L’alchimista della Val Tidone

Alchimista della Val Tidone

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Acacio Rovinati, da tutti conosciuto come l’alchimista della Val Tidone, si sollevò dal letto nel tardo pomeriggio, la testa gli scoppiava come dopo la peggiore delle sbornie e qualsiasi movimento facesse gli procurava dolore, come se fosse intrappolato in qualche racconto breve scritto da un malvagio scrittore.

Era nervoso, si condusse a forza sino al soggiorno e dal cassetto della scrivania tirò fuori una bottiglia di Scotch Whisky, riempì un bicchiere e ricominciò subito a bere. Si abbandonò sulla sedia dietro al tavolo e appoggiato allo schienale iniziò a domandarsi come fosse potuto accadere proprio a lui. Aveva fantasticato più di una volta di dover affrontare la morte per mano di qualche marito geloso, ma mai avrebbe immaginato di essere licenziato per aver sedotto la figlia di un generale dell’esercito.

Suonarono alla porta.

“Avanti, è aperto” urlò lui dal soggiorno.

Pur confuso per i postumi della sbornia riuscì a distinguere chiaramente i passi pesanti del visitatore che si avvicinava, poi alzò lo sguardo verso la porta e la vide.

Era la signora Elvira Birondisi, la padrona di casa, un’orrenda vecchia, mai stata moglie, inacidita e inesorabile.

“Siete indietro con l’affitto Rovinati, già di due settimane. Non penserete di farla franca senza pagare vero?”

Acacio non sapeva cosa rispondere, per un attimo, come si era già proposto di fare in passato, pensò di sedurre l’orribile arpia, ma, guardandola in faccia per alcuni secondi, abbandonò l’idea turbato dall’incredibile bruttezza di quella figura.

La Birondisi indossava un’improbabile abito di stoffa a tinta unita color carta da zucchero, la linea del busto aderente metteva in risalto i fianchi sfatti e abbondanti, il soprabito elegante e le piume di struzzo le davano un tono grottesco.

“Cosa succede Rovinati? Il gatto Vi ha mangiato la lingua? Esigo di avere ciò che mi spetta, come intendete giustificare il Vostro imbarazzante ritardo?”

Sembrava che la donna non avesse fatto alcun caso al volto sconvolto di Acacio che alla fine, dopo un lungo silenzio, replicò:

“Signora Elvira, dovrete perdonarmi, questo mese ho avuto alcune impreviste difficoltà, ma salderò il mio debito quanto prima, è mia ferma intenzione farlo” disse barcollando nel tentativo di alzarsi dalla sedia.

“L’unica Vostra fermezza consiste nell’abusare dell’alcol. Guardate come Vi siete ridotto, fate ribrezzo. O Vi decidete a pagarmi entro la settimana o Vi sbatterò fuori!”

Lui non poteva confessare quale fosse la reale causa dell’improvviso dissesto finanziario, cercò allora, ma senza successo, di imbonire la padrona di casa millantando una serie di poco credibili spese straordinarie cui era stato costretto.

“Non credo ad una sola delle stupidaggini che mi avete raccontato. Siete solo un pagliaccio. Dovreste ambire ad un più rispettabile decoro. Ma, evidentemente, non avete alcuna cognizione dei vostri limiti e siete solo un vecchio ubriacone.”

La signora Birondisi se ne andò senza lasciare il tempo per una qualunque replica, che comunque Acacio non era più in grado di elaborare. La visita di quella vecchia malvagia aveva aggiunto altro sale alla ferita. Doveva in qualche modo far fronte ai debiti che aveva accumulato, doveva trovarsi in fretta un nuovo lavoro, altrimenti si sarebbe trovato in mezzo ad una strada.

Andò al cesso e vomitò. Poi si fece un bagno caldo nel tentativo di ritemprarsi. Servì a poco.

Asciugatosi indossò biancheria e abiti puliti. Desiderava distrarsi dai suoi problemi, ma il whisky era finito. Si preparò la pipa seduto alla sua scrivania. Rimase seduto a meditare per diversi minuti lisciandosi la lunga barba grigia, poi sentì il bisogno di bere e decise di uscire.

