a fare domande?”

La Lina si adombrò un istante chiedendosi cosa fosse più opportuno rispondere.

“Sono la moglie di Ermegisto” disse infine con orgoglio, per poi tacere nuovamente risentita, avendo notato un sorriso di scherno dipingersi sul volto del forestiero.

In quel momento si aprì la porta e Ermegisto entrò nella stanza. Egli non fu meno sorpreso di sua moglie alla vista di quell’uomo sconosciuto.

“Come posso aiutarvi?” disse subito dopo le presentazioni con tono sbrigativo, nel timore che la cena si freddasse.

“Desidero visitare il santuario di Santa Maria del Monte di Nibbiano” replicò asettico lo straniero.

“Sarò lieto di mostrarvelo domani mattina, avete preso alloggio presso la locanda?”

“No, nella notte devo rientrare a Milano, vorrei vedere la chiesa ora, cortesemente.”

“E’ solo una piccola chiesa di provincia, cosa Vi aspettate di trovare di tanto significativo da non poter aspettare domani?”

“Degli affreschi molto belli che ho avuto incarico di studiare per conto della Ahnenerbe.”

“Bene, ragione in più per aspettare. Così avrete modo di apprezzarli alla luce del giorno. Inoltre devo avvisarvi che in buona parte sono stati danneggiati nel corso dei secoli a seguito di approssimativi restauri” disse Ermegisto con una decisione che non ammetteva repliche.

Lo straniero si irritò, non si aspettava tante storie da un semplice campagnolo. Sapeva di avere poco tempo, ma ancora di più sapeva di dover mantenere la segretezza sulla propria missione. Avrebbe desiderato aggredire quel piccolo omuncolo grassottello. Considerò però più vantaggioso cercare di ottenerne la collaborazione, sia per accorciare i tempi  della ricerca, sia per evitare le complicazioni che prendere la situazione di petto gli avrebbe procurato.

“La mia associazione culturale sarà lieta di contribuire alle opere di bene patrocinate dalla Vostra comunità con una generosa offerta. Sono certo che in cambio di questi aiuti sarete tanto gentile dal volermi condurre alla chiesa oggi stesso” disse l’uomo estraendo dalle tasche due mazzette di banconote.

Ermegisto osservò il denaro ostentando indifferenza.

“Ogni regalo profuso dalla provvidenza è certamente ben accetto, ma per visitare la chiesa dovrete comunque aspettare il giorno nuovo. Questa sera ho altri e più pressanti impegni che non posso procrastinare” rispose il contadino opponendo un nuovo inaspettato rifiuto alle richieste del forestiero.

“Ora che anche l’Italia è in guerra, sono sottoposto a nuove pressioni. I miei superiori esigono che completi la mia ricerca con anticipo. Per questo necessito di vedere la chiesa questa sera stessa. Sono sicuro, in nome dell’amicizia che lega i nostri due Paesi, che saprete comprendere la mia situazione portandomi subito alla chiesa.”

All’ennesima insistenza dello straniero Ermegisto iniziò a spazientirsi, replicando piccato.

“Personalmente non nutro alcuna amicizia verso il Vostro Paese. Tanto meno sono interessato a questa assurda guerra che condanno con risolutezza. Vi mostrerò la chiesa domani. Adesso Vi prego cortesemente di lasciare questa casa.”

“Portatemi al santuario, non costringetemi ad usare la forza” disse allora l’uomo venuto dal nord, avvicinando alla faccia del povero contadino un lungo e luccicante coltello dal manico prezioso, rivestito in polimero nero e ornato con due decorazioni metalliche a rilievo, raffiguranti le rune delle SS e l’aquila nazionale.