Un po’ d’aria fresca e la brezza della sera gli avrebbero fatto bene, pensò. Si incamminò lungo la via principale del suo paese, la ridente cittadina di Borgonovo Val Tidone. Dopo un centinaio di metri entrò nella locanda Il Gatto Nero, una bettola di provincia dove gli facevano ancora credito e dove era solito ubriacarsi in compagnia di altri disperati ai margini della società: barboni, prostitute, fannulloni senza un fisso lavoro.

Tutti gli abituali avventori di quella taverna lo conoscevano: per via dei suoi vestiti stravaganti e del parlar forbito. Non poteva certo passare inosservato.

Appena fu arrivato, la signorina Marianna, vedendogli il volto solcato dalle occhiaie, gli si fece incontro interessandosi per la sua salute, una parentesi di umanità che gli offrì conforto.

“O mio Dio, cosa Vi è successo signor Acacio, avete un aspetto terribile” disse premurosa la figlia dell’oste.

Marianna era giovane e graziosa, dai lunghi capelli nero corvino e il corpo ben fatto. Non somigliava per nulla al padre, un omone enorme, più simile ad una scimmia gigantesca che ad un essere umano. I maligni sparlavano alle sue spalle sostenendo che il vero padre della bella ragazza fosse un altro.

“Andateci piano con quella roba” finse di lamentarsi Acacio, mentre la giovane donna gli riempiva un piatto di pisarei fumanti e profumati.

“Chi Vi ha ridotto in questo modo?” si interessò uno dei vecchi ubriaconi seduti al tavolo vicino.

Lui non rispose, iniziando a mangiare in silenzio.

L’oste era intento a mescere il vino ed anche Rovinati, che non desiderava altro, ebbe la sua dose. Non era un gran che bere, ma in quello stato faceva pure poca differenza. La figlia continuava intanto ad occuparsi dei clienti servendo la cena a chi l’aveva ordinata. Era brava, ormai in età da marito e con numerosi pretendenti.

Lo stesso Acacio non era rimasto insensibile alle grazie dell’attraente Marianna, ma la mole poderosa del padre, vero o presunto che fosse, lo aveva sempre indotto a miti consigli, e anche da ubriaco non aveva mai osato insidiarla.

I minuti passavano veloci al Gatto Nero e il Rovinati se ne stava seduto in un angolo con il fiasco di vino aperto e la pipa in bocca: beveva, fumava, si grattava la barba e pensava alle sue disgrazie, dando di tanto in tanto un occhiata furtiva alle gambe della figlia dell’oste, che lo ricambiava con sguardi ingenui ed innocenti.

Verso la mezzanotte una donna si sedette al suo tavolo. Si faceva chiamare Romualda e praticava il mestiere più antico del mondo.

“Salve Bambolo” disse, “Volete fare quattro salti? Mi sembrate un po’ giù di corda, ma io saprei bene come farvi risollevare” continuò con tono ammiccante.

“Mi spiace tesoro, non ho più un soldo, la sorte oggi mi è avversa” rispose triste Acacio.

“Oh, poverino, come mi dispiace” aggiunse lei senza troppa convinzione, accendendosi una sigaretta.

Mostrava più dei suoi anni, le labbra erano carnose e ricoperte da uno spesso strato di rossetto, i fianchi e il petto ben forniti. Sapeva come fare il suo lavoro, ed in passato il Rovinati aveva con soddisfazione fruito dei suoi servizi. Non era un gran che bella, ma si capiva che ci metteva impegno, e questo a lui era piaciuto. Gli piaceva sempre quando una donna ci metteva passione, quale che fosse il motivo per cui decideva di darsi: per noia o per capriccio, per denaro o per amore.

“Al massimo posso offrirti un calice di barbera” biascicò Acacio.

“Be’ piuttosto che niente, meglio il vino, amico sincero e generoso” sorrise lei.

Bevvero insieme augurandosi fortuna l’un l’altra e si fece notte fonda. L’osteria andava svuotandosi e ciascuno degli avventori tornava alle sue miserie. Anche Acacio salutò Romualda, l’oste e i pochi clienti rimasti. Malfermo sulle gambe rincasò barcollante. Una decente dormita, ragionò con un lampo di residua lucidità, gli avrebbe certamente giovato, e l’indomani poteva ancora pianificare il da farsi per aggiustare i pasticci nei quali si era venuto a trovare.

Si svegliò tardi, quasi a mezzodì. Andò in bagno ed espletò le incombenze del caso, vomitò un po’ di sangue. Aveva fame.  In cucina aprì la credenza e si fece un grappino, tanto per cominciare.

Si accorse di non essere solo, dei colpi sordi provenivano dal soggiorno, come se qualcuno stesse bussando sui vetri delle finestre. La faccenda gli parve strana, perché il suo appartamento era al secondo piano e non aveva balconi. Si avvicinò silenzioso attraversando il corridoio, i colpi sul vetro non calavano di intensità. Iniziò a sudare freddo e a preoccuparsi, sbirciò nel soggiorno dallo stipite della porta, per non essere visto.

Imprecò per la rabbia quando realizzò che si trattava solo di uno stupido gatto, entrato chissà quando e da chissà dove, probabilmente durante la notte. Nel tentativo di acchiappare la dannata bestiaccia rimediò pure dei graffi profondi sulle braccia, ma alla fine il detestabile felino sgattaiolò fuori dalla porta d’ingresso. Acacio la chiuse e tornò in cucina per un secondo grappino.

Consumò un pasto semplice e solitario riflettendo sulle possibili opzioni a sua disposizione. Non poteva espatriare perché gli mancava il denaro necessario, emigrare era dunque impensabile e del resto non avrebbe avuto alcun senso, l’Europa era sconvolta da una nuova guerra, e lasciare il paese era diventato complicato. C’era comunque il problema dei debiti e dell’affitto. Concluse quindi che gli servivano dei soldi, molti e in fretta. Si immaginò di rapinare una banca o di rubare in casa di qualche ricca signora, di quelle che aveva corteggiato nel passato. Tuttavia valutò che l’impresa fosse troppo rischiosa e lo esponesse inoltre al pericolo di essere arrestato.

Aprì le finestre del suo studio, facendo entrare l’aria fresca della primavera, auspicando di trovare una soluzione. Si sentì un po’ meglio, ma nessuna buona idea parve attraversargli il cervello. Si abbandonò sulla sua poltrona, le ferite provocate dai graffi del fottuto gattaccio bruciavano, ma quello era l’ultimo dei suoi pensieri. Rimase a lungo seduto, rimuginando sul proprio destino e senza toccare bicchiere per diverse ore. Osservava le persone passeggiare lungo la via sotto casa e ne provava ribrezzo: la gente non gli piaceva, nemmeno gli animali gli piacevano, forse soltanto le piante gli andavano a genio, ma nemmeno di questo era sicuro. Aveva sempre guardato con simpatia agli uomini del passato, e pensava che la modernità non facesse al caso suo. Era nato nell’epoca sbagliata e i suoi guai derivano forse da questo dispetto comminatogli dal fato, cinico e baro.

Quando il sole fu tramontato e le stelle si alzarono alte nel cielo, tutte le luci si spensero per via dell’oscuramento, e Acacio accese la lampada da tavolo che teneva sulla sua scrivania. Poi si alzò per chiudere le finestre.

Il gran buio fuori dalla casa pesava, copriva ogni cosa e lui cominciò ad avere brutti presentimenti.

Proprio in quel momento tre uomini vestiti di nero entrarono nel portone del suo palazzo e salirono svelti le scale. Alcuni secondi dopo, mentre Acacio Rovinati era ancora assorto nei suoi pensieri, un frastuono improvviso lo fece sobbalzare. Si alzò spaventato ed uscì dal soggiorno per dirigersi verso l’ingresso, da dove aveva sentito provenire il rumore. Giunto in anticamera notò che la porta dell’appartamento era socchiusa. Gli sembrò un indizio sinistro. Trattenne il respiro ma non successe nulla, intorno a lui ora c’era solo silenzio. La luce in anticamera si accese quando premette l’interruttore. Vide che la porta d’ingresso era stata forzata e un brivido gli attraversò la schiena. Ispezionò con cautela la cucina, ma non vi era nessuno. Senza sentirsi per questo sollevato si diresse nuovamente in soggiorno, guadagnò la scrivania per afferrare il tagliacarte, ma fu pietrificato da delle parole che lo fecero paralizzare.