Ermegisto guardò fisso negli occhi di ghiaccio dello straniero, e capì di trovarsi di fronte ad un ufficiale della famigerata organizzazione paramilitare nazista. Comprese di essere in grave pericolo ma mantenne la calma, e rispose con freddezza: “Ormai è quasi notte e la strada per il santuario è interrotta da una frana, a piedi ci vorranno ore, io non so proprio cosa farci e penso che non troverete nessun’altro disposto ad aiutare Voi nazisti in Val Tidone

L’uomo pensò che il contadino fosse un duro, lo spinse contro la parete con violenza, gli afferrò il polso premendogli la mano al muro, e dopo averne trapassato il palmo con il coltello lo minacciò ancora: “Non vi farò questa domanda una terza volta, portatemi al santuario! Io so chi siete, conosco il Vostro segreto. Voi siete il Gran Maestro della setta esoterica Occulto Misterioso e voglio avere ciò che custodite nascosto dentro la chiesa!”

Il volto del Gran Maestro si contrasse in una smorfia di dolore orrenda, un grido senza speranza gli uscì dalla gola mentre la lama gli attraversava le carni: “Non lo faro, vai a farti fottere!”

Il Gran Maestro cercò di divincolarsi da quella presa micidiale. Avrebbe voluto urlare ancora e chiedere aiuto, ma la mano dello straniero copriva già la sua bocca. Pensieri di morte gli offuscarono la mente. Quel maledetto tedesco conosceva la sua identità segreta. Ma come era possibile? Chi poteva aver tradito? E ancora, come aveva fatto a scoprire dove era stato nascosto il Necronomicon? Pensò che a queste domande non avrebbe mai avuto risposta se non fosse riuscito a fuggire e chiedere aiuto. Sospinto dalla disperazione e dalla paura, diede fondo a tutte le sue forze colpendo il suo aggressore al volto con la mano ancora sana, lo spinse indietro e dopo essersi liberato fuggì verso la porta d’uscita.

Il Gran Maestro correva veloce stringendosi la mano trafitta e sanguinante, ma il tedesco gli stava dietro. Raggiunta la porta tentò di aprirla, ma nella foga del momento la maniglia si spezzò. Il Gran Maestro di Trevozzo fu preso dal panico, si sentì perduto, l’uomo con il coltello era già alle sue spalle. Si girò di scatto cercando ancora di colpire il suo nemico, nella speranza di poter usare la maniglia rotta come un arma. Il fendente questa volta andò a vuoto, lo stranierò lo evitò scansandosi. Ermegisto stava per urlare di nuovo, ma la voce gli rimase soffocata nella gola. Il tedesco con un rapido gesto gli spaccò il cuore pugnalandolo al petto. Ebbe solo il tempo per un ultimo pensiero di conforto prima della fine. Il malvagio forestiero sapeva del Necronomicon, ma lo stava cercando nella chiesa sbagliata. Almeno per quella notte ancora, il nascondiglio non sarebbe stato violato. Un attimo dopo il suo corpo senza vita si afflosciò in una pozza di sangue.

La signora Lina aveva assistito a tutta la scena immobile come una statua e muta come un pesce. Non era riuscita né a fuggire né a gridare, il terrore l’aveva immobilizzata.

Il tedesco non ebbe pietà, con un salto le fu sopra, e con la lama affilata squarciò la sua gola rugosa.

L’ultima sensazione della donna fu il calore del proprio sangue che le colava sul petto, poi fu la morte.

Il Sturmbannführer delle SS  si rialzò e ripulì la lama. Si guardò attorno bestemmiando. Un sospetto inquietante si fece strada serpeggiando nella sua mente. E se le informazioni di cui disponeva fossero state fallaci? Comprese che aver ucciso così in fretta Ermegisto era stato un errore. Certo, immaginò, farlo confessare non sarebbe stato semplice, ma ora che era morto sarebbe stato semplicemente impossibile. Poi si ricordò di quanto aveva pagato quelle informazioni e pensò alla reputazione di cui godeva la persona che gliele aveva vendute. Si rassicurò, il Necronomicon doveva per forza essere celato all’interno del santuario. Doveva solo andare a prenderlo. Ne era certo, avrebbe portato a termine con successo la sua missione nazista in Val Tidone.

Decise allora di mettersi al lavoro, aveva ancora poco tempo e molto da fare, prima dell’alba del nuovo giorno.

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

Vietata la riproduzione, Copyright ©2013 racconti-brevi.com