“Buona sera Rovinati, fossi in voi lascerei stare quell’oggetto contundente, potreste anche farvi male” disse una voce calma e impostata.

Acacio si voltò e rimase sorpreso. Sprofondato nella poltrona collocata nell’angolo dello studio tra la libreria e la finestra, con le braccia mollemente adagiate sui braccioli, sedeva un ragazzo. Vestito sobriamente in nero indossava la divisa della milizia fascista, portava un paio di baffi tagliati corti per sembrare più vecchio, ma era sulla trentina, con due profondi occhi scuri e la carnagione bianca.

“Chi siete?” chiese il Rovinati confuso, mentre altri due tipacci con le facce orrende apparvero sulla porta, bloccando l’unica via di fuga.

“Sono il capitano Renzo Mattei dell’OVRA, la polizia segreta, e sono venuto a prendervi.”

Acacio si lasciò cadere incredulo e senza fiato sulla sedia della scrivania, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi terrorizzato, restando in silenzio per alcuni secondi. Mille pensieri si affollarono nella sua mente in quel momento terribile. Cosa poteva volere da lui la polizia politica del regime? Erano venuti ad arrestarlo? Cosa diavolo aveva combinato per finire in un simile guaio? Possibile che il generale a cui aveva sedotto la figlia fosse a tal punto incarognito da non accontentarsi di averlo fatto licenziare?

“Cosa volete?” fu l’unica cosa che riuscì a dire, con la voce tremante.

“Ve l’ho appena detto Rovinati, siamo venuti a prendervi” replicò il giovane senza scomporsi, con la bocca piegata in un ghigno crudele.

“Perché? Io non ho fatto niente” protestò timidamente Acacio.

“Questi sono gli ordini che ho ricevuto” disse il giovane con indifferenza.

“Ho il diritto di sapere per quale ragione volete arrestarmi. Non so nemmeno di cosa sono accusato.”

“Le questioni che ignorate sono infinite mio caro Rovinati, diciamo pure che non sapete proprio nulla. Ma non dovete agitarvi, non siamo qui per arrestarvi, altrimenti lo avremmo già fatto.”

Acacio era ora ancora più confuso, volevano portarlo via, ma senza arrestarlo, forse che quel giovane si stesse prendendo gioco di lui?

“Se mi rifiutassi di venire con Voi?” chiese allora, cercando di darsi coraggio.

“Non potete rifiutarvi” fu la laconica risposta.

“Dite che non mi state arrestando, ma non posso rifiutarmi di venire con Voi. Se non è un arresto dunque, Voi come lo chiamate?” obiettò Acacio.

“Lo chiamiamo accompagnamento coatto, mi stupisco che non lo sappiate” disse il capitano con tono sarcastico.

“E di grazia, potrei sapere dove volete portarmi e per quale ragione?”

“Siete stato scelto” iniziò a spiegare il capitano, “perché a Roma pensano di potervi utilizzare come informatore.”

“A Roma si stanno grossolanamente sbagliando, non sono per nulla portato alla delazione, trovo sia un’attività ignobile” si lamentò Acacio, offeso.

“Temo abbiate equivocato il significato di informatore. Sono richieste le Vostre competenze per contribuire allo nostro sforzo bellico” disse Mattei sorridendo in modo ironico.

Acacio si irrigidì, gli veniva prospettato qualcosa di assolutamente inaspettato.

“Ma io sono solo un vecchio, come posso essere utile allo sforzo bellico?” domandò dopo l’iniziale esitazione.

“Sappiamo tutto Rovinati. La nostra organizzazione tutto deve sapere e conoscere, così vanno le cose di questi tempi e non esiste modo per sfuggire questo destino. Voi non siete un semplice vecchio. C’è anche dell’altro… ”

Acacio non sapeva cosa dire, si sentiva intimidito, vulnerabile, non capiva a cosa Mattei si stesse riferendo e rimase in silenzio.

“Si tratta delle Vostre competenze nel campo della filosofia e della storia di quella dottrina nota con il nome di alchimia. Secondo le nostre informazioni siete tra i massimi esperti del Regno in questa materia” concluse il giovane ufficiale dell’OVRA.

Rovinati sorrise, era onorato da tanta considerazione, ma allo stesso tempo si preoccupò anche più di prima. Come era possibile che la polizia segreta si interessasse all’alchimia? Per quale ragione erano a conoscenza dei suoi studi su questa antica disciplina? E soprattutto come intendevano servirsene?  Tutte queste domande si affastellarono nella sua mente sconvolta come sacchi di sabbia lungo l’argine di un fiume in piena. Cercò di guadagnare tempo, per riflettere.

“Io non so nulla di utile in merito all’arte alchemica, ho solo letto qualche vecchio libro e nulla di più” cercò di sminuirsi. In realtà aveva dedicato alla materia gran parte della propria vita. Aveva anche pubblicato, usando uno pseudonimo, molti articoli su riviste come Atanor o Ignis prima che venissero soppresse[1], e che evidentemente non erano sfuggiti all’attenzione dei pignoli funzionari dell’OVRA.

“La vostra falsa modestia è in questo caso fuori luogo Rovinati, nell’ambiente sanno tutti della Vostra passione per questioni esoteriche, occultismo, alchimia e altro ciarpame annesso e connesso. Personalmente non nutro alcuna fiducia in questo genere di ricerche, retaggio di superstizioni medioevali o prodotto di ridicole congetture oscurantiste, ma io ho dei superiori e devo eseguire degli ordini. Diciamo che qualcuno ai piani alti ritiene che questo tipo di immondizia possa avere una qualche utilità.”

Acacio non disse nulla, osservò Mattei senza commentare, scrutando a lungo quel volto dai lineamenti fanciulleschi, così almeno gli sembravano nella penombra dello studio, scarsamente illuminato dalla lampada collocata sulla sua scrivania. Fece un profondo sospiro poi disse ispirato: “Secondo l’insegnamento dei loro predecessori, gli alchimisti di oggi devono ricordare che solo uomini dal cuore puro e dalle intenzioni elevate possono dedicarsi a questa antichissima disciplina. Continuo a dubitare che le informazioni di cui dispongo possano servirvi.”

“Concordo intimamente con quanto mi dite Rovinati, ma a Roma hanno una opinione differente e la mia missione è solo quella di portarvi sino alla capitale.”

Acacio scosse il capo con disappunto sfidando il suo giovane interlocutore: “Se mi rifiutassi di collaborare potreste fallire la Vostra missione dunque. Una prospettiva che forse non avete adeguatamente considerato.”

“Se credete che il marito tradito possa evirandosi dare la giusta punizione alla moglie infedele, allora potete anche immaginare di non assecondare la mia volontà. Ma diciamo che non credo siate così stupido. In fondo non avete scelta. Con le buone o con le cattive, Voi verrete via con me.”

“Parliamo della mia ricompensa allora, voglio sperare non Vi aspettiate che io accetti senza un’adeguata remunerazione.”

“Posso garantirvi la massima soddisfazione sotto questo profilo” annui Mattei allungandogli una busta.

“E’ solo un anticipo una tantum, in contanti ed esentasse. Servire la Patria può essere un affare assai soddisfacente” disse il fascista, con fare compiaciuto.

Acacio impiegò diversi secondi per contare il denaro contenuto nella busta, corrispondeva ad almeno tre mensilità del suo vecchio lavoro. Con quei denari avrebbe tenuto tranquilla la Birondisi. Forse poteva anche cavarsela a buon mercato, imbrogliando qualche alto gerarca con storie misteriose su antiche civiltà e oscuri presagi. Forse tutta quella storia non sarebbe stata poi tanto pericolosa, pensò prendendo coraggio.

“E quando dovremmo partire?” domandò ingenuamente.

“Prepari le valige Rovinati, una macchina è già qui sotto che ci sta aspettando” rispose il capitano Mattei con un ghigno soddisfatto che gli illuminò il volto.

Acacio si recò meccanicamente nelle propria camera da letto e rassegnato raccolse i pochi effetti personali che gli permisero di portar via. Scrisse sotto dettatura due lettere per spiegare le ragioni della sua improvvisa partenza: una per la governante e una per la signora Birondisi. Fu costretto a lasciare quasi tutti i soldi che poco prima gli erano stati consegnati, in quel modo avrebbe pagato gli arretrati e anticipato i prossimi mesi dell’affitto. Gli fu fatto scrivere che si stava trasferendo a Roma per svolgere una consulenza presso il Ministero della Cultura Popolare. Così avrebbe iniziato la sua nuova attività sotto copertura. Con qualche telefonata e cartolina, avrebbe in seguito avvisato i pochi amici.

Era buio da parecchio tempo, quando il capitano Mattei, gli sgherri ai suoi ordini e Rovinati uscirono silenziosamente dal palazzo. Una volta in strada montarono a bordo di una Fiat Balilla nera dell’OVRA, parcheggiata davanti al portone d’ingresso. Il tipaccio più alto sedette al posto di guida. Mattei senza manifestare alcuna emozione sedette davanti, cinicamente distaccato. Acacio e l’altro agente salirono dietro. Nessuno parlò. La macchina  partì e si diresse lentamente verso la stazione di Piacenza. I fari erano coperti con le mascherine per via dell’oscuramento e il viaggio richiese più tempo di quanto il lui si aspettasse.

Durante tutto il tragitto non fece altro che pensare a questa nuova e inaspettata svolta nella sua vita. In fin dei conti poteva anche essere considerato un colpo di fortuna, un modo come un altro per mettere insieme i denari di cui aveva bisogno per pagare i suoi debiti. La città eterna inoltre era bellissima, nel tempo libero non avrebbe certo corso il rischio di annoiarsi.

Quando finalmente arrivarono a destinazione, giusto in tempo per prendere l’ultimo treno notturno per Roma, Acacio cercò di raccogliere qualche nuova informazione.

“Chi dovrò incontrare di tanto importante da dover fare tutto così di corsa e all’improvviso?”

Mattei si fece scuro in volto. Sembrava disturbato dalla domanda.

“Lo scoprirete domani, che fretta avete?” disse con voce contrita.

Acacio percepì nell’atteggiamento di Mattei qualcosa di strano, per un attimo pensò che potesse addirittura essere invidia. Ma sapeva che non poteva avere senso. Tuttavia era curioso e provò ancora a stuzzicare il giovane ufficiale.

“Cosa succede? Avete paura che io possa cambiare idea e cercare di scappare durante la notte?”

“No” rispose il capitano con freddezza, “non avete scelta. Dovete venire a Roma, perché il Duce vuole vedervi.”

L’alchimista della Val Tidone Acacio Rovinati rimase di sasso. La guerra era iniziata da tre giorni, la polizia segreta lo aveva preso in custodia per condurlo a Roma con accompagnamento coatto, e Mussolini in persona voleva incontrarlo. In quel momento gli tornarono alla mente le parole di Papa Pio XII: “Nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra.” E la guerra di Acacio con la vita e con i suoi guai era appena cominciata.


[1] Atanor è una storica casa editrice italiana specializzata in esoterismo. Nella prima meta del Novecento, la casa editrice diede alle stampe le riviste Atanòr e Ignis, considerate le più note rassegne del secolo passato dedicate agli studi tradizionali e iniziatici.

Chiusa nel 1926 a seguito delle leggi contro la Massoneria, le edizioni Atanòr riaprirono dopo il 1945.

 

 

I fatti narrati sono di pura fantasia, ogni riferimento a persone  o fatti reali o realmente accaduti è del tutto casuale

Scritto da Anonimo Piacentino

